Parole: Rebecca Solnit @ CCA

Rebecca Solnit non ama particolarmente Larry Page e Sergey Brin. “Google è terrificante,” spiega a una quarantina di studenti del California College of the Arts riuniti nel Graduate Center il 22 marzo 2013 per un'appassionante lecture. Il pubblico ride, ma la scrittrice e attivista di San Francisco non scherza. “Google è un impero. E’ una forza transnazionale, dotata di risorse paragonabili a quelle delle super-potenze militari. La sua influenza geopolitica non ha eguali. Ma l’aspetto più preoccupante è che nessuno discute delle implicazioni sociali delle tecnologie che questa mega-corporation ci infligge a getto continuo. La 'discussione' si limita a una banale discussione sulle differenze tecniche dei suoi tablet e smartphone. Una situazione allarmante, che conferma la crisi del giornalismo.”
Lo scorso febbraio, il London Review of Books ha pubblicato uno splendido saggio di Solnit
 sulla proliferazione di mezzi di trasporto privati - le navette di 
Google, Apple, Facebook, Zynga etc. - per le strade di San Francisco, un
 fenomeno che Stamen Design aveva visualizato per mezzo di dettagliate mappe e infografiche nel settembre del 2012.
 “Si tratta di una vera e propria invasione. Ucn attacco frontale al 
trasporto pubblico, che viene (in)direttamente svalutato. L’ennesimo 
esempio del modus operandi della Silicon Valley che prevede la 
sistematica distruzione del concetto di 'bene pubblico'. I servizi e gli
 spazi pubblici vengono espropriati, privatizzati e resi inaccessibili 
alle masse. L’ideologia della Silicon Valley, non a caso, prevede la 
creazione di falsi spazi di socializzazione... Il vero obiettivo 
consiste nel creare enclavi tecnologiche per pochi privilegiati, 
mascherando il sopruso attraverso la retorica della 'democratizzazione' 
Una situazione vergognosa".
Solnit non è particolarmente ottimista sul futuro di San Francisco, una città “assediata da [sigh]
 orde di start-ups e da altri predatori”, sempre più gentrificata e 
inaccessibile: “Negli ultimi anni, la Silicon Valley ha inferto danni 
pesanti alle comunità locali. L’impatto di Apple e Google su San 
Francisco è stato particolarmente micidiale. Quando le logiche corporate
 si sostituiscono alla cosa pubblica, il declino urbano è inevitabile. 
Lal Silicon Valley, per sua natura, è tossica. Non dimentichiamo che 
questo non-luogo esteticamente orribile ha distrutto in poche decadi 
gran parte della California settentrionale, eliminando ettari di 
frutteti, campi e foreste. Mezzo secolo fa, la California era verde. 
Oggi è grigia, dominata da anonimi edifici pieni di server, computer e 
schiavi della tastiera.”
Non a caso, la scrittrice attribuisce ai microservi delle 
start-up e delle corporation la diretta responsabilità di un problema 
che presenta ramificazioni sociali e ambientali prima ancora che 
tecnologiche. “Il mio articolo ha mandato su tutte le furie i dipendenti
 di Apple, Google e affini che sono ‘troppo importanti’ per viaggiare 
sui mezzi pubblici e per tanto abbisognano di servizi dedicati. Le loro 
veementi reazioni in realtà mi rincuorano. Questi lavoratori 
post-moderni presentano aspetti preoccupanti. Sono mono-maniaci, 
egotisti, viziati... Si disinteressano completamente delle conseguenze 
delle loro innovazioni. Si limitano a eseguire gli ordini senza 
riflettere sui 'danni collaterali'. Mi fanno molta paura.”
L’autrice del capolavoro di cartografia sociale Infinite City (di cui avevo parlato qui, quattro anni fa) sta lavorando al seguito, incentrato su un’altra città “tormentata”, la bestiale
 New Orleans. “La retorica della Silicon Valley promuove l’illusione che
 le nuove tecnologie abbiano migliorato le nostre vite. Non è 
assolutamente vero. In ogni momento della nostra giornata, siamo 
bombardati da fiumi di informazioni ridondanti. Il rumore di fondo 
domina le nostre esistenze. Siamo terrorizzati dall’idea di restare da 
soli anche per pochi minuti. Vedo la gente per strada che cammina 
nervosamente, gli occhi incollati su pochi pollici di schermo: Tweet, 
instagram, sms... Mi fanno una profonda tristezza. C’è qualcosa di 
tragicamente patologico e paranoico nell’incapacità di apprezzare il qui
 e l’ora. Si credono liberi, autonomi, ma in realtà sono i nuovi 
schiavi. Condannati a ‘produrre’: commenti, foto, pensieri a getto 
continuo. Se non condividi, non esisti. In questo senso, 
replicano la logica intrinseca del sistema capitalistico anche nel loro 
‘tempo libero’. E’ l’imperativo della produttività, introiettata a 
livello psicologico.”
Solnit non risparmia critiche a Facebook. “I servizi di ‘social network’ - che espressione ridicola, “social network’
 - come Facebook sono molto peggio dell’email. Una continua 
interferenza, che assorbe le nostre risorse cognitive e temporali. Ci 
lamentavamo della pubblicità televisiva e sui muri delle nostre città - a ragione - ma con Facebook  come dire, l’intrusione è neurale.
 Facebook è paragonabile a un quotidiano che offre nove pagine di 
fumetti e parole crociate e pochi paragrafi di notizie 'sostanziali'. 
Nessuno mette in discussione le conseguenze delle nuove tecnologie sulla
 qualità delle nostre vite. Tutti danno per scontato che oggi la 
situazione è migliorata rispetto a dieci anni fa. La favola della 
Silicon Valley ha ingannato tutti. Siamo così storditi che non ce ne 
rendiamo nemmeno conto. Le nuove tecnologie hanno avvantaggiato solo 
pochi CEO che oggi guadagnano milioni di dollari, mentre le masse 
faticano ad arrivare a fine mese”. In effetti, l’idea che le nuove 
tecnologie abbiano creato nuove occupazioni e ricchezza distribuita è un mito, un leggenda metropoliana, una menzogna demolita da due ricercatori del MIT. Inoltre, negli ultimi anni le diseguaglianze sociali ed economiche negli Stati Uniti hanno raggiunto livelli allarmanti.
Prosegue Solnit: “La logica 'amministrativa' e gestionale 
dei servizi di ‘social network’ riproduce pedissequamente le dinamiche 
lavorative. Facebook consuma il nostro tempo. Ci logora, senza 
restituire nulla. E’ un po’ come pagare le tasse: un’attività 
burocratica terribilmente noiosa che ci tocca una volta all’anno, con la
 differenza che Facebook paghiamo le tasse tutti i giorni, anzi a tutte 
le ore, senza ricevere alcun rimborso". Per contrastare la nefasta 
influenza dei social media, Solnit suggerisce momenti di ri-connessione 
con il territorio e, soprattutto, con se stessi. “Camminare per le 
strade della propria città rappresenta una pratica insieme sovversiva e 
rilassante. Il fatto che camminare, specie negli Stati Uniti, non sia 
considerata una attività utile, preziosa, conferma la sua importanza. 
Gli automobilisti odiano i pedoni... Che sorpresa! Credo sia 
fondamentale riacquistare contatto con spazi non mediati, zone libere da
 condizionamenti tecnologici... Un concetto che gli esseri delle bolle, 
quelli con i fili bianchi che escono dalle orecchie, che gesticolano e 
strillano nei loro microfoni, che twittano costantemente faticano a 
comprendere. Individui psicologamente labili... Le tecnologie non creano
 comunità. Le persone creano comunità. Essere ‘connessi’ alla rete significa essere ‘disconnessi’ dal proprio ambiente, dal qui e dall’ora. Significa essere sempre altrove, svalutare il presente, dimenticare il contingente. Le cuffie sono le strip-mall
 della coscienza. Gli sms sono il Walmart dell’anima. Le tecnologie ti 
illudono di essere al centro dell’universo, ma sono de facto un potente 
strumento di spersonalizzazione. Il fatto che non ce ne rendiamo nemmeno
 conto attesta l'efficacia del Silicon Valley-pensiero.”
Solnit giudica "assurda" la retorica di Biz Stone e Jack 
Dorsey in merito all’efficacia democratizzante di Twitter. “E’ un dato 
di fatto che la democrazia declina quando gli esseri umani non 
comunicano tra di loro. Quella che oggi chiamiamo comunicazione - micro-messaggi di centoquaranta caratteri, status update
 e amenità simili - rappresenta un fallimento sociale, prima ancora che 
linguistico e concettuale. Il nostro futuro assomiglia a Phoenix, 
Arizona, una città in cui nessuno cammina, tutti sono intrappolati nelle
 loro scatole a quattro ruote... Una prospettiva molto triste. Facebook 
sta trasformando il mondo in una gigantesca Phoenix". Solnit lamenta 
l'estinzione di quello che chiama Wilderness space, uno spazio 
selvaggio, un luogo mentale prima ancora che geografico. “Camminare 
rappresenta una pratica meditativa prima ancora che fisica. Non si 
tratta tanto di quantificare aspetti che, per loro natura sono 
immateriali. Gli ossesionati delle statistiche - un’altra tribù di 
alienati tipica della Silicon Valley - mi fanno proprio pena. Guardatemi! Guardatemi! Ho appena corso sei miglia. Guardatemi! Guardatemi! Ho bruciato mille calorie. Twitter
 normalizza una forma di comunicazione che, nella vita reale, 
consideremmo sintomatica di uno stato mentale squilibrato. Le nuove 
tecnologie hanno creato nuove forme di solitudine e legittimato i 
disordini psicologici”.
In merito all’imperativo della produttività coatta, Solnit 
aggiunge: "Un’ulteriore conferma che la nostra società è profondamente 
malata consiste nella nostra bizzarra gerarchia valoriale. Oggi, essere 
impegnati a tutte le ore è considerato un valore positivo. Qualcosa di 
cui vantarsi... Essere attivi, anzi, iper-attivi è un pre-requisito. II 
multitasking qualcosa da dichiarare sul curriculum sotto la voce 
"abilità". Chi non soffre di attention deficit disorder viene 
guardato con diffidenza. Siamo terrorizzati dall’idea di sviluppare 
relazioni umane autentiche e per tanto ci barrichiamo dietro a un muro 
di interazioni fasulle. Passiamo gran parte della nostra giornata a 
prenderci cura dei nostri gingilli tecnologici per evitare di 
confrontarci con esseri in carne e ossa”.
La conclusione di Solnit? “Credo che sia arrivato il 
momento di risvegliarci dal lungo torpore.” In un certo senso, siamo 
diventati zombie. Il che spiega il succeso popolare di serie come The Walking Dead. I morti che camminano, senza guardare mai in alto,
 siamo noi. Attraverso la metafora del mostro lobotomizzato, la 
televisione ci restituisce un'immagine al tempo stesso fedele e distorta
 della nostra vera natura.
Il nuovo libro di Rebecca Solnit, The Faraway Nearby, è previsto a giugno negli Stati Uniti.
Immagine: Rebecca Solnit di Shawn Calhoun via Flickr
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