«Può far cessare una minaccia, difendere la libertà, ma non dare la felicità»
di Claudio Magris
"Corriere della Sera", 4 luglio 2013
Si racconta che Wellington, percorrendo la sera a cavallo il campo di
Waterloo cosparso di cadaveri, dicesse che «dopo una battaglia perduta,
la cosa più orribile è una battaglia vinta». Questa frase del vincitore
di Napoleone ci fa sentire con forza come, in tanti o forse nella
maggior parte dei casi, la vittoria può e deve essere sperata,
perseguita e ove possibile ottenuta, ma non può essere mai amata. La
vittoria, più che un bene, appare come un male necessario, come un male
minore rispetto a mali più grandi che deriverebbero dalla sconfitta.
Una vittoria, in certi casi, può far cessare una minaccia di
distruzione, porre fine a una barbarie, difendere la libertà, ma non può
mai dare la felicità. Quando la Seconda guerra mondiale si conclude,
grazie a Dio, con la disfatta del Terzo Reich, è ovvio il senso di
liberazione, di festa che prova l'umanità. Ma, proprio in quel momento,
Elias Canetti — che non solo in quanto ebreo ma in quanto uomo
appassionato difensore di ogni palpito di vita umana ha tutte le ragioni
per salutare con la più grande partecipazione quella liberazione —
sottolinea l'esigenza di «entwerten den Sieg», di svalutare la vittoria;
di non farne un idolo, di non inebriarsene, perché nell'ebbrezza di
vittoria, non a caso così coltivata e messa in scena da tutti i regimi
totalitari, egli vede la seduzione e la tentazione di ciò che per lui è
il Male per eccellenza, il Potere, l'istinto di dominare gli altri,
piegarli, umiliarli e distruggerli; la perversa strategia di
sopravvivere agli altri.
La Vittoria sembra spesso accompagnata da un'aura di malinconia; nel
carro di trionfo che porta il vincitore tra le ali festanti del popolo
c'è sempre un presagio di caducità, di gloria mista al dolore e non solo
per la vista dei prigionieri vinti in catene che, come nei trionfi
celebrati nell'antichità, seguono il carro vittorioso. Naturalmente non
soltanto le pacchiane dittature e le società totalitarie e belliciste
hanno celebrato con enfasi la vittoria, spesso promettendola vanamente
come una preda a portata di mano e conducendo in tal modo i loro popoli
alla sconfitta, come quando Mussolini esaltava gli otto milioni di
baionette. Anche grandi civiltà hanno celebrato la vittoria: le odi di
Pindaro per i vincitori dei giochi olimpici dell'antica Grecia creano,
con la loro potenza poetica, un'aura autenticamente divina intorno agli
atleti che conseguono l'alloro. Ma la civiltà greca non è solo Pindaro; è
anche Aristofane, che su quei celesti allori olimpici getta l'ombra —
più che l'ombra, una feroce dissacrazione, uno smascheramento — di
imbrogli e pastette, di giochi truccati, non troppo dissimili dalla
corruzione odierna trionfante nello sport e non solo nello sport. Il dio
che guida come auriga il cocchio dell'eroe può essere spesso il dio
danaro.
Del resto, per quel che riguarda il rapporto tra la vittoria e la
guerra, il più grande libro che sia mai stato scritto — e che
probabilmente continuerà a esserlo sempre — sulla guerra, l'Iliade,
racconta una guerra vittoriosa per i greci, popolo cui appartiene
l'autore (o l'autrice, o gli autori) di quel capolavoro. Nell'Iliade
la guerra e la vittoria stessa sono certo una celebrazione del valore,
ma sono pure un grande lutto, una manifestazione di morte più che di
vita e questo vale per tutti, per i vincitori come per i vinti. Non solo
chi racconta la guerra e la vittoria, ma spesso anche chi la fa e la
produce rivela questa simbiosi di valore, necessità e volontà di vincere
e malinconia di vincere. Non a caso tanta letteratura vicina alla vita
militare rivela questo senso di profonda malinconia che nasce proprio
dalla vita militare — ossia dalla preparazione alla guerra e alla
vittoria, almeno perseguita. Guerra e vittoria si accompagnano a un
sentimento malinconico della vita. Pochi hanno fatto sentire la dignità,
la grandezza e l'oscurità della vita militare come Alfred de Vigny, che
non vuole certo demistificare l'esercito, ma che — proprio vivendo a
fondo la triste necessità della sua disciplina, del suo sacrificio, del
destino egualmente terribile di uccidere e morire — è uno dei più forti
scrittori che evochino la guerra e anche la vittoria con un alone di
grande tristezza. (...)
Forse l'unico modo di essere vincitori è saper accettare la propria
sconfitta, le proprie sconfitte, pur continuando a combatterle senza
compiacersi di esse. Non c'è nulla di più pericoloso che ritenersi
vincitori. Manes Sperber, uno scrittore austriaco che proveniva
dall'ebraismo galiziano, che fu da giovane rivoluzionario comunista e
poi uno dei primi implacabili accusatori degli orrori staliniani, diceva
che chi si ritiene vincitore, chi ritiene di essere in una stabile e
sicura relazione con la vittoria, diviene facilmente un «cocu de la
victoire», un cornuto della vittoria stessa.
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