Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 13 dicembre 2013

La Pedagogia occidentale ed i suoi problemi: Il secondo Novecento

Da "http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/pancaldi-4.htm" :

Il secondo Novecento

1. Decroly
All'interno del movimento attivista, si possono trovare degli studiosi che sono approdati alla pedagogia provenendo da studi per lo più di medicina. Come la Montessori, si erano all'inizio interessati al problema dell'educazione e del recupero dei subnormali, per poi trarre da questa esperienza delle indicazioni sperimentali nel campo della psicologia che hanno dato luogo ad esperienze scolastiche impostate su basi metodologiche nuove. Al di là delle specificità particolari di ciascuna di esse, il loro interesse consiste nell'aver conferito alla pedagogia un'impronta scientifica con ricadute rilevanti sul piano della didattica e su quello dello sviluppo dell'apprendimento, compresi gli strumenti per la sua promozione e verifica. Del resto la "scuola attiva" fonda la sua ragion d'essere (fini e metodi) sulla vita psichica dell'alunno. L'educazione è funzionale alla vita degli scolari in quanto pone al centro i bisogni, gli interessi, i processi psichici e di apprendimento, le attività intellettuali, affettive e sociali, le attitudini dei fanciulli. Ne consegue che psicologia e pedagogia sono due scienze che, in modo complementare, offrono suggerimenti, spunti, dati, elaborazioni, tecniche, metodi, ipotesi per la sperimentazione educativa. Non si deve inoltre dimenticare il clima storico in cui questo movimento si svolse: l'immediato dopoguerra favoriva un utopismo pacifista, illuminista e pacifista, una sorta di religione laica tesa alla costruzione di un mondo nuovo attreverso l'educazione, una scuola e un diverso modo di concepire la vita e la persona dei bambini.
In questo gruppo un posto particolare è occupato dal belga O. Decroly (1871-1932), medico e neuropsichiatra, che dopo la Scuola di insegnamento speciale per bambini anormali, fonda nel 1907 la Scuola dell'Ermitage, dove conduce un esperimento pedagogico all'insegna del motto "per la vita attraverso la vita", esponendo le sue idee in scritti come "Verso la scuola rinnovata" (1921) e "La funzione di globalizzazione e l'insegnamento" (1929). Secondo Decroly la scuola deve avere come fine l'adattamento sociale, naturale, intellettuale e culturale del maggior numero di persone. Mentre i programmi tradizionali puntano a fornire una cultura generale, questo fine potrà essere raggiunto attraverso un programma fondato sull'osservazione diretta, sullo studio dei bisogni primari e dell'ambiente del fanciullo, rispettando, in una forma unitaria, sia l'esigenza soggettivo-psicologica, sia quella oggettivo-sociale. Mediante l'impiego di metodi educativi razionali e scientifici, il bambino sarà preparato alla vita attraverso attività che gli consentano di soddisfare i suoi fondamentali interessi vitali, che sono riducibili ai bisogni di a) nutrirsi, b) lottare (ripararsi, coprirsi, proteggersi) contro le intemperie, c) difendersi dai nemici e dai pericoli, d) lavorare e agire con gli altri o da solo, ricrearsi e migliorarsi. A questi bisogni corrispondono altrettanti interessi. Partendo dall'idea che il fanciullo può avere esperienze educative solo se queste si rifanno ai suoi bisogni fondamentali promuovendo lo sviluppo di tutte le sue facoltà, Decroly rifiuta l'insegnamento tradizionale per distinte materie di studio sostituendolo con un insegnamento che faccia perno sugli interessi e sui bisogni e che abbia stretti rapporti con l'antropologia culturale. La scuola sarà organizzata come ambiente in cui l'alunno possa avvicinarsi gradualmente alle attività materiali e sociali proprie della vita reale, mentre le attività scolastiche saranno organizzate tutte attorno a "centri di interesse" adattati e graduati secondo l'età. Decroly propone di scegliere un argomento relativo ad uno di questi interessi e di farne il "centro" di tutta l'attività scolastica. In tal modo si potrà evitare la frammentarietà delle nozioni, tenendo occupate tutte le attività. L'insegnamento per "centri di interesse" si svolge attraverso attività ed esercizi articolati nell'osservazione, intesa come attiva esplorazione dell'ambiente (nella quale sono contenuti numerosi apprendimenti scientifici), nell'associazione nello spazio e nel tempo dei fenomeni e degli oggetti (attivando così conoscenze geografiche e storiche), nell'espressione attraverso il linguaggio, la composizione scritta, il disegno, il lavoro manuale. In apposite schede di osservazione vengono registrati i dati (i livelli di progresso e di maturazione, di apprendimento e di applicazione, le difficoltà, i tratti del carattere e le caratteristiche dell'ambiente di provenienza) riguardanti l'attività del ragazzo in modo da facilitare l'individualizzazione dell'insegnamento e dell'apprendimento.
Connessa alla teoria dei "centri di interesse" è quella del globalismo, secondo la quale il bambino possiede una capacità percettivo-cognitiva del tutto specifica (e quindi diversa da quella dell'adulto che è di tipo analitica), che coglie l'insieme indistinto delle cose e dei fenomeni. Questa percezione globale o "sincretica" precede l'analisi degli elementi e dei fattori costituenti il tutto e la successiva sintesi. Inoltre essa non coinvolge solo la percezione, ma tutte le attività mentali e affettive del bambino. Il metodo globale, che procede quindi dal tutto alle parti, anche se è stato particolarmente impiegato per l'apprendimento della lettura e della scrittura, deve caratterizzare qualsiasi insegnamento perché corrisponde al modo più semplice e naturale di conoscere. Da questo momento iniziale potrà partire il percorso che porta con gradualità a conoscenze e attività differenziate e sistematiche.

2. Claparède, Ferrière e l'Istituto J.J. Rousseau di Ginevra
Il nome di E. Claparède è legato soprattutto alla fondazione, insieme con P. Bovet (1878-1944), dell'Istituto J.J Rousseau di scienze dell'educazione che ha sede a Ginevra. Anche lui medico e neuropsichiatra, si interessa di psicologia, formulando una delle principali teorie in questo settore, Il Funzionalismo, che applica prima ai ritardati e anormali psichici. Il suo passaggio alla pedagogia deriva dalla convinzione che lo studio dello sviluppo mentale sia una condizione indispensabile per il miglioramento della scuola e dell'educazione. Tra le sue opere principali "Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale" (1905), "La scuola su misura" (1920), "L'educazione funzionale" (1931).
Il presupposto di Claparède consiste, come in Dewey, nella convinzione che i processi mentali siano funzioni con cui l'organismo conosce e si adatta alle necessità dell'ambiente: si tratta pertanto di studiare l'interazione ambiente-mente, poiché i processi di quest'ultima (percettivi, affettivi, volitivi, intellettuali) possono essere spiegati come risultati di una selezione rispetto a precise necessità di controllo dell'ambiente fenomenico esterno da parte dell'organismo vivente. In questa prospettiva il bisogno assume la configurazione di elemento dinamico centrale, poiché si manifesta come segnale spontaneo quando il rapporto individuo-ambiente è compromesso e stimola all'attività per ristabilire l'equilibrio interrotto. Sulla base della legge del bisogno ("ogni bisogno tende a provocare reazioni atte a soddisfarlo") e dell'interesse ("ogni comportamento e dettato da un interesse") si arriva alla conclusione che l'educazione deve quindi basarsi su questi fattori spontanei del fanciullo per metterlo in condizione di fornire delle risposte adeguate alle esigenze naturali e sociali dell'attività. All'interno di questa visione funzionalista l'intelligenza viene concepita come capacità di trovare soluzioni a problemi nuovi per mezzo del pensiero secondo lo schema problema-ipotesi di soluzione-verifica, mentre la volontà diviene il processo che tende a riadattare l'azione, interrotta a causa di due gruppi di tendenze in conflitto, dando la precedenza a quelle che l'intelligenza ha individuato come superiori. L'educazione è funzionale nella misura in cui il fanciullo non è ostacolato nel suo libero farsi in modo autonomo in rapporto ai bisogni e agli interessi profondi. Ma ciò suppone uno sforzo poiché l'allievo, motivato da un interesse, è indotto a superare gli ostacoli che lo separano dalla meta che si è prefissa. L'insegnante, che, dotato di adeguata preparazione psicologica, conosce e sa analizzare i bisogni del fanciullo, ha solo il compito di suscitare gli interessi e di rimuovere la repulsione per lo sforzo presentando il lavoro da eseguire in forma ludica e gioiosa. Ma i bisogni e gli interessi sono sempre in qualche modo specificamente individuali, per cui la scuola deve essere "una scuola su misura" sia nel senso che deve rispettare e valorizzare le diversità di ciascuno, sia nel senso che essa ha il compito di selezionare i talenti. Comunque essa deve mutare l'organizzazione optando per soluzioni già presenti nella scuola attuale come le classi parallele (formate da alunni di capacità omogenee) o mobili (dove gli alunni si spostano per ciascuna materia nella classe corrispondente al proprio livello), le sezioni parallele (che offrono possibilità formative diverse), il sistema delle opzioni (porre accanto ad un programma minimo comune un'ampia offerta di possibilità di studio tra cui l'alunno possa scegliere). L'individualizzazione naturalmente coinvolge soprattutto l'aspetto metodologico: un metodo adeguato deve tenere conto della successione cronologica degli interessi, così come ci insegna la psicologia, e asseconda questa successione con interventi formativi ad essi corrispondenti. Inoltre la didattica più che insegnare contenuti specifici, deve stimolare attività in modo da educare deweyanamente alla vita, trasformando gli scopi futuri in interessi presenti per il fanciullo.
Legato all'Istituto J.J. Rousseau di Ginevra è anche A. Ferrière (1879-1961), noto soprattutto come artefice principale, divulgatore e organizzatore della cultura comune della "scuola attiva" in Europa. In questa veste già nel 1899 aveva fondato il Centro internazionale delle Scuole nuove, mentre nel 1925 crea, con Bovet e Claparède, il Centro internazionale dell'Educazione. Le sue idee sono contenute in numerose opere tra cui "Trasformiamo la scuola" (1920), "La legge biogenetica e la Scuola del lavoro o scuola attiva" (1922), "La libertà del fanciullo nella scuola attiva" (1923), "La scuola attiva attraverso l'Europa" (1948). Ferrière fu influenzato fortemente da Bergson, particolarmente dall'idea di "slancio vitale", la forza che muove l'evoluzione di tutti gli esseri viventi verso un fine spirituale e che si esprime nell'attività creatrice; di qui la svalutazione anche di un certo scientismo analitico che non può cogliere la specificità della realtà spirituale, accessibile solo all'intuizione. Egli dunque è scettico nei confronti di una psicologia che pretenda di pervenire a comprendere l'individualità concreta dell'allievo, che è un complesso di forze continuamente in trasformazione, essere semplice e complesso allo stesso tempo, attraverso procedimenti sperimentali quantitativi e analisi statistiche. Ciò non significa escludere la psicologia dall'orizzonte degli interessi pedagogici, ma limitarne la portata alle indicazioni metodologiche che può offrire, senza illudersi di trarre da essa fini o valori. La pedagogia può tuttavia avvalersi di alcune facoltà della psiche (conoscenza della funzione primordiale dello "slancio vitale", legge del progresso, legge dell'ereditarietà dei tipi psicologici, legge della ricapitolazione ontogenetica dell'evoluzione filogenetica) per perseguire i suoi obiettivi che ruotano attorno ai due pilastri costituiti dal principio del "gioco-lavoro" e dell'"interesse". Polemizzando contro la scuola tradizionale, verbalistica, intellettualistica e nemica della vita, Ferrière sostiene che lo scopo dell'educazione è prima di tutto guidare l'allievo a "far convergere la volontà e l'intelligenza verso una aspirazione ad elevarsi, favorendo il lento processo di adattamento al mondo e sublimando l'idea di questo adattamento in un ideale superiore". Anche il lavoro deve essere considerato una meta ideale, e insieme uno strumento formativo per raggiungere lo stesso ideale: perciò "la Scuola attiva insegna a servirsi di quella leva che in ogni tempo ha innalzato il mondo al di sopra di se stesso: il lavoro". In effetti la dimensione etica e spirituale è fortemente in Ferrière che in questa risolve anche quella sociale. Infatti "lo spirito della Scuola attiva può...condurre i bambini e gli adolescenti a donare se stessi. (..) Il lavoro in comune [condotto fin dai primi anni], non uno accanto all'altro ma in cooperazione, e il sorvegliare insieme il buon andamento di un piccolo organismo comunitario sono senza dubbio il mezzo migliore per favorire lo sviluppo del senso sociale". Quindi solo un'educazione che proceda dall'interno dell'animo può portare all'autogoverno scolastico e di qui alla partecipazione dei singoli alla vita sociale in modo responsabile. La Scuola attiva deve essere educazione alla libertà e nella libertà: perciò deve permettere all'allievo la piena realizzazione di tale libertà attraverso un ambiente in cui egli possa vivere ed essere operoso, procurandosi il sapere con una ricerca personale, da solo o in collaborazione.
Figura rilevante della corrente "scientifica" dell'Attivismo è anche quella del francese A. Binet (1857-1911) che dal 1899 incomincia a occuparsi di psicologia infantile, dedicandosi ad una ricerca (condotta con T. Simon) sul deficit di intelligenza allo scopo di inserire quegli individui in apposite classi differenziali. Ne scaturirà "La scala metrica dell'intelligenza", uno dei primi reattivi mentali che, successivamente rielaborato, diventerà il più famoso test per la determinazione del quoziente d'intelligenza (Q.I.) individuale. Questo strumento è indice della preoccupazione principale del suo autore, convinto assertore della necessità di fondare una moderna psicopedagogia: secondo Binet i problemi dell'educazione avrebbero dovuto essere affrontati su base scientifica, con metodi e procedure mutuati per lo più dalla psicologia. Attraverso l'osservazione e l'indagine sui soggetti effettuate con strumenti tarati come i test, si sarebbe giunti a concepire l'educazione intellettuale come una "ortopedia mentale" che con appositi esercizi avrebbe potuto attivare tutte le facoltà e tutte le risorse mentali dell'individuo.

3. Jean Piaget
Lo studioso che ha maggiormente contribuito a modificare l'immagine del fanciullo e dell'educazione nel nostro secolo è però Jean Piaget (1896-1980). Egli occupa un posto centrale e preminente nell'ambito della psicologia e pedagogia contemporanee (ma i suoi interessi hanno coperto un'area più vasta spaziando dalla biologia, alla logica, linguaggio, filosofia, diritto, etica, politica scolastica) per l'ampiezza e la profondità delle sue ricerche condotte con originalità di impostazione e applicate allo studio dell'età evolutiva. Legato a Claparède e Bovet, ha lavorato presso l'Istituto J.J.Rousseau di Ginevra, città dove ha fondato il Centro Internazionale di Epistemologia Genetica. Ha insegnato alla Sorbona di Parigi ed è stato molto presente e attivo in organismi internazionali come l'UNESCO e il Bureau de l'E'ducation. Numerosissime le sue pubblicazioni di carattere scientifico; per quanto riguarda l'educazione basta ricordare "Dove va l'educazione" (1948) e "Psicologia e pedagogia" (1969).
L'apporto effettivo di Piaget alla psicologia dell'età evolutiva consiste nell'aver dato una consistenza concreta e scientifica all'intuizione della pedagogia moderna (da Rousseau all'Attivismo) circa la specificità della natura infantile che nei suoi modi di pensare, agire, amare, fare, parlare è profondamente diversa da quella dell'adulto. L'originalità del suo approccio a queste tematiche sta nell'impostarne i problemi secondo rapporti comportamentali nei quali la molteplicità dei fenomeni, organici, psicologici, sociali, culturali deve confrontarsi con funzioni che implicano relazioni, rapporti, operazioni, adattamenti, assimilazioni, equilibrazioni, in rapporto sia alla costruzione di nuove strutture, sia agli stimoli derivanti dalle difficoltà e dalle lacune. La teoria piagetiana viene definita "genetica" perché segue gli sviluppi dell'intelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso le fasi proprie di ciascuna età spiegando il passaggio dall'una all'altra. Soprattutto studia lo sviluppo delle funzioni e delle strutture cognitive legato all'intelligenza, intesa in senso funzionalistico come capacità che permette al soggetto di adattare il suo comportamento alle modificazioni dell'ambiente. Piaget respinge sia l'impostazione preformistica (secondo cui la mente è dotata di principi innati), escludendo una struttura senza genesi, sia quella associazionistica (che fa derivare ogni contenuto dall'esperienza), escludendo una genesi che non tragga origine da una struttura. In realtà la formazione dell'intelligenza ha carattere costruttivo, nel senso che essa costruisce continuamente schemi d'azione e strutture mentali attraverso lo scambio dinamico che il soggetto intrattiene con l'ambiente seguendo un itinerario di equilibrazione per modificazioni successive in virtù delle quali ogni struttura mentale entra a far parte della struttura precedente con funzioni di ristrutturazione dell'insieme. In altri termini la psiche infantile si costruisce su una dotazione ereditaria di riflessi che vengono successivamente trasformati in azioni dirette verso una meta non innata; a questa trasformazione corrisponde la creazione nella mente di una struttura, uno schema. Sotto la spinta di nuovi stimoli si formano progressivamente nuove risposte attraverso l'arricchimento e la modifica dell'organizzazione mentale (assimilazione-accomodamento-adattamento). Il soggetto non possiede quindi una struttura a priori, ma è un centro di funzionamento che costruisce, lungo un processo aperto e indefinito, strutture le une dopo le altre con particolari caratteristiche di totalità, trasformazione, autoregolazione varianti a seconda dell'età e degli stadi evolutivi.
Per quanto attiene alla pedagogia, Piaget ha sempre sostenuto la necessità di un suo passaggio ad una fase scientifica con precisi punti di riferimento nella psicologia sperimentale, nella sociologia e nei raccordi interdisciplinari, anche se non giunge a concepirla come una disciplina puramente applicativa. L'educatore deve avere una preparazione psicologica e deve conoscere quanto gli viene offerto dalla psicologia, ma tocca poi a lui vedere come potrà utilizzare questo bagaglio conoscitivo ideando un insieme di tecniche da sperimentare e adattare personalmente. Certo Piaget ritiene che i tempi e la successione delle fasi di sviluppo psicologico siano immodificabili, togliendo in tal modo rilevanza ed efficacia all'intervento dell'adulto che non può né cambiare né accelerare questi aspetti. L'educazione dunque può solo preparare l'ambiente alla loro comparsa o al loro rinforzo. Poiché il motore dell'intelligenza è la sua azione, l'educatore deve predisporre le condizioni idonee all'esercizio di questo fare, adeguando le sue richieste al livello di sviluppo dell'allievo e costruendo situazioni perché questo adeguamento si produca. Questa centralità del fare (che si traduce in un "far fare) costituisce il punto di vicinanza di Piaget con l'attivismo. Perciò lo scienziato svizzero, se ha sempre insistito sulla necessità di un adeguamento della scuola alle scoperte della psicologia, ha caldeggiato anche un nuovo profilo professionale degli insegnanti che conciliasse la padronanza dei contenuti disciplinari con una solida preparazione psicologica e un'adeguata capacità di gestione dei metodi e della scuola secondo valenze interdisciplinari. In questo senso la didattica deve essere psicologica e l'insegnante un ricercatore in grado di trovare le condizioni migliori per l'apprendimento e le sottostanti dinamiche psicologiche. Si spiega così anche lo sforzo di Piaget di indagare e chiarire le strutture logiche, linguistiche metodologiche delle discipline in quanto, insieme con la delineazione dei momenti di costruzione, formazione e mutamento delle strutture logiche, psicologiche, cognitive, linguistiche, etiche ecc. sarebbe stato possibile dare un'impostazione nuova e funzionale dei metodi, dei curricoli e della programmazione scolastica. In un contesto storico contrassegnato da profondi cambiamenti sociali, economici e tecnologici, Piaget reca in tal modo il suo contributo ad un adeguamento della scuola e dell'educazione nel delicato momento del passaggio da una scuola d'élite a una scuola di massa e a una formazione permanente.

4. La Gestalt
Accanto a quella funzionalista, si sviluppa agli inizi del '900 un'altra teoria psicologica di rilevante importanza anche per la pedagogia: si tratta della "psicologia della forma" (in tedesco Gestalt), che si sviluppò, almeno all'inizio, in Germania sotto l'influsso di una forte ripresa degli studi kantiani. Il nucleo centrale della teoria è costituito dall'idea che la vita psichica umana sia costituita da strutture (o forme) che raccolgono in unità globali dotate di una loro organizzazione interna i vari elementi costituenti. La teoria gestaltista dunque si pone in atteggiamento fortemente polemico nei confronti dell'impostazione associazionista, contro cui intende far valere il principio opposto che "il tutto è più che la somma delle parti". Di qui una serie di ricerche per individuare soprattutto le leggi che governano la percezione e i modi con cui l'intelligenza opera per risolvere i problemi posti dall'adattamento all'ambiente. Tra i Gestaltisti ha particolare rilevanza per la pedagogia la figura di M. Werthheimer (1880-1943), specie per le sue ricerche sul "Pensiero produttivo" (1920) che concernono i processi mentali superiori e l'apprendimento inteso come capacità di risolvere problemi (problem solving) mediante apposite strategie mentali. La sua indagine prese spunto da un'esperienza vissuta come ispettore scolastico durante la quale egli poté constatare come gli insegnanti tendessero a fornire procedimenti precostituiti per la soluzione dei problemi piuttosto che stimolare l'attività autonoma dei ragazzi. Ne conseguiva un apprendimento passivo e mnemonico che falliva di fronte a situazioni nuove e perciò inadatte ad una semplice applicazione meccanica delle regole. Il pensiero risulta produttivo quando è in grado di percepire globalmente la forma del problema mediante un insight, cioè un'intuizione che consenta di operare in modo originale e creativo una strutturazione e ristrutturazione gli elementi del problema. Secondo Wertheimer l'insegnante è efficace se "insegna il meno possibile" e invece pone gli allievi di fronte al problemi risolvibili con strategie che siano alla loro portata, aiutandoli e stimolandoli ad essere attivi. Al massimo può insegnare modi di procedere produttivi che per la loro globalità e astrattezza si prestino a assumere la veste di uno "stile cognitivo" (non certo una e un insieme di regole) da impiegarsi in situazioni diverse. Un simile approccio non risulta rilevante solo nell'area delle discipline logico-formali, ma soprattutto nelle situazioni concrete della vita quando l'individuo è chiamato ad attivare strategie produttive nei confronti dell'ambiente esterno.

4. L'attivismo in Francia e in Svizzera
Il movimento delle "scuole nuove" comprende molte figure, anche diverse per formazione e matrice culturale, che hanno cercato di realizzare nelle loro attività professionale lo spirito dell'Attivismo, visto come rivoluzione da attuare concretamente nell'istituzione scolastica. Perciò la loro preoccupazione maggiore è quella di stabilire un rapporto tra quest'ultima e le sfere della cultura e della politica, che ciascuno realizza con soluzioni diverse sia per i valori di riferimento sia per gli strumenti didattici anche se denominatore comune è sempre costituito dalla volontà di rendere il fanciullo protagonista della scuola.
Convinto seguace dell'Attivismo è stato il francese R. Cousinet (1882-1973), maestro elementare, ispettore scolastico e infine professore alla Sorbona. Nell'opera "Un metodo di lavoro libero per gruppi" (1925) espone la sua idea (ripresa e sviluppata anche in lavori successivi come "L'educazione nuova" e "La vita sociale dei ragazzi" del 1950) di un metodo incentrato sull'autonomia del discente nel processo di apprendimento attraverso la promozione della sua socialità. Quest'ultima non viene favorita nella scuola tradizionale che non solo scoraggia la comunicazione e la cooperazione, ma impedisce anche l'individualizzazione con una didattica corale e indifferenziata. Il metodo di lavoro per gruppi risulta il più idoneo perché consente nello stesso tempo di stimolare la mente e di sviluppare le relazioni con gli altri. L'attività di apprendimento si svolgerà così all'interno dei gruppi che gli allievi formeranno in modo spontaneo e libero, ma non fisso poiché i rapporti tra i ragazzi possono mutare nel tempo. Certo il gruppo può essere fonte non solo di esperienze e crescita comune sia sotto il profilo affettivo che intellettuale, ma anche di conflitti che possono metterne a rischio la compattezza. Tuttavia a parere di Cousinet il gruppo è sempre in grado di gestire questi elementi negativi e di evolvere verso soluzioni proficue, favorendo la crescita morale e inducendo l'autodisciplinamento dei comportamenti. Questo metodo poi, oltre a sviluppare la massima socializzazione di ognuno, realizza anche il massimo di individualizzazione, dato che ognuno contribuisce al compito collettivo offrendo un'attività adeguata alle sue attitudini e svolta secondo i propri ritmi, educandosi a dare il meglio di sé a vantaggio proprio e del gruppo sociale in cui vive.
Cousinet pensa ad una classe organizzata con una notevole quantità di materiale e strumenti didattici per consentire ad ogni gruppo di procedere autonomamente. Il lavoro, anche di tipo intellettuale, è basato principalmente sull'attività di ricerca e perciò utilizzerà dei "documenti" appositi divisi per materie. Esso si orienterà sia verso lo studio del reale attraverso l'analisi (una particolare attenzione è dedicata alla storia materiale), sia verso le attività creative ed espressive.
L'insegnante è a sua volta un membro del gruppo, lavoratore, ricercatore e collaboratore: dovrà informare, aiutare e orientare, ossia di creare le condizioni e le notizie utili perché l'allievo si formi da sé nell'esperienza con gli altri. I gruppi si possono formare e sciogliersi liberamente, e liberamente scegliere l'attività da esercitare dopo che l'insegnante avrà illustrato preliminarmente ciascun lavoro. Egli si porrà, come modello di ordine e comportamento, a disposizione dei gruppi, collaborando con essi nei limiti dell'aiuto richiesto. Soprattutto sarà uno che "lavora con gli altri, non chi fa lavorare gli altri".
Una forte carica innovativa viene dalle indicazioni metodologiche del francese C. Freinet (1896-1966), fondatore fin dagli anni Cinquanta del Movimento di Cooperazione Educativa (MCE). Maestro elementare in un paesino di montagna della Provenza negli anni seguenti la prima guerra mondiale, inizialmente influenzato dalle correnti dell'educazione nuova che facevano capo a Ferrière, a Cousinet e alla scuola ginevrina dell'Istituto Rousseau, se ne distacca, pur raccogliendone l'ispirazione di fondo, perché non tenevano sufficientemente conto degli aspetti sociologici dell'educazione. Infatti la pedagogia pratica che si poteva ricavare da quelle teorie era difficilmente utilizzabile da chi doveva operare in ambienti operai e contadini. Occorreva dunque una "pedagogia popolare" che riconoscesse validità culturale agli interessi infantili delle classi sociali inferiori senza pretendere di esprimerli e sostituirli con gli interessi previsti dalla ricerca teorica e imposti dai programmi ufficiali. Del resto secondo Freinet la mente infantile è come un'acqua che scorre libera finché non trova un alveo in cui incanalarsi, che "va a tentoni" ( procede per prove ed errori, come afferma la psicologia) finché non è indirizzata. Appunto questo è il compito della scuola: orientare e incanalare nelle strutture della cultura umana l'esperienza del bambino affinché questa trovi un arricchimento e un indirizzo adeguato. La scuola deve rispettare la spontaneità e promuovere l'attività, favorire la ricerca e la cooperazione, superare l'individualismo e riconoscere le radici della personalità individuale e comunitaria. Pertanto essa partirà dai bisogni e dalle attività spontanee dei ragazzi che devono poter trovare soddisfazione in attività cooperative e socializzate senza perdere lo slancio creativo e l'immediatezza iniziali. Ma è indispensabile, data la rilevanza di questa dimensione nella vita della persona, che la scuola educhi alla socialità e con la socialità. Essa si ritrova come valore essenziale soprattutto nella cultura popolare, che pertanto deve essere difesa e valorizzata e non estirpata come solitamente accade.
Per realizzare questi obiettivi Freinet decide di mettere da parte il tradizionale libro di testo (che è veicolo di trasmissione di una cultura già strutturata e che contiene un sapere astratto e inutile) ed elaborare un metodo consistente in tre "tecniche" (termine che allude alla valenza operativa di questi strumenti didattici). Innanzitutto il "testo libero" che sostituisce la tradizionale composizione in cui il bambino è costretto a svolgere un enunciato dall'insegnante, e che esprime ciò che in quel momento interessa più vivamente il singolo o la classe. I bambini scrivono testi liberi tanto nel contenuto che nell'occasione, sollecitati da un clima contrassegnato da intensa conversazione e da vivace e attento scambio di esperienze. La gamma degli argomenti sarà ampliata da esperienze, ricerche e attività di documentazione. Tutto questo materiale verrà a costituire il nuovo libro di testo che naturalmente dovrà essere stampato. La "tipografia scolastica" - la più nota delle tecniche freinetiane - è costituita da un complessino di attrezzi (caratteri a stampa, piccola pressa, compositoi, rullo per inchostro ecc.) utilizzabile anche per l'apprendimento iniziale della lettura e della scrittura (in tal modo motivato e organizzato collettivamente) e per la stampa di un giornale scolastico, il cui contenuto è però elaborato con il criterio del testo libero. Saranno gli alunni a gestire la tipografia non solo dal punto di vista manuale, ma anche da quello redazionale. In tal modo tutti gli apprendimenti disciplinari (grammatica, aritmetica, storia, scienze) vengono a ruotare ad una serie di laboratori di lavoro pratico (agricoltura, artigianato, commercio) e alla realizzazione pratica del giornale. I testi individuali dovranno essere spesso fusi in un testo comune che richiederà un preliminare lavoro di autocorrezione da parte dei piccoli redattori i quali, mediante votazione paritaria e democratica, assegneranno anche i voti ai singoli "pezzi". Infine, partendo dalla soluzione dei problemi metematici posti dalla vita della classe e dalla gestione della tipografia, si darà vita al "calcolo vivente", ultima delle tecniche finalizzata a motivare l'apprendimento e l'esercizio aritmetico. Il giornale scolastico servirà a socializzare le proprie esperienze con la comunità e le altre scuole che svolgono la stessa attività, in modo che il mantenimento del retaggio della propria identità si apra alle esperienze altrui rafforzando lo spirito si cooperazione e di confronto per il raggiungimento di obiettivi più ampi. Infatti i testi stampati si possono inviare ai compagni di classi omologhe di altre sedi, e si può sollecitare una risposta, così che si possa impiantare una corrispondenza interscolastica molto stimolante e feconda. L'educazione popolare diviene così educazione sociale e movimento di riforma politica. Ovviamente queste tecniche, diversamente combinate e adattate, possono dare luogo ad altre soluzioni didattiche rispondenti a a diverse esigenze poste dall'ambiente e dagli allievi: per Freinet è importante che le tecniche impegnino attivamente i soggetti e soprattutto che le attività abbiano sufficienti motivazioni in modo da conferire al processo di apprendimento il suo andamento naturale. In questo contesto la figura professionale del maestro deve naturalmente assumere una nuova conformazione, spogliandosi della disciplina e dell'autoritarismo per diventare cooperatore dell'attività degli alunni: di essi deve saper suscitare le energie creative ed espressive incanalandole in centri di interesse sui quali si organizzerà la stesura dei testi e tutta una serie di nuove attività, con un'abbondanza di materiale che pone più problemi di gestione che di reperimento.
Legato allo spirito e all'ambiente culturale dell'attivismo svizzero è anche R. Dottrens (1893). Collaboratore di Claparède e successore di Bovet nella cattedra di pedagogia a Ginevra, nel 1928 crea la scuola sperimentale del Mail dalle cui esperienze trae spunto per le sue opere quali "L'insegnamento individualizzato", "Nuove lezioni di didattica", "La scuola moderna", "Nuovi metodi e tecniche fondamentali", "Pedagogia sperimentale e sperimentazione". Alieno da ogni teorizzazione astratta, Dottrens si batte per una pedagogia che si liberi dell'empiria che l'ha caratterizzata finora per diventare sempre più una scienza in modo da fornire un'educazione adatta ai bisogni e alle possibilità del nostro tempo. Essa deve fondarsi su almeno due principi generali : quello di educazione normale (che deve far vivere all'alunno con consapevolezza la vita del presente e prepararlo a quella di domani) e quella dell'azione emancipatrice (che deve formare la coscienza sociale della personalità. In vista di questo scopo la scuola necessita di un rinnovamento radicale che deve investire i programmi, i metodi (Dottrens propone ad esempio un nuovo metodo globale per l'insegnamento della lettura), l'organizzazione e la struttura giuridica del suo ordinamento. A tali condizioni l'insegnamento non dovrebbe più presentarsi come trasmissione di sapere destinato a chi non sa, ma collaborazione tra chi ha desiderio d'imparare e chi può offrire esperienza e consiglio. Ma la fama di Dottrens è però legata al metodo delle schede che serve per l'individualizzazione dell'apprendimento dopo la lezione e gli esercizi di applicazione: le schede individuali sono costituite da cartoncini in cui il maestro assegna esercizi e problemi speciali con domande che corrispondono alle capacità e alle difficoltà reali. In tal modo ciascun alunno ha un lavoro corrispondente ai suoi bisogni e al livello dei suoi mezzi. Del resto la sintesi di insegnamento collettivo e individualizzato può attuarsi solo se l'insegnante tiene presente il complesso delle competenze dei suoi ragazzi, di cui costruisce una sorta di storia scolastica attraverso l'uso delle schede, intese non come prodotti prefabbricati ma come strumenti da costruire volta per volta in rapporto alle esigenze della classe.
Un esperimento pedagogico del tutto particolare e perciò significativo, è quello condotto da A. Neill (1883-1973) nella comunità educativa di Summerhill a partire dal 1921. La comunità ospitava ragazzi dai cinque ai sedici anni ed era organizzata nella forma tipica della scuola nuova (con laboratori, convitto, officine, spazi aperti in campagna ecc.): Neill, che si ispira, con un personale approccio libertario, alla lezione psicoanalitica nell'interpretazione radicale di W. Reich, vi conduce la sua esperienza fondandola sul principio della non direttività. Convinto, come Rousseau e Tolstoj, della bontà originaria dell'essere umano che lo renderà da adulto una persona interiormente ricca e in grado di essere felice, Neill ritiene che il compito dell'educazione sia quello di sviluppare l'uomo nella sua integralità per renderlo capace di affrontare il mondo con la pienezza delle sue facoltà e soprattutto in modo autonomo e libero dal condizionamento di ogni autorità. Tale obiettivo viene solitamente ostacolato dalla società e dagli adulti che tendono ad imporre al bambino un modello comportamentale per lo più negatore di ciò che nella sua natura è più peculiare. E' indispensabile rispettare la libertà del bambino per non compromettere il suo sviluppo provocando blocchi o devianze provocate dal tentativo di forzare le sue necessità psicologiche in nome di moralizzazioni o socializzazioni precoci. Va dunque evitato ogni tipo di intervento che, inducendo o alimentando sensi di colpa, produce solo una personalità priva di autonomia e sottomessa all'autorità. Il rispetto della libertà reciproca e la pretesa di ciascuno (compreso l'educatore) a salvaguardarla da ogni violazione, sono, secondo Neill, il migliore antidoto contro i rischi opposti dell'autoritarismo e dell'anarchia. Perciò a Summerhill verrà praticata la coeducazione secondo un itinerario educativo fondato sull'amore e l'approvazione , senza forme di costrizione in rapporto alle attività di apprendimento. Le classi sono formate sulla base dell'età e degli interessi e seguono a turno i vari corsi disciplinari le cui lezioni sono tenute per lo più sotto forme di laboratorio. Non esiste l'obbligo della frequenza il cui rispetto è implicitamente richiesto dalla necessità di non essere esclusi dal gruppo per effetto di un apprendimento disomogeneo. La giornata è organizzata in modo vario: alla mattina le lezioni teoriche, il primo pomeriggio è libero, mentre dalle diciassette in poi si svolgono attività pratiche di officina e di artigianato. I pasti si svolgono in comune così come i divertimenti e le altre iniziative di tipo ricreativo e culturale. Periodicamente l'assemblea della scuola, aperta a tutti e con parità di diritti, affronta democraticamente i problemi comuni con discussione e regolare votazione risolutiva.

5. Pedagogia non direttiva
L'esperienza antiautoritaria di Neill non resta un fatto isolato. Nella seconda metà del nostro secolo si hanno molteplici tentativi di pedagogia non-direttiva che sono variamente ispirate a ideologie libertarie, all'attivismo pedagogico, a progetti autogestiti, comunitari o descolarizzanti. Ciò che accomuna queste tendenze, talvolta anche molto eterogenee per obiettivi e matrice culturale, è la critica alla scuola tradizionale che viene accusata di inadeguatezza e giudicata irriformabile dall'interno. Di qui la prospettiva di un mutamento radicale sia nei metodi che nei modelli educativi e di vita con delle inevitabili implicazioni di tipo rivoluzionario sul piano sociale e politico.
Emblematico è il caso di C. Rogers (1902-1987), psicanalista e terapeuta, insegnante presso diverse università e centri di ricerca americani, che si convince della necessità di estendere alla pedagogia normale la sua terapia "centrata sul cliente" in seguito ad una esperienza di lavoro con giovani disadattati e asociali. Sul piano strettamente psicologico egli è convinto che ogni individuo sano e maturo sia capace di autoregolazione e tenda all'autoattualizzazione, cercando di realizzare una vita pienamente vissuta nello sviluppo completo delle proprie potenzialità e in armonia con l'ambiente. Sostenitore di una teoria della personalità di ispirazione umanistica, Rogers colloca al centro dell'individuo il "Sé", inteso come il sistema di percezioni coscienti e di valori che vengono organizzati autonomamente o indotti dall'esterno. Il suo sviluppo è naturalmente condizionato dal rapporto dell'io con se stesso e con l'ambiente sociale: tale rapporto può favorire la naturale tendenza all'autorealizzazione ma più frequentemente la mortifica e la ostacola, anche se ognuno, in condizioni normali, sa reagire a queste difficoltà per cercare di vivere il più intensamente possibile tutti i momenti della vita. Date queste premesse, i rapporti interpersonali sono considerati occasioni terapeutiche proficue sia di recupero delle persone in situazioni di disadattamento sia di sviluppo e crescita per quelle sane. La relazione di aiuto è la base della terapia rogersiana: essa si attua quando almeno uno dei due partecipanti, cercando di favorire nell'altro la crescita e la maturità nell'affrontare la vita, lo aiuta stimolandolo a valorizzare le sue energie e a migliorare l'adattamento diretto all'esistenza. Questa terapia è qualificata come "centrata sul cliente", in quanto l'individuo non è più un "paziente", ma è chiamato ad essere protagonista del processo di trasformazione positiva passando da una condizione connotata da non accettazione di sé, isolamento, rigidità comportamentale, sfiducia, eterodipendenza ad una caratterizzata da comunicazione, accettazione di sé, flessibilità, creatività, autodeterminazione. Ovviamente i risultati sono collegati anche al clima che si instaura con il terapeuta, che deve essere animato da fiducia nell'uomo e nella possibilità dell'individuo di affermare le sue potenzialità positive liberandosi dagli schemi rigidi impostigli, e il cui comportamento occorre che sia improntato a sincerità e autenticità, oltreché libero da tutti i pregiudizi che impediscono un criterio autonomo di valutazione e di responsabilità.
Come si diceva, Rogers estende la sua terapia centrata sul cliente ai processi educativi dei ragazzi normali, trasformandola in una pedagogia della non direttività. Si tratta di sostituire ad un apprendimento insignificante e imposto dall'esterno, un altro significativo che nasce dall'esperienza e dai processi vitali profondi dell'individuo, e che, comportando una partecipazione globale della personalità di quest'ultimo, si qualifica come automotivato e autovalutato. Naturalmente si presuppone che la persona sia naturalmente interessata ad apprendere e in grado di vincere le resistenze interne verso ogni apprendimento significativo. Secondo Rogers la scuola è in crisi perché, di fronte ad un mondo in rapido cambiamento e pieno di tensioni potenziamente esplosive non sa fornire un'efficace offerta formativa. Solo un apprendimento significativo comporta quella disponibilità della persona a cambiare per rispondere positivamente alla esigenze di adattamento che imposte dalle contingenze dell'esperienza contemporanea. E' necessaria una pedagogia non direttiva nel senso che non deve essere il maestro a cambiare l'alunno, ma è quest'ultimo che si cambia mentre apprende. Pertanto bisogna rivedere radicalmente il ruolo e la funzione dell'insegnante che non deve mutare solo la propria concezione della didattica ma anche la propria personalità e la propria capacità di relazionarsi. Egli non deve imporre nulla: né deve fare lezione né interrogare a meno che non sia richiesto dagli allievi. Il suo compito si risolve nel presentare la tematica di un determinato corso, mostrando il materiale bibliografico e dichiarando il proprio ambito di competenza. Gli studenti lavorano in gruppo in modo paritetico e con piena libertà d'espressione, svolgono attività di ricerca in piena autonomia anche deviando dalle indicazioni fornite, e procedono all'autovalutazione. Poiché il pilastro del lavoro scolastico consiste nell'apprendimento e non nell'insegnamento, il docente interviene solo su loro richiesta ed esclusivamente al fine di facilitare il raggiungimento dei loro risultati.
Una proposta di pedagogia alternativa viene dal brasiliano P. Freire (1921-viv.), fondatore del Movimento brasiliano di educazione popolare e autore del famoso "Pedagogia degli oppressi". Il suo interesse non è solo specificamente pedagogico teso a definire una nuova tecnica di alfabetizzazione (egli fece esperienza della piaga dell'analfabetismo nel Nord-Est del Brasile), ma più generalmente è rivolto a suscitare una critica alla situazione sociale presente per la ricerca di un suo superamento secondo modalità non imposte ma individuate dagli stessi oppressi. Saranno proprio questi ultimi, una volta che non si sentiranno più culturalmente e ideologicamente succubi degli oppressori ma cercheranno di recuperare e restaurare la loro umanità e con essa anche quella dei loro nemici. "Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro oppressori". La pedagogia dell'oppresso si articolerà dunque in due momenti distinti: il primo in cui gli oppressi prendono coscienza del mondo dell'oppressione e si impegnano a trasformarlo; il secondo in cui questa pedagogia si trasforma in pedagogia degli uomini tutti che sono in "un processo di permanente liberazione". Per il raggiungimento di questo fine occorre anzitutto superare l'educazione tradizionale, che è centrata sul maestro e che richiede dall'alunno un atteggiamento di passiva ricezione in quanto è supposto privo di sapere. L'educazione alternativa è invece fondata sul dialogo, secondo il modello socratico: qui infatti si verifica il superamento del dualismo educatore-educato in quanto entrambi diventano co-autori e soggetti dello stesso processo in cui crescono e si formano insieme. Inoltre nel dialogo, che è fondato sull'amore e sulla fiducia, l'autorità ha valore solo se si pone al servizio della libertà, prospettando una visione della realtà come mutamento e sviluppo attuato dagli uomini che vogliono diventare padroni del proprio destino. Il dialogo dovrà in primo luogo definire i contenuti programmatici dell'educazione: i giovani affronteranno il tema più rilevante per loro, quello della realtà attuale e della sua problematizzazione, proprio attraverso la costruzione del curricolo e del programma, che diventerà così uno strumento indispensabile per rendere la propria azione più significativa e incisiva. Inoltre la ricerca dialogica può consentire all'uomo il raggiungimento della presa di coscienza di se stessi attraverso la riflessione sul processo della sua esistenza. L'alfabetizzazione rappresenta naturalmente un obiettivo importante ma non sufficiente: essa deve essere accompagnata dalla capacità critica che solo il dialogo comunitario può suscitare. Pertanto l'insegnamento parte da "quadri-situazione" in cui le parole vengono accostate ad immagini significative della situazione sociale e politica degli oppressi, che verranno opportunamente discusse; inoltre si ricorrerà a "parole generatrici", alfabeticamente ricche ma anche dense di significato educativo da cui iniziare l'apprendimento di lettura e scrittura. Attraverso la coscientizzazione come pedagogia degli oppressi Freire intende non solo fornire una sufficiente base culturale e una prima educazione politica, ma anche evitare che le masse degli sfruttati diventino preda di una "colonizzazione educativa" esterna che li renderebbe interiormente e non solo socialmente ed economicamente dipendenti.
Fortemente critico e polemico verso la società contemporanea industrializzata e le sue istituzioni culturali è anche I. Illich (1926-), fondatore nel 1961 del Centro interculturale di documentazione di Cuernavaca in Messico. Leader del movimento di "descolarizzazione", ha dedicato all'educazione due scritti fondamentali "Descolarizzare la società" (1971) e "Distruggere la scuola" (1972). Secondo Illich il male fondamentale della società contemporanea sta nel mito dell'uguaglianza che alimenta e formalmente proclama da un lato, e la effettiva disuguaglianza che produce dall'altro. Inevitabilmente la scuola è il centro di produzione dell'ideologia oppressiva e mistificante del potere politico e socio-economico: poiché non è possibile riformarla, bisogna abolirla. Per questo l'attuale è l'era della "descolarizzazione": la cultura non è che una merce, venduta in un luogo chiamato scuola, distribuita dagli insegnanti, consumata dagli allievi che ne restano indottrinati e condizionati. Il vero programma della scuola, occulto dietro quello apparente, è di inculcare la passività e di indurre al consumo "obbligatorio e competitivo" di una cultura fittizia e mistificante a fini di promozione e successo sociale. Poiché la scuola tende ad autoaccreditarsi come unica fonte di acculturazione per un efficace inserimento in un apparato economico fondato sul profitto e sullo sfruttamento, essa costituisce il cuore del sistema di riproduzione sociale. Con la sua eliminazione l'intero sistema entrerà in una crisi irreversibile da cui potrà emergere una società più libera: il progetto pedagogico si intreccia fino all'identificazione con quello di rivoluzione politico-sociale. In alternativa alla scuola si potranno proporre momenti formativi immersi nel sociale, cosicché l'individuo sia educato a contatto con l'esperienza, in un modo più diretto, umano e libero. Occorre sostituire alle aule e algli ambienti scolastici tradizionali strutture aperte: luoghi appositi per l'apprendimento formale (biblioteche, laboratori ecc.) e per l'apprendimento diretto tramite l'esperienza (botteghe, fabbriche ecc.).; iniziative e strumenti per mettere in contatto chi insegna e chi desidera imparare, anche per poter effettuare scambi di competenze; libera socializzazione mediante la formazione di gruppi di lavoro; creazione di un "annuario degli educatori" per la scelta degli esperti di cui avvalersi in base ai propri bisogni. L'intero progetto auspica la creazione di una "nuova convivialità" come fonte di democrazia, presuppone cioè che la società diventi luogo di scambio, di confronto e di contatti in modo che gli individui possano, attraverso anche un uso non alienante e più critico dei mezzi di comunicazione, liberamente scegliere tra diverse offerte formative nei modi e nei tempi rispondenti alle loro esigenze.
Un originale rapporto tra educazione non-direttiva e nuove tecnologie è proposto da S. Papert (1928-viv.), matematico e psicologo, noto soprattutto per avere ideato il linguaggio di programmazione LOGO, che ha permesso una rivoluzione nell'uso didattico del computer ripensandone il ruolo nel senso di una liberazione della creatività e della motivazione nel processo di apprendimento. Infatti questo linguaggio consente anche ai bambini di programmare guidando i disegni di una "tartaruga" che traccia disegni sullo schermo e rendendo quindi possibile un uso autodiretto e creativo della macchina grazie alla quale essi possono raggiungere i propri obiettivi anziché dipendere da programmi tracciati da altri. In opere come "Mindstorms" (1984) e "I bambini e il computer" (1993), Papert sostiene che la scuola tende a negare la naturalità dell'apprendimento attraverso l'imposizione di programmi rigidi e di schematismi che non recepiscono e non accolgono le motivazioni e i bisogni culturali del discente. Normalmente le persone risolvono i propri problemi in modo pratico, escogitando di volta in volta le soluzioni attraverso tentativi di cui valutano gli effetti e i risultati (Papert concepisce la conoscenza come un processo di costruzione). La scuola vi sostituisce un procedimento astratto ed estrinseco centrato e gestito da e sull'insegnante, che non è mutato con l'introduzione delle nuove tecnologie usate in questo contesto in modo parziale e riduttivo. Esse invece possiedono un potenziale rivoluzionario, poiché il LOGO consente un uso diretto della macchina da parte del bambino che può delineare un suo personale itinerario di apprendimento connesso con il proprio ambiente, le proprie esperienze, le proprie esigenze, la propria personalità. Dato questo modello di apprendimento come costruzione individualizzata, la scuola può trasformarsi in istituzioni sostanzialmente autonome e direttamente gestite dai cittadini, collegate tra loro da reti telematiche per evitare il rischio di isolazionismo e frammentazione.
Anche in Italia si sono avute diverse esperienze educative che hanno proposto modelli educativi alternativi alla scuola ufficiale e ai valori sociali dominanti.
Negli anni seguenti la seconda guerra mondiale don Z. Saltini (1900-1981) fonda nel Grossetano la comunità di Nomadelfia ("dove la fratellanza è legge") al cui interno si creano delle strutture famigliari di circa dieci giovani (per lo più abbandonati, sbandati, orfani, minorati) affidati a coppie sposate o a "mamme di vocazione". Si tratta del progetto di un sistema sociale basato sulla democrazia diretta e sullo spirito evangelico, con comunanza dei beni e del lavoro. La comunità procederà ad una propria autogestione, dandosi una propria costituzione e un sistema di strutture di servizio autonome. Essa è innanzitutto una famiglia aperta per tutti i giovani bisognosi (i "figli dell'abbandono"), che esercita nella sua interezza una educazione globale, "una paternità e una maternità in solido", in qualunque momento, in qualunque contesto, per qualsiasi figlio della comunità. I figli vengono considerati di tutti e la famiglia si fonde e si identifica con l'intera comunità, che, almeno in origine, si proponeva anche come fattore di cambiamento sociale verso l'esterno.
Analogo l'itinerario pedagogico di don L. Milani (1923-1967), che dopo aver fondato a San Donato, presso Prato, una scuola popolare per emarginati e operai, viene trasferito a Barbiana nel Mugello dove trasforma la parrocchia in scuola per i figli dei contadini per lo più respinti da quella pubblica. Da questa esperienza nasce la famosa "Lettera a una professoressa", frutto di una stesura collettiva da parte di tutti i ragazzi della scuola. Anche in don Milani problematica sociale e istanza evangelica si connettono strettamente: non si può intendere la Parola di Dio senza pieno possesso del linguaggio con la sua riserva di valori e sentimenti; tuttavia la scuola, che dovrebbe rendere accessibile questa ricchezza, esclude i poveri malgrado il dettato costituzionale la sancisca come diritto di tutti. La suola pubblica è di fatto organizzata, con chiaro criterio classista, per i ceti dominanti che già possiedono, insieme con i mezzi economici, anche la cultura con cui tenere in posizione subalterna operai e contadini. Per questo la Scuola di Barbiana, se da un lato cerca di fornire ai montanari del Mugello gli strumenti intellettuali per essere a pieno titolo cittadini, dall'altro non intende adeguare i giovani ai valori borghesi ma vuole salvaguardarne l'identità culturale con un'educazione civile e non confessionale in vista della costruzione di una società più giusta, secondo l'insegnamento evangelico che indica nella povertà la sede di valori da difendere. Poiché "non si possono fare parti uguali tra diseguali", la scuola popolare sarà del tutto specifica, dei e per i poveri, senza le pretese ideologicamente mistificanti di essere per tutti. La scuola di Barbiana non è formalistica e disimpegnata; essa mira anzitutto alla coscientizzazione: dunque è dura, senza ricreazione né giochi. Don Milani è leader direttivo e indiscusso ma anche padre dei suoi ragazzi cui vuole evitare le bocciature ed emarginazione: il suo amore è severo e non esclude le punizioni corporali pur di ottenere da loro il massimo impegno. Egli è convinto dell'importanza essenziale della lingua come strumento di comunicazione e quindi anche di relazione sociale. Le classi dominanti detengono il potere perché, disponendo di una lingua più ricca, controllano, insieme con la comunicazione, il potere. Pertanto anche i poveri, se vogliono emanciparsi, devono padroneggiarla. Barbiana si caratterizza dunque per una didattica della lingua che valorizza la funzione espressiva in tutte le sue componenti in vista di una comprensione critica e obiettiva della realtà storica e sociale in cui si vive. Per la scrittura si privilegia una forma comunicativa semplice e diretta ("si scrive come si parla") per evitare qualsiasi caduta retorica finalizzata all'inganno e all'occultamento della verità. Quando si tratta di comporre un testo, questo viene scelto, organizzato e steso collettivamente: per la sua "ripulitura", si procede mediante discussione cercando di eliminare tutti gli aspetti inutili che ne limitano la comprensione (anche la "Lettera" è stata scritta in questo modo: sembra di una persona sola, invece è di tutti). Sotto l'aspetto metodologico, don Milani si fonda sull'esperienza diretta della classe e dell'ambiente, sull'ideale comunitario, sulla creazione di gruppi di attività, sul lavoro. A Barbiana non ci sono voti, promozioni o bocciature; non ci sono classi e ognuno procede secondo tempi, ritmi e interessi individuali; si pratica il mutuo insegnamento. Gran parte della "Lettera" è dedicata alla polemica contro la selezione scolastica, condotta secondo criteri classisti: la scuola si dimostra incapace di fornire un servizio per tutti e attribuisce la colpa ai ragazzi, o incapaci o svogliati, non considerandone i condizionamenti economici e sociali degli ambienti famigliari di provenienza (per cui è come "un ospedale che cura i sani e respinge i malati"), per cui ci si contenta "di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola". Da Barbiana giunge allora la proposta di "tre riforme: 1) non bocciare; 2) a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno; 3) agli svogliati basta dargli uno scopo". Quest'ultimo "bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null'altro che d'essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei. (..) Il fine giusto è dedicarsi al prossimo ..Non è più il tempo delle elemosine ma delle scelte. Contro i classisti, contro la fame, l'analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali". Anche per don Milani la scuola deve essere veicolo di riforma etica delle coscienze e di rivoluzione sociale.
Anche le esperienze di D. Dolci (1924-) a Partinico, Trappeto, Mirto si muovono nello stesso orizzonte morale e politico di Nomadelfia e Barbiana, sia pure con una matrice culturale laica e non violenta. Egli si propone di convogliare le energie di tutti, ma particolarmente degli emarginati e dei più poveri, per recuperare attraverso l'educazione l'umanità integrale della persona, alle cui energie creative si vuole dare espressione mediante una comunicazione dialogica e autentica. Questo fine è inseparabile dalla battaglia civile, politica e non violenta contro tutte le forme di massificazione, di oppressione, di sfruttamento. Le strutture economiche della società vanno trasformate attraverso la cooperazione; anche la scuola va riformata con la creazione di centri educativi improntati alla gradualità e al primato delle attività espressive, e caratterizzati dal lavoro di gruppo, dall'apertura alle famiglie, dal rapporto maieutico con l'insegnante, al fine di creare un sistema di educazione permanente e aperto in grado di valorizzare pienamente la comunicazione come forma di vita sociale fondata sull'amore e sul rispetto dell'altro.

6. La pedagogia cattolica e Maritain
Anche la cultura cattolica ha elaborato posizioni vicine all'attivismo pedagogico, sia pure non rinunciando ad assumere toni fortemente critici verso le formulazioni teoriche di stampo laico e naturalistico. Il punto di riferimento è costituito dall'enciclica "Divini illius magistri"di papa Pio XI del 1929: in essa il discorso pedagogico è inserito in una visione antropologica caratterizzata dal peccato originale che ha indebolito la volontà e ha introdotto il disordine nelle varie tendenze dell'animo. Anche la natura infantile, lungi dall'essere idealizzata, viene considerata corrotta e bisognosa di un intervento correttore. "Devesi illuminare l'intelletto e fortificare la volontà con le verità soprannaturali e i mezzi della grazia senza di cui non si può né dominare le perverse inclinazioni, né raggiungere la debita perfezione morale". Perciò come ogni attività è in rapporto a un fine, così anche l'insegnamento non può essere separato dal fine soprannaturale cui l'uomo è destinato e sottratto alla dipendenza dalla legge divina. Dunque "è necessario che tutto l'insegnamento e tutto l'ordinamento della scuola siano governati dallo spirito cristiano sotto la direzione e la vigilanza materna della Chiesa". Alla luce di queste affermazioni devono essere considerati i concetti principali dell'attivismo laico quali attività, spontaneità, interesse, collaborazione. Essi vanno reinterpretati alla luce di un modello teoretico prevalentemente tomistico secondo cui la potenza, costituita dall'attività dell'alunno, viene trasformata in atto dal maestro che possiede il sapere cui deve avviare il discepolo.
Esponente di spicco dell'attivismo cattolico è lo svizzero E. Dévaud (1876-1942), ispettore scolastico e professore di Pedagogia nell'università della natia Friburgo, autore di opere quali "Per una scuola attiva secondo l'ordine cristiano" (1934) e "La scuola affermatrice di vita" (1940). Partito, sulla scorta della lezione di Montaigne, da una critica al pedantismo, egli approda alla concezione di S. Tommaso secondo la quale l'insegnamento è come una medicina, un'arte che coopera con la natura attraverso l'opera del maestro. Quest'ultimo si pone al sevizio del discepolo che, con il suo principio vitale e attivo, resta l'artefice principale dell'acquisizione del sapere. Il maestro è "minister naturae" in quanto "muove il suo discepolo per mezzo dell'insegnamento a formare in se stesso, per virtù dell'intelligenza, i concetti intelligibili dei quali gli presenta dall'esterno i segni". I maggiori esponenti laici dell'educazione nuova (Claparède, Ferrière, Decroly) intendevano l'"attività" della scuola in rapporto ai bisogni del bambino. Dévaud, in linea coerente con la visione cristiana, oppone alla spontaneità istintiva (tipica degli animali) quella della ragione e della volontà (specifica dell'uomo). Egli rileva come i fautori laici dell'attivismo siano progionieri di una visione naturalistica incapace di sollevarsi oltre la meccanicità di interessi e bisogni; invece, l'attivismo cristiano si propone di far amare il sapere come lo strumento che permette di raggiungere i fini soprannaturali per i quali siamo stati creati, secondo il dettato evangelico che ci esorta ad "essere perfetti come il Padre.. che è nei cieli" In sostanza l'attivismo resta come indicazione di partenza e traccia operativa, ma per "condurre l'allievo alla verità". La scuola deve fornire un'educazione fondata sul "vero" e sul "bene", valori universali, perenni e propri della razionalità umana. Quindi "il fanciullo non deve essere educato per se stesso, egoisticamente, né per la società, qualunque essa sia, ma per Dio". La verità è Dio: perciò essa è una, eterna, infinita come lo è Dio. "Vivere il vero" significa vivere nello spazio (il luogo natio) e nel tempo (la propria epoca) secondo l'Infinito e l'Eterno. Occorre educare pertanto la persona nell'ambiente e mediante l'ambiente sociale, ma non in senso conformistico, ma per elevarlo e adeguarlo alla volontà divina. Si apprende il "mestiere" di uomo solo "facendo" l'uomo, che esclusivamente il cristianesimo presenta in modo integrale. Il naturalismo insiste sul sapere e sulla tecnica, ma è poi incapace di trasformarli in vita vissuta. L'attivismo cristiano (l'unico e autentico attivismo) intende educare alla vita attraverso il vero, in una scuola che vuole essere "affermatrice di vita". Peraltro l'uomo ha un destino eterno ma dei compiti temporali: dunque potrà raggiungere il fine ultimo attraverso l'azione mediatrice della scuola, la quale terrà opportunamente conto, nello svolgimento della sua opera, delle due dimensioni della vita umana. Di conseguenza l'ambiente non costituisce soltanto un fattore condizionante, ma "anche un fine particolare poiché, con le disposizioni innate dell'educando, determina quello stato futuro che è la vita alla quale la scuola deve preparare". L'ambiente viene valorizzato in quanto luogo provvidenziale voluto da Dio per servirlo trasformando in produzione utile al prossimo le risorse che la terra offre al lavoro. Ciascuno ha dunque una vocazione da realizzare sulla terra ed è qui solo per attuarla. La vocazione è costituita da tre elementi che sono: a) il progetto di Dio sulla persona; b) la natura individuale dell'essere personale; c) le circostanze esistenziali e le coordinate storico-spaziali dell'esistenza personale. La scuola naturalmente deve preparare l'allievo mettendolo in condizione di realizzare la sua vocazione senza peraltro indulgere a slittamenti di natura socialisteggiante come avveniva in molti esponenti dell'attivismo laico: l'uguaglianza è soprattutto uguaglianza davanti a Dio, ma non certo di stato sociale, così come uguali opportunità formative non possono tradursi in uguali destini lavorativi. La vocazione deve pertanto essere intesa sempre all'interno nello stato assegnato dalle circostanze, poiché l'ordine esige che ciascuno rimanga nella posizione sociale in cui è nato, fedele al destino di lavoro che la Provvidenza ha voluto per lui.
Il contributo più significativo alla teorizzazione di un attivismo cattolico viene da però da J. Maritain (1882-1973), il maggiore filosofo di indirizzo tomista che al problema pedagogico ha dedicato "L'educazione al bivio" (1943) e "L'educazione della persona" (1959). Polemizzando con gli esponenti della cultura laica, egli l'accusa di avere smarrito il senso integrale della persona; l'educazione contemporanea (liberale e marxista) risulta perciò "parziale" in quanto si preoccupa del metodo e disconosce i fini, è solo pragmatistica e sociologistica, privilegia lo specialismo e il volontarismo, si fonda sulla convinzione che tutto possa essere insegnato. Di fronte alla crisi della civiltà contemporanea occorre dunque una educazione nuova che sappia, ispirandosi ad un umanesimo integrale, farsi promotrice di un rinnovamento completo dell'umanità. In tale prospettiva "ciò che viene in primo luogo è la verità di cui è testimone l'educatore, il tipo ideale di vita che domina la sua intelligenza, la sua personalità". Quindi occorre una filosofia di cui la pedagogia è applicazione pratica, una filosofia pedagogica che sappia comunque trarre gli opportuni contributi dalle altre scienze che studiano l'uomo nel suo stato concreto. Si tratta dunque di superare le attuali visioni individualistiche e sociologistiche per giungere ad un nuovo "umanesimo integrale" (tale il titolo di un'opera del 1936) che non potrà non fondarsi che su una filosofia cristiana secondo l'insegnamento magistrale di S. Tommaso. Essa si esplica in una concezione personalistica in cui l'uomo è un universo a sé stante che può trovare solo in Dio la condizione di una sua piena realizzazione; quindi una concezione capace di superare ogni riduzionismo per accogliere tutte le espressioni dell'uomo, tutti i suoi valori, tutte le sue potenzialità. Compito dell'educazione "è formare un dato fanciullo, appartenente ad una data nazione, ad un dato ambiente sociale, ad un dato momento storico"; tuttavia la sensibilità per queste esigenze concrete e contingenti non piò essere disgiunta dalla coscienza della persona nei valori che appunto la rendono un universo e un assoluto. L'educazione dovrà dunque sviluppare contemporaneamente il senso della libertà e della responsabilità, "quello degli umani doveri, il coraggio di affrontare i rischi e di esercitare l'autorità per il bene generale e, al tempo stesso, il rispetto dell'umanità in ogni persona individuale".
Il maestro dovrà favorire nell'allievo (che resta, nella sua natura e nel suo spirito, il principale agente dell'educazione) la formazione delle cinque disposizioni principali: amore della verità, amore del bene e della giustizia, semplicità e apertura nei confronti dell'esistenza, senso del lavoro ben fatto, senso di e cooperazione. Il lavoro pedagogico sarà improntato al rispetto di quattro regole: a) incoraggiare e favorire le disposizioni che permettono lo sviluppo della vita spirituale; b) centrare l'attenzione sulla profondità della persona e sul suo dinamismo spirituale; c) assicurare e alimentare l'unità dell'uomo; d) liberare e non sovraccaricare l'intelligenza. Secondo Maritain "l'educazione propriamente detta non comincia che quando il fanciullo si adegua all'educatore, alla cultura, alla verità, al sistema di valori che egli ha la missione di trasmettergli": dunque nulla di più lontano dall'attivismo laico e da una concezione spontaneistica che parte dai bisogni e dagli interessi dell'allievo. Se il fine è la persona il cui sviluppo spirituale deve essere liberato e messo in posizione preminente rispetto a tutti gli altri scopi, allora la scuola si potrà definire propriamente "liberale". La formazione in essa impartita non sarà esclusivamente umanistica, ma cercherà di superare la divisione tra scuola classica e del lavoro, tra discipline umanistiche e tecnico-scientifiche lungo un itinerario curricolare che faccia seguire ad un corso di base un corso di orientamento verso scelte di vita mature e culturalmente definite. Quanto all'educazione morale, strettamente collegata a quella religiosa, Maritain sostiene una prospettiva pluralistica ma non agnostica: infatti lo Stato ha il dovere di educare i suoi cittadini ai valori che reggono la comune convivenza, anche se essi devono essere filtrati attraverso le diverse comunità di fede e di pensiero che vi imprimono un carattere e un messaggio particolare. Ne consegue che l'educazione religiosa deve essere assicurata, poiché la libertà dell'allievo può realizzarsi solo trovandosi di fronte a quella fede che sarà l'oggetto della sua scelta.

7. La pedagogia statunitense nella seconda metà del Novecento
Si è già avuto modo di vedere alcuni aspetti dello sviluppo della psicologia novecentesca nell'area europea. Anche negli Usa la ricerca sui processi cognitivi e sull'età evolutiva conosce una molteplicità di indirizzi e di scuole paralleli a quelli del vecchio continente con approcci fecondissimi nella pratica educativa e l'acquisizione di risultati di notevole valore teorico.
Il behaviorismo (o comportamentismo) è stata la corrente che fin dagli inizi del secolo ha visto registrare i maggiori consensi e i più interessanti sviluppi in rapporto al metodo, ai campi di ricerca, alle applicazioni. Essa si caratterizza per la forte ostilità nei confronti di tutte le impostazioni legate all'introspezione, al mentalismo, allo strutturalismo, alla psicoanalisi, all'associazionismo, a quelle che partono da ipotesi innatiste per sostenere che la psicologia è studio dei comportamenti osservabili. Passata dal un orientamento meccanicistico (come nel caso dei riflessi condizionati di Pavlov) ad uno studio più articolato dei rapporti tra stimolo (S) e risposta (R), la scuola ha progressivamente prestato maggiore attenzione alle affinità e alle differenze del comportamento degli animali e degli uomini, alle relazioni tra apparati biologici, fisiologici, organici e modalità di comportamento, alla presenza degli elementi attivi operanti nell'individuo a livello biologico, psichico, comportamentale nei rapporti con l'ambiente. Di qui la concezione dell'apprendimento come costruzione di legami associativi tra stimoli e risposte nell'interazione con l'esterno. Tra i suoi esponenti principali E. L. Thorndike (1874-1949), J.B. Watson (1878-1950), C.L. Hull (1884-1952). Tuttavia la figura di maggior spicco è certo quella di B.F. Skinner (1904-1990), in quanto ha dimostrato tutte le potenzialità del comportamentismo nel campo pedagogico. Professore in diverse università americane, ha sostenuto le sue idee in opere quali "La scienza e il comportamento umano" (1953), "Comportamento verbale" (1957), "Walden due" (1948), "La tecnologia dell'insegnamento" (1968), "Oltre la libertà e la dignità" (1971). Il punto di partenza della teoria di Skinner è la critica alla tesi che il pensiero ha un modo di funzionare autonomo, con proprie strutture, processi evolutivi, modalità di raccordi e di organizzazione dei dati dell'esperienza; in realtà il pensiero (come del resto anche il linguaggio e le altre funzioni superiori) è una forma di comportamento che non possiede una propria autonomia interna e di cui pertanto occorre conoscere le componenti. Skinner rifiuta la posizione degli attivisti che postulano una serie di motivazioni, bisogni, interessi immediati nel fanciullo. Presupponendo invece che determinati eventi (detti "rinforzi") abbiano un valore particolare per gli individui in quanto il loro prodursi riduce o aumenta lo stato di tensione interna, il modo più efficace per promuovere un certo tipo di condotta mentale sta nel mettere a punto rinforzi con caratteristiche contingenti (contingenze di rinforzo) tali da esercitare un controllo positivo del comportamento. Normalmente nell'educazione si fa ricorso al controllo disciplinare, mentre sarebbe più proficuo rafforzare le risposte, le condotte, le azioni ecc. ritenute positive con opportuni interventi. Si possono perciò tracciare dei programmi di rinforzo che determinano la quantità, la qualità, la frequenza dei rinforzi necessari per ottenere lo stabilizzarsi di certi comportamenti. Discriminare, generalizzare, astrarre non sono per Skinner atteggiamenti del pensiero e a un certo stadio dell'età evolutiva, ma comportamenti acquisiti in seguito a una serie di operazioni nell'ambito delle quali viene favorita quella ritenuta più valida. Lo stesso dicasi per il linguaggio, per le attività espressive e creative. In generale la società cerca di raggiungere questo obiettivo usando però termini e modi impropri, anche perché esiste una difficoltà reale nel rafforzare in termini immediati e temporali i comportamenti promozionali. Si tratta invece di puntare sulla scelta di appropriata di contingenze rafforzative, sulla semplificazione dei contenuti da apprendere, su passaggio lineare da un'unità di comportamento e di apprendimento all'altra, sul controllo immediato, sull'eliminazione dell'errore, sull'apprendimento individualizzato. Si rende dunque necessaria un'impostazione programmata secondo linee curricolari ben specificate, sia come gradualità di progressione sia come momenti di apprendimento e di verifica, in modo da ottenere un insieme organizzato di comportamenti che sia aperto, non ripetitivo e non meccanico. Ispirandosi al romanzo "Walden" di H. D. Thoreau (1854), Skinner propone di costruire una società in cui il rispetto della libertà e della dignità della persona viene ottenuto con un sistema educativo fondato sul condizionamento operante, senza punizioni e repressioni; una società paneducativa che anziché punire tardivamente i comportamenti negativi, si fondi sul rinforzo precoce di quelli desiderabili. Poiché l'istruzione tradizionale, mentre presuppone che le conoscenze necessarie vengano acquisite da tutti in modo uguale, trova poi difficoltà a individualizzare l'insegnamento per adattarlo ai ritmi di ciascuno, Skinner ritiene che sia necessario progettare delle sequenze di apprendimento uguali per tutti ma nello stesso tempo in grado di individualizzarsi per le esigenze di ciascuno e di verificare accuratamente i risultati ottenuti, utilizzando per la loro fissazione adeguate attività di rinforzo. La pedagogia deve diventare "tecnologia dell'insegnamento", avvalendosi del supporto di di tecnologie esterne. Infatti la pedagogia d Skinner, proprio presupponendo l'esame e il controllo analitico dei processi e delle strutture psichiche da formare negli allievi, privilegia la progettazione, la programmazione, l'istruzione programmata. In tale contesto si inserisce l'impiego delle macchine per insegnare: già realizzate nei primi esemplari fin dagli anni '20, Skinner le progetta, al fine di individualizzare l'insegnamento, secondo un modello a sequenza lineare. Nel caso più semplice si tratta di un tabulato con le unità di apprendimento proposte e la domanda, lo spazio per le risposte costruite, l'eventuale arresto nel caso di risposta errata, la possibilità di ritorno all'unità di apprendimento proposta o il passaggio rinforzato alle unità successive. In ogni caso esse si fondano sul principio di realizzare accurate sequenze di contenuti e quesiti che ogni alunno può affrontare con i propri tempi e modi, avendo la garanzia di un feedback immediato attraverso il rinforzo che segue alla risposta (variamente costituito da un avanzamento o blocco della sequenza, o da un mutamento di sequenza ecc.). Infatti la programmazione lineare permette l'individualizzazione dell'insegnamento, la possibilità di frazionare in maniera analitica i contenuti da apprendere secondo una progressione algoritmica che consente di evitare in modo totale l'errore, di favorire la retroazione, di fornire risposte costruite, di controllare immediatamente la risposta data, di realizzare progressi sicuri e costanti nell'apprendimento. In esso interesse, impegno personale, attenzione, memoria, nuove acquisizioni, risistemazione culturale si verranno a saldare con la padronanza dei metodi e delle tecnologie. E' chiaro che l'impiego di questi strumenti ai fini dell'insegnamento non si può certo inserire nella scuola tradizionale ma solo in un progetto che si propone di creare scuole modello, di formare insegnanti preparati, di semplificare e di programmare ciò che si deve apprendere, di migliorare la prestazione dei materiali utilizzati, di definire in modo più organico gli obiettivi, di costruire curricoli scolastici articolati nello spazio, nel tempo, nei contenuti, nei sistemi di verifica e di controllo.
Nel periodo tra le due guerre la pedagogia deweyana e il movimento della scuola attiva si affermarono con successo in America, poiché sostenevano un modello educativo che, nonostante alcuni errori e interpretazioni unilaterali, si fondava su solide basi pedagogiche, psicologiche e sociali. Malgrado fin dagli anni '30 si fosse avviato un processo critico nei confronti dei punti deboli dell'attivismo (soprattutto l'eccessiva importanza data ai metodi, all'attività e agli interessi del fanciullo a scapito dei contenuti culturali e dei fini educativi) in particolare da parte di pensatori neoumanisti (si è già considerata la posizione autorevole di J. Maritain), il colpo maggiore giunse verso la fine degli anni '50 quando l'ottimismo pragmatistico e la convinzione della superiorità economica, scientifica e tecnologica degli USA vennero scossi dalle difficoltà incontrate nella competizione militare e spaziale con l'URSS. Allorché il 4 ottobre 1957 fu lanciato il primo Sputnik sovietico, lo scacco di prestigio fu così traumatico da provocare un'ondata di sfiducia nei confronti di tutto il sistema scolastico. A quest'ultimo si chiese una maggiore efficienza che consentisse di raggiungere risultati educativi più concreti al fine di superare il presunto divario tecnologico. In questo clima di mobilitazione nazionale per migliorare i programmi scolastici e i metodi di insegnamento, venne convocata nel 1959 la Conferenza di Woods Hole dove venne fatto il punto su quanto era stato fatto e quanto restasse da fare per il potenziamento della qualità dell'istruzione nel sistema americano. La riunione, a carattere internazionale e organizzata con la presenza di circa trentacinque tra pedagogisti, psicologi, esperti nel settore della formazione, mentre segnò la data di nascita delle moderne teorie sul curricolo e sulla programmazione e progettazione didattica, fu diretta e animata dallo psicologo J. S. Bruner. Da allora la ricerca psico-pedagogica americana ha puntato soprattutto sullo studio dei processi di apprendimento, sulla messa a punto di nuovi curricoli scolastici più adatti alla psicologia dell'educando e più rispondenti alle esigenze di una società tecnologicamente avanzata in continuo sviluppo.

8. Bruner
Nato a New York nel 1915, J.S. Bruner è stato docente di psicologia ad Harvard, disciplina dove si era formato alla scuola del Funzionalismo, della Gestalt e del Comportamentismo e in cui raggiunge presto una posizione di punta con una concezione cognitivista di tipo strutturalista. Il suo itinerario intellettuale è assai complesso. Incomincia negli anni Cinquanta quando con alcuni collaboratori avvia una serie di ricerche sui processi cognitivi (percezione, formazione dei concetti, strategie) che culminano con la pubblicazione de "Il pensiero" (1956). Prendendo le distanze dal comportamentismo e dal gestaltismo per la parzialità dei rispettivi modelli esplicativi dell'attività percettiva e mentale, l'interesse di Bruner si concentra su "quegli strumenti di cui l'organismo si serve per conseguire, conservare e trasformare l'informazione". Poiché viviamo in un mondo ricchissimo di oggetti e di eventi, i nostri rapporti con l'ambiente risulterebbero complicati o bloccati se dovessimo avere a che fare solo con la loro singolarità. Di fatto le nostre esperienze e i nostri rapporti con il mondo sono semplificati e resi più produttivi dalla nostra capacità di categorizzare, cioè di "rendere equivalenti cose distinguibilmente differenti, aggruppare gli oggetti, gli eventi e la gente intorno a noi in classi, e rispondere ad essi nei termini della loro appartenenza ad una classe, anziché della loro singolarità". Poiché risponde ai bisogni del soggetto, essa non è una scoperta ma un atto di invenzione: è il soggetto che categorizza, che mette ordine tra le cose, che opera selettivamente sulla base di spunti percettivi o definitori. Contrariamente a quanto afferma Piaget, secondo Bruner la categorizzazione inizia già nel momento percettivo; infatti il percepire non è una mera constatazione, ma implica una contemporanea categorizzazione dell'oggetto. Il soggetto percipiente nell'identificare una serie di qualità e di proprietà di un oggetto, le inserisce in una determinata classe, categoria o specie. Mentre la Gestalt tendeva a spiegare la percezione come fenomeno a sé, per Bruner essa è un atto di conoscenza a pieno titolo in quanto obbedisce alla dinamica della categorizzazione: essa trae origine da un'ipotesi selettiva (legata ai bisogni, alla cultura ecc.), che emergendo da una serie di spunti e indizi sensoriali, inferisce l'identità del soggetto collocandolo all'interno di una categoria e perciò adeguandolo alle esigenze operative e adattive del soggetto. Naturalmente la categorizzazione è centrale nell'attività intellettuale e operativa in quanto chiarifica la complessa realtà esterna, economizza le energie psichiche e attraverso l'anticipazione e l'inferenza prepara e facilita la conoscenza futura. In polemica con le concezioni riduttive del comportamentismo e della psicoanalisi, Bruner mostra come i soggetti che pervengono al conseguimento dei concetti rivelino una sequenza di decisioni ben organizzate e condotte con abilità. In altri termini essi utilizzano delle vere e proprie strategie, cioè procedure di categorizzazione o schemi procedurali del pensiero (classificabili idealmente in un certo numero di modelli, anche se ciascuno di essi è individualizzato e quindi impiegato in forme ampiamente diversificate) che hanno come finalità il conseguimento di un determinato numero di informazioni e di concetti al fine di giungere alla soluzione di problemi individuali e sociali, con uno sforzo contenuto e il proposito di evitare l'errore e l'insuccesso. Bruner insiste anche su altri due aspetti. Innanzitutto mostra l'influenza dei fattori motivazionali e socio-culturali nel processo di riconoscimento percettivo e di categorizzazione: ciò che vi è di costante nel comportamento cognitivo è l'atto del categorizzare, mentre le modalità della categorizzazione sono notevolmente variabili. Oltre la predilezione affettiva, i bisogni, l'esperienza passata, le categorie in base alle quali l'uomo sceglie e reagisce al mondo circostante riflettono profondamente la cultura in cui è nato. Il linguaggio, il modo di vivere, la religione ecc. plasmano il modo in cui una persona ha esperienza degli eventi che formano la sua storia personale. Quest'ultima, a sua volta, finisce per riflettere i modi di pensare e le tradizioni della sua cultura, poiché gli eventi che costituiscono quella storia sono filtrati dai sistemi categoriali appresi. Inoltre questi risultati pongono l'accento sull'influenza del pensiero sull'azione: mentre Dewey aveva concepito il pensiero e la conoscenza come strumenti per l'azione, Bruner riafferma il primato del pensiero sull'attività umana, individuale e sociale.
Tuttavia il pensiero analitico non esaurisce le potenzialità conoscitive umane, ma è accompagnato da altre forme e modalità di tipo intuitivo e creativo: così l'arte, la poesia, il mito ecc. vengono coinvolti nell'ambito del conoscere. Nell'opera "Il conoscere. Saggi per la mano sinistra" (1962) Bruner sostiene che la conoscenza intuitiva non è né uguale né alternativa a quella logico-analitica, ma completa e integra l'attività cognitiva umana. Infatti mentre nella seconda, che procede per analisi, privilegiando le quantità discontinue e fondando gli apprendimenti deduttivi, il concetto media tra la realtà molteplice e un'unità significante e comunicabile, nell'esperienza artistica sono il simbolo e la metafora a svolgere la medesima funzione. Infatti la creatività non è semplice originalità, ma suppone un'abilità combinatoria, che consente di unire elementi diversi in forme nuove, scoprendo prospettive inattese e originali. Perciò nel corso degli anni '60 le ricerche di Bruner si sono orientate sull'evoluzione della rappresentazione e dell'apprendimento durante la fanciullezza, esponendone i risultati in "Lo sviluppo cognitivo" (1966) e "Prime fasi dello sviluppo cognitivo" (1968). Con un costante riferimento critico al modello piagetiano di sviluppo (articolato, come sappiamo, nelle tre fasi dell'attività psico-motoria, del pensiero pre-operatorio e operatorio concreto, e delle operazioni formali), anche secondo Bruner lo sviluppo dell'intelligenza e delle sue funzioni è dato da cambiamenti qualitativi della struttura psichica e cognitiva del comportamento del bambino nelle diverse età. L'individuo passa gradualmente da una fase in cui la sua attività è determinata dall'immediatezza e dalle apparenze ad altre fasi successive in cui è in grado di comprendere le connessioni temporali, l'invarianza e la conservazione al di là dei mutamenti apparenti e infine di intellettualizzare la realtà fenomenica. In questo processo di sviluppo Bruner distingue tre modalità nella rappresentazione del mondo, con cui si realizza la capacità dell'uomo di oltrepassare gli stimoli immediati e di immagazzinare le esperienze passate in modelli: quella esecutiva o endoattiva (in cui il bambino rappresenta il suo mondo attraverso l'azione e identifica un oggetto per l'uso che ne fa), quella iconica (che adempie agli stessi scopi della precedente ma attraverso un'immagine che all'inizio è basata su un'attività di immaginazione rigida ma concreta ma che progressivamente si libera dai condizionamenti percettivi), e infine quella simbolica (dove la rappresentazione è effettuata attraverso codici simbolici, tra i quali un ruolo particolare è rivestito dal linguaggio quale strumento di pensiero e veicolo di accrescimento culturale). E' chiaro che quest'ultima fase è la più matura e evoluta, certo più adeguata alla vita sociale della nostra civiltà basata sulla comunicazione simbolico-verbale e sulla strutturazione logico-scientifica dell'esperienza. In ogni caso bisogna evidenziare come per Bruner queste modalità rappresentative, se contrassegnano comportamenti distinti di diverse fasi evolutive (del bambino, del fanciullo, del preadolescente), tuttavia continuano a coesistere nel corso dello sviluppo interagendo in vario modo. Soprattutto sono largamente influenzate dalla cultura in quanto per lo sviluppo cognitivo hanno un'importanza determinante i fattori ambientali e sociali, mentre l'educazione riveste un ruolo essenziale nell'estensione delle capacità cognitive e delle abilità intellettuali per la risoluzione dei problemi.
Queste ricerche psicologiche contengono tutta una serie di interessanti implicazioni pedagogiche, che divengono esplicite in opere specificamente dedicate a questa materia. Innanzitutto egli pubblica nel 1961 i risultati della Conferenza di Woods Hole nel volume "Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture", dove confrontandosi con "Il mio credo pedagogico" del filosofo di Burlington, viene a formalizzare una svolta pedagogica in senso strutturalista. La critica a Dewey è condotta con il metodo del contrasto: a ciascuno dei punti teorici dell'avversario, Bruner contrappone i propri. In sintesi la posizione di Dewey può essere ricondotta al principio della continuità dell'educazione con la vita sociale e al principio del suo adeguamento allo sviluppo psicologico del soggetto. A giudizio di Bruner questi principi risultano inadeguati rispetto a quanto noi sappiamo della società, dell'uomo e delle sue esigenze di sopravvivenza e di sviluppo. Così i concetti deweyani di adattamento e di primato dell'azione risultano superati dalle modifiche avvenute nel mondo occidentale che ha conosciuto i regimi totalitari e sta assistendo ad uno sviluppo tecnologico che espone gli esseri umani all'alienazione. Parlare di adattamento in questo contesto significherebbe precludere all'individuo la critica dell'eredità e del patrimonio culturale, nonché la ricerca di alternative allo status quo esistente. La scuola deve certamente essere vita, ma essa deve "costituire l'ingresso nella vita della ragione" e dunque "introdurre in nuovi e mai immaginati campi d'esperienza, d'una esperienza che non ha rapporto di continuità con quella precedente". Lo schema comportamentista S-R, come è riduttivo della vita psichica e cognitiva, così è il correlato psicologico della passività e della subalternità dell'adattamento sociale del bambino. Così la scuola di una società progredita e tecnologicamente avanzata non deve indulgere sull'attività spontanea e pratica del fanciullo, ma deve arricchire il patrimonio di competenze, conoscenze, abilità, informazioni e sviluppare le potenzialità intellettive dell'alunno. La scuola come vita certamente postula l'impiego di un metodo che si adegui agli interessi del soggetto: ma, ribatte Bruner, ciò può valere come punto di partenza, non come itinerario, anche perché si possono creare e destare nuovi interessi e sollecitare l'individuo a perseguire l'ideale della perfezione. Lo stesso è da dire dei contenuti, che per Bruner debbono necessariamente trascendere l'esperienza immediata sganciando l'individuo da una visione empirica del sapere e porlo in una prospettiva logico-scientifica caratterizzata dall'astrazione e dal linguaggio simbolico attraverso il possesso delle grandi idee organizzatrici delle singole discipline. L'esperienza scolastica non è l'esperienza spontanea, naturale o sociale, ma deve essere un'esperienza orientata e predisposta al raggiungimento di precisi obiettivi di crescita culturale. Oggi non è più pensabile di offrire tutto il patrimonio culturale dell'umanità in grado di aiutare l'individuo nella società; si tratterà dunque di fornire ai giovani quegli strumenti metodologici, quelle capacità critiche che li rendano capaci di interpretare e padroneggiare la realtà e gli infiniti casi di situazioni concrete che si presenteranno. Perciò il compito fondamentale della ricerca pedagogica sembra quello di individuare le idee fondamentali delle singole discipline, le strutture di fondo che le sostengono, così da ordinare su di esse gli itinerari e gli obiettivi di insegnamento. L'insegnante partirà certo da casi concreti ma solo al fine di far scoprire, astrarre, padroneggiare e interiorizzare quei principi regolatori, quelle strutture del sapere e della realtà culturale che consentiranno all'alunno di organizzare la propria esistenza. La scuola potrà essere mezzo di riforma sociale solo se riuscirà a trasmettere a tutti i linguaggi fondamentali attraverso cui si accede al sapere. Il metodo di insegnamento, pur non trascurando il mondo psicologico dell'alunno, va pertanto cercato all'interno delle discipline che costituiscono l'oggetto dell'insegnamento stesso: questo è il principio fondamentale della pedagogia strutturalista. Essa presenta notevoli vantaggi: rende più interessanti le discipline, di cui si coglie subito l'utilità; facilita l'apprendimento mnemonico; favorisce il transfert dell'apprendimento poiché, data la matrice comune di molte conoscenze, le stesse strutture possono essere trasferite in campi diversi di apprendimento; contribuisce a rafforzare la continuità tra diversi livelli scolastici. Certo questo tipo di didattica richiede insegnanti preparati sia sul piano metodologico che su quello disciplinare: ciò suppone pertanto una profonda revisione dei sistemi di preparazione, reclutamento e di formazione in servizio del personale docente. Con il procedimento per strutture, inoltre, è possibile passare dall'ambiente della scuola (sostenuto dall'Attivismo) all'interno delle dinamiche più delicate dell'apprendimento stesso. L'allievo infatti può in tal modo potenziare l'autonomia della sua cultura personale valorizzando la capacità di scoperta attraverso la tecnica di apprendimento per problemi. In sostanza la tesi di Bruner è che il problema dell'apprendimento va posto nei termini di una ricerca che raccordi la struttura psicologica del soggetto con quella logico-scientifica dell'oggetto. Tenendo presente che i tre sistemi di rappresentazione (operativa, iconica e simbolica) non vanno considerati stadi ma caratteristiche salienti nel corso dello sviluppo, si può comprendere come Bruner possa sostenere con Comenio che "tutto può essere insegnato a tutti in qualsiasi età", purché il contenuto dell'apprendimento sia presentato nelle forme di rappresentazione adeguate all'età e al grado di sviluppo psicologico dell'allievo. E' dunque possibile accelerare i processi di apprendimento attraverso un insegnamento a spirale, per cui la scuola riprende i contenuti dell'istruzione via via approfondendoli e traducendoli "in forme di pensiero congrue all'età, stimolanti perciò, e tali da invogliare il fanciullo ad andare avanti, ad anticipare". Naturalmente in questa concezione all'insegnante viene riconosciuta una posizione centrale nel processo di apprendimento: superati i sistemi autoritari, il nuovo profilo professionale del docente consisterà nella competenza disciplinare e nelle conoscenze psicologiche, nonché nella capacità di costruire un curricolo di studi e di gestirlo, lavorando in équipe con i colleghi.
Al tema centrale della costruzione di un curricolo è principalmente dedicato "Verso una teoria dell'istruzione" (1966), dove allo spontaneismo invocato dalle scuole attive viene contrapposta la programmazione quale autentica negazione dell'improvvisazione e della genericità in quanto implica la conoscenza della situazione di partenza, dei mezzi a disposizione, delle conoscenze acquisite dagli allievi. Una teoria dell'istruzione è la via per favorire la crescita e lo sviluppo poiché consiste nello studio dei procedimenti per raggiungere obiettivi di apprendimento e di formazione coerenti con le finalità della scuola, mediante anche l'impiego di idonei strumenti di valutazione. Certamente per Bruner, come già per Dewey, l'istruzione è un'esigenza della società che, generazione dopo generazione, deve porsi il problema di definire natura, modalità e finalità dell'educazione. Essa subisce oggi una rapida trasformazione, imponendo così alla scuola una risposta adeguata ai nuovi bisogni formativi. Nell'età del villaggio globale, dove la comunicazione si è smisuratamente moltiplicata anche per via delle nuove tecnologie, la scuola non può pensare di trasmettere tutte le conoscenze necessarie alla vita adulta. Piuttosto che contenuti, essa deve fornire strumenti e sviluppare capacità che rendano gli individui disponibili ad apprendere. L'alunno deve innanzitutto "imparare ad imparare", e ciò sarà possibile attraverso l'apprendimento delle strutture disciplinari. Naturalmente non sarà possibile costruire un curricolo in vista di una crescita e sviluppo continui senza un esame preliminare della natura dello stesso processo di crescita. In riferimento all'uomo e alla sua natura sociale, quest'ultimo non può essere un fatto naturale ma determinato dall'apprendimento. Infatti la crescita consiste in una serie di fattori, tra cui risultano essenziali la progressiva indipendenza della risposta dalla natura immediata dello stimolo, la capacità di regolare il comportamento "al di là dell'informazione data" comunicando a se stesso e agli altri ciò che si sta facendo o si ha intenzione di fare, quella di considerare simultaneamente una molteplici alternative, l'interazione sistematica tra educatore ed educando, l'importanza del linguaggio come strumento di comunicazione e di pensiero. Posta questa premessa e tenendo conto delle tre forme di rappresentazione, Bruner evidenzia i vantaggi di una didattica strutturalistica che permette di salvaguardare l'unitarietà dell'apprendimento a tre livelli: a) sul piano orizzontale, in quanto, mostrando le stesse strutture in materie o argomenti di discipline diverse, permette l'integrazione tra le discipline; b) sul piano verticale, in quanto consente un insegnamento continuo e a spirale in cui l'alunno ritrova, a diversi stadi di crescita, altrettanti livelli di approfondimento dello stesso contenuto disciplinare, di cui resta invariata la struttura, mentre cambia la sua rappresentazione in rapporto all'età psicologica; c) sul piano trasversale, in quanto presenta le strutture concettuali con l'utilizzazione di tutte le forme di rappresentazione. Bisogna comunque precisare che a partire dagli anni '70 Bruner si è progressivamente allontanato da una impostazione cognitivista per approfondire sempre più, sulla scia di Vygotskij, il ruolo dei fattori culturali e sociali dello sviluppo, così come ha insistito sulla formazione integrale dell'uomo con la valorizzazione delle arti e delle rappresentazioni non verbali e sull'unione delle due culture, umanistica e tecnica. Specie nei saggi compresi ne "Il significato dell'educazione" (1971), pur riprendendo le tematiche sullo sviluppo cognitivo, le proietta in una dimensione pedagogica "radicale", sollecitata anche dai fermenti provenienti dalla protesta studentesca di quel periodo. Smentendo le accuse rivoltegli secondo cui le sue teorie sarebbero esclusivamente funzionali al sistema capitalistico e perciò insensibili ai gravi problemi sociali, egli ha affrontato le differenze significative esistenti tra culture diverse sotto il profilo etnologico, antropologico e sociale. Ne è emerso un quadro in cui si palesano i dislivelli educativi (specialmente in riferimento alla padronanza del linguaggio, alla capacità cognitiva e rappresentativa, ai processi di apprendimento) determinati da fattori di carattere economico. Tuttavia queste constatazioni non conducono Bruner su posizioni estremistiche di rifiuto o di ricerca di un'alternativa utopica (si pensi alle posizioni di Illich e di Freire in pedagogia, di Marcuse in filosofia), ma rafforzano la sua convinzione circa l'importanza della cultura e del sapere come strumenti essenziali per il miglioramento dell'educazione in vista di una profonda trasformazione della società di cui la scuola resta l'organo privilegiato.

9. Mastery learning
Se già nell'ambito del movimento attivistico erano emerse tutta una serie di posizioni che, come si è visto, miravano a far emergere, all'interno dell'intervento educativo, gli obiettivi, i metodi, i contenuti, i programmi, le modalità di apprendimento, è però vero che i loro punti di riferimento restavano ancora i bisogni fondamentali, gli interessi le motivazioni del fanciullo. Cercando di armonizzare l'intervento esterno dell'adulto con il mondo interno del discente, si puntava a trovare i canali della comunicazione, dell'apprendimento, dell'inserimento sociale, dell'acculturazione. Intorno agli anni Cinquanta, sotto l'influsso delle ricerche del Comportamentismo e del Cognitivismo, si rafforzano invece le istanze riguardanti l'insufficienza di un insegnamento e di una organizzazione scolastica che facciano riferimento solo all'iniziativa e alle scelte dei singoli insegnanti, a programmi generali, ad una conoscenza approssimativa dei processi di apprendimento, mentre si denuncia la scarsa attenzione prestata all'analisi della situazione, alla scelta degli obiettivi, all'individuazione e alla scelta dei contenuti, alla messa a punto dei metodi, alle verifiche e alla valutazione. Così sono molti i teorici, specie americani, che approfondiscono la conoscenza dei curricoli scolastici e delle modalità di costruzione di itinerari didattici conformi allo stadio di sviluppo psicologico del bambino, basati sulla possibilità di raggiungere obiettivi prefissati e di verificare rigorosamente le mete raggiunte. Si chiama genericamente mastery learning (apprendimento per la padronanza) una corrente che si propone di rendere più proficuo il lavoro scolastico attraverso una razionalizzazione delle risorse destinate all'istruzione con percorsi individualizzati. I suoi teorici tendono a fare oggetto della ricerca, sullo sfondo di una classificazione e della individuazione delle categorie del comportamento umano, le caratteristiche e le condizioni dell'apprendimento nel presupposto che variando questo secondo fattore sia possibile migliorare la qualità e l'estensione del prodotto scolastico. In tal modo si cerca, mediante un'opportuna metodologia (comprendente l'accertamento dei livelli di partenza, la correlazione per ciascuno degli obiettivi iniziali per questi livelli, la scomposizione degli obiettivi fino a trasformarli in comportamenti semplici e misurabili, il collegamento dei metodi e delle verifiche con l'esatta misurazione e realizzazione degli obiettivi) di consentire ad un maggior numero di persone di riuscire a conseguire le finalità scolastiche. In generale i rappresentanti del mastery learning non insistono sulle capacità individuali o sul quoziente di intelligenza, quanto sulla storia dei singoli allievi, sui loro modi e sulla qualità di articolazione delle esperienze, dei comportamenti e dell'apprendimento, sull'analisi e la valutazione dei risultati. Essi sono convinti che un metodo educativo che rispetti i ritmi e i tempi di apprendimento rendendolo individualizzato e che programmi l'intervento didattico, qualifichi il lavoro scolastico rendendolo in grado di sviluppare processi cognitivi, affettivi e pratici tali da modificare profondamente le caratteristiche, l'estensione e la qualità dell'acquisizione conoscitiva. In altri termini a costituire i supporti dei curricoli e degli obiettivi educativi non possono essere, come nella scuola tradizionale, le attitudini, le discipline, i programmi, i contenuti culturali, quanto piuttosto lle situazioni e le unità di apprendimento, i comportamenti cognitivi e affettivi, la qualità dell'istruzione, il cambiamento nel comportamento. Pertanto la finalità degli interventi educativi, della strutturazione dei curricoli e dei processi di apprendimento sta nel sollecitare e nel favorire tutta quella serie di comportamenti e di apprendimenti che possano modificare i processi e le modalità di approccio alle esperienze, alle conoscenze, alle attività pratiche e creative senza preclusioni legate alle capacità e alle attitudini considerate rigidamente precostituite. In questo quadro problematico un'attenzione particolare viene dedicata alla questione della tassonomia, cioè alla classificazione dei fattori, delle categorie, dei comportamenti che intervengono nei processi di apprendimento.

10. La questione delle tassonomie
Figura pionieristica e di spicco in questo campo è B.S. Bloom (nato nel 1913), autore nel 1956 di una "Tassonomia degli obiettivi educativi" dove sostiene la tesi che compito della scuola deve essere quello di agire da un lato sulle caratteristiche dello studente (comportamenti cognitivi di ingresso, sulla qualità dell'istruzione e sui risultati dell'apprendimento (livello e tipo di profitto, ritmo di apprendimento, risultati effettivi) e dall'altro sulla tassonomia degli obiettivi educativi e sulla classificazione delle capacità generali e specifiche da aquisire e da utilizzare durante l'apprendimento. Egli spiega che la funzione della sua tassonomia risponde a precisi principi-guida: a) le principali distinzioni tra classi devono riflettere le distinzioni fatte dagli insegnanti circa il comportamento degli allievi; b) la tassonomia deve essere seguita interamente in modo logico e coerente; c) deve essere coerente con il livello di comprensione dei fenomeni psicologici attualmente raggiunto; d) la classificazione deve essere puramente descrittiva e neutrale rispetto a qualsiasi concezione educativa. Con la sua opera Bloom ha costruito una progressione ordinata di obiettivi possibili e verificabili al fine di facilitare il lavoro degli insegnanti impegnati nella programmazione dell'attività didattica, nella costruzione di piani di studio e di individuazione dei relativi obiettivi. Questi ultimi sono classificati in due fondamentali aree:
1) area cognitiva: conoscenza, comprensione, applicazione, analisi, sintesi, valutazione;
2) area affettiva: ricezione, risposta, valorizzazione, organizzazione, caratterizzazione del valore.
La successione degli obiettivi, articolati anche in intermedi e particolari, segue il criterio della complessità delle competenze, nel senso che non è possibile l'acquisizione delle competenze di ordine superiore senza quella di ordine inferiore. Pertanto l'insegnante, individuati le competenze di partenza del singolo alunno e collocatele nella scala gerarchica dei valori, potrà impostare un lavoro adeguato per condurlo fino agli obiettivi prefissati. Infatti secondo Bloom non è questione di selezionare i talenti ma di sviluppare talenti, dato che non è rilevante l'uguaglianza dei punti di partenza quanto piuttosto quella di arrivo, poiché tutti possono raggiungere risultati positivi se la qualità dell'istruzione, le condizioni dell'apprendimento, la griglia dei processi cognitivi hanno un'articolazione tale da offrire strumenti di base di tipo operativo.
Nella prospettiva aperta da Bloom si collocano diversi autori, tra cui R. Gagné (n. 1916) autore de "Le condizioni dell'apprendimento" (1973), in cui la tassonomia dei tipi di apprendimento viene articolata come segue: 1) apprendimento di segnali, 2) apprendimento di connessioni stimolo-risposta, 3) apprendimento di una concatenazione (collegamento in sequenza di apprendimenti stimolo-risposta), 4) apprendimento di associazioni verbali, 5) apprendimento di discriminazioni (dare risposte diverse a stimoli simili), 6) apprendimento di concetti, 7) apprendimento di regole (concatenazione di concetti), 8) soluzione di problemi (combinazione di regole per produrre capacità nuove).
J. Guilford, ne "La struttura dell'intelligenza umana" (1967) ha invece seguito un itinerario più complesso portando alle estreme conseguenze il processo di scomposizione delle abilità intellettive dopo che Binet e Simon l'avevano considerata una funzione globale e unica. Egli disegna un modello articolato in cinque operazioni (conoscenza, memoria, pensiero convergente -logico-analitico-, pensiero divergente -creativo-, valutazione), quattro contenuti (figurativi, simbolici, semantici, comportamentali), sei prodotti (unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni, implicazioni). Questi fattori definiscono un parallelepipedo di centoventi possibili combinazioni e proiezioni corrispondenti ad altrettanto abilità diverse, per ciascuna delle quali bisognerebbe escogitare obiettivi e verifiche.
Per quanto riguarda più propriamente la "pedagogia dei curricoli", bisogna ricordare l'opera di K. Frey "Teorie del curricolo" (1971) (dove, facendo riferimento agli atteggiamenti nei confronti delle strutture, dei contenuti, dello svolgimento e delle forme di organizzazione, dei sistemi tassonomici, esse vengono classificate in teorie di tipo strutturalistico e contenutistico, processuale e sistemico, teorie e sistemi tassonomici) e quella di A. e H. Nicholls "Guida pratica all'elaborazione di un curricolo" (1972) dove viene codificato lo schema che costituisce il punto di riferimento nella didattica odiena: analisi della situazione, obiettivi, contenuti, metodi, tempi, strumenti, verifica, valutazione.

11. Gardner
Nel corso degli anni Ottanta sembra emergere una certa tendenza a uscire da un modello unidimensionale di intelligenza per accedere ad uno pluri o multidimensionale. E'significativo, sotto questo aspetto, lo sviluppo della ricerca di Bruner tra le cui ultime opere figura "La mente a più dimensioni" (1986). Ma certo l'autore che maggiormente ha indagato nel campo della pluralità delle intelligenze è H. Gardner (n. 1943): docente presso diverse università americane, membro attivo in molti progetti di ricerca, ha pubblicato, tra l'altro, "Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze" (1985), "La nuova scienza della mente" (1985), "Aprire le menti. La creatività e i dilemmi dell'educazione" (1989), "Educare al comprendere" (1991). Il discorso di Gardner intende reagire alla tendenza in atto nella società contemporanea ad alto sviluppo tecnologico, che diventare sempre più anonima e condizionata da scelte formali e informali, di avanzare esclusivamente richieste di carattere logico-matematico; in un contesto caratterizzato da una multiculturalità crescente, si tratta invece di valorizzare la possibilità di sviluppare uno spettro molto ampio di intelligenze con vantaggi tangibili sia sul piano personale che collettivo, dando il più ampio spazio possibile soprattutto alle potenzialità umane e culturali. Differenziandosi, almeno parzialmente da Piaget, e osservando che la maggior parte delle culture si orienta a privilegiare e a formare un determinato tipo di intelligenza a scapito di una formazione più aperta, egli definisce l'intelligenza come "la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all'interno di uno o più contesti culturali". Esistono così diverse intelligenze umane relativamente indipendenti, come quella linguistica, musicale, spaziale, corporeo-cinestetica, personale e interpersonale, e infine certamente quella logico-matematica. Come si vede non è possibile far coincidere l'intelligenza solo con la razionalità formale e con le operazioni dell'ultimo tipo: non sono possibili e neppure desiderabili delle gerarchizzazioni poiché la crescita armonica della persona esige una varietà di comportamenti intelligenti su cui incidono fattori molteplici da quelli biologici a quelli culturali, e tra questi ultimi le motivazioni, gli stati emotivi favorevoli all'apprendimento, il contesto culturale di sostegno. Naturalmente tutto ciò impone una serie di conseguenze: l'ampliamento della psicologia cognitiva e dello sviluppo, il diverso disporsi della cultura pedagogica e degli interventi educativi, la riformulazione dei rapporti tra le culture e lo sviluppo delle competenze intellettuali. Date queste premesse, risulta estremamente difficile, in un mondo multiculturale e complesso, tracciare le linee di un nuovo modello scolastico. Certo Gardner si mostra molto scettici nei confronti di ogni tentativo di razionalizzare, programmare, pianificare l'intervento educativo in termini di pura schematizzazione di obiettivi, metodi e contenuti. Piuttosto, sembra opportuno mirare alla formazione di persone che siano in grado di affrontare situazioni sempre più problematiche sulla base di un corredo costituito da una pluralità di risorse e competenze. In questa prospettiva egli si mostra sostenitore di una concezione progressiva dell'educazione che tenga conto delle dinamiche culturali e sociali, nonché delle esigenze e delle capacità individuali. La nuova scuola dovrebbe assumere un profilo essenzialmente laico, essendo una istituzione in grado di riconoscere, promuovere, educare una pluralità di intelligenze, di aprirsi alla cultura scientifica, attenta alle inclinazioni biologiche e psicologiche degli esseri umani e alla specificità dei contesti storici e culturali in cui si svolge la loro vita. E'significativo che a tal fine Gardner auspichi l'emergere di una "scienza della cognizione", che indaghi la pluralità dei processi cognitivi e metta a fuoco corrispondenti strategie formative in vista dell'arricchimento delle potenzialità individuali e dell'apertura delle modalità di esperienza e di ricerca.

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