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La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

lunedì 14 ottobre 2013

La Filosofia della Composizione (Edgar Allan Poe 4)

Da "http://marteau7927.wordpress.com/2012/10/13/edgar-allan-poe-la-filosofia-della-composizione/" :

Edgar Allan Poe
La filosofia della composizione
traduzione dall’originale The philosophy of composition
di Marco Vignolo Gargini

 
   Charles Dickens, in una nota che ho ora davanti a me, alludendo a una mia analisi dei meccanismi di Barnaby Rudge, afferma: «A proposito, vi siete accorti che Godwin scrisse il suo Caleb Williams a ritroso? Dapprima ha coinvolto il suo eroe in un intreccio irto di ostacoli, facendo il secondo volume, e poi, per il primo, ideò su di lui qualche modalità per dar conto di quanto era stato creato.»
   Non riesco a pensare che questo sia stato il modo preciso di procedere da parte di Godwin – e in effetti ciò che lui stesso riconosce non concorda complessivamente con l’idea di Dickens – ma l’autore di Caleb Williams era un artista troppo valido per non cogliere il vantaggio derivabile se non altro da un procedimento abbastanza simile. Niente è più evidente del fatto che ogni trama degna del nome debba essere elaborata fino al suo dénouement prima che si tenti qualcosa con la penna. È solo con il dénouement bene in vista che possiamo dare a una trama il suo aspetto indispensabile di conseguenza, o causalità, facendo sì che gli episodi, e soprattutto il tono generale, tendano allo sviluppo delle intenzioni.
   C’è un errore radicale, credo, nel modo usuale di costruire una storia. O la storia offre una tesi, o è suggerita da un incidente del giorno, o, al meglio, l’autore si predispone per lavorare combinando eventi impressionanti che formino soltanto la base della sua narrazione, proponendo, in generale, di colmare con descrizioni, dialoghi o commenti personali qualsiasi crepa nei fatti o nelle azioni che possa evidenziarsi di pagina in pagina.
   Io preferisco cominciare considerando un effetto. Mantenendo sempre in vista l’originalità – poiché distorce se stesso chi s’arrischia a fare a meno di una fonte di interesse così ovvia e così facilmente raggiungibile – in primo luogo, dico a me stesso: «Degli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui è suscettibile il cuore, l’intelletto, o (più in genere) l’anima, quale dovrò selezionare in questo caso?» Avendo scelto, per prima cosa, un romanzo e secondariamente un effetto vivace, considero se può essere elaborato meglio con episodi o toni – se con episodi ordinari e toni particolari, o al contrario, con singolarità di episodi e toni – cercando poi intorno a me (o piuttosto dentro di me) quelle combinazioni di eventi, o toni che potranno aiutarmi meglio nella costruzione dell’effetto.
   Ho pensato spesso come potrebbe essere interessante un articolo di rivista scritto da un autore che volesse – cioè, che potesse – narrare nei dettagli, passo dopo passo, gli sviluppi con cui una sua composizione raggiunge l’ultimo grado di perfezionamento. Non saprei dire perché un articolo del genere non sia mai stato pubblicato – ma, forse, la vanità dell’autore ha avuto più a che fare con l’omissione che con altri motivi. Gli scrittori, per la maggior parte, – in special modo i poeti – preferiscono dare a intendere che compongono presi da una sorta di magnifica frenesia – un’intuizione estatica – e rabbrividirebbero decisamente all’idea di consentire al pubblico di dare una sbirciata, dietro le scene, alle elaborate e vacillanti crudezze del pensiero – ai veri propositi colti solo all’ultimo istante – agli innumerevoli lampi di un’idea che non è giunta alla maturità di una piena visione – alle fantasie maturate e scartate per disperazione come ingestibili – alle caute scelte e ai cauti rifiuti – alle dolorose cancellature e aggiunte – in una parola, alle ruote e alle ali posticce – ai macchinari per i cambi di scena – alle scale a pioli e alle trappole diaboliche – alle piume di gallo, al trucco rosso e alle toppe nere che, nel novantanove per cento dei casi, costituiscono le proprietà dell’histrio letterario.
   D’altro canto, so bene che è raro il caso in cui un autore è in condizioni di ripercorrere i passaggi con cui è giunto alle sue conclusioni. In generale, le suggestioni, sorte per combinazione, sono raggiunte e dimenticate in modo simile.
   Per conto mio, non ho simpatia per la ripugnanza a cui ho alluso, né mai ho avuto la minima difficoltà a ricordare i passaggi progressivi di una qualsiasi mia composizione, e, visto che l’interesse di un’analisi o di una ricostruzione, che ho considerato come desideratum, è del tutto indipendente da ogni reale o fantastico interesse per la cosa analizzata, non sarà vista come una violazione del decoro da parte mia mostrare il modus operandi con cui una delle mie opere fu composta. Scelgo Il Corvo come la più famosa in generale. Il mio fine è chiarire che nessun punto della composizione si riferisce a un caso o un’intuizione, e che l’opera procedette poco a poco fino al suo compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico.
   Tralasciamo, come irrilevante per la poesia in sé e per sé, la circostanza – o diciamo la necessità che innanzitutto face nascere l’intenzione di comporre una poesia che si adattasse sia al gusto popolare che a quello critico.
   Cominciamo, quindi, con questa intenzione.
   La considerazione iniziale fu quella dell’estensione. Se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, dobbiamo accontentarci di fare a meno dell’effetto immensamente importante che deriva dall’unità d’impressione – perché, se ci vogliono due sedute, le faccende del mondo interferiscono e tutto ciò che è totalità viene subito distrutto. Ma visto che, ceteris paribus, nessun poeta può permettersi di rinunciare a tutto ciò che potrebbe far progredire il suo progetto, non resta che considerare se c’è, nell’estensione, qualche vantaggio per controbilanciare la perdita dell’unità che essa comporta. Qui io dico subito no. Ciò che definiamo una poesia lunga è, in effetti, una pura successione di poesie brevi – vale a dire, di brevi effetti poetici. Non occorre dimostrare che una poesia è tale solo se è in grado di eccitare intensamente elevando l’anima; e ogni eccitamento intenso è, per una necessità psichica, breve. Per questa ragione, almeno metà del Paradiso Perduto è essenzialmente prosa – una sequenza di eccitamenti poetici inframmezzati, inevitabilmente, da corrispondenti depressioni – essendo l’intera opera privata, per l’estrema lunghezza, dell’importantissimo elemento artistico che è la totalità, o unità d’effetto.
   Appare dunque evidente che, riguardo alla lunghezza, c’è un limite distinto per tutte le opere letterarie – il limite di una singola seduta – e che, seppur in certi tipi di composizione in prosa, come il Robinson Crusoe (che non pretendono l’unità), questo limite potrebbe essere superato con vantaggio, non può mai essere superato del tutto in una poesia. Entro questo limite, l’estensione di una poesia potrebbe essere in rapporto matematico con il suo valore – in altri termini, con l’eccitamento o l’elevazione – ancora, in altri termini, con il grado di vero effetto poetico che è in grado di indurre; poiché è chiaro che la brevità deve essere in proporzione diretta con l’intensità dell’effetto inteso – questo a una condizione, che un certo grado di durata è il requisito assoluto per la produzione di qualsiasi effetto.
   Tenendo presente queste considerazioni, come quel grado di eccitamento che non ritenevo al di sopra del gusto popolare, e non al di sotto di quello critico, ottenni subito quella che immaginavo fosse la lunghezza adatta per la poesia che intendevo – una lunghezza di circa cento versi. Infatti, la poesia è composta da cento e otto versi.
   Il mio pensiero seguente riguardava la scelta di un’impressione, o di un effetto, da comunicare: e qui potrei anche osservare che lungo tutta la realizzazione tenni costantemente in primo piano il progetto di far sì che l’opera fosse universalmente apprezzabile. Sarei portato troppo lontano dal mio argomento immediato se dovessi dimostrare un punto su cui ho ripetutamente insistito e che, insieme a quello poetico, non ha per niente bisogno di dimostrazione – voglio dire il punto per cui la Bellezza è l’unico legittimo ambito della poesia. Tuttavia, spenderò poche parole di spiegazione per il mio reale intento, che qualche amico ha mostrato una certa tendenza a travisare. Quel piacere che è contemporaneamente il più intenso, il più esaltante e il più puro, credo lo si trovi nella contemplazione della bellezza. In effetti, quando gli uomini parlano di Bellezza intendono, precisamente, non una qualità, come si suppone, ma un effetto – fanno riferimento, in breve, proprio a quell’intensa e pura esaltazione dell’animanon dell’intelletto, o del cuore – su cui ho chiosato, e che si prova a seguito della contemplazione della «bellezza». Ora io designo la Bellezza come l’ambito della poesia, solo perché è un’ovvia regola dell’Arte che gli effetti dovrebbero essere scaturiti da cause dirette – gli obiettivi dovrebbero essere raggiunti con mezzi più adatti per il loro conseguimento – non essendo stato nessuno finora abbastanza mediocre da negare che l’elevazione particolare a cui alludevo è più facilmente raggiungibile nella poesia. Ora l’obiettivo Verità, o la soddisfazione dell’intelletto, e l’obiettivo Passione, o l’esaltazione del cuore, sono, seppur raggiungibili fino a un certo punto in poesia, più facilmente raggiungibili in prosa. La Verità, in effetti, richiede una precisione, e la Passione una semplicità (i veri appassionati mi comprenderanno) che sono assolutamente ostili a quella Bellezza che, io affermo, è l’eccitazione o l’esaltazione piacevole dell’anima. Da tutto ciò fin qui affermato non ne consegue affatto che la passione, o persino la verità, non possano essere introdotte, e anche con profitto, in una poesia, dato che potrebbero servire a spiegare, o aiutare per contrasto l’effetto generale, come le discordanze in musica – ma il vero artista in un primo tempo troverà sempre il modo di intonarle nella giusta subordinazione rispetto allo scopo predominante, e, secondariamente, di avvolgerle, per quanto possibile, in quella Bellezza che è l’atmosfera e l’essenza della poesia.
   Considerata allora la Bellezza come mio ambito, la mia domanda successiva si riferiva al tono della sua più alta manifestazione – o ogni esperienza ha mostrato che questo tono è quello della tristezza. La bellezza di qualsiasi genere nel suo supremo sviluppo accende invariabilmente l’anima sensibile fino alle lacrime. La malinconia è perciò il più legittimo tra tutti i toni poetici.
   Specificati così la lunghezza, l’ambito e il tono, mi rivolsi all’ordinaria induzione, con il proposito d’ottenere un tocco artistico piccante che potesse servirmi come nota dominante nella costruzione della poesia – un perno su cui l’intera struttura potesse ruotare. Nel pensare attentamente a tutti i soliti effetti artistici – o più propriamente spunti, in senso teatrale – non mancai di cogliere subito che nessuno era stato così universalmente utilizzato come il refrain. L’universalità del suo uso bastava per assicurarmi il suo valore intrinseco, e mi risparmiò la necessità di sottoporlo a un’analisi. Tuttavia, lo considerai in riferimento alla sua predisposizione al miglioramento, e vidi subito che si trovava in una condizione primordiale. Usato comunemente, il refrain, o ritornello, non solo è limitato al verso lirico, ma dipende per la sua impronta dalla forza della monotonia – sia nel suono che nel pensiero. Il piacere è dedotto soltanto dal senso di identità – e di ripetizione. Decisi di diversificarlo e di aumentarne così l’effetto attenendomi in generale alla monotonia del suono, mentre variavo di continuo la monotonia del pensiero: cioè, decisi di produrre continuamente nuovi effetti con il variare dell’applicazione del refrain – restando lo stesso refrain per lo più invariato.
   Stabiliti questi punti, mi misi a riflettere in seguito sulla natura del mio refrain. Dato che la sua applicazione doveva essere ripetutamente variata, era chiaro che lo stesso refrain dovesse essere breve, poiché ci sarebbe stata una difficoltà insormontabile nelle frequenti variazioni dell’applicazione in ogni frase di lunghezza. La facilità della variazione sarebbe stata, ovviamente, in rapporto alla brevità della frase. Questo mi portò subito a una sola parola come miglior refrain.
   Adesso sorse la domanda sul carattere della parola. Essendomi deciso per un refrain, la divisione della poesia in stanze era naturalmente un corollario, formando il refrain la chiusa di ogni stanza. Tale chiusa per avere forza doveva essere sonora e in grado di prolungare l’enfasi, senz’altro ammessa, e queste considerazioni mi portarono inevitabilmente alla o lunga, la vocale più sonora, in connessione con la r, la consonante più producibile.
   Determinato così il suono del refrain, fu necessario scegliere una parola che incarnasse questo suono e allo stesso tempo conservasse il più possibile quella malinconia che avevo predefinito come il tono della poesia. In un tale ricerca sarebbe stato assolutamente impossibile ignorare la parola Nevermore. In effetti fu proprio la prima che si presentò da sola.
   Il successivo desideratum fu un pretesto per l’uso continuo dell’unica parola nevermore. Osservando la difficoltà che avevo trovato subito nell’escogitare un motivo abbastanza plausibile per la sua ripetizione ininterrotta, non mancai di avvertire che quest’ostacolo sorgeva solamente dalla supposizione che la parola doveva essere pronunciata di continuo o monotonamente da un essere umano – non mancai di avvertire, in breve, che la difficoltà stava nella conciliazione di questa monotonia con la pratica della ragione da parte della creatura che ripeteva la parola. Ed ecco allora che all’istante mi venne l’idea di una creatura non dotata di ragionamento, e molto naturalmente fu un pappagallo a proporsi in prima istanza, ma fu immediatamente sostituito da un Corvo, egualmente in grado di parlare e infinitamente più aderente al tono fissato.
   Ora ero andato molto avanti concependo un Corvo, l’uccello del malaugurio, che ripeteva monotonamente la sola parola Nevermore alla conclusione di ogni stanza in una poesia dal tono malinconico e della lunghezza di circa cento versi. Adesso, non perdendo mai di vista l’obiettivo dell’eccellenza o della perfezione in ogni punto, mi chiesi: «Di tutti gli argomenti malinconici quale, secondo l’universale intendimento dell’umanità, è il più malinconico?» La Morte, fu l’ovvia risposta. «E quando», mi dissi, «questo argomento che è il più malinconico diventa il più poetico?» Da quello che ho già spiegato poc’anzi anche qui la risposta è ovvia – «Quando si accorda quasi completamente con la Bellezza: allora la morte di una bella donna è indiscutibilmente l’argomento più poetico al mondo, e allo stesso modo è fuor di dubbio che labbra più adatte per un tale argomento sono quelle di un amante addolorato.»
   Ora, dovevo unire le due idee di un amante che piangeva la sua donna defunta e di un Corvo che ripeteva continuamente la parola Nevermore. Dovevo miscelarle tenendo a mente il mio scopo di variare ogni volta l’applicazione della parola ripetuta, ma l’unico modo intelligibile per una tale combinazione è quello di immaginare che il Corvo usasse la parola in risposta ai quesiti dell’amante. E fu qui che vidi subito l’opportunità concessami per l’effetto su cui avevo contato, vale a dire, l’effetto della variazione dell’applicazione. Mi resi conto che potevo far proporre il primo quesito dall’amante – il primo quesito a cui il Corvo avrebbe risposto Nevermore – che avrei potuto rendere il primo quesito con un luogo comune, il secondo un po’ meno, il terzo ancora meno e così via, finché alla fine l’amante, scosso dalla sua iniziale nonchalance, per il carattere malinconico della stessa parola, per la sua ripetizione frequente e per una considerazione della fama sinistra dell’uccello che la pronuncia, è incitato alla scaramanzia, e propone freneticamente domande di carattere assai diverso – domande la cui soluzione ha appassionatamente a cuore – le propone un po’ per superstizione e un po’ per quella specie di disperazione che gode a torturarsi – le propone non insieme, perché crede nell’indole profetica o demoniaca dell’uccello (che, come la ragione lo rassicura, ripete soltanto una lezione imparata a memoria), ma perché sperimenta un piacere delirante nel formulare le sue domande per avere in cambio dall’atteso Nevermore il dolore più delizioso proprio perché il più intollerabile. Avvertendo l’opportunità che così mi veniva concessa, o, più esattamente, che così mi obbligava nello sviluppo della costruzione, fissai dapprima nella mia mente il climax, ossia la domanda conclusiva – quella domanda alla quale Nevermore sarebbe stata una risposta terminale – quella domanda alla cui risposta questa parola Nevermore avrebbe implicato la misura massima concepibile di dolore e disperazione.
   Si può dire che la poesia ha avuto qui il suo inizio – ovvero alla fine, dove tutte le opere d’arte dovrebbero iniziare – poiché fu qui, a questo punto delle mie considerazioni propedeutiche che per la prima volta posai la penna sulla carta nella composizione della strofa:
“Prophet!” said I, “thing of evil! prophet still if bird or devil!
By that Heaven that bends above us- by that God we both adore,
Tell this soul with sorrow laden, if, within the distant Aidenn,
It shall clasp a sainted maiden whom the angels name Lenore-
Clasp a rare and radiant maiden whom the angels name Lenore.”
Quoth the Raven- “Nevermore.” [1]
   Composi questa strofa, a questo punto, in primo luogo affinché, stabilito il climax, potessi variare e graduare al meglio, riguardo alla serietà e all’importanza, le domande precedenti dell’amante, e in secondo luogo, perché potessi sistemare definitivamente il ritmo, il metro, la lunghezza e l’organizzazione generale della strofa, nonché graduare le strofe che dovevano precederla, cosicché nessuna di esse potesse superarla nell’effetto ritmico. Anche se, nella composizione successiva, fossi stato capace di costruire strofe più robuste le avrei senza scrupolo indebolite di proposito in modo da non interferire con l’effetto del climax.
E qui posso spendere alcune parole sulla versificazione. Il mio primo obiettivo (come al solito) era l’originalità. Fino a che punto questa sia stata trascurata nella versificazione è una delle cose più inspiegabili che ci siano al mondo. Pur ammettendo che nel puro ritmo vi è poca possibilità di variazione, è tuttavia chiaro che le possibili variazioni del metro e della strofa sono assolutamente infinite – eppure, per secoli, nessuno ha mai fatto, né è mai parso che pensasse di fare, qualcosa di originale nel verso. Il fatto è che quella originalità (salvo negli ingegni di forza davvero non comune) non è affatto, come qualcuno suppone, una questione di impulso o di intuizione. In generale, per trovarla occorre che sia ricercata in modo elaborato e, pur essendo un pregio positivo della più alta categoria, richiede per il suo ottenimento non tanto l’inventiva quanto il contrario.
   Ovviamente, non pretendo alcuna originalità nel ritmo o nel metro del Corvo. Il ritmo è trocaico, il metro è un ottametro acatalettico, alternato con l’ettametro catalettico ripetuto nel refrain del quinto verso e terminante con un tetrametro catalettico. Meno pedantemente, i piedi usati in tutta la poesia (trochei) consistono in una sillaba lunga seguita da una breve, il primo verso della strofa è di otto di questi piedi, il secondo di sette e mezzo (in effetti, due terzi), il terzo di otto, il quarto di sette e mezzo, il quinto lo stesso, il sesto di tre e mezzo. Ora, ognuno di questi versi, preso individualmente, è stato usato prima, e ciò che rende il Corvo originale è la loro combinazione nella strofa; nulla che si avvicini nemmeno lontanamente a questo è stato mai tentato. L’effetto di questa originalità di combinazione è agevolato da altri effetti insoliti e nell’insieme nuovi, che derivano da un’estensione dell’applicazione dei principi della rima e dell’allitterazione.
   Il punto successivo da valutare era il modo di mettere insieme l’amante e il Corvo – e la prima branca della valutazione fu il luogo. Per questo il suggerimento più naturale poteva sembrare che fosse una foresta, o l’aperta campagna – ma mi è sempre parso che una stretta circoscrizione dello spazio sia assolutamente necessaria per l’effetto dell’episodio isolato – ha la stessa efficacia di una cornice in un ritratto. Essa ha un indiscutibile potere morale nel tenere desta l’attenzione e, naturalmente, non dev’essere confusa con la semplice unità di luogo.
   Allora decisi di mettere l’amante nella sua camera – una camera resa a lui sacra dalle memorie di colei che l’aveva frequentata. La stanza è rappresentata come riccamente arredata – questo nella mera applicazione delle idee che ho già spiegato sull’argomento della Bellezza come solo vero principio poetico.
   Essendo così stabilito il luogo, dovevo ora introdurre l’uccello – e il pensiero di introdurlo dalla finestra era inevitabile. L’idea di far supporre all’amante, in prima istanza, che lo sbattere delle ali dell’uccello contro l’imposta fosse un bussare alla porta, nacque dalla volontà di aumentare la curiosità del lettore prolungandola, e dal desiderio di introdurre l’effetto incidentale che derivava dall’amante che spalanca la porta e trova tutto buio e quindi si mette quasi a vagheggiare che fosse lo spirito della sua donna a bussare.
   Ho reso la notte tempestosa, in primo luogo per motivare il tentativo del Corvo di entrare, e in secondo luogo, per l’effetto del contrasto con la serenità (fisica) all’interno della camera.
   Ho fatto posare l’uccello sul busto di Pallade, anche qui per l’effetto del contrasto tra il marmo e il piumaggio – inteso che il busto era assolutamente suggerito dall’uccello – il busto di Pallade scelto, in primo luogo, come il più attinente con gli studi dell’amante, e in secondo luogo, per la sonorità della parola stessa, Pallade.
   A metà della poesia, ancora, mi sono avvalso della forza del contrasto, con intenzione di rendere più profonda l’ultima impressione. Per esempio, viene data un’aria fantastica all’entrata del Corvo – prossima quasi al ridicolo per quanto fosse ammissibile. Il Corvo entra con «with many a flirt and flutter»[2].
Not the least obeisance made he- not a moment stopped or stayed he,
But with mien of lord or lady, perched above my chamber door.[3]
   Nelle due strofe che seguono, il motivo è sviluppato più evidentemente:
Then this ebony bird, beguiling my sad fancy into smiling
By the grave and stern decorum of the countenance it wore,
“Though thy crest be shorn and shaven, thou,” I said, “art sure no
craven,
Ghastly grim and ancient Raven wandering from the Nightly shore-
Tell me what thy lordly name is on the Night’s Plutonian shore?”
Quoth the Raven- “Nevermore.”
Much I marvelled this ungainly fowl to hear discourse so plainly,
Though its answer little meaning- little relevancy bore;
For we cannot help agreeing that no living human being
Ever yet was blessed with seeing bird above his chamber door-
Bird or beast upon the sculptured bust above his chamber door,
With such name as “Nevermore.” [4]
   Essendo così assicurato l’effetto del dénouement, lasciai subito cadere il tono fantastico per un tono della massima e profonda serietà- tono che inizia nella strofa immediatamente seguente all’ultima citata, con il verso,
But the Raven, sitting lonely on that placid bust, spoke only, etc.
   Da questo momento l’amante non scherza più – né vede più niente nemmeno di fantastico nella condotta del Corvo. Parla di lui come «grim, ungainly, ghastly, gaunt, and ominous bird of yore», e sente i «fiery eyes» che bruciano nel suo «bosom’s core». Questa rivoluzione di pensiero, o di fantasia, da parte dell’amante è inteso a produrne uno simile da parte del lettore – a richiamare alla mente uno stato propizio al dénouement – che adesso è richiamato quanto più rapidamente e direttamente possibile.
   Con il dénouement vero e proprio – con la risposta del Corvo, Nevermore, alla domanda finale dell’amante se incontrerà la sua donna in un altro mondo – la poesia, nella sua ovvia fase di semplice narrazione, può dirsi compiuta. Fin qui tutto è nei limiti della consapevolezza – del reale. Un corvo, che ha imparato a memoria la sola parola Nevermore, ed è sfuggito alla custodia del suo padrone, è spinto a mezzanotte dalla violenza di una tempesta a tentare di entrare in una finestra da cui una luce brilla ancora – la finestra di una camera di uno studente, occupato un po’ a sgobbare su di un volume, un po’ a sognare di una donna amata defunta. Spalancata la finestra dallo sbattere d’ali dell’uccello, l’uccello stesso si posa sul posto più conveniente fuori dall’immediata portata dello studente, che, divertito dall’incidente e dalla stranezza dell’atteggiamento del visitatore, chiede scherzando, e senza aspettare una risposta, il suo nome. Il corvo interpellato, risponde con la sua consueta parola, Nevermore – una parola che trova subito un’eco nel cuore malinconico dello studente, il quale, esprimendo a voce alta certi pensieri suggeriti dal caso, è ancora sconcertato dalla ripetizione da parte dell’uccello del Nevermore. Lo studente ora indovina la situazione, ma è spinto, come ho spiegato prima, dal desiderio umano di torturarsi, e in parte dalla scaramanzia, a porre all’uccello tali domande che daranno a lui, all’amante, la massima voluttà del dolore, attraverso la risposta prevista, Nevermore. Indulgendo fino all’estremo in questa autotortura, la narrazione ha una conclusione naturale, in ciò che io ho definito la sua prima e ovvia fase, e senza che si siano varcati i limiti del reale.
   Ma in soggetti del genere, pur trattati abilmente, o con una gamma vivace di episodi, c’è sempre una certa durezza o nudità che ripugna all’occhio artistico. Due cose sono invariabilmente richieste: in primo luogo, una dose di complessità, o più appropriatamente, di adattamento; e, in secondo luogo, una dose di suggestività – un significato sotterraneo, seppur indefinito. È quest’ultimo, specialmente, che impartisce a un’opera d’arte tanta di quella ricchezza (per usare un termine colloquiale convincente) che ci piace troppo confondere con l’ideale. È l’eccesso del significato suggerito – è il rendere evidente questo significato del tema invece che tenerlo sottinteso – che trasforma in prosa (e del più basso livello), la cosiddetta poesia dei cosiddetti trascendentalisti.
   Attenendomi a queste opinioni, aggiunsi le due strofe conclusive della poesia – in modo che la loro suggestività così resa pervadesse tutta la narrazione che le ha precedute. La corrente sotterranea del significato è resa dapprima evidente nel verso:
Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my
                                                             door!”
Quoth the Raven “Nevermore!” [5]
   Si osserverà che le parole «from out my heart» implicano la prima espressione metaforica nella poesia. Loro, con la risposta Nevermore, dispongono la mente a trovare una morale in tutto quanto è stato precedentemente narrato. Il lettore comincia ora a considerare il Corvo come emblematico – ma non è prima dell’ultimo verso dell’ultima strofa che l’intenzione di renderlo emblematico del triste ricordo senza fine può distintamente essere visibile:
And the Raven, never flitting, still is sitting, still is sitting,
On the pallid bust of Pallas just above my chamber door;
And his eyes have all the seeming of a demon that is dreaming,
And the lamplight o’er him streaming throws his shadow on the floor;
And my soul from out that shadow that lies floating on the floor
                  Shall be lifted – nevermore. [6] 



[1] «Profeta!» dissi, «creatura del male! — profeta pur sempre, uccello o diavolo! / Per quel Cielo che su di noi incombe — per quel Dio che entrambi adoriamo — / di’ a quest’anima gravida di dolore se, nell’Eden remoto, / abbraccerà mai più una santa fanciulla che gli angeli chiamano Lenora — / una rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Lenora abbraccerà mai più.» / Disse il corvo: «Mai più.» (N.d.T.)
 
[2] “con un gran sbattere d’ali” (N.d.T.)
 
[3] “non fece il minimo cenno d’ossequio; non un minuto si fermò o si fissò; / ma, con portamento da Lord o Lady, si posò sulla porta di camera mia.” (N.d.T.)
 
[4] Allora quest’uccello d’avorio indusse al sorriso il mio triste pensiero, / con il grave e severo decoro del contegno che aveva, / «Benché la tua cresta sia tagliata e rasa, », dissi, « di certo non sei vile, tu, / orrido, cupo e antico corvo che vaghi dalle rive della Notte — / dimmi qual è il tuo nobile nome sulle rive plutonie della Notte!» / disse il corvo, «Mai più». // Molta fu la meraviglia ad udire questo uccello sgraziato parlare così chiaro, / anche se la sua risposta non aveva senso — non una pertinenza in più; / poiché non si può non condividere che a nessun essere umano vivente / Capitò mai di vedere un uccello sulla porta di camera sua — / uccello o bestia sul busto scolpito sopra la porta di camera sua, /con un nome come «Mai più». (N.d.T.)
 
[5] Porta via il tuo becco dal mio cuore, e porta via la tua figura dalla mia porta!» / Disse il corvo: «Mai più.» (N.d.T.)
 
[6] E il corvo, non volando mai via, ancora sta lassù, ancora sta lassù / sul pallido busto di Pallade proprio sulla porta di camera mia; / e i suoi occhi hanno tutto l’aspetto di un demonio che sogna, e la luce della lampada su di lui riversata l’ombra sua sul pavimento proietta giù; / e la mia anima da quell’ombra che giace fluttuante sul pavimento / non sarà sollevata — mai più! (N.d.T.)

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