(articolo apparso sul quarto numero, ottobre-dicembre 1992, del Bollettino dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere e Arti)
   Dobbiamo molto alla 
letteratura del XIX secolo, in particolare quella francese, non 
solamente per le sorti gloriose che assume allora la forma del romanzo, 
ma soprattutto per l’accento fantasmagorico, libertario suggerito ad 
ogni genere artistico che sappia accogliere internamente il fine della 
propria creatività.
   Tutto l’800 è animato dalla querelle tra
 ciò che è Arte e ciò che è Vita, Natura, la produzione letteraria del 
periodo esprime in modo esemplare questa contrapposizione, in essa le 
tendenze al realismo sono strettamente bilanciate da un forte impulso 
poetico che predica il distacco dal reale.
   L’espressione “ l’art pour l’art ”
 compie così il suo percorso accusata di essere volta per volta una 
bandiera che copre una merce senza nome[1], oppure un potenziale 
“faticoso artifizio”[2] in cui le singole immagini stanno “come idoli, 
che l’artista plasma e adora”[3]. Raramente però si rammenta l’origine 
di tale orientamento estetico: “ l’art pour l’art ” vede la luce 
come richiesta di atemporalità, indipendenza morale e sociale per 
l’attività artistica, troviamo il suo conio e la sua prima teorizzazione
 nell’opera del filosofo francese Victor Cousin (1792-1865) dal titolo Du Vrai du Bien et du Beau
 (1853). Da Cousin in poi il comune spirito di fraintendimento s’è 
adagiato sulla presunta aridità della formula, madre d’una devozione 
cieca che gioca ad annientare la stessa prassi dell’atto artistico.
   Vorrei sottolineare il 
fatto facilmente appurabile che l’intento dichiarato degli artisti da 
prendere in considerazione è attivamente mirato al debellamento del 
pregiudizio, secondo cui l’arte deve essere schiava del luogo e degli 
anni in cui si trova malauguratamente ad agire. In fondo è la cosiddetta
 crisi che partorì la décadence a impartirci una lezione: vi sono
 materiali da trattare artisticamente e materiali che non consentono 
all’artefice di venirne fuori con una bella pagina scritta. Di più, la 
biasimata fuga dalla realtà non può essere un disonore se vi sono 
scrittori capaci d’inventare una trama che sia originale e 
contemporaneamente possieda un bello stile. Sarebbe come attaccare Dante
 perché si è immaginato ciò che non ha vissuto realmente! Dante però se 
ne esce ingigantito dall’uso delle allegorie atte a perseguire un fine 
morale, mentre la produzione del décadent elargirebbe motivi 
inattendibili e fuorvianti, si insinuerebbe tramite la seduzione per far
 perdere al lettore la nozione della realtà, della natura! 
   Siamo quindi arrivati al punto: il disturbo che gli autori dediti al culto de “ l’art pour l’art ” hanno causato con il loro aristocratico distacco, in primis il sospetto che ditero questo trobar clus si celi il nulla. Affrontiamo dunque questi famigerati autori del decadentismo.
   Théophile Gautier (1811-1872) pubblica il romanzo Mademoiselle de Maupin nel 1836, facendolo precedere da una Préface,
 celebratissimo manifesta dell’arte non realista, la cui tesi portante 
rivendica il pieno dominio dell’artista sulle sue facoltà creative e 
l’indipendenza da qualunque interpretazione di carattere morale:
   “ Il est aussi absurde 
de dire qu’un homme est un ivrogne parce qu’il décrit une orgie, un 
debauché parce qu’il raconte un debauche, que de prétendre qu’un homme 
est vertueux parce qu’il a fait un livre de moral, tous les jours on 
voit le contraire. – C’est le personnage qui parle et non l’auteur. ”
   (È tanto assurdo dire 
che un uomo è un ubriacone perché descrive un’orgia, un debosciato 
perché narra di una dissolutezza, quanto il pretendere che un uomo sia 
virtuoso perché ha scritto un libro moraleggiante; vediamo 
quotidianamente il contrario. – È il personaggio a parlare, non 
l’autore.)[4]
   A questo si aggiunga l’ostentato disprezzo di Gautier per una concezione d’utilità sociale dell’arte:
   “ Il n’y a de vraiment 
beau que ce qui ne peut servirà rien, tout ce qui est utile est laid, 
car c’est l’expression de quelque besoin, et ceux de l’homme sont 
ignobles et degoûtants, comme sa pauvre et infirme nature. ”
   (Di veramente bello c’è 
soltanto quel che non può servire e niente; tutto ciò che è utile è 
brutto, perché è espressione di qualche bisogno, e i bisogni dell’uomo 
sono ignobili e disgustosi come la sua povera e inferma natura.)[5]
   Oltre ai temi espressi dalla Préface di Mademoiselle de Maupin,
 la polemica contro il realismo è determinata nel rifiuto del ruolo 
primario della Natura, dell’oggettità presa a modello per la creazione 
artistica. Una testimonianza a questo proposito ci viene da un grande 
ammiratore e amico di Gautier, Charles Baudelaire (1821-1867), il quale 
si impegna a screditare i sostenitori della dottrina naturalistica in 
una recensione al Salon parigino del 1859:
   “ A ces doctrinaires si 
satisfaits de la nature un homme immaginatif aurait certainement eu le 
droit de répondre: ‘Je trouve inutile et fastidieux de représenter ce 
qui est, parce que rien de ce qui est ne me satisfait. La nature est 
laide, et je préfère les monstres de ma fantasie à la trivialité 
positive.’ ”
   (A questi dottrinari 
così soddisfatti della natura un uomo immaginario avrebbe certamente 
avuto il diritto a rispondere: ‘Io trovo inutile e fastidioso 
rappresentare ciò che è, perché niente di ciò che è mi soddisfa. La 
natura è brutta, e io alla trivialità positiva preferisco i mostri della
 mia fantasia.’ ”[6]
   Parole assai più dure 
nei confronti della Natura, ritenuta ormai superata dall’opera 
dell’artista, sono quelle che rinveniamo in À rebours, il capolavoro della décadence pubblicato
 nel 1884 da joris-Karl Huysmans (1848-1907). Il protagonista del 
romanzo. Des Esseintes, in una serie di considerazioni si convince che 
all’artificio spetti il primato su tutte le cose, natura inclusa:
   “ Comme il disait, la 
nature a fait son temps… A n’en pas douter, cette sempiternelle 
radoteuse a maintenant usé la débonnaire admiration des vrais artistes, 
et le moment est venu où il s’agit de remplacer, autant que faire se 
pourra, par l’artifice. ”
   (La natura, diceva, ha 
fatto il suo tempo… Senza dubbio quell’eterna rimbambita ha ormai 
esaurito la bonaria ammirazione dei veri artisti, ed è venuto il momento
 in cui deve essere sostituita per quanto è possibile 
dall’artificio.)[7]
   Un contributo assai significativo alla querelle in
 questione, forse il più documentato e apprezzato negli ultimi tempi, è 
quello offertoci dalla produzione critica di Oscar Wilde (1854-1900), lo
 scrittore che maggiormente ha sostenuto in prima persona il primato 
dell’Arte sulla Vita e sulla Natura, sintetizzandolo con la famosa frase
 “The artist can express everything” (L’artista può esprimere tutto)[8].
 Un meraviglioso dialogo di Wilde, The Decay of Lying – An observation,
 apparso nel gennaio 1889 sulla rivista londinese “The Nineteenth 
Century”, amplifica il dualismo tra Arte e realtà esterna, il risultato 
di questa discussione è al limite del parossismo, ma poi non tanto, 
quando Vivian, protagonista dell’opera, afferma riguardo alla Natura:
   “ For what is Nature? 
Nature is no great mother who has borne us. She is our creation… At 
present people see fogs, not because there are fogs, but because poets 
and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects.
 There may have been fogs for centuries in London. I dare say there 
were. But no one saw them, and so we do not know anything about them. ”
   (Perché che cosa è la 
Natura? La Natura non è una grande madre che ci ha partoriti. È la 
nostra creazione… Oggidì la gente vede le nebbie e non perché ci sono le
 nebbie, ma perché i poeti e i pittori le hanno insegnato la misteriosa 
bellezza di tali effetti. Probabilmente ci sono state nebbei per secoli a
 Londra. Oso dire che ci furono. Ma nessuno le vide, e così non ne 
sappiamo niente.)[9]
   Così si impone l’idea 
dell’imitazione dell’Arte da parte della realtà, la stessa idea che 
Marcel Proust (1871-1922) celebra in una pagina memorabile della sua Recherche:
   “ Des femmes passent 
dans la rue, différentes de celles d’autrefois puisque ce sont des 
Renoir, ces Renoir où nous nous refusins jadis à voir des femmes. Les 
voitures sont aussi des Renoir, et l’eau, et le ciel… ”
   (Passano signore nella 
via, diverse da quelle di prima, perché ora sono altrettanti Renoir, 
quei Renoir in cui ci rifiutavamo un tempo di riconoscere delle donne. E
 anche le carrozze sono dei Renoir, e l’acqua e il cielo…)[10]
   Un approccio simile, e 
non siamo più nel XIX secolo, lo osserviamo in Martin Heidegger 
(1899-1976), un filosofo che considera come l’opera artistica muova al 
riconoscimento degli oggetti della realtà che riproduce, esibendo 
mediante la rappresentazione la realtà dell’oggetto. Nel saggio Der Ursprung des Kunstwerkes (risultato di alcune conferenze tenute tra il 1935 e il 1936 e raccolto, insieme ad altri saggi, nel volume Holzwege del
 1950) Heidegger offre come esempio un paio di scarpe da contadino che, 
sebbene universalmente note, hanno bisogno della visione sensibile di un
 quadro di Van Gogh per essere riconosciute come mezzo. Richiamandosi 
alla parola greca che indica il concetto di verità, ἀλήθεια, Heidegger 
traduce con non-nascondimento (Unverborgenheit) delle 
scarpe nel dipinto di Van Gogh l’esibizione dell’essere dell’ente, le 
scarpe, nella rappresentazione stabile del suo apparire. La pittura, 
basandosi sul senso della vista, ha aperto al riconoscimento ciò che 
prima veniva confuso e non aveva un nome[11].
   Con Heidegger credo di 
poter concludere questa breve rassegna di considerazioni riguardo 
l’autoreferenza della creazione artistica, è ovvio che il tema 
richiederebbe un numero inesauribile di fonti, io mi sono semplicemente 
limitato a citare i casi più considerevoli, gli autori che lungo il XIX 
secolo hanno sviluppato quest’idea dell’arte che ha in sé il proprio 
fine. Ciò che importa è liberare un’espressione apparentemente vieta 
come “ l’art pour l’art ” dalle pastoie in cui molti critici 
letterari l’hanno confinata. Il dibattito è ancora in svolgimento, ma 
non v’è dubbio che simili concezioni apparse nell’800 abbiano per sempre
 determinato un’apertura di senso, una riflessione sul ruolo dell’arte 
nelle sue manifestazioni.
© Marco Vignolo Gargini
[1] Walter Benjamin, Der Sürrealismus, Literarische Welt, 8 febbraio 1929.
[2] Benedetto Croce, La Poesia, Laterza, Bari 1980, p. 51.
[3] Op. cit. p. 49.
[4] Théophile Gautier, Mademoiselle de Maupin, Bibliothèque Charpentier, Eugène Fasquelle Editeur, Paris 1924, p. 17. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[5] Op. cit. p. 22.
[6] Charles Baudelaire, Curiosités esthétiques, Calman-Levy, Paris 1921, p. 263. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[7] Joris-Karl Huysmans, À rebours, Etienne Fasquelle, Paris 1955, pp. 51, 52, traduzione italiana di Ugo Dèttore in A ritroso, Rizzoli, Milano 1982, p. 52.
[8] Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, Penguin Books, London 1985, p. 21. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[9] Oscar Wilde, The Decay of Lying- An observation, from Selected Writings, Oxford University Press, London 1961, p. 27. Traduzione di Marco Vignolo Gargini. 
[10] Marcel Proust, Le Coté de Guermantes II, Gallimard, Paris 1954, p. 25, traduzione di Mario Bonfantini in I Guermantes, Einaudi, Torino 1978, p. 354. 
[11] Martin Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 21.
Nessun commento:
Posta un commento
Salve, donatemi un pò dei Vostri Pensieri: