Anche la scienza ha le sue regole.
Ecco quali sono (e perché dobbiamo tenerle ben presenti).
Spazzole antitutto e intrugli miracolosi, campi magnetici del pomodoro e ghiandole inventate per adepti di un corso di ginnastica: la non-scienza della fantasia la trovi in versione buona, ciancicata con parole rubate da fisica e biologia, e a volte impastata insieme a termini come indipendente od orientale (come se in Cina non si usasse l’aspirina). Oppure la trovi in versione cattiva, tipicamente preceduta dalla parola ufficiale, in uno scontro inventato contro cose che con la scienza non hanno niente a che fare, come le cure a base di acqua diluita in acqua e le sedicenti terapie al limone.
Eppure la scienza segue regole niente affatto misteriose, esposte nei sussidiari come su Wikipedia.
Tipo. Si dice che il padre della scienza sia Galileo Galilei. Questo perché Galileiè stato il primo a usare l’esperimento per mettere alla prova un’ipotesi. E l’esperimento è, da allora (siamo tra Cinque e Seicento), la base di qualsiasi cosa voglia vantare l’etichetta di scientifica.
Non che Galilei sia arrivato dal niente, ma a lui dobbiamo dare il merito di avere, per primo, messo nero su bianco il procedimento dell’esperimento.
E il procedimento è più o meno questo: si osserva un fenomeno naturale (un oggetto cade verso il basso), lo si osserva di nuovo (oh, tutti gli oggetti cadono verso il basso: i grandi e i piccini!). Si formula un’ipotesi (tutti gli oggetti cadono verso il basso con la stessa accelerazione), si fanno misure e calcoli e si prova a vedere se l’ipotesi si convalida oppure no.
Era l’inizio di una rivoluzione, perché, oltre a capire come cascano le cose, stava nascendo un sistema di sapere fondato sul dubbio e sulla prova, invece che sulla fede nell’autorità. Prima, al contrario, valeva l’ipse dixit di Aristotele. Cioè: l’aveva detto Aristotele? Era giusto, e basta. E tutti ad annuire, come allievi prudenti di fronte a un professore rabbioso.
Purtroppo ai tempi di Galilei Aristotele era ancora l’ideologo di riferimento della Chiesa, e l’unico libro di testo permesso nel mondo cattolico era la Bibbia. Quindi l’alzata di ingegno di cominciare a mettere alla prova le osservazioni con gli esperimenti aprì un certo conflitto tra lo scienziato pisano e le gerarchie ecclesiastiche: fu così che arrivarono il processo, l’abiura, e il mitologico eppur si muove.
Sull’esempio fatto sopra, quello della caduta dei gravi, va detto che poi sarà Newton (che nascerà undici mesi e diciassette giorni dopo la morte di Galileo) a spiegaredavvero bene come funziona la forza di gravità e soprattutto a osservare che la gravità che fa cadere il sasso dalla Torre di Pisa è la stessa forza che fa ruotare la Terra intorno al Sole.
Ma come si fa a dire che l’ipotesi è convalidata? Ci vogliono dati, tanti dati, sotto forma di numeri.
Poi, se l’ipotesi regge, mettendola insieme ad altre ipotesi congruenti (e validate) ci si può costruire una teoria. Da qui deriva che se la teoria è una buona teoria, i risultati di tutti gli esperimenti successivi alla sua formulazione possono essere predetti correttamente. Questa è la deduzione, che porta dalla teoria all’osservazione, mentre la prima fase, in cui l’osservazione porta all’ipotesi, è l’induzione.
Cioè: se la mia teoria prevede che gli oggetti cadano verso il basso con una certa accelerazione, e l’ho costruita su dati solidi ed esperimenti validi, posso prevedere che se faccio cadere un bicchiere dal tavolo questo andrà a frantumarsi sul pavimento, piuttosto che sul soffitto.
Finché il bicchiere è sul tavolo, questo suo destino è teorico: appena lo spingeremo oltre il bordo del tavolo, saremo felici di vederlo muoversi nella direzione indicata dalla teoria, e con l’accelerazione che avevamo supposto. Per questo abbiamo festeggiato tanto la scoperta del bosone di Higgs: fino a quel momento era un oggetto teorico, ma un esperimento lo ha rintracciato e ne ha confermato l’esistenza. Questo significa che, almeno in quelle condizioni, la teoria funziona.
Fermi tutti: le teorie funzionano se e finché le ipotesi sono validate. Ma il giorno che trovo un risultato diverso devo ricominciare da capo, e formulare una nuova teoria. Cioè: il giorno che il mio bicchiere si spatacca sul soffitto, bisogna ripartire dai gravi di Galilei. Chi me lo dice che non succederà domani? E chi avrebbe potuto giurare, fino a pochi anni fa, che il bosone di Higgs sarebbe stato trovato davvero? Le teorie scientifiche sono, per definizione, provvisorie: sono terreni di lavoro. Ed è il loro bello. La certezza al 100% non c’è mai. Mica come la non-scienza e le bufale che non devono chiedere mai.
Domanda: è mai capitato di abbandonare teorie nel corso della storia della scienza? Be’, sì, eccome. L’esempio più famoso è quello di cui è stato lo stesso Newton a fare le spese, quando nel Novecento sono arrivate la meccanica quantistica e soprattutto la relatività generale. La fisica che abbiamo studiato a scuola è ancora la fisica newtoniana, che per descrivere le avventure del nostro bicchiere tra pavimento e soffitto va ancora benissimo: ma per le cose molto più grandi (come le stelle) o molto più piccole (come le particelle subatomiche) la descrizione di Newton dopo due secoli e mezzo dovette cedere il passo. Cioè era arrivato Einstein, la cui teoria della relatività fu confermata nelle sue previsioni dall’osservazione di un’eclisse. Ma come scrisse un giorno Einstein di sé: “Nessun esperimento potrà dimostrare che ho ragione, mentre un solo esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”.
Bene: per fare scienza si cercano informazioni, si testano ipotesi, si disegnano teorie, si mettono alla prova. Non basta: lo si fa in tanti, perché alla base c’è l’idea che la verifica delle ipotesi debba essere ripetuta, e ripetuta da più teste, messa alla prova davvero, criticata e ripensata di continuo, da tutti gli scienziati del mondo (be’, quelli di quel settore). Tutti con gli stessi strumenti e gli stessi linguaggi. Lo ha spiegato in poche parole il fisico Richard Feynman: “Scienza è credere nell’ignoranza degli esperti”. Leggetela due volte, e vi troverete dentro il vecchio Galilei.
Il metodo scientifico qui descritto è un’estrema sintesi di quello su cui filosofi e scienziati lavorano da secoli e non tiene conto di mille sfumature esistenti nel dibattito epistemologico tuttora in corso. Per esempio, non tiene conto di differenze disciplinari che rendono il discorso molto più complesso quando si ragiona di questioni naturali impossibili da riprodurre in laboratorio, come un fenomeno meteorologico o l’evoluzione delle specie viventi. Così come non tiene conto del passaggio di filosofi come Immanuel Kant e Bertrand Russell (per dirne due che tutti abbiamo sentito nominare), Karl Popper e Thomas Kuhn: tutta gente che si è scornata assai sulla forza dell’induzione, sulla neutralità dell’osservazione e sull’idea di progresso scientifico.
Resta però inossidabile tutto il resto: per definirsi scienza, bisogna attenersi alle regole di cui sopra e permettere ai propri pari (ai colleghi della stessa disciplina, o di quella che si ritiene essere la propria disciplina, nel caso degli avventurieri) di replicare l’esperimento.
Quindi bisogna rendere pubblico, cioè pubblicare, quello che si fa e accettare (anzi: desiderare!) il confronto con gli altri (come nel caso della peer-review). Anche a costo di essere smentiti.
È banalmente per questo che tutto quello che non appare su una (vera) rivista scientifica, unica sede del confronto di cui sopra, non ha dignità di scienza. Ed è per questo che non esistono ipse dixit: l’autorità è scalzata dall’autorevolezza, e l’autorevolezza la si costruisce con il lavoro e l’umiltà. Trovateci una (vera) pubblicazione scientifica sulle spazzole antitutto, sui campi magnetici del pomodoro e sulle terapie al limone, e anche noi saremo disposti a cambiare idea.
Nessun commento:
Posta un commento
Salve, donatemi un pò dei Vostri Pensieri: