"Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l'esprime.
Che cambi in esempio."
(Albert Camus)
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
giovedì 28 agosto 2014
La Soluzione
"Il modo migliore per venirne fuori è sempre buttarsi dentro."
(Robert Frost, da A Servant to Servants)
(Robert Frost, da A Servant to Servants)
La Filosofia è a doppia lama
La filosofia dovrebbe illuminare, per cui calmare il
tormento dell’anima.
Invece è come un oceano che più lo navighi e più ti sorprende all’improvviso credendo di conoscerlo.
LexMat
Invece è come un oceano che più lo navighi e più ti sorprende all’improvviso credendo di conoscerlo.
LexMat
Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro (Melville)
Da "http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/la-lotta-di-herman-melville" :
«Ciò che ho osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto, lo farò! Mi credono pazzo… Starbuck per esempio; ma io sono un ossesso, sono la pazzia impazzita!
Quella pazzia furiosa che è calma solo per comprendere se stessa!
La profezia diceva che sarei stato smembrato e io… sì! Io ho perduto questa gamba.
Faccio la profezia, ora, di smembrare chi mi ha smembrato.
Siamo, dunque, ora, profeta ed esecutore la stessa persona.
Questo vuol dire essere più di quanto voi, grandi dèi, siate stati mai.
Vi derido e vi urlo dietro. […] La strada del mio fermo proposito è percorsa da rotaie di ferro, per andar sulle quali è scanalata l’anima mia.
Su precipizi senza fondo, attraverso il cuore rigato delle montagne, sotto i letti dei torrenti io mi precipito infallibile!
Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro».
«Ciò che ho osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto, lo farò! Mi credono pazzo… Starbuck per esempio; ma io sono un ossesso, sono la pazzia impazzita!
Quella pazzia furiosa che è calma solo per comprendere se stessa!
La profezia diceva che sarei stato smembrato e io… sì! Io ho perduto questa gamba.
Faccio la profezia, ora, di smembrare chi mi ha smembrato.
Siamo, dunque, ora, profeta ed esecutore la stessa persona.
Questo vuol dire essere più di quanto voi, grandi dèi, siate stati mai.
Vi derido e vi urlo dietro. […] La strada del mio fermo proposito è percorsa da rotaie di ferro, per andar sulle quali è scanalata l’anima mia.
Su precipizi senza fondo, attraverso il cuore rigato delle montagne, sotto i letti dei torrenti io mi precipito infallibile!
Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro».
La rilevanza della Letteratura nella formazione dello Psicologo
Da "http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/la-rilevanza-della-letteratura-nella-formazione-dello-psicologo" :
di Andrea Galgano
di Andrea Galgano
7 Luglio 2014
Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale.
Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.
In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi, l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.
Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:
Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa.
Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio.
È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.
E ancora:
Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].
È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.
I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo.
Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, scrive:
«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = Inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].
Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].
La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].
Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.
La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».
Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.
Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]
Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.
Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam
Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]
Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:
A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]
L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.
Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:
È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]
La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]
Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.
Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]
L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.
L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]
L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica
Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]
Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.
Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.
A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot, notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.
Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]
L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.
Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché
«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie [...], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]
In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento, costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]
sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.
Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.
Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione di vita-arte-vita come un «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]
La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».
L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.
L’opera d’arte rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.
Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].
Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune, ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.
La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.
Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».
L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:
Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].
La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda
La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]
«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.
Jung parlava come se fosse in trance.
“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.
“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]
Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.
Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.
Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.
Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.
Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.
L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.
I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.
L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».
La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.
Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.
Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:
L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro [...]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]
perché
Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista. Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]
L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].
Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:
Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].
A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.
Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].
Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].
«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.
Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]
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* intervento alla Prima Conferenza Internazionale di Psicologia Dinamica, Cenacolo di Sant’Apollonia, Firenze, 27-28 ottobre 2012
Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale.
Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.
O.Lagercrantz, da L’arte di leggere e scrivere
In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi, l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.
Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:
Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa.
Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio.
È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.
E ancora:
Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].
È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.
I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo.
Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, scrive:
«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = Inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].
Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].
La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].
Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.
La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».
Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.
Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]
Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.
Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam
Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]
Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:
A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]
L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.
Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:
È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]
La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]
Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.
Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]
L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.
L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]
L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica
Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]
Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.
Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.
A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot, notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.
Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]
L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.
Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché
«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie [...], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]
In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento, costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]
sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.
Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.
Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione di vita-arte-vita come un «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]
La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».
L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.
L’opera d’arte rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.
Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].
Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune, ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.
La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.
Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».
L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:
Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].
La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda
La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]
«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.
Jung parlava come se fosse in trance.
“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.
“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]
Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.
Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.
Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.
Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.
Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.
L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.
I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.
L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».
La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.
Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.
Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:
L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro [...]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]
perché
Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista. Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]
L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].
Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:
Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].
A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.
Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].
Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].
«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.
Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]
Bibliografia:
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[1] Saba U., Poesia, filosofia, psicoanalisi, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Meridiani Mondadori, Milano 2001.
[2] Bromberg P.M., L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale., edizione italiana a cura di Vittorio Lingiardi e Francesco de Bei, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, pp. 5-6.
[3] Ezensberger H M., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004.
[4] Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp.551.
[5] Hillman J., Scritti sull’Umanesimo, a cura di Paola Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p.29.
[6] Antonelli G., Origini del fare analisi, Napoli, Liguori 2003.
[7] Mandel’ŝtam O., Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino e una nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano 2003, p.8.
[8] Massarenti A., Bonnefoy, «A Silvia» e le neuroscienze, “Il Sole24 ore”, 16 luglio 2011.
[9] schrott R.- jacobs a., Gehirn und Gedicht Wie wir unsere Wirklichkeit konstruieren (Cervello e poesia. Come costruiamo la nostra realtà), Hanser Verlag, Monaco di Baviera 2011.
[10] Strand M., Ritrovarsi sull’isola dei poeti, “Il Sole24 ore”, 3 luglio 2011.
[11] Kasatkina T., Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di Elena Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.
[12] Id., Dostoevskij. Il sacro nel profano, Bur Rizzoli, Milano 2012.
[13] Rondoni D., La parola accesa, una mappa di letture, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p.7.
[14] Leopardi G., Zibaldone, 12. VIII 1823
[15]Bruner J. S., La costruzione narrativa della “realtà”, in Ammaniti e Stern (1991), p.31.
[16]Cole M., Culture and cognitive development: From cross-cultural research to creating systems of cultural mediation, Culture & Psychology, 1, 1995, pp.25-54.
[17]Gibbs R.W., The poetics of mind: Figurative thought, language, and understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1994.
[18] Messina L., Psicologia della letteratura: alcuni aspetti educativi, Università virtuale – Spazio editoriale: i quaderni della SSIS – Università Ca’ Foscari di Venezia, pp.1-22.
[19] Montale E., Auto da fè, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 135.
[20] Sklovskij V., Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo, De Donato, Bari 1966.
[21] Jung C.G., Psicologia e poesia, in Opere vol. 10-I, Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre, Bollati e Boringhieri, Torino 1985.
[22] Id., cit., p.367.
[23] ivi, p.371.
[24] Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, Rizzoli, Milano 1978, pp. 90-91.
[25] Serrano M., Il cerchio ermetico. Carl Gustav Jung e Hermann Hesse, Astrolabio, Roma, 1976, p.60.
[26] Borgna E., Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.
[27] Binswanger L., Sogno ed esistenza in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1984, p.67.
[28] Tomassoni R., Psicologia e letteratura alle soglie del terzo millennio, Edizioni Franco Angeli, Roma 1998.
[29] Hoffmannsthal Von H, Andrea o i ricongiunti, a cura di Giovanna Bemporad, Adelphi, Milano1970.
[30] Rilke R.M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002.
[31] Id, Elegie duinesi, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006.
[32] Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.
[33]borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano 2007. id., La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011.
[34] Giussani L., L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp.206-207.
[35] Id., L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 117.
[36] Zambrano M., Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 2002.
[37] tolstoj L., Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2007.
[38] Bernabò G., La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, pp. 212-215.
[39] Morante E., La storia, Einaudi, Torino 2005, p. 291.
[40] Rondoni D., Non una vita soltanto Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti,Genova 2002, pp.19-20.
Il Paradiso e l'Inferno di Jon Kalman Stefansson
Da "http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/il-paradiso-e-linferno-di-stefansson" :
...
Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla.
Le Parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi per catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.
...
L’uomo è nato per amare, ecco quant’è semplice il fondamento dell’esistenza.
Per questo il cuore batte, questa strana bussola, grazie a lui ci orientiamo tra le nebbie più fitte, a causa sua ci smarriamo e moriamo in pieno sole.
...
"Hai deciso se vuoi vivere o morire? […] Non lo so, risponde, non sono sicuro di sapere la differenza, e non sono nemmeno sicuro che ci sia, una differenza".
...
A tal proposito, scrive, infatti, Luigi Giussani:
«Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto.
In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. [...]
A esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc…).
Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica.
Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali”».
...
In un articolo su “La Repubblica” del 4 maggio 2014, Andrea Bajani commenta:
«È in mezzo a questa solitudine — che in pochi oggi sanno raccontare con la stessa malinconica tensione di Stefánsson — che l’uomo non può fare altro che cercare delle parole.
Per questo il ragazzo aspetta le lettere, per questo ne scrive.
Sa che non contano niente, nel salvare la vita ad un uomo, ma sa anche che sono l’unica fune che un uomo può lanciare a un altro uomo nella tempesta.
Sa che le parole sono la sua condanna, perché sono proprio loro a fargli credere per un attimo che quel niente si possa domare: «Sono state le parole a recidere le radici tra l’uomo e la natura».
Ma sa anche che è tutto quello che può fare.
Le parole passano da un essere umano a un altro come un sollievo e un’intesa, due luci accese dentro una stessa notte infinita.
«Perché la sensibilità è il nocciolo dell’essere umano», e le parole sono le uniche corde su cui può tentare di cercare una qualche armonia: «Presto qualcuno verrà a girare il carillon e forse sentiremo le fievoli note dell’eternità».
...
Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla.
Le Parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi per catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.
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L’uomo è nato per amare, ecco quant’è semplice il fondamento dell’esistenza.
Per questo il cuore batte, questa strana bussola, grazie a lui ci orientiamo tra le nebbie più fitte, a causa sua ci smarriamo e moriamo in pieno sole.
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"Hai deciso se vuoi vivere o morire? […] Non lo so, risponde, non sono sicuro di sapere la differenza, e non sono nemmeno sicuro che ci sia, una differenza".
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A tal proposito, scrive, infatti, Luigi Giussani:
«Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto.
In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. [...]
A esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc…).
Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica.
Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali”».
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In un articolo su “La Repubblica” del 4 maggio 2014, Andrea Bajani commenta:
«È in mezzo a questa solitudine — che in pochi oggi sanno raccontare con la stessa malinconica tensione di Stefánsson — che l’uomo non può fare altro che cercare delle parole.
Per questo il ragazzo aspetta le lettere, per questo ne scrive.
Sa che non contano niente, nel salvare la vita ad un uomo, ma sa anche che sono l’unica fune che un uomo può lanciare a un altro uomo nella tempesta.
Sa che le parole sono la sua condanna, perché sono proprio loro a fargli credere per un attimo che quel niente si possa domare: «Sono state le parole a recidere le radici tra l’uomo e la natura».
Ma sa anche che è tutto quello che può fare.
Le parole passano da un essere umano a un altro come un sollievo e un’intesa, due luci accese dentro una stessa notte infinita.
«Perché la sensibilità è il nocciolo dell’essere umano», e le parole sono le uniche corde su cui può tentare di cercare una qualche armonia: «Presto qualcuno verrà a girare il carillon e forse sentiremo le fievoli note dell’eternità».
I Dolori dei Traduttori
Da "http://www.lafrusta.net/Riv_Kepes.html" :
Un saggio di Sophie Képès tradotto da Dori Agrosì e Alfio Squillaci
Per un traduttore non c'è miglior autore di quello morto
Il 16 novembre 1999, durante un dibattito, una signora del pubblico si presenta come traduttrice dal tedesco e dichiara: "Preferisco tradurre dei testi brevi, poiché alla 250ª pagina di un romanzo ho voglia di strangolare l'autore. Se poi è vivo e crede di conoscere la lingua francese e s'impiccia di mettere mano nel mio lavoro, ho ancora più voglia di ucciderlo!". Questa donna si chiama Jeanne Etoré. Riconoscente, mi sono detta che avevo fatto bene, alcuni mesi fa, a proporre come tema di riflessione "Non c'è miglior autore di quello morto". Mi sentivo, infatti, autorizzata a parlare a nome di tutti i miei colleghi, e visto che ero in buona compagnia mi sentivo già meno colpevole per le mie pulsioni omicide.
Si dà il caso che, dieci anni fa, abbia trascorso due anni della mia vita al servizio di un autore ungherese contemporaneo, Peter Esterházy. Tutto quel che esiste di questo autore era allora molto distante da me, per quanto riguarda lo stile e gli argomenti, ma ciò non gli ha impedito di insediarsi in me in maniera fortemente inopportuna. Per questo motivo, dopo aver chiuso con quell'autore, ho sempre fatto attenzione a tradurre autori già morti o testi brevi. Sto molto meglio, grazie!
Si trattava di tradurre Trois anges me surveillent, les aveux d'un roman (Gallimard, 1989), che diventò poi un manoscritto di ottocento pagine. All'inizio pensavo che l'ermetismo dell'opera fosse dovuto alla mia scarsa padronanza della lingua ungherese, fino a che un letterato ungherese mi confessa non solo di aver rinunciato a leggere l'originale appena alla trentesima pagina, ma che il libro presentava tante difficoltà quante l'Ulysses di James Joyce. Troppo tardi. Il contratto, ahimé, era stato firmato ed avevo già incassato la cospicua somma dell'equivalente di 10 franchi all'ora circa (cosa che ho poi potuto calcolare solo a lavoro terminato).
Il testo era d'un incredibile ermetismo, frutto della censura ideologica e all'autocensura che all'epoca affliggevano i paesi satelliti dell'Unione Sovietica. Allusioni, citazioni senza rinvii né virgolette per le opere proibite (gli universitari la chiamano intertestualità o postmodernismo, affari loro); un romanzo dalla forma pop art di cui l'apparato delle note costituiva i due terzi, un gioco di maschere con lo zdanovismo degli anni cinquanta per il quale il traduttore si supponeva conoscesse sia le regole della caccia ad inseguimento sia il gergo del calcio come anche le Conversazioni di Goethe con Eckermann e i dibattiti parlamentari del XIX secolo (dopo il compromesso del 1867 da cui nacque l'Austria-Ungheria), i trattati sia di colombofilia sia di cinematica, per non tacere della vita privata dell'autore. Tutto questo nei minimi dettagli, ovviamente. Già la scelta del titolo francese fu un'acrobazia; avevo proposto all'autore "romanzo-kit", "romanzo-kyste", "romanzo-sic", gli piacque l'ultimo, e, ovviamente, l'editore lo ribattezzò in maniera del tutto arbitraria.
Ho davvero sofferto molto. Jacques Thériot, traduttore dal portoghese evoca "quei momenti d'esasperazione e di forte scoramento, spesso insostenibili, che vengono dalla lotta col testo". Ricordo, un pomeriggio, di essermi staccata con forza dal computer e dai dizionari e d'aver disceso di corsa i sei piani di scale della mia mansarda, per evitare di passare all'azione, cioè distruggere il lavoro accanito di diciotto mesi
Dovevo costantemente chiedere spiegazioni a Péter Esterházy riguardo alle sue intenzioni e le liste di domande erano diventate delle colonne degne di una cattedrale. Lui non parlava una parola di francese e io - come spiegherò più avanti - non parlavo ungherese, c'era bisogno di un intermediario che aggiungesse domande di suo, nel crescente dubbio di perfezione. (L'isterismo ossessivo è molto frequente tra i traduttori coscienziosi; può portare all'impotenza totale a causa del perfezionismo paralizzante). Bisognava cercare degli equivalenti nel contesto francese e interpolare altrove, ove fosse possibile, per compensare i tagli. È una costante in tutte le traduzioni, ma qui dovevo riscontrarla in maniera sistematica, ad ogni passo e dappertutto. Credo che ciò che mi ha salvata dall'odio puro e semplice per quel testo e per quell'autore, sia stata l'ironia e la tenerezza che emanava, malgrado tutto, la famosa autoderisione dell'Europa centrale.
È senz'altro utile e confortante talora poter fare delle domande a uno scrittore molto autoreferenziale, quando non bizantino (esiste una corrente letteraria di questo genere nell'Ungheria postcomunista). Per questo mi compiaccio degli scambi con Péter Lengyel nel tradurne i testi; è lui stesso traduttore di lingue romanze ed è quindi tutto a suo vantaggio se gli chiedo pareri e delucidazioni su termini rari e oscurità volute, di cui i suoi scritti sono pieni. Sono ancora più convinta, però, che si possa tradurre solo appropriandosi del testo straniero ricreandolo nella propria lingua. È per questo che troppi interventi da parte dell'autore vivo possono talvolta essere sentiti come una violenza. Peggio ancora se l'editore impone un co-traduttore: l'omicidio è assicurato! Non sto esagerando. Rivalità, odii feroci per una virgola, lettere raccomandate con ricevuta di ritorno... non potete immaginare. "Io!", "No, io!" - urlano i due galeotti inchiodati allo stesso banco, loro malgrado. Un inferno, vi assicuro.
René de Ceccaty, scrittore e traduttore dall'italiano, spiega la sua sofferenza dicendo che "il traduttore arriva al punto di non vedere altro che i difetti del testo sul quale sta lavorando": poiché per tradurre bisogna analizzare a fondo e si rischia di diventare severamente critici fino ad assumere involontariamente un atteggiamento usurpatore, convinti che noi, noi l'avremmo scritto meglio, no? Dimentichiamo che il traduttore parte da un lavoro già terminato e che le eventuali revisioni risultano facili a chi deve appena iniziare, arrivando a stupide recriminazioni del tipo: "Autore, mon semblable, mon frère ! E' forse per malanimo che tu non scrivi esattamente come me? Mi sarei comportato così al posto tuo?".
Obbligato a piegarsi al dominio del testo di partenza, il traduttore si ritrova a sentirsi minacciato dall'intimità stilistico-intelletual-morale e quant'altro. Ritiene intollerabile la colonizzazione violenta dei propri pensieri e anche della propria condotta e volontà creatrice per mano dell'universo mentale dell'Autore-Altro, invasore e parassita...Così quando Jean-Pierre Carasso (traduttore dall'inglese), afferma di "vedersi come un cuculo che depone le uova nel nido altrui" io invece penso esattamente il contrario: "E' l'Altro che cova da noi senza essere stato invitato!". Ma, vediamole quanto divergono le opinioni dei traduttori nei confronti del loro stesso e ingrato mestiere.
Non si tratta per intanto di occultare l'opera tradotta e l'autore, ponendosi avanti e facendo la ruota come un pavone (gli ungheresi si divertono nel pretendere che Shakespeare tradotto è ancora più geniale che in inglese!). George-Arthur Goldsmith, "gallinaceo di lusso della traduzione", come lui stesso si definisce nel suo recente libro La Traversée des fleuves (Seuil), sostiene che il traduttore è colui che si annulla, diventa autore molto raramente, cioè quando si manifesta una perfetta coincidenza tra lui e l'autore. Annie Saumont, novellista e traduttrice dall'inglese, gli fa eco: "Se un autore scrive in maniera molto simile alla mia, ho la tendenza inconscia a tirare il suo testo in direzione del mio modo di scrivere".
In fondo si tratta di un continuo va e vieni, una dialettica chiaramente descritta da Jean-Pierre Carasso: "Tradurre significa riuscire a pensare due cose contemporaneamente, ma spesso il traduttore è paralizzato dalla lingua originale. Non che sia incapace di scostarsene, ma di farne riferimento dopo essere passato alla sua". Questo va e vieni incontra molte sconfitte e poche vittorie, poiché come sostiene Cécile Wajsbrot, traduttrice di Virginia Woolf: "Qualsiasi scelta è criticabile e ogni soluzione adottata risulta in certo qual modo artificiale. Sacrificare è obbligatorio". Lo sconforto è la norma. A questo proposito, una delle più belle massime di scrittore che io conosca riguardanti l'atto di devozione che consiste nel trasferire una grande opera da una lingua ad un'altra, appartiene al mio autore ungherese preferito, Dezsö Kosztolányi, di cui riparlerò: " Il traduttore crea un falso dal vero; tradurre significa eseguire una danza mani e piedi legati".
Ma allora, perché tanto masochismo, mi direte voi? Semplicemente perché traducendo si ha la migliore occasione per effettuare esercizi di scioltezza e far crollare i legamenti della lingua materna; contrastati dal doverla mettere al servizio dello strano straniero, ne apprendiamo sul suo conto più di quanto avremmo fatto in dieci anni di scrittura. René Ceccaty sottolinea che "per uno scrittore, entrare nell'universo di un altro scrittore, usare un vocabolario inconsueto, scoprire un altro sistema, è straordinario". Insisto: traducendo impariamo più la nostra lingua, nostro prezioso strumento di lavoro, che quella straniera. Allora, al diavolo i sentimenti ambivalenti, al diavolo se l'ammirazione si confonde con il rifiuto e l'amore con l'odio. Ludi cartacei! Ricordo che ho scelto un aspetto particolare e passionale della traduzione, trascurando volutamente gli altri aspetti più gratificanti. È evidente che accettare la sfida di penetrare nei meandri di una lingua rara o entrare nel ruolo di ambasciatore di una cultura, dà delle soddisfazioni enormi.
Ecco appunto alcune considerazioni sulla lingua ungherese o magiara. Faccio innanzitutto notare che alla Bibliothèque Publique d'Information del Centre Georges Pompidou, il settore ungherese è incastrato tra quello turco e quello cinese, accanto al fantastico e alla fantascienza. Un motivo, forse, per conferire al magiaro un qualcosa d'irreale, di straordinario? Effettivamente ha una struttura del tutto diversa dalle altre lingue indoeuropee, appartiene al gruppo ugro-finnico, originario - per semplificare - della Cina attuale insieme al finnico, l'estone e altre lingue arcaiche parlate in Russia (le cito a memoria per il gusto di farlo: il mari, il mansi, il ciuvascio, il ceremisso, il vogulo). Ecco alcune particolarità sconcertanti del magiaro: la regola dell'armonia vocalica (nessuna mescolanza di vocali scure nella stessa parola - a, o, u e chiare e, è, i -), l'accento tonico sulla prima sillaba della parola e della frase (al contrario della prosodia francese), nessuna preposizione ma posposizione o suffisso, nessun genere ma nientemeno che nove casi, un solo tempo del passato e una coniugazione detta oggettiva (la forma verbale integra il complemento oggetto della terza persona) e un'altra soggettiva senza verbo essere al presente, alla terza persona singolare, ecc. Una grande facilità nel creare neologismi poiché il magiaro è una lingua evolutiva e plastica.
Patrice Leigh Fermor, nel Le Temps des offrandes (Payot, Voyageurs), evoca: "All'improvvisa e sbalorditiva irruzione del magiaro, il panorama si trasformò - trotto dattilico (= una sillaba lunga, due brevi) dove l'accento di ogni prima sillaba faceva filare una truppa di vocali identiche i cui accenti s'inclinavano tutti nella stessa direzione come spighe di grano al vento." Bel complimento, vero? Fa pensare ad un paesaggio della puszta, la pianura dell'est dell'Ungheria.
Lo confesso, non parlo ungherese. Mio padre vi è nato. Dal 1968 sono stata diverse volte in Ungheria ma troppo poco per praticarne la lingua. Ho forse bisogno di restare lontana da questa lingua "paterna" e che ho iniziato a studiare da quando avevo 24 anni? Mi ricordo che nel corso di Lingue Orientali gli studenti che avevano entrambe i genitori ungheresi, parlavano bene l'ungherese, quelli che avevano solo la madre ungherese lo parlavano abbastanza bene, quelli come me che avevano solo il padre ungherese, non lo parlavano quasi per niente. Ho potuto notare un altro tipo di stratificazione: nella seconda generazione il primogenito parlava meglio dei più giovani, descrivendo concretamente la curva dei progressi dell'assimilazione, dell'acculturazione dell'immigrato.
Entrambi i meccanismi leggere e parlare non agiscono nella stessa sfera cerebrale, dicono i neurologi; questo stupisce molto gli ungheresi per il fatto che si possa capire, tradurre ma parlare malissimo. Eppure gli stessi grandi scrittori ungheresi, che per tradizione sono spesso anche traduttori - la sorte delle "lingue minori" non è poi tanto ingrata quanto può sembrare poiché obbliga ad aprirsi al mondo -, spesso non parlano la lingua che traducono. Non è necessario. Ivan Nabokov, editore per Plon, ricorda che "uno dei suoi migliori traduttori dall'inglese parla l'inglese molto male e non è mai stato negli Stati Uniti". E Jean-Paul Carasso: "Si può tradurre una lingua che non si conosce ma bisogna documentarsi."
Evocherò a questo punto Armand Robin (1912-1961), per cui provo profonda ammirazione, poeta e traduttore di diverse lingue rare tra cui l'ungherese, ma anche l'arabo yemenita, il cinese antico, il russo, il bretone arcaico, il gallese, il fiammingo, lo sloveno, il macedone D'altronde la sua prima lingua fu il bretone, prima del francese, la cui scoperta lo affascinò. Non faceva sfoggio delle sue competenze ogni volta che esplorava un campo del sapere, ma consultava specialisti di vaglia ad aiutarlo in caso di bisogno. Il germanista Jacques Martin gli rende questo invidiabile omaggio (in Armand Robin di Alain Bourbon, Seghers, Poètes d'aujourd'hui): "Conosceva il tedesco quanto un alunno di seconda ma con un'esperienza da adulto, di poliglotta saputo, Hölderlin era un suo collega, un fratello, secondo lui. Traduttore eccellente, aveva tendenza a restituire ad ogni termine tutto il succo etimologico anche se nel frattempo era cambiato. La frase, canovaccio logico, non lo preoccupava più di tanto. Saltava da una parola stramba all'altra come si passa un torrente da pietra a pietra, declamando sottovoce alla ricerca del ritmo. Giustapposte, sonorizzate, le parole stesse rendevano il quadro. Bisognava quindi ricondurlo al testo, distruggere combinazioni azzardate e mostrargli il filo conduttore. Alla fine aveva ragione lui: se imbroccava una direzione sbagliata, ritrovava subito la strada, ne avvertiva il ripiego. Nessuna sterpaglia o sentiero gli facevano perdere la traccia, aveva un fiuto da stregone." Questo fiuto da stregone in cosa consiste? Grazie a quale opera dello Spirito Santo si traduce? Hubert Nyssen, che dirige le edizioni "Actes Sud", sottolinea che "i migliori traduttori sono quelli con la facoltà medianica, o quasi, di empatia con l'originale". Per questo Ivan Nabokov sostiene che "i cattivi scrittori fanno cattivi traduttori". Quando si scopre un testo straniero e si hanno delle capacità narrative o si è accaniti lettori, si è in terre note. Fiutiamo il testo prima di capirlo, indoviniamo la coerenza interna, ne "intuiamo" il tono. Empatia e osmosi diventano parole imperanti. Questo succede in entrambe i casi: se ad un autore vivo, che ignora totalmente la nostra lingua, chiediamo di chiarire il senso di quello o quell'altro termine raro, tra tutte le voci del dizionario può essere capace di trovare quella che più corrisponde alla sua intenzione (caso redatto da Alain Lance, poeta e traduttore del poeta tedesco Volker Braun). Insomma, scrittura e traduzione, appartengono allo stesso spazio senza frontiere: la letteratura. Armand Robin spiega questo fenomeno dicendo che: "Ogni bel poema è per natura un controsenso orientato dall'armonia. Niente deve o può esonerare il poeta traduttore dall'imperioso dovere di creare un controsenso equivalente in un'altra lingua; non si ha a che fare soltanto con parole, bensì con il miracolo che le ha rese poesia; per raggiungere la perfezione bisogna lasciarsi sedurre da un rigore terribile di cui le noncuranze dell'esattezza non rendono l'idea." Nella prefazione della raccolta intitolata paradossalmente Poésie non traduite (vol.1, Gallimard, 1953) descrive l'osmosi tra poeti che non traduce, e sé stesso: "Essi-io siamo UNO. Non sono di fronte a me, non sono di fronte a loro. Parlano prima di me nella mia gola, assedio le loro gole con le mie future parole. Ci reggiamo suono con suono, sillaba con sillaba, ritmo con ritmo, senso con senso, e soprattutto destino con destino, uniti e separati da sangue e lacrime., ontologicamente senza fellonia Essi-io intatto UNO." Identificazione estrema del traduttore con l'oggetto. Robin sceglieva i poeti "maledetti" come l'ungherese Endre Ády, quelli che sentiva più vicini per destino personale.
Nella poesia di Robin ritrovo alcuni elementi tipici della prosodia del magiaro: il modo di fondere gli antonimi in una sola unità grazie al trattino "Essi-io"- viene chiaramente dall'ungherese. Anch'io prima, ad esempio, avrei potuto presentare la lingua ungherese come "meravigliosa-infernale", in una parola. Salvo che in magiaro una simile costruzione sarebbe sembrata troppo marcata.
Per terminare torno su Dezsö Kosztolányi (1885-1936), uomo di lettere completo di volta in volta poeta, giornalista, traduttore, linguista, novellista e romanziere -, influenzato dalle teorie freudiane, al di fuori di qualsiasi schieramento politico. La sua opera si situa prima, durante e dopo il crollo dell'Impero degli Asburgo. Ho tradotto il grande ciclo di novelle Kornél Esti (in cui compare la celebre storia del "Traduttore cleptomane", Ibolya Virag), e questa volta l'empatia era tale che avevo l'impressione di tradurre me stessa, ma in meglio, se mi permetto I temi, lo stile, l'umorismo mi corrispondevano perfettamente. Attraverso minime avventure in cui il reale viene appena sviato, afferra la condizione umana nella sua assurdità e il lettore non può che riconoscere le sue stesse emozioni: ansietà, inquietante stranezza, compassione, derisione, rassegnazione.
André Karatson lo compara ad un "amico intimo che nel raccontare le sue esperienze riesce a intrattenervi con facilità sulle vostre". Non è invecchiato poiché pone interrogativi fondamentali all' l'individuo: "a che punto sei della vita mentre leggi i miei scritti?" Secondo Jean-Luc Moreau, traduttore di lingue ugro-finniche , "per lui l'infanzia è fonte di ispirazioni, la morte ne è il perno" Kosztolányi lo conferma nel suo Diario 1933-34: "L'unica cosa che ho da dire a prescindere dall'argomento che mi sforzo di circoscrivere è che un giorno morirò". Ma ha anche una passione per il gioco, delle maschere, ad esempio la novella intitolata "Undici minuti" deve essere letta in undici minuti e racconta gli ultimi undici minuti della vita di un giovane che si suiciderà
Vicino allo spirito della lingua francese, cosa molto rara se non addirittura unica per un autore ungherese, sprona i suoi colleghi all'economia di mezzi e parole (per illustrare l'ideale stilistico di D.K., cf. "Deux ou trois choses à propos de l'écriture", pp. 70-72 della raccolta Cinéma muet avec battements de coeur, tradotto da Maurice Regnaut e Péter Adám, Souffles). Etica ed estetica sono una cosa sola e secondo D.K. è il francese che ha il privilegio d'incarnare questo principio al grado più alto: "Dominare la grammatica francese significa arricchirsi intellettualmente ed elevarsi moralmente. Refrattaria alla menzogna, purifica lo spirito e nobilita l'anima. Impossibile tradurre pedanterie, imposture o affermazioni perentorie ma prive di senso: le idiozie si evidenziano subito e la materia nobile del francese le respinge immediatamente e definitivamente. Tutte le barbarie, le piattezze, il non-sense, non è francese dicono i francesi. Da loro, grammatica, stilistica ed etica si confondono" (in Notre Forteresse, la langue, 1930, raccolta postuma).
Ho quasi scrupolo a testimoniare di un simile amore per la mia lingua materna, che è poi effettivamente davvero mal pagata. Kosztolányi ha dovuto indirizzare una lettera aperta, La Place du hongrois dans le monde, al francese Antoine Meillet, professore di linguistica comparata di lingue indoeuropee al "Collège de France", che scriveva in Les Langues dans l'Europe nouvelle (1928): "Un europeo, anche se buon poliglotta, che attraversa l'Ungheria è imbarazzato perché vi si parla soltanto il magiaro". Questa'asinata degna di La Palice fa cadere le braccia, come anche altri altri rimproveri quali: la letteratura ungherese non ha prestigio, la lingua ungherese è stata mantenuta artificialmente dall'oligarchia, essa non dovrebbe più esistere - e qui si fa allusione alla riforma della lingua (nyelvújitás) e alla sua difesa e illustrazione (nyelvmüvelés), dettagli storici del magiaro -, cose dette e che hanno ferito in Kosztolányi l'ammirazione per l'intelligenza francese. La sua protesta contro un'ingiustizia così assurda è un capolavoro di sottile ironia: "Si direbbe che a volte odiate quest'orfano meraviglioso della lingua ugro-finnica, i cui genitori sono morti abbastanza presto, i cui cugini si sono dispersi nei tormenti della storia, e seppur senza genitori, senza fratelli né sorelle è pur sopravvissuto, sfidando le intemperie". Effettivamente, il magiaro è rimasto quasi intatto nel corso dei secoli, malgrado le successive influenze delle culture vicine dominanti, sia germaniche sia slave. Ma riprendiamo: "Un professore di zoologia comparata che adorasse i mammiferi, ma che odiasse gli uccelli ed esercitasse un'ironia mordente sui pesci poiché respirano con le branchie, mi sembrerebbe meno strano di un simile atteggiamento. Nel suo libro, il linguista non classifica come fanno spesso i dotti, ma attribuisce decorazioni a certe lingue e le toglie ad altre" (in L'Etranger et la mort, tradotto da Georges Kassai e Gilles Bellamy, In Fine).
Sì, tradurre Kosztolányi è sempre un piacere, ma ora che la mia traduzione è conclusa, eccomi di nuovo in veste di scrittrice, unica padrona a bordo della mia stessa nave, libera dall'Altro. Almeno spero. Poiché in realtà le influenze sotterranee sono attive e quando prendo la penna (o batto la tastiera), non sono più sicura di essere da sola o...in due. Secondo voi, chi mi influenza di più: Dezsö Kosztolányi, il mio doppio, o Péter Esterházy, il mio boia? Sorpresa! Se l'autore feticcio non riesce a destabilizzarmi visto che mi identifico in lui; d'altro canto l'autore che rigetto, il caro parassita sopracitato, si siede al mio desco e si serve nei piatti, mio malgrado. Ma perché continua ad aggrapparsi ai miei piedi, pur essendomene liberata? Perché ne sono contaminata a tal punto? Forse perché il cammino che ho dovuto percorrere per raggiungerlo è stato lunghissimo ed ho ora bisogno di tempo per tornare verso me stessa? Quasi mi fossi plasmata alla sua forma, torno a scrivere "alla maniera di" Esterházy. Formule, giochi di parole e altri costrutti si scrivono sul foglio difendendosi dal mio corpo. Ne segue un periodo d'impotenza: non potrò più scrivere fino a che non avrò eliminato del tutto, estirpato dal subconscio il corpo estraneo, recuperato la mia personalità. Passeranno diversi mesi...
Io stessa non ho un mio libro integralmente tradotto in un'altra lingua, salvo alcuni articoli o brevi saggi; ma vi prego di credermi che se ciò dovesse capitare, gliene farei vedere di tutti i colori al mio traduttore. A ognuno il suo turno, dopotutto!
N.B.: Le citazioni non referenziate provengono sia dal bollettino dell' l'Association des Traducteurs Littéraires de France Translittérature, sia da articoli di giornali, sia da conversazioni private.
Un saggio di Sophie Képès tradotto da Dori Agrosì e Alfio Squillaci
Per un traduttore non c'è miglior autore di quello morto
Il 16 novembre 1999, durante un dibattito, una signora del pubblico si presenta come traduttrice dal tedesco e dichiara: "Preferisco tradurre dei testi brevi, poiché alla 250ª pagina di un romanzo ho voglia di strangolare l'autore. Se poi è vivo e crede di conoscere la lingua francese e s'impiccia di mettere mano nel mio lavoro, ho ancora più voglia di ucciderlo!". Questa donna si chiama Jeanne Etoré. Riconoscente, mi sono detta che avevo fatto bene, alcuni mesi fa, a proporre come tema di riflessione "Non c'è miglior autore di quello morto". Mi sentivo, infatti, autorizzata a parlare a nome di tutti i miei colleghi, e visto che ero in buona compagnia mi sentivo già meno colpevole per le mie pulsioni omicide.
Si dà il caso che, dieci anni fa, abbia trascorso due anni della mia vita al servizio di un autore ungherese contemporaneo, Peter Esterházy. Tutto quel che esiste di questo autore era allora molto distante da me, per quanto riguarda lo stile e gli argomenti, ma ciò non gli ha impedito di insediarsi in me in maniera fortemente inopportuna. Per questo motivo, dopo aver chiuso con quell'autore, ho sempre fatto attenzione a tradurre autori già morti o testi brevi. Sto molto meglio, grazie!
Si trattava di tradurre Trois anges me surveillent, les aveux d'un roman (Gallimard, 1989), che diventò poi un manoscritto di ottocento pagine. All'inizio pensavo che l'ermetismo dell'opera fosse dovuto alla mia scarsa padronanza della lingua ungherese, fino a che un letterato ungherese mi confessa non solo di aver rinunciato a leggere l'originale appena alla trentesima pagina, ma che il libro presentava tante difficoltà quante l'Ulysses di James Joyce. Troppo tardi. Il contratto, ahimé, era stato firmato ed avevo già incassato la cospicua somma dell'equivalente di 10 franchi all'ora circa (cosa che ho poi potuto calcolare solo a lavoro terminato).
Il testo era d'un incredibile ermetismo, frutto della censura ideologica e all'autocensura che all'epoca affliggevano i paesi satelliti dell'Unione Sovietica. Allusioni, citazioni senza rinvii né virgolette per le opere proibite (gli universitari la chiamano intertestualità o postmodernismo, affari loro); un romanzo dalla forma pop art di cui l'apparato delle note costituiva i due terzi, un gioco di maschere con lo zdanovismo degli anni cinquanta per il quale il traduttore si supponeva conoscesse sia le regole della caccia ad inseguimento sia il gergo del calcio come anche le Conversazioni di Goethe con Eckermann e i dibattiti parlamentari del XIX secolo (dopo il compromesso del 1867 da cui nacque l'Austria-Ungheria), i trattati sia di colombofilia sia di cinematica, per non tacere della vita privata dell'autore. Tutto questo nei minimi dettagli, ovviamente. Già la scelta del titolo francese fu un'acrobazia; avevo proposto all'autore "romanzo-kit", "romanzo-kyste", "romanzo-sic", gli piacque l'ultimo, e, ovviamente, l'editore lo ribattezzò in maniera del tutto arbitraria.
Ho davvero sofferto molto. Jacques Thériot, traduttore dal portoghese evoca "quei momenti d'esasperazione e di forte scoramento, spesso insostenibili, che vengono dalla lotta col testo". Ricordo, un pomeriggio, di essermi staccata con forza dal computer e dai dizionari e d'aver disceso di corsa i sei piani di scale della mia mansarda, per evitare di passare all'azione, cioè distruggere il lavoro accanito di diciotto mesi
Dovevo costantemente chiedere spiegazioni a Péter Esterházy riguardo alle sue intenzioni e le liste di domande erano diventate delle colonne degne di una cattedrale. Lui non parlava una parola di francese e io - come spiegherò più avanti - non parlavo ungherese, c'era bisogno di un intermediario che aggiungesse domande di suo, nel crescente dubbio di perfezione. (L'isterismo ossessivo è molto frequente tra i traduttori coscienziosi; può portare all'impotenza totale a causa del perfezionismo paralizzante). Bisognava cercare degli equivalenti nel contesto francese e interpolare altrove, ove fosse possibile, per compensare i tagli. È una costante in tutte le traduzioni, ma qui dovevo riscontrarla in maniera sistematica, ad ogni passo e dappertutto. Credo che ciò che mi ha salvata dall'odio puro e semplice per quel testo e per quell'autore, sia stata l'ironia e la tenerezza che emanava, malgrado tutto, la famosa autoderisione dell'Europa centrale.
È senz'altro utile e confortante talora poter fare delle domande a uno scrittore molto autoreferenziale, quando non bizantino (esiste una corrente letteraria di questo genere nell'Ungheria postcomunista). Per questo mi compiaccio degli scambi con Péter Lengyel nel tradurne i testi; è lui stesso traduttore di lingue romanze ed è quindi tutto a suo vantaggio se gli chiedo pareri e delucidazioni su termini rari e oscurità volute, di cui i suoi scritti sono pieni. Sono ancora più convinta, però, che si possa tradurre solo appropriandosi del testo straniero ricreandolo nella propria lingua. È per questo che troppi interventi da parte dell'autore vivo possono talvolta essere sentiti come una violenza. Peggio ancora se l'editore impone un co-traduttore: l'omicidio è assicurato! Non sto esagerando. Rivalità, odii feroci per una virgola, lettere raccomandate con ricevuta di ritorno... non potete immaginare. "Io!", "No, io!" - urlano i due galeotti inchiodati allo stesso banco, loro malgrado. Un inferno, vi assicuro.
René de Ceccaty, scrittore e traduttore dall'italiano, spiega la sua sofferenza dicendo che "il traduttore arriva al punto di non vedere altro che i difetti del testo sul quale sta lavorando": poiché per tradurre bisogna analizzare a fondo e si rischia di diventare severamente critici fino ad assumere involontariamente un atteggiamento usurpatore, convinti che noi, noi l'avremmo scritto meglio, no? Dimentichiamo che il traduttore parte da un lavoro già terminato e che le eventuali revisioni risultano facili a chi deve appena iniziare, arrivando a stupide recriminazioni del tipo: "Autore, mon semblable, mon frère ! E' forse per malanimo che tu non scrivi esattamente come me? Mi sarei comportato così al posto tuo?".
Obbligato a piegarsi al dominio del testo di partenza, il traduttore si ritrova a sentirsi minacciato dall'intimità stilistico-intelletual-morale e quant'altro. Ritiene intollerabile la colonizzazione violenta dei propri pensieri e anche della propria condotta e volontà creatrice per mano dell'universo mentale dell'Autore-Altro, invasore e parassita...Così quando Jean-Pierre Carasso (traduttore dall'inglese), afferma di "vedersi come un cuculo che depone le uova nel nido altrui" io invece penso esattamente il contrario: "E' l'Altro che cova da noi senza essere stato invitato!". Ma, vediamole quanto divergono le opinioni dei traduttori nei confronti del loro stesso e ingrato mestiere.
Non si tratta per intanto di occultare l'opera tradotta e l'autore, ponendosi avanti e facendo la ruota come un pavone (gli ungheresi si divertono nel pretendere che Shakespeare tradotto è ancora più geniale che in inglese!). George-Arthur Goldsmith, "gallinaceo di lusso della traduzione", come lui stesso si definisce nel suo recente libro La Traversée des fleuves (Seuil), sostiene che il traduttore è colui che si annulla, diventa autore molto raramente, cioè quando si manifesta una perfetta coincidenza tra lui e l'autore. Annie Saumont, novellista e traduttrice dall'inglese, gli fa eco: "Se un autore scrive in maniera molto simile alla mia, ho la tendenza inconscia a tirare il suo testo in direzione del mio modo di scrivere".
In fondo si tratta di un continuo va e vieni, una dialettica chiaramente descritta da Jean-Pierre Carasso: "Tradurre significa riuscire a pensare due cose contemporaneamente, ma spesso il traduttore è paralizzato dalla lingua originale. Non che sia incapace di scostarsene, ma di farne riferimento dopo essere passato alla sua". Questo va e vieni incontra molte sconfitte e poche vittorie, poiché come sostiene Cécile Wajsbrot, traduttrice di Virginia Woolf: "Qualsiasi scelta è criticabile e ogni soluzione adottata risulta in certo qual modo artificiale. Sacrificare è obbligatorio". Lo sconforto è la norma. A questo proposito, una delle più belle massime di scrittore che io conosca riguardanti l'atto di devozione che consiste nel trasferire una grande opera da una lingua ad un'altra, appartiene al mio autore ungherese preferito, Dezsö Kosztolányi, di cui riparlerò: " Il traduttore crea un falso dal vero; tradurre significa eseguire una danza mani e piedi legati".
Ma allora, perché tanto masochismo, mi direte voi? Semplicemente perché traducendo si ha la migliore occasione per effettuare esercizi di scioltezza e far crollare i legamenti della lingua materna; contrastati dal doverla mettere al servizio dello strano straniero, ne apprendiamo sul suo conto più di quanto avremmo fatto in dieci anni di scrittura. René Ceccaty sottolinea che "per uno scrittore, entrare nell'universo di un altro scrittore, usare un vocabolario inconsueto, scoprire un altro sistema, è straordinario". Insisto: traducendo impariamo più la nostra lingua, nostro prezioso strumento di lavoro, che quella straniera. Allora, al diavolo i sentimenti ambivalenti, al diavolo se l'ammirazione si confonde con il rifiuto e l'amore con l'odio. Ludi cartacei! Ricordo che ho scelto un aspetto particolare e passionale della traduzione, trascurando volutamente gli altri aspetti più gratificanti. È evidente che accettare la sfida di penetrare nei meandri di una lingua rara o entrare nel ruolo di ambasciatore di una cultura, dà delle soddisfazioni enormi.
Ecco appunto alcune considerazioni sulla lingua ungherese o magiara. Faccio innanzitutto notare che alla Bibliothèque Publique d'Information del Centre Georges Pompidou, il settore ungherese è incastrato tra quello turco e quello cinese, accanto al fantastico e alla fantascienza. Un motivo, forse, per conferire al magiaro un qualcosa d'irreale, di straordinario? Effettivamente ha una struttura del tutto diversa dalle altre lingue indoeuropee, appartiene al gruppo ugro-finnico, originario - per semplificare - della Cina attuale insieme al finnico, l'estone e altre lingue arcaiche parlate in Russia (le cito a memoria per il gusto di farlo: il mari, il mansi, il ciuvascio, il ceremisso, il vogulo). Ecco alcune particolarità sconcertanti del magiaro: la regola dell'armonia vocalica (nessuna mescolanza di vocali scure nella stessa parola - a, o, u e chiare e, è, i -), l'accento tonico sulla prima sillaba della parola e della frase (al contrario della prosodia francese), nessuna preposizione ma posposizione o suffisso, nessun genere ma nientemeno che nove casi, un solo tempo del passato e una coniugazione detta oggettiva (la forma verbale integra il complemento oggetto della terza persona) e un'altra soggettiva senza verbo essere al presente, alla terza persona singolare, ecc. Una grande facilità nel creare neologismi poiché il magiaro è una lingua evolutiva e plastica.
Patrice Leigh Fermor, nel Le Temps des offrandes (Payot, Voyageurs), evoca: "All'improvvisa e sbalorditiva irruzione del magiaro, il panorama si trasformò - trotto dattilico (= una sillaba lunga, due brevi) dove l'accento di ogni prima sillaba faceva filare una truppa di vocali identiche i cui accenti s'inclinavano tutti nella stessa direzione come spighe di grano al vento." Bel complimento, vero? Fa pensare ad un paesaggio della puszta, la pianura dell'est dell'Ungheria.
Lo confesso, non parlo ungherese. Mio padre vi è nato. Dal 1968 sono stata diverse volte in Ungheria ma troppo poco per praticarne la lingua. Ho forse bisogno di restare lontana da questa lingua "paterna" e che ho iniziato a studiare da quando avevo 24 anni? Mi ricordo che nel corso di Lingue Orientali gli studenti che avevano entrambe i genitori ungheresi, parlavano bene l'ungherese, quelli che avevano solo la madre ungherese lo parlavano abbastanza bene, quelli come me che avevano solo il padre ungherese, non lo parlavano quasi per niente. Ho potuto notare un altro tipo di stratificazione: nella seconda generazione il primogenito parlava meglio dei più giovani, descrivendo concretamente la curva dei progressi dell'assimilazione, dell'acculturazione dell'immigrato.
Entrambi i meccanismi leggere e parlare non agiscono nella stessa sfera cerebrale, dicono i neurologi; questo stupisce molto gli ungheresi per il fatto che si possa capire, tradurre ma parlare malissimo. Eppure gli stessi grandi scrittori ungheresi, che per tradizione sono spesso anche traduttori - la sorte delle "lingue minori" non è poi tanto ingrata quanto può sembrare poiché obbliga ad aprirsi al mondo -, spesso non parlano la lingua che traducono. Non è necessario. Ivan Nabokov, editore per Plon, ricorda che "uno dei suoi migliori traduttori dall'inglese parla l'inglese molto male e non è mai stato negli Stati Uniti". E Jean-Paul Carasso: "Si può tradurre una lingua che non si conosce ma bisogna documentarsi."
Evocherò a questo punto Armand Robin (1912-1961), per cui provo profonda ammirazione, poeta e traduttore di diverse lingue rare tra cui l'ungherese, ma anche l'arabo yemenita, il cinese antico, il russo, il bretone arcaico, il gallese, il fiammingo, lo sloveno, il macedone D'altronde la sua prima lingua fu il bretone, prima del francese, la cui scoperta lo affascinò. Non faceva sfoggio delle sue competenze ogni volta che esplorava un campo del sapere, ma consultava specialisti di vaglia ad aiutarlo in caso di bisogno. Il germanista Jacques Martin gli rende questo invidiabile omaggio (in Armand Robin di Alain Bourbon, Seghers, Poètes d'aujourd'hui): "Conosceva il tedesco quanto un alunno di seconda ma con un'esperienza da adulto, di poliglotta saputo, Hölderlin era un suo collega, un fratello, secondo lui. Traduttore eccellente, aveva tendenza a restituire ad ogni termine tutto il succo etimologico anche se nel frattempo era cambiato. La frase, canovaccio logico, non lo preoccupava più di tanto. Saltava da una parola stramba all'altra come si passa un torrente da pietra a pietra, declamando sottovoce alla ricerca del ritmo. Giustapposte, sonorizzate, le parole stesse rendevano il quadro. Bisognava quindi ricondurlo al testo, distruggere combinazioni azzardate e mostrargli il filo conduttore. Alla fine aveva ragione lui: se imbroccava una direzione sbagliata, ritrovava subito la strada, ne avvertiva il ripiego. Nessuna sterpaglia o sentiero gli facevano perdere la traccia, aveva un fiuto da stregone." Questo fiuto da stregone in cosa consiste? Grazie a quale opera dello Spirito Santo si traduce? Hubert Nyssen, che dirige le edizioni "Actes Sud", sottolinea che "i migliori traduttori sono quelli con la facoltà medianica, o quasi, di empatia con l'originale". Per questo Ivan Nabokov sostiene che "i cattivi scrittori fanno cattivi traduttori". Quando si scopre un testo straniero e si hanno delle capacità narrative o si è accaniti lettori, si è in terre note. Fiutiamo il testo prima di capirlo, indoviniamo la coerenza interna, ne "intuiamo" il tono. Empatia e osmosi diventano parole imperanti. Questo succede in entrambe i casi: se ad un autore vivo, che ignora totalmente la nostra lingua, chiediamo di chiarire il senso di quello o quell'altro termine raro, tra tutte le voci del dizionario può essere capace di trovare quella che più corrisponde alla sua intenzione (caso redatto da Alain Lance, poeta e traduttore del poeta tedesco Volker Braun). Insomma, scrittura e traduzione, appartengono allo stesso spazio senza frontiere: la letteratura. Armand Robin spiega questo fenomeno dicendo che: "Ogni bel poema è per natura un controsenso orientato dall'armonia. Niente deve o può esonerare il poeta traduttore dall'imperioso dovere di creare un controsenso equivalente in un'altra lingua; non si ha a che fare soltanto con parole, bensì con il miracolo che le ha rese poesia; per raggiungere la perfezione bisogna lasciarsi sedurre da un rigore terribile di cui le noncuranze dell'esattezza non rendono l'idea." Nella prefazione della raccolta intitolata paradossalmente Poésie non traduite (vol.1, Gallimard, 1953) descrive l'osmosi tra poeti che non traduce, e sé stesso: "Essi-io siamo UNO. Non sono di fronte a me, non sono di fronte a loro. Parlano prima di me nella mia gola, assedio le loro gole con le mie future parole. Ci reggiamo suono con suono, sillaba con sillaba, ritmo con ritmo, senso con senso, e soprattutto destino con destino, uniti e separati da sangue e lacrime., ontologicamente senza fellonia Essi-io intatto UNO." Identificazione estrema del traduttore con l'oggetto. Robin sceglieva i poeti "maledetti" come l'ungherese Endre Ády, quelli che sentiva più vicini per destino personale.
Nella poesia di Robin ritrovo alcuni elementi tipici della prosodia del magiaro: il modo di fondere gli antonimi in una sola unità grazie al trattino "Essi-io"- viene chiaramente dall'ungherese. Anch'io prima, ad esempio, avrei potuto presentare la lingua ungherese come "meravigliosa-infernale", in una parola. Salvo che in magiaro una simile costruzione sarebbe sembrata troppo marcata.
Per terminare torno su Dezsö Kosztolányi (1885-1936), uomo di lettere completo di volta in volta poeta, giornalista, traduttore, linguista, novellista e romanziere -, influenzato dalle teorie freudiane, al di fuori di qualsiasi schieramento politico. La sua opera si situa prima, durante e dopo il crollo dell'Impero degli Asburgo. Ho tradotto il grande ciclo di novelle Kornél Esti (in cui compare la celebre storia del "Traduttore cleptomane", Ibolya Virag), e questa volta l'empatia era tale che avevo l'impressione di tradurre me stessa, ma in meglio, se mi permetto I temi, lo stile, l'umorismo mi corrispondevano perfettamente. Attraverso minime avventure in cui il reale viene appena sviato, afferra la condizione umana nella sua assurdità e il lettore non può che riconoscere le sue stesse emozioni: ansietà, inquietante stranezza, compassione, derisione, rassegnazione.
André Karatson lo compara ad un "amico intimo che nel raccontare le sue esperienze riesce a intrattenervi con facilità sulle vostre". Non è invecchiato poiché pone interrogativi fondamentali all' l'individuo: "a che punto sei della vita mentre leggi i miei scritti?" Secondo Jean-Luc Moreau, traduttore di lingue ugro-finniche , "per lui l'infanzia è fonte di ispirazioni, la morte ne è il perno" Kosztolányi lo conferma nel suo Diario 1933-34: "L'unica cosa che ho da dire a prescindere dall'argomento che mi sforzo di circoscrivere è che un giorno morirò". Ma ha anche una passione per il gioco, delle maschere, ad esempio la novella intitolata "Undici minuti" deve essere letta in undici minuti e racconta gli ultimi undici minuti della vita di un giovane che si suiciderà
Vicino allo spirito della lingua francese, cosa molto rara se non addirittura unica per un autore ungherese, sprona i suoi colleghi all'economia di mezzi e parole (per illustrare l'ideale stilistico di D.K., cf. "Deux ou trois choses à propos de l'écriture", pp. 70-72 della raccolta Cinéma muet avec battements de coeur, tradotto da Maurice Regnaut e Péter Adám, Souffles). Etica ed estetica sono una cosa sola e secondo D.K. è il francese che ha il privilegio d'incarnare questo principio al grado più alto: "Dominare la grammatica francese significa arricchirsi intellettualmente ed elevarsi moralmente. Refrattaria alla menzogna, purifica lo spirito e nobilita l'anima. Impossibile tradurre pedanterie, imposture o affermazioni perentorie ma prive di senso: le idiozie si evidenziano subito e la materia nobile del francese le respinge immediatamente e definitivamente. Tutte le barbarie, le piattezze, il non-sense, non è francese dicono i francesi. Da loro, grammatica, stilistica ed etica si confondono" (in Notre Forteresse, la langue, 1930, raccolta postuma).
Ho quasi scrupolo a testimoniare di un simile amore per la mia lingua materna, che è poi effettivamente davvero mal pagata. Kosztolányi ha dovuto indirizzare una lettera aperta, La Place du hongrois dans le monde, al francese Antoine Meillet, professore di linguistica comparata di lingue indoeuropee al "Collège de France", che scriveva in Les Langues dans l'Europe nouvelle (1928): "Un europeo, anche se buon poliglotta, che attraversa l'Ungheria è imbarazzato perché vi si parla soltanto il magiaro". Questa'asinata degna di La Palice fa cadere le braccia, come anche altri altri rimproveri quali: la letteratura ungherese non ha prestigio, la lingua ungherese è stata mantenuta artificialmente dall'oligarchia, essa non dovrebbe più esistere - e qui si fa allusione alla riforma della lingua (nyelvújitás) e alla sua difesa e illustrazione (nyelvmüvelés), dettagli storici del magiaro -, cose dette e che hanno ferito in Kosztolányi l'ammirazione per l'intelligenza francese. La sua protesta contro un'ingiustizia così assurda è un capolavoro di sottile ironia: "Si direbbe che a volte odiate quest'orfano meraviglioso della lingua ugro-finnica, i cui genitori sono morti abbastanza presto, i cui cugini si sono dispersi nei tormenti della storia, e seppur senza genitori, senza fratelli né sorelle è pur sopravvissuto, sfidando le intemperie". Effettivamente, il magiaro è rimasto quasi intatto nel corso dei secoli, malgrado le successive influenze delle culture vicine dominanti, sia germaniche sia slave. Ma riprendiamo: "Un professore di zoologia comparata che adorasse i mammiferi, ma che odiasse gli uccelli ed esercitasse un'ironia mordente sui pesci poiché respirano con le branchie, mi sembrerebbe meno strano di un simile atteggiamento. Nel suo libro, il linguista non classifica come fanno spesso i dotti, ma attribuisce decorazioni a certe lingue e le toglie ad altre" (in L'Etranger et la mort, tradotto da Georges Kassai e Gilles Bellamy, In Fine).
Sì, tradurre Kosztolányi è sempre un piacere, ma ora che la mia traduzione è conclusa, eccomi di nuovo in veste di scrittrice, unica padrona a bordo della mia stessa nave, libera dall'Altro. Almeno spero. Poiché in realtà le influenze sotterranee sono attive e quando prendo la penna (o batto la tastiera), non sono più sicura di essere da sola o...in due. Secondo voi, chi mi influenza di più: Dezsö Kosztolányi, il mio doppio, o Péter Esterházy, il mio boia? Sorpresa! Se l'autore feticcio non riesce a destabilizzarmi visto che mi identifico in lui; d'altro canto l'autore che rigetto, il caro parassita sopracitato, si siede al mio desco e si serve nei piatti, mio malgrado. Ma perché continua ad aggrapparsi ai miei piedi, pur essendomene liberata? Perché ne sono contaminata a tal punto? Forse perché il cammino che ho dovuto percorrere per raggiungerlo è stato lunghissimo ed ho ora bisogno di tempo per tornare verso me stessa? Quasi mi fossi plasmata alla sua forma, torno a scrivere "alla maniera di" Esterházy. Formule, giochi di parole e altri costrutti si scrivono sul foglio difendendosi dal mio corpo. Ne segue un periodo d'impotenza: non potrò più scrivere fino a che non avrò eliminato del tutto, estirpato dal subconscio il corpo estraneo, recuperato la mia personalità. Passeranno diversi mesi...
Io stessa non ho un mio libro integralmente tradotto in un'altra lingua, salvo alcuni articoli o brevi saggi; ma vi prego di credermi che se ciò dovesse capitare, gliene farei vedere di tutti i colori al mio traduttore. A ognuno il suo turno, dopotutto!
N.B.: Le citazioni non referenziate provengono sia dal bollettino dell' l'Association des Traducteurs Littéraires de France Translittérature, sia da articoli di giornali, sia da conversazioni private.
Imparare a pensare. Lauree Umanistiche inutili?
Da "http://www.lolandesevolante.net/blog/2012/08/imparare-a-pensare-di-chris-hedges" :
Imparare a pensare
truthdig - Le
culture che durano dedicano un spazio riservato a coloro che mettono in
dubbio e sfidano i miti nazionali. Artisti, scrittori, poeti,
attivisti, giornalisti, filosofi, ballerini, musicisti, attori, registi e
ribelli devono essere tollerati se una cultura vuole evitare il
disastro. I membri di questa classe artistico-culturale, che solitamente
non sono benvenuti nelle stordenti aule accademiche dove trionfa la
mediocrità, fungono da profeti. Sono allontanati o etichettati come
sovversivi delle elite del potere, perché non condividono il narcisismo
collettivo dell’autoesaltazione. Essi ci obbligano ad affrontare tesi
mai prese in considerazione, quelle per cui andremmo verso la
distruzione se non le affrontassimo.Essi ci presentano le elite
governanti come false e corrotte. Essi manifestano l’insensatezza di un
sistema basato sull’ideologia della crescita senza fine, dello
sfruttamento continuo e della costante espansione. Ci ammoniscono del
veleno del carrierismo e della futilità di ricercare la felicità
accumulando benessere.Ci mettono faccia a faccia con noi stessi,
dall’amara realtà della schiavitù e delle leggi Jim Crow (*)
alla strage omicida dei nativi americani, alla repressione dei movimenti
operai, alle atrocità commesse dalle guerre dell’impero, all’assalto
all’ecosistema. Ci rendono insicuri dei nostri valori. Loro mettono in
discussione i cliché che utilizziamo per descrivere la nazione - il paese dei liberi, il miglior paese della Terra, il faro della libertà -
per mettere in luce i lati oscuri, i crimini e l’ignoranza. Essi ci
offrono la possibilità di una vita piena di significato e la capacità di
avviare un cambiamento.
Le società civili vedono quello che vogliono vedere. Da una miscela
di fatti storici e fantastici, creano miti di identità nazionale.
Ignorano i fatti spiacevoli che disturbano l’auto-esaltazione. Credono
ingenuamente nella nozione del progresso lineare e nella certezza del
potere nazionale. Ecco su cosa si basa il nazionalismo: sulle bugie. E
se una cultura perde la capacità di pensiero ed espressione, se
realmente mette a tacere le voci dissidenti, se si rinchiude in quello
che Sigmund Freud chiamava “ricordi di copertura”, un miscuglio
rassicurante di fatti e finzione, allora quella cultura muore. Si
arrende il suo meccanismo interno di blocco delle auto-illusioni.
Dichiara guerra alla bellezza e alla verità. Abolisce il sacro.
Trasforma l’educazione in un corso di formazione professionale. Ci rende
ciechi. E questo è ciò che è avvenuto. Ci siamo persi in alto mare
durante la tempesta. Non sappiamo dove ci troviamo. Non sappiamo dove
stiamo andando. E non sappiamo cosa ci capiterà.
Lo psicoanalista John Steiner chiama questo fenomeno “chiudere un
occhio”. Fa notare che spesso abbiamo la possibilità di avere conoscenze
adeguate, ma poiché è spiacevole e sconcertante decidiamo
inconsciamente, e spesso consciamente, di ignorarle. Usa la storia di
Edipo per sostenere la sua affermazione. Sostiene che Edipo, Giocasta,
Creonte e il “cieco” Tiresia si rendevano conto della verità del
parricidio di Edipo e del suo matrimonio con la madre, come era stato
profetizzato, ma lo avevano ignorato di comune accordo. Anche noi,
scrisse Steiner, chiudiamo un occhio sui pericoli che dobbiamo
affrontare, nonostante le numerose prove che, se non riconfigureremo
radicalmente il nostro rapporto con la Natura, la catastrofe sarà
assicurata. Steiner descrive una verità psicologica profondamente
sconcertante.
Io ho riscontrato questa stessa capacità collettiva di auto-illusione
tra le élite cittadine di Sarajevo e poi a Pristina, durante le guerre
in Bosnia e in Kosovo. Queste raffinate élite si rifiutavano
categoricamente di credere che la guerra fosse un’eventualità possibile,
sebbene gli atti di violenza fra bande armate avversarie avessero già
iniziato a lacerare il tessuto sociale. Durante la notte si potevano
sentire gli spari. Ma loro furono gli ultimi a “venirne a conoscenza”. E
anche noi siamo auto-illusi allo stesso modo. La prova tangibile della
decadenza nazionale – lo sgretolarsi delle infrastrutture, l’abbandono
delle aziende e di altri posti di lavoro, le file di negozi distrutti,
la chiusura di librerie, scuole, stazioni dei pompieri e uffici postali –
che vediamo accadere sotto i nostri occhi, passano in realtà
inosservati. Il rapido e terrificante deterioramento dell’ecosistema,
provato dall’aumento delle temperature, dalle siccità, dalle alluvioni,
dai raccolti distrutti, le perturbazioni anomale, lo scioglimento dei
poli e l’aumento dei livello dei mari, vanno perfettamente d’accordo con
il concetto di “chiudere un occhio” formulato da Steiner.
Edipo, alla fine dell’opera di Sofocle, si strappa gli occhi e con
sua figlia Antigone come guida viaggia nel paese. Una volta re, diventa
uno straniero in un paese sconosciuto. Muore, come dice Antigone, “in un
paese straniero, ma un paese che aveva desiderato ardentemente.”
William Shakespeare in “Re Lear” gioca sullo stesso tema della vista e
della cecità. Chi ha gli occhi, in “Re Lear”, non è capace di vedere.
Gloucester, cui sono stati cavati gli occhi, nella sua cecità si vede
svelata una verità. “Io non ho strada, e perciò non ho bisogno degli
occhi”, afferma Gloucester dopo essere stato accecato.
“Ho inciampato quando ho iniziato a vedere”. Quando Lear bandisce la sua
unica figlia legittima, Cordelia, che lui accusa di non amarlo
abbastanza, Lear urla: “Sparisci dalla mia vista!” A cui Kent replica:
Guarda meglio, Lear, e lascia che io rimanga ancora il vero punto di
mira dell’occhio tuo.
La storia di Lear, così come la storia di Edipo, riguarda
l’acquisizione della visione interiore. Riguarda l’etica e l’intelletto
accecati dell’empirismo e dalla vista. Riguarda la visione
dell’immaginazione umana, come diceva Blake, quale manifestazione
dell’Eternità. “L’Amore senza immaginazione è morte eterna.”
L’allievo Shakespeariano Harold Goddard scrisse: “L’immaginazione non
è la capacità di creare illusioni; è la facoltà grazie alla quale ogni
uomo apprende la realtà.” L’illusione si scopre essere realtà. “Fai che
la fede soppianti la realtà”, dice Starbuck in “Moby-Dick”.
“E’ solo il nostro assurdo pregiudizio ‘scientifico’ che la realtà
debba essere fisica e razionale che ci rende ciechi di fronte alla
realtà”, ammoniva Goddard. Come scrisse Shakespeare, ci sono “cose
invisibili alla vista dei mortali”. Ma queste cose non sono
professionali, fattive o empiriche. Non possono essere ritrovate nei
miti nazionali di gloria e potere. Non si possono ottenere con
l’imposizione. Non giungono per apprendimento o ragionamento logico.
Sono intangibili. Sono le realtà della bellezza, del dolore, dell’amore,
della ricerca del significato, della lotta per fronteggiare la
mortalità di noi stessi e l’abilità di affrontare la realtà. E le
culture che disprezzano queste forze immaginative commettono suicidio.
Non possono vedere.
“Come potrà a questa rabbia opporsi la bellezza,” Scrisse
Shakespeare, “che non è più forte di un fiore?” L’immaginazione umana,
la capacità di avere visioni, di costruire una vita di significato
piuttosto che di utilitarismi, è delicata come un fiore. E se viene
soffocata, se uno Shakespeare o un Sofocle non vengono più ritenuti
utili in un mondo empirico di affari, carrierismo e potere, se le
università ritengono che un Milton Friedman o un Friedrich Hayek siano
più importanti per i loro studenti, piuttosto che una Virginia Woolf o
un Anton Cechov, allora diventiamo barbari. E così ci assicuriamo
l’estinzione. Gli studenti cui viene negata la saggezza dei grandi
oracoli della civiltà umana – visionari che ci esortano a non adorare
noi stessi, a non inginocchiarci di fronte all’infima emozione della
cupidigia – non possono ritenersi istruiti. Non possono pensare.
Per pensare, come aveva già capito Epicuro, dobbiamo “vivere
appartati”. Dobbiamo costruire mura per tenere lontani le ipocrisie e il
chiasso della folla. Dobbiamo ritirarci in una cultura a base
letteraria, dove le idee non sono deformate dai rumori e dai cliché che
abbattono il pensiero. Il pensiero è, come scrisse Hannah Arendt, “un
dialogo silenzioso tra me e me stessa”. Ma il pensiero, scrisse,
presuppone sempre la condizione umana della pluralità. Non ha alcuna
funzione utilitaristica. Non ha un fine o uno scopo esterno a se stesso.
Differisce dal ragionamento logico, che è incentrato su un scopo
definito e identificabile. Il ragionamento logico, gli atti di
cognizione, promuovono l’efficienza di un sistema, incluso il potere
commerciale, che solitamente è moralmente neutro nel migliore dei casi,
se non malvagio, come spesso accade. L’incapacità di pensare, scrisse la
Arendt, “non è una debolezza di molti cui manca la capacità cerebrale
di farlo, bensì un possibilità eventuale per chiunque – scienziati,
studenti e non si escludono altri specialisti in attività intellettive.”
La nostra cultura commerciale ci ha effettivamente separato
dall’immaginazione umana. I nostri strumenti elettronici si insinuano
sempre più in profondità negli spazi che un tempo erano riservati alla
solitudine, alla riflessione e al privato. Le nostre radio sono piene di
baggianate e assurdità. L’istruzione e le comunicazioni disprezzano le
discipline che ci permettono di vedere. Celebriamo mediocri capacità
professionali e i ridicoli requisiti di test standardizzati. Abbiamo
condotto in disgrazia chi pensa, inclusi molti insegnanti di materie
umanistiche, cosicché non possano trovare occupazione, né sussistenza,
né visibilità. Seguiamo il cieco nel precipizio. Facciamo guerra a noi
stessi.
La vitale importanza del pensiero, scrisse la Arendt, appare solo “in tempi transitori, quando l’uomo non si affida alla stabilità
del mondo e al suo ruolo in esso, e quando le domande riguardanti le
condizioni generali della vita umana, che come tali ci seguono
dall’apparizione dell’uomo sulla terra, acquistano inconsueta intensità
emotiva.”. E’ proprio nei momenti di crisi che abbiamo bisogno dei
nostri pensatori e dei nostri artisti, ci ricorda la Arendt, perché ci
forniscono racconti sovversivi che ci permettono di tracciare un nuovo
corso, uno che ci possa assicurare la sopravvivenza.
“Quando erediterò la vita eterna?” Fyodor Pavlovich Karamazov,
citando la Bibbia, chiede a Padre Zossima ne “I fratelli Karamazov”. A
cui Zossima risponde: “Prima di tutto, non mentire a te stesso”.
Ed è qui il dilemma che dobbiamo affrontare come civiltà. Ci
dirigiamo collettivamente verso l’autodistruzione. Il capitalismo
commerciale, se lasciato a briglia sciolta, ci ucciderà. Ciò nonostante,
rifiutiamo di vedere cosa ci accadrà, perché non possiamo pensare né
ascoltare ancora quelli che pensano, per capire cosa ci aspetta. Abbiamo
creato meccanismi di intrattenimento che offuscano e mettono a tacere
la verità nuda e cruda, dal cambiamento climatico al collasso della
globalizzazione, alla schiavitù del potere commerciale, il che significa
per noi autodistruzione. Se non possiamo fare nient’altro dobbiamo,
come individui, alimentare il dialogo privato e la solitudine che
sviluppano il pensiero. Meglio essere un emarginato, uno straniero nel
proprio paese, piuttosto che emarginati da se stessi. Meglio vedere
quello che ci accadrà e resistere, piuttosto che ritirarci nelle
fantasie condivise da una nazione di ciechi.
Chris Hedges
Fonte: www.truthdig.com/
09.07.2012
Traduzione a cura di GIADA GHIRINGHELLI per www.comedonchisciotte.org
Breve guida al Metodo Scientifico
Anche la scienza ha le sue regole.
Ecco quali sono (e perché dobbiamo tenerle ben presenti).
Spazzole antitutto e intrugli miracolosi, campi magnetici del pomodoro e ghiandole inventate per adepti di un corso di ginnastica: la non-scienza della fantasia la trovi in versione buona, ciancicata con parole rubate da fisica e biologia, e a volte impastata insieme a termini come indipendente od orientale (come se in Cina non si usasse l’aspirina). Oppure la trovi in versione cattiva, tipicamente preceduta dalla parola ufficiale, in uno scontro inventato contro cose che con la scienza non hanno niente a che fare, come le cure a base di acqua diluita in acqua e le sedicenti terapie al limone.
Eppure la scienza segue regole niente affatto misteriose, esposte nei sussidiari come su Wikipedia.
Tipo. Si dice che il padre della scienza sia Galileo Galilei. Questo perché Galileiè stato il primo a usare l’esperimento per mettere alla prova un’ipotesi. E l’esperimento è, da allora (siamo tra Cinque e Seicento), la base di qualsiasi cosa voglia vantare l’etichetta di scientifica.
Non che Galilei sia arrivato dal niente, ma a lui dobbiamo dare il merito di avere, per primo, messo nero su bianco il procedimento dell’esperimento.
E il procedimento è più o meno questo: si osserva un fenomeno naturale (un oggetto cade verso il basso), lo si osserva di nuovo (oh, tutti gli oggetti cadono verso il basso: i grandi e i piccini!). Si formula un’ipotesi (tutti gli oggetti cadono verso il basso con la stessa accelerazione), si fanno misure e calcoli e si prova a vedere se l’ipotesi si convalida oppure no.
Era l’inizio di una rivoluzione, perché, oltre a capire come cascano le cose, stava nascendo un sistema di sapere fondato sul dubbio e sulla prova, invece che sulla fede nell’autorità. Prima, al contrario, valeva l’ipse dixit di Aristotele. Cioè: l’aveva detto Aristotele? Era giusto, e basta. E tutti ad annuire, come allievi prudenti di fronte a un professore rabbioso.
Purtroppo ai tempi di Galilei Aristotele era ancora l’ideologo di riferimento della Chiesa, e l’unico libro di testo permesso nel mondo cattolico era la Bibbia. Quindi l’alzata di ingegno di cominciare a mettere alla prova le osservazioni con gli esperimenti aprì un certo conflitto tra lo scienziato pisano e le gerarchie ecclesiastiche: fu così che arrivarono il processo, l’abiura, e il mitologico eppur si muove.
Sull’esempio fatto sopra, quello della caduta dei gravi, va detto che poi sarà Newton (che nascerà undici mesi e diciassette giorni dopo la morte di Galileo) a spiegaredavvero bene come funziona la forza di gravità e soprattutto a osservare che la gravità che fa cadere il sasso dalla Torre di Pisa è la stessa forza che fa ruotare la Terra intorno al Sole.
Ma come si fa a dire che l’ipotesi è convalidata? Ci vogliono dati, tanti dati, sotto forma di numeri.
Poi, se l’ipotesi regge, mettendola insieme ad altre ipotesi congruenti (e validate) ci si può costruire una teoria. Da qui deriva che se la teoria è una buona teoria, i risultati di tutti gli esperimenti successivi alla sua formulazione possono essere predetti correttamente. Questa è la deduzione, che porta dalla teoria all’osservazione, mentre la prima fase, in cui l’osservazione porta all’ipotesi, è l’induzione.
Cioè: se la mia teoria prevede che gli oggetti cadano verso il basso con una certa accelerazione, e l’ho costruita su dati solidi ed esperimenti validi, posso prevedere che se faccio cadere un bicchiere dal tavolo questo andrà a frantumarsi sul pavimento, piuttosto che sul soffitto.
Finché il bicchiere è sul tavolo, questo suo destino è teorico: appena lo spingeremo oltre il bordo del tavolo, saremo felici di vederlo muoversi nella direzione indicata dalla teoria, e con l’accelerazione che avevamo supposto. Per questo abbiamo festeggiato tanto la scoperta del bosone di Higgs: fino a quel momento era un oggetto teorico, ma un esperimento lo ha rintracciato e ne ha confermato l’esistenza. Questo significa che, almeno in quelle condizioni, la teoria funziona.
Fermi tutti: le teorie funzionano se e finché le ipotesi sono validate. Ma il giorno che trovo un risultato diverso devo ricominciare da capo, e formulare una nuova teoria. Cioè: il giorno che il mio bicchiere si spatacca sul soffitto, bisogna ripartire dai gravi di Galilei. Chi me lo dice che non succederà domani? E chi avrebbe potuto giurare, fino a pochi anni fa, che il bosone di Higgs sarebbe stato trovato davvero? Le teorie scientifiche sono, per definizione, provvisorie: sono terreni di lavoro. Ed è il loro bello. La certezza al 100% non c’è mai. Mica come la non-scienza e le bufale che non devono chiedere mai.
Domanda: è mai capitato di abbandonare teorie nel corso della storia della scienza? Be’, sì, eccome. L’esempio più famoso è quello di cui è stato lo stesso Newton a fare le spese, quando nel Novecento sono arrivate la meccanica quantistica e soprattutto la relatività generale. La fisica che abbiamo studiato a scuola è ancora la fisica newtoniana, che per descrivere le avventure del nostro bicchiere tra pavimento e soffitto va ancora benissimo: ma per le cose molto più grandi (come le stelle) o molto più piccole (come le particelle subatomiche) la descrizione di Newton dopo due secoli e mezzo dovette cedere il passo. Cioè era arrivato Einstein, la cui teoria della relatività fu confermata nelle sue previsioni dall’osservazione di un’eclisse. Ma come scrisse un giorno Einstein di sé: “Nessun esperimento potrà dimostrare che ho ragione, mentre un solo esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”.
Bene: per fare scienza si cercano informazioni, si testano ipotesi, si disegnano teorie, si mettono alla prova. Non basta: lo si fa in tanti, perché alla base c’è l’idea che la verifica delle ipotesi debba essere ripetuta, e ripetuta da più teste, messa alla prova davvero, criticata e ripensata di continuo, da tutti gli scienziati del mondo (be’, quelli di quel settore). Tutti con gli stessi strumenti e gli stessi linguaggi. Lo ha spiegato in poche parole il fisico Richard Feynman: “Scienza è credere nell’ignoranza degli esperti”. Leggetela due volte, e vi troverete dentro il vecchio Galilei.
Il metodo scientifico qui descritto è un’estrema sintesi di quello su cui filosofi e scienziati lavorano da secoli e non tiene conto di mille sfumature esistenti nel dibattito epistemologico tuttora in corso. Per esempio, non tiene conto di differenze disciplinari che rendono il discorso molto più complesso quando si ragiona di questioni naturali impossibili da riprodurre in laboratorio, come un fenomeno meteorologico o l’evoluzione delle specie viventi. Così come non tiene conto del passaggio di filosofi come Immanuel Kant e Bertrand Russell (per dirne due che tutti abbiamo sentito nominare), Karl Popper e Thomas Kuhn: tutta gente che si è scornata assai sulla forza dell’induzione, sulla neutralità dell’osservazione e sull’idea di progresso scientifico.
Resta però inossidabile tutto il resto: per definirsi scienza, bisogna attenersi alle regole di cui sopra e permettere ai propri pari (ai colleghi della stessa disciplina, o di quella che si ritiene essere la propria disciplina, nel caso degli avventurieri) di replicare l’esperimento.
Quindi bisogna rendere pubblico, cioè pubblicare, quello che si fa e accettare (anzi: desiderare!) il confronto con gli altri (come nel caso della peer-review). Anche a costo di essere smentiti.
È banalmente per questo che tutto quello che non appare su una (vera) rivista scientifica, unica sede del confronto di cui sopra, non ha dignità di scienza. Ed è per questo che non esistono ipse dixit: l’autorità è scalzata dall’autorevolezza, e l’autorevolezza la si costruisce con il lavoro e l’umiltà. Trovateci una (vera) pubblicazione scientifica sulle spazzole antitutto, sui campi magnetici del pomodoro e sulle terapie al limone, e anche noi saremo disposti a cambiare idea.
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