"Dio è un'ipotesi di cui non ho bisogno".
(Laplace)
Matematico di prim'ordine, Laplace si rivelò rapidamente essere un
mediocre amministratore; dal suo primo lavoro vedemmo che eravamo stati
tratti in inganno.
Laplace non vedeva nessuna questione dal suo vero
punto di vista: cercava ovunque sottigliezze; aveva solo delle dubbie
idee, e infine ha portato lo spirito dell'infinitamente piccolo
nell'amministrazione.
(Napoleone Bonaparte)
di Guido Marenco
Introduzione
Pierre Simon de Laplace (1749-1827) in Esposizione del sistema del mondo (1796) elaborò, parallelamente a Kant, l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva; alla base della sua cosmologia, basata sulla non-necessità di ricorrere all’ipotesi di un Dio che intervenga nel mondo, vi è una concezione rigidamente meccanicistica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e, a sua volta, causa di quelli successivi; sicchè, se si conoscesse lo stato di materia nell’universo in un dato momento, si potrebbero ricostruire meccanicamente tutti i momenti successivi e precedenti della materia. Ma Laplace è anche stato il fondatore moderno del calcolo probabilistico, il che sembrerebbe una contraddizione: come è possibile che, dopo aver sostenuto che tutto procede secondo il più rigido meccanicismo, egli ripieghi (in Teoria analitica delle probabilità , del 1812) su un calcolo basato non sulla certezza ma sulla probabilità? Tutto si spiega se teniamo presente che il meccanicismo e la conoscenza impeccabile che ne dovrebbe derivare funzionerebbe solo se fossimo dotati di una mente super-potente in grado di raccogliere e contenere tutti i dati possibili sullo stato della materia; ed è in assenza di questo strumento che bisogna accontentarsi non di verità inconfutabili, ma di probabilità. In altri termini, la necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. Molto diverso sarà l’atteggiamento che assumerà su queste questioni il fisico novecentesco Heisenberg, il quale elaborò il “principio di indeterminazione”: esso prescrive che non si può calcolare contemporaneamente con precisione sia la posizione sia lo stato di movimento di una data particella. Ne consegue che se per Laplace tutto avviene in maniera rigorosamente meccanicistica ma si deve ricorrere al calcolo probabilistico perché non si hanno a disposizione strumenti adatti, per Heisenberg, invece, è assolutamente impossibile determinare insieme i due stati (posizione e movimento), indipendentemente dalle nostre facoltà. E Laplace, con la sua esasperata fiducia nel determinismo e nella scienza, rappresenta il modello positivistico e la formulazione più compiuta del meccanicismo come forma di conoscenza certa; è da queste considerazioni di carattere scientifico che muove i suoi passi il Positivismo, così battezzato da Comte (anche se il termine fu per la prima volta impiegato da Saint-Simon nel Catechismo degli industriali, del 1822).
L'importanza di Laplace come fisico e come filosofo della scienza
Pierre-Simon de Laplace nacque nel 1746, da genitori che erano modesti agricoltori, a Beumont-en-Auge. A 22 anni giunse a Parigi e venne in contatto con gli ambienti scientifici e gli enciclopedisti. L'appoggio di D'Alambert fu fondamentale per i suoi studi ed un immediato inserimento nella società culturale parigina. La sua educazione era avvenuta in un'Accademia militare, in un clima di ferrea disciplina formale e mentale, arido sotto il profilo sentimentale, ma nemmeno troppo stimolante sotto il profilo intellettuale. Laplace dovette metterci molto di sè; era già nato con molti handicap sociali, e se la vita fosse simile ad una corsa di cavalli, si potrebbe dire che, pur essendosi trovato subito lontano dalla pole position, ebbe una partenza bruciante. L'importanza di Laplace nella storia della scienza e del pensiero filosofico è strettamente legata al fatto che egli sia diventato il determinista per antonomasia, ovvero il sostenitore del carattere di prevedibilità che deve avere la teoria scientifica, perchè essa enuncia leggi che corrispondono ad un comportamento necessario degli oggetti fisici. In sostanza, esiste un ben preciso ambito, non solo del ragionamento, ma anche della realtà, nel quale non solo è ultragiustificato l'atteggiamento determinista, ma sarebbe del tutto illogico predicare l'opposto, ovvero un indetermismo secondo il quale è possibile che l'acqua posta in un recipiente sul fuoco non bolla, a meno che non si verifichino eventi che impediscono il normale corso delle cose. Le macchine costruite dall'uomo secondo ben noti principi fisici e e meccanici devono funzionare, ed anche i guasti dovuti all'usura o ad un difetto di costruzione, sono prevedibili. In medicina pratica è, del resto, altamente improbabile che una ferita non si rimargini, o che un raffreddore ed un'influenza non passino da sè, solo con il caldo ed il riposo. Questa convinzione era già alla base della natura vis medicatrix della medicina ippocratica, prima che Galeno rivoluzionasse tutto il sistema con la teorizzazione dell'indispensabilità dei farmaci. Ma anche il farmaco è di per sè legato ad una speranza determinista; a ben vedere è ancora più determinista della natura vis medicatrix. Non vi dovrebbe essere alcun dubbio, pertanto, che progresso scientifico e atteggiamento determinista siano fratelli gemelli almeno fino al XX secolo compreso. Il merito indubbio di Laplace fu quello di estendere l'atteggiamento determinista, in ambito fisico, ad aspetti della realtà non sufficientemente toccati dall'esperienza comune. Laplace fu sempre convinto che la legge di gravitazione universale scoperta da Newton non solo spiegava la struttura dell'universo, ma arrivava a spiegare il motivo per cui gli oggetti fisici, per così dire, stavano insieme e parevano animati da una ferrea coesione materiale. Al livello delle strutture molecolari costituenti la materia, si aveva un corrispondente della legge di gravitazione, ovvero una legge di attrazione tra le molecole. L'altro evento che lo rese famoso fu quello della formalizzazione della teoria della formazione del sistema solare da una nebulosa originaria (teoria a cui giunse anche Kant), mentre, in ambito matematico, ma in funzione della teoria fisica, egli introdusse metodi dotati di grande potenza di calcolo, quali la trasformazione di Laplace, ovvero l'equazione di Laplace, e l'abbozzo del calcolo delle probabilità, ovvero un tentativo di passare dal più disarmante indeterminismo su questioni ripetto alle quali, prima, non si poteva che ammettere l'impossibilità di prevedere, ad un atteggiamento di relativa capacità di prevedere. Recentemente, Bernard Bru, docente all'Université René Descartes, in una memoria intitolata Laplace probabilista, pubblicata nei Quaderni de Le Scienze, n 98, ottobre 1997, ha reinquadrato con grande lucidità la questione probabilismo di Laplace e conviene dare un'occhiata allo scritto. «La Natura non si sbaglia mai; essa non gioca, non sceglie. Essa fissa la successione "necessaria" degli avvenimenti, per quanto piccoli siano. Il fine precipuo della scienza consiste nel precisare questa determinazione sottomettendola al calcolo, e solo l'analisi (determinista) può contribuire a ciò. Attenendosi a questa osservazione, si conclude facilmente che Laplace non abbia compreso l'importanza della statistica nelle scienze, accecato da quelle "grandi leggi della Natura" che secondo lui avrebbero determinato la successione degli eventi più infimi, come la legge di Newton della gravitazione universale determina le rivoluzioni dei pianeti intorno al Sole. Il fatto che Laplace non abbia compreso il ruolo del caso nella Natura, sarebbe di per sè il male minore. Ciò che talvolta gli si rimprovera è piuttosto di avere instradato, grazie alla sua immensa autorità scientifica, il corso delle scienze nella via determinista da cui solo con molta fatica esso si sarebbe affrancato all'inizio del XX secolo. Si fustiga così questo determinismo laplaciano, ristretto e retrogrado, che avrebbe modellato a propria immagine tutta la fisica matematica, particolarmente in Francia. Questa visione dell'opera di Laplace è erronea. Se è vero che la scuola laplaciana ha privilegiato l'approccio meccanicista, essa è nondimeno all'origine dell'approccio statistico delle scienze dure, fisiche e biologiche, approccio che non consiste nell'esprimere le proprie convinzioni sulla Natura, ma a osservarlo, descriverlo e comprenderlo. Nella sua opera probabilista, è Laplace stesso a porre le basi di tale approccio statistico». L'aspetto curioso di questo articolo è che esso si conclude con una affermazione lapidaria: "la natura è sottomessa alle leggi del caso". Affermazione che Laplace non avrebbe certamente condiviso e che uno dei più lucidi e conseguenti eredi di Laplace, il matematico Renè Thom, ha più volte contestato, al biologo Monod ed ad altri, con pregevoli argomentazioni. Dire chi abbia ragione non è scopo di questa scheda informativa. Tuttavia sarebbe sempre bene precisare che quando si parla di caso, si parla sempre di una dimensione selezionata e ristretta della realtà, rispetto alla quale è accaduto un evento le cui ragioni non si possono trovare nel sistema descritto, ma solo al di fuori di questa area ristretta, oppure al di sopra o al di sotto del livello e del modello di descrizione scelto. E' un caso che un uccello entri nel motore di un aereo e lo faccia sfracellare al suolo. Ma non si può dire che questo caso fosse imprevedibile. Per Thom, ad esempio, finchè si rimane nell'indescrivibile, è ovvio che tutto è casuale. Ma nel momento stesso in cui emerge dall'indescrivibile il descrivibile, nella nostra testa, ovvero una linea di ragionamento in grado di spiegare perchè un cavallo brocco ha vinto una corsa battendo fior di rivali, parlare di caso è semplicemente un assurdo. Il caso esiste solo perchè siamo ignoranti. E nella fattispecie del cavallo brocco vincitore, una volta stabilito che tutti gli altri concorrenti sono andati meno velocemente del normale, si potrà legittimamente sospettare che la corsa sia stata truccata, mentre nel caso che il nostro brocco sia andato molto più veloce del suo standard, altrettanto più logicamente potremmo sospettare che fosse imbottito di pillole dopanti. Il determinismo di questo tipo ha sempre fornito modelli più che attendibili per il sospetto, e dunque per la ricerca della verità. Ciò detto, occorre tuttavia prendere atto che una parte della scienza moderna ha decisamente imboccato la via del probabilismo e che è nata un'epistemologia indeterminista che ha il suo fulcro nel pensiero di K.Popper. Ciò non significa, ovviamente, che la realtà sia in sè determinista, o all'opposto, indeterminista. Significa solo che il nostro approccio ad essa può gradualmente passare da un indeterminismo totale, infantile, animistico (oserei dire religioso e superstizioso) ad una forma mentale nella quale la nostra stessa conoscenza, forte di sensate esperienze e strumenti di calcolo, può articolarsi sia per certezze che per sensate e probabili previsioni, riservando all'incertezza nientaltro che il suo ruolo logico: non solo l'irruzione dell'imprevedibile, ma anche la certezza di non sapere come andranno certe cose, ed anche di temere che esse andranno male. Ciò su cui varrebbe sempre la pena di essere indeterministi ( nel senso di sentirsi ignoranti) è dunque il futuro che ci riguarda, come singoli, come gruppi, come nazioni, non il futuro della Terra in quanto terra, o dell'Universo in quanto universo: su queste cose si tratta solo di estendere le nostre conoscenze secondo l'ideale propugnato da Laplace. Non avremo mai certezze al mille per mille, ma nemmeno avremo la più totale ignoranza.
Grande opportunista, incapace come politico, talentuoso come scienziato
E' certamente rilevante notare come Laplace sia appartenuto ad una generazione che aveva prodotto dei veri talenti matematici: Lagrange era nato nel 1736; Gaspard Monge nel 1746, Legendre nel 1752 e Lazare Carnot nel 1753. E il gruppo si potrebbe allargare al filosofo Condorcet, nato nel 1743, grande appassionato di matematica ed importante sostenitore del progetto di riforma del sistema scolastico francese dopo la rivoluzione. Dalla biografia di Laplace possiamo intendere che distribuì le proprie forze tra studi scientifici ed attività politica e governativa, passando tra l'altro indenne tra diversi e repentini cambiamenti rivoluzionari: sopravvisse, al contrario di Condorcet, al periodo del terrore giacobino; sopravvisse alla caduta dei giacobini e coesistette al direttorio di cui fu membro anche Carnot; poi entrò nelle grazie di Napoleone; infine sopravvisse anche alla rovinosa caduta di Napoleone e divenne persino marchese nel 1817, terminando la propria vita come sostenitore di Luigi VIII, re di Francia. Nel 1773 era entrato nell'Accademia parigina delle scienze e nel 1796 ne divenne presidente. Sempre nel 1773 diede un'importante contributo allo sviluppo della matematica con la cosiddetta trasformazione di Laplace, un'operazione funzionale analoga alla trasformazione di Fourier, ma probabilmente più importante. Si tratta infatti di un'applicazione possibile a tutti i generi. Un'equazione differenziale lineare a coefficienti costanti può venire ridotta a un'equazione algebrica lineare nella trasformata della funzione incognita. Da qui è poi possibile risalire, senza troppe difficoltà, alla cosiddetta funzione generatrice. Durante il periodo del terrore mantenne contatti con scienziati considerati sospetti dal regime, e non è escluso che corse anche qualche rischio, presentendo in più di un'occasione il gelido contatto tra il suo collo e la sottile lama della ghigliottina, ma il suo opportunismo, nonchè i meriti scientifici acquisiti, gli consentirono di navigare a vista fino alla fine dell'incubo. Quando più tardi Napoleone lo fece ministro della Pubblica Istruzione, sembra che egli non riuscì a dimostrare una particolare attitudine per la carica. Lo stesso Napoleone fece sul suo conto una battuta sarcastica: "Laplace ha introdotto lo spirito dell'infinitamente piccolo negli affari di stato." Non geniale come politico, Laplace si rivelò tuttavia ai limiti del geniale come scienziato. « I lavori di Laplace - scrive Carl B. Boyer - comportavano una considerevole applicazione dell'analisi superiore. Tipico sotto questo profilo, era il suo studio sulle condizioni di equilibrio di una massa fluida in rotazione, argomento da lui considerato in relazione all'ipotesi cosmologica della nebulosa come origine del sistema solare [...] Secondo la teoria di Laplace, il sistema solare si sarebbe formato a partire da un globo gassoso, o nebula, incandescente ruotante intorno al proprio asse. Raffreddandosi, questo globo si sarebbe contratto, causando una rotazione sempre più rapida per effetto della conservazione del momento angolare, fino a che dalla superficie esterna si sarebbero staccati uno dopo l'altro diversi anelli di materia che, condensandosi, avrebbero formato i pianeti. Il Sole, ruotante su stesso, costituirebbe il nucleo centrale rimanente della nebula.» Ovviamente l'idea della nebulosa originaria non era affatto originale; prima di Laplace erano già intervenuti Thomas Wright e Immanuel Kant; tuttavia Laplace, nel Trattato della meccanica celeste aveva saputo dare una formulazione matematica alla teoria. Ma prima del Trattato, composto in un ampio ventaglio di anni, con l'ultimo volume pubblicato solo nel 1825, Laplace aveva scritto, e pubblicato nel 1796, L'exposition du système du monde, testo nel quale egli espose anche la sua filosofia della scienza, ovvero la sua concezione di ricerca scientifica. «Secondo Laplace - scrive Enrico Bellone - la conoscenza era fondata sulla possibilità di interpretare i fenomeni, osservabili in natura, alla stregua di conseguenze matematiche di un ristretto gruppo di leggi. Di qui discendeva, a suo avviso, il ruolo centrale della matematica e dell'astronomia. La matematica consentiva infatti di enunciare i problemi mediante apparati formali rigorosi e l'astronomia era un modello per l'impresa scientifica in quanto le leggi del moto erano controllabili con particolare precisione negli spazi celesti. L'astronomia, intesa come teoria del sistema mondo, era una scienza che secondo Laplace godeva di privilegi specifici. I suoi progressi avevano infatti consentito di abbracciare gli stati passati e futuri dell'intero universo e di giungere alla comprensione del principio dal quale tutti i fenomeni dipendono: il principio della gravitazione. A partire da quest'ultimo era possibile, con la matematica, ridiscendere sino alla spiegazione completa di tutti i fenomeni celesti, fino alle loro più piccole particolarità». Ed ora guardiamo proprio a queste piccole particolarità nell'esposizione che ne fa Laplace, avvisando che Laplace parla qui di molecole di luce, secondo la vecchia teoria newtoniana della composizione corpuscolare della luce, che si sarebbe dimostrata sbagliata, almeno in parte, visto che i quanti di luce, ovvero i fotoni della scienza contemporanea, possono essere descritti sia sotto la forma di un modello ondulatorio che sotto quella di un modello corpuscolare.
La materia è soggetta all'impero delle forze attrattive
«L'attrazione -scrisse Laplace - sparisce tra i corpi di una grandezza poco considerevole: essa riappare nei loro elementi sotto un'infinità di forme. La solidità, la cristallizzazione, la rifrazione della luce, il sollevamento e l'abbassamento dei liquidi negli spazi capillari, e in generale tutte le combinanzioni chimiche sono il risultato di forze la cui conoscenza è uno dei principali obiettivi dello studio della natura. Così la materia è soggetta all'impero di diverse forze attrattive: una di esse, estendendosi indefinitamente nello spazio, regge i movimenti della terra e dei corpi celesti; tutto ciò che riguarda la costituzione intima delle sostanze che li compongono dipende principalmente dalle altre forze la cui azione è sensibile solo a distanze impercettibili. E' quasi impossibile, per questa ragione, conoscere le leggi della loro variazione con la distanza; fortunatamente, la proprietà di essere sensibili soltanto assai vicino al contatto basta per sottomettere all'Analisi un gran numero di fenomeni interessanti che ne dipendono. Passo qui a presentare brevemente i risultati principali di quest'analisi, e completare così la teoria matematica di tutte le forze attrattive della natura. Si è visto nel Libro I che un raggio luminoso, passando dal vuoto in un mezzo trasparente, si inflette in modo che il seno dell'angolo di incidenza e quello dell'angolo di rifrazione hanno un rapporto costante. Questa legge fondamentale della diottrica è il risultato dell'azione del mezzo sulla luce, supponendo che questa azione è sensibile solo a distanze percettibili. Concepiamo in effetti, il mezzo limitato da una superficie piana; è evidente che una molecola di luce, prima di attraversarla, è ugualmente attratta da tutti lati rispetto alla perpendicolare di questa superficie, poichè ad una distanza sensibile dalla molecola vi è da tutti i lati lo stesso numero di molecole attiranti; la risultante delle loro azioni è dunque diretta secondo questa perpendicolare. Dopo essere penetrata nel mezzo, la molecola di luce continua ad essere attirata secondo una perpendicolare alla superficie, e se si immagina il mezzo diviso in strati paralleli a questa superficie e di uno spessore infinitamente piccolo, si vedrà che, essendo l'attrazione degli strati superiori alla molecola attirata distrutta dall'attrazione di un numero uguale di strati inferiori, la molecola di luce è attirata esattamente come lo era alla stessa distanza dalla superficie, prima di attraversarla; l'attrazione che essa subisce è dunque insensibile, quando è penetrata sensibilmente nel mezzo trasparente, e il suo movimento diviene allora uniforme e rettilineo» (Exposition du système du monde, in P.S. Laplace, Ouvres, Tome VI, Paris, Gauthiers-Villars, pp. 349-350 - trad. it di Arcangelo Rossi - pubblicata in Materia ed energia - antologia di testi - Feltrinelli, Milano 1978). Questo passo mostra di quanto ci si possa sbagliare muovendo da un'assiomatizzazione errata, in questo caso muovendo dal principio che la luce, composta di molecole, è attirata da forze analoghe a quella di gravità. . L'errore di Laplace è tuttavia spiegabile con la particolare venerazione che ancora un secolo dopo si portava a Newton, l'ipse dixit del '600. Già Huygens aveva avanzato l'ipotesi di una natura ondulatoria della luce, ma la sua interpretazione rimase minoritaria, come spesso succede, e fu solo grazie a Fresnel ed Thomas Young, un medico di professione e fisico dilettante per passione, che la teoria della luce come onda venne ad imporsi. Ma in Laplace, rispetto a Newton e rispetto alla trattazione settecentesca della teoria matematica dell'ottica, c'era anche qualcosa di nuovo. Nelle note che accompagnano il testo di Laplace tradotto in italiano, Angelo Baracca & Arcangelo Rossi scrivono: «1) la rinuncia a congetturare leggi di variazione con la distanza delle forze di attrazione molecolare in assenza di esperienze precise; 2) la derivazione della variazione costante della velocità della luce nel passaggio da un dato mezzo ad un altro dal principio di conservazione delle forze vive, secondo un punto di vista "energetico". Come già in Lagrange, ancora su un piano puramente matematico, il principio di conservazione delle forze vive diviene cioè uno strumento di deduzione liberato il più possibile da implicazioni metafisiche e ipotesi su meccanismi inosservabili, e tale da giustificare a sua volta, e non già per presupporre, quel principio di minima azione, cui erano invece legate in particolare nel passato le discussioni metafisiche. Tali punti di vista nuovi vengono però ancora conciliati in Laplace con quella concezione corpuscolare che portava alla conclusione, rivelata poi empiricamente incosistente da L. Foucault nel 1850, della maggiore velocità della luce, perchè maggiormente attratta, in un mezzo più denso che in uno meno denso.» Proseguendo la lettura del testo laplaciano, si ricava la netta sensazione di quanto egli fosse ancora del tutto fedele alle impostazioni newtoniane, condivise peraltro dai chimici Berthollet e Gay-Lussac. «L'attrazione molecolare è la causa dell'aggregazione delle molecole omogenee e della solidità dei corpi. Essa è la fonte delle affinità delle molecole eterogenee. Simile alla pesantezza, non si arresta affatto alla superficie dei corpi, ma la penetra, agendo al di là del contatto a distanze impercettibili: è ciò che i fenomeni capillari mostrano con evidenza. Da ciò dipende l'influenza delle masse nelle affinità chimiche, o questa capacità di saturazione di cui Berthollet ha così felicemente sviluppato gli effetti. Così due acidi, agendo sulla stessa base, se la spartiscono in ragione della loro affinità con essa; ciò che non avrebbe affatto luogo, se l'affinità agisse solo per contatto; poichè allora l'acido più potente riterrebbe l'intera base. La figura delle molecole, l'elettricità, il calore, la luce ed altre cause, combinandosi con questa legge generale, ne modificano gli effetti. Alcune esperienze di Gay-Lussac sui fenomeni capillari delle mescolanze formate di proporzioni diverse di acqua ed alcool sembrano indicare queste modificazioni; infatti questi fenomeni non seguono affatto esattamente le leggi che risultano dalle attrazioni reciproche dei due fluidi mescolati insieme e dai pesi specifici. Si presenta qui una questione interessante. La legge di attrazione molecolare relativa alle distanze è la stessa per tutti i corpi? Ciò sembra risultare dal fenomeno generale osservato da Richter, e che consiste nel fatto che i rapporti tra le basi che saturano un acido sono gli stessi per tutti gli acidi; in questo caso, la legge della capillarità è la stessa per tutti i liquidi. Le molecole di un corpo solido hanno la posizione nella quale la loro resistenza a un mutamento di stato è massima. Ogni molecola, quando è infinitesimalmente spostata da questa posizione, tende a ritornarvi in virtù delle forze che la sollecitano. Ciò costituisce l'elasticità di cui si può supporre che tutti i corpi siano dotati, quando si muta di pochissimo la loro figura. Ma quando lo stato reciproco delle molecole subisce un mutamento considerevole, queste molecole ritrovano nuovi stati di equilibrio stabile, come capita ai metalli battuti a freddo e in generale ai corpi che per la loro mollezza sono suscettibili di conservare tutte le forme che si danno loro premendoli. La durezza e la viscosità dei corpi mi sembra non sia altro che la resistenza delle molecole a questi cambiamenti di stato d'equilibrio. Essendo la forza espansiva del calore opposta alla forza attrattiva delle molecole , essa diminuisce sempre più la loro viscosità o la loro aderenza reciproca per i suoi incrementi successivi, e quando le molecole di un corpo oppongono solo una resistenza assai leggera ai loro spostamenti reciproci al suo interno e alla sua superficie, esso diviene liquido. Ma la sua viscosità, per quanto assai debole, sussiste ancora finchè, per un incremento di temperatura, diviene nulla o insensibile. Allora, ritrovando ogni molecola in tutte le sue posizioni le stesse forze attrattive e la stessa forza repulsiva del calore, essa cede alla più leggera pressione e il liquido gode della più perfetta fluidità. Si può verisimilmente congetturare che ciò ha luogo per i liquidi che, come l'alcool, hanno una temperatura assai superiore a quella a cui cominciano congelare. E' in questi liquidi che si osservano con esattezza le leggi dei fenomeni capillari, come quelle dell'equilibrio e del movimento dei fluidi; poichè le forze da cui dipendono i fenomeni capillari sono così piccole che l'ostacolo più leggero, come la viscosità dei liquidi e il loro attrito contro le pareti del recipiente, basta per modificarne sensibilmente gli effetti. L'influenza della figura delle molecole è assai notevole nei fenomeni del congelamento e della cristallizzazione, tanto che questi si rendono assai più rapidi immergendo nel liquido un pezzo di ghiaccio o di cristallo formato dallo stesso liquido, le molecole della superficie di questo solido presentandosi alle molecole liquide che le toccano nella situazione più favorevole alla loro unione con esse. Si comprende che l'influenza della figura, quando aumenta la distanza, deve decrescere ben più rapidamente della stessa attrazione. E' così che, nei fenomeni celesti che dipendono dall figura dei pianeti, come il flusso e il riflusso del mare e la precessione degli equinozi, questa influenza decresce in ragione del cubo della distanza, mentre l'attrazione diminuisce solo in ragione del quadrato della distanza. Sembra dunque che lo stato solido dipenda dall'attrazione delle molecole, combinata con la loro figura, di modo che un acido, per quanto eserciti su una base un'attrazione a distanza minore che su un'altra base, si combina e cristalllizza di preferenza con essa se, per la forma delle sue molecole, il suo contatto con questa base è più intimo. L'influenza della figura, ancora sensibile nei fluidi viscosi, è nulla in quelli che godono di una fluidità completa. Infine tutto porta a credere che, nello stato gassoso, non solo l'influenza della figura delle molecole, ma anche quella delle loro forze attrattive è insensibile in rapporto alla forza repulsiva del calore. Queste molecole non sembrano allora nient'altro che un ostacolo all'espansione di questa forza; perchè si può in un gran numero di casi, senza cambiare la tensione di un gas contenuto in uno spazio dato, sostituire a molte delle sue parti parti di un altro gas, di eguale volume. E' la ragione per cui diversi gas messi a contatto finiscono finiscono alla lunga per mescolarsi in modo uniforme; perchè solo allora sono in uno stato di equilibrio stabile. Se uno di questi gas è vapore, l'equilibrio è stabile soltanto nel caso che questo vapore disseminato sia in quantità uguale o minore di quella dello stesso vapore che si spargesse, alla stessa temperatura, in uno spazio vuoto uguale a quello che occupa la mescolanza. Se il vapore è in quantità maggiore, l'eccesso deve, per la stabilità dell'equilibrio, condensarsi sotto forma liquida» (Exposition du système du monde, in P.S. Laplace, Ouvres, Tome VI, Paris, Gauthiers-Villars, pp349-350, 388-390 - trad. it di Arcangelo Rossi - pubblicata in Materia ed energia - antologia di testi - Feltrinelli, Milano 1978) Il lettore contemporaneo, abituato a ragionare per quanto attiene il mondo microscopico in termini di legami chimici, di scambi di elettroni ed orbitali liberi, troverà forse ingenue e superate queste osservazioni laplaciane; del resto è così: esse appartengono ad un modello descrittivo di scienza non più attuale, e mostrano che il sapere scientifico non è cumulativo, ma selettivo, che le teorie meno soddisfacenti vengono accantonate e perfino dimenticate, e che potrebbe persino provocare una certa confusione il sottoporre queste letture a giovani impegnati nello studio della chimica e della fisica. Ma, chi conosce almeno i principi fondamentali della fisica, troverà anche che la stessa fisica procede per piccole approssimazioni, e che spesso le rivoluzioni non sono altro che approssimazioni del tutto nuove. Le attuali conoscenze sono il frutto di studi e scoperte precedenti, ma anche di errori, spesso colossali. E' solo in base a questo passato che si è raggiunta una relativa conoscenza che consente di comprendere che utilizziamo modelli di descrizione, e che questi non sono la realtà, ma solo una selezione di essa, quella che ci consente di descrivere quanto accade e calcolare cosa potrebbe accadere. Lo studioso della storia, ed in particolare la storia della scienza e della filosofia, ha ovviamente il compito di conoscere e valutare le vecchie teorie, onde misurare criticamente il livello di consapevolezza scientifica raggiunta in determinate epoche. E qui corre l'obbligo di denunciare allora il ritardo con il quale non solo queste stesse opere sono state tradotte, o addirittura non lo sono state, ed anche il fatto che moltissime biblioteche territoriali non contengono nè le opere in lingua originale, nè le poche traduzioni disponibili. Riuscirà internet a colmare questo deficit? Non senza la buona volontà di operatori culturali che gratuitamente forniranno il loro contributo. Non mi stancherò mai di ripetere che invece di predicare, occorre dare buoni esempi. Emerge comunque da questo testo un elemento che smentisce un certo luogo comune secondo il quale Laplace era contrario all'empirismo, e che egli propugnasse un razionalismo di tipo cartesiano. Si tratta, evidentemente, di un equivoco legato alla confusione che induce un certo uso dei termini. Laplace si dichiarò contro un certo tipo di empirismo, l'empirismo degli scettici e dell'uso limitato dell'intelligenza, l'empirismo di chi, anche in presenza di fatti rilevanti, che "parlano" da soli, si ostina a non voler ricavare da essi alcuna ipotesi fondata, derivata dai fenomeni stessi, secondo la fondamentale lezione di Newton. Scrive ancora in proposito Enrico Bellone: « La storia dell'astronomia diventa dunque, per Laplace, la storia di un metodo vincente. Sono state necessarie, indubbiamente molte osservazioni sui movimenti dei pianeti, del Sole e della Terra prima di poter cogliere effettivamente quei movimenti nella loro realtà. Ma gli astronomi non si sono limitati a comporre elenchi di osservazioni. Essi hanno cercato di individuare i rapporti teorici esistenti tra i dati empirici, elevandosi gradualmente sino alle leggi dei moto planetari e, infine, sino al principio generale della gravitazione universale. Dopo di che l'astronomia ha potuto ridiscendere alla "folla dei fenomeni" osservabili, spiegandoli completamente come conseguenze necessarie di "un piccolo numero di cause" fondate appunto sulla gravitazione. Come si vedrà nel seguito, questa visione della scienza torna spesso nelle riflessioni di Laplace: non si tratta di dare scarso rilievo agli esperimenti, ma di insistere sull'idea che i soli esperimenti non riescono a dare una spiegazione scientifica ai fenomeni. La funzione della matematica è, in questo senso essenziale. Nelle Leçons Laplace tratta ad esempio l'aritmetica come "una lingua particolare il cui oggetto è costituito dai numeri" e, seguendo in ciò alcune idee diffuse nella cultura dell'illuminismo francese, parla di linguaggi matematici assimilandoli agli altri linguaggi dell'uomo: "La lingua filosoficamente perfetta sarebbe quella in cui si potesse esprimere il massimo numero di idee con il più piccolo numero possibile di termini." Questa concezione del linguaggio è da Laplace collegata alla regola secondo la quale "tutte le idee complesse sono composte da idee semplici, combinate tra loro, secondo dei modi generali." »
Il modello di conoscenza a cui dovremmo aspirare e non raggiungeremo mai
«Tutti gli avvenimenti - scrisse Laplace nel Trattato sulle probabilità - anche quelli che per la loro piccolezza sembrano non ubbidire alle grandi leggi della natura, ne sono la conseguenza necessaria come lo sono le rivoluzioni del Sole. Ignorando i legami che li uniscono al sistema intero dell'universo, li si è fatti dipendere dalle cause finali e dal caso, a seconda che che si manifestassero e si succedessero con regolarità o senza ordine apparente; ma queste cause immaginarie sono state successivamente arretrate sino ai limiti delle nostre conoscenze e spariscono del tutto davanti alla sana filosofia la quale non vede in esse che l'espressione dell'ignoranza in cui ci troviamo circa le vere cause. Gli avvenimenti attuali hanno coi precedenti un legame fondato sul principio evidente che nulla può cominciare ad essere senza una causa che lo produca. Quest'assioma, noto sotto il nome di principio della ragion sufficiente, si estende anche alle azioni che giudichiamo indifferenti. Neppure la volontà più libera può dar loro nascita senza un motivo determinante; giacchè, se essa stimando perfettamente simili le circostanze di due posizioni, agisse in una e si astenesse dall'agire nell'altra, opererebbe una scelta che sarebbe un effetto senza causa; che sarebbe insomma, dice Leibniz, il caso cieco degli epicurei. Ma l'opinione contraria alla nostra è un'illusione dello spirito che, perdendo di vista le ragioni fugaci della scelta della volontà nelle cose indifferenti, si persuade che essa si determini da sé e senza motivo. Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell'universo come l'effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un'Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all'analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l'avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dare all'astronomia, un pallido esempio di quest'Intelligenza. Le sue scoperte in meccanica e in geometria, unite a quella della gravitazione universale, l'hanno messo in grado di abbracciare nelle stesse espressioni analitiche gli stati passati e quelli futuri del sistema mondo. Applicando lo stesso metodo ad altri oggetti delle sue conoscenze, è riuscito a ricondurre a leggi generali i fenomeni osservati ed a prevedere quelli che devono scaturire da circostanze date. Tutti i suoi sforzi nella ricerca della verità tendono ad avvicinarlo continuamente all'Intelligenza che abbiamo immaginato, ma da cui resterà sempre infinitamente lontano. Questo tendere, che è proprio della specie umana, è ciò che ci rende superiori agli animali, ed i progressi nel campo della scienza distinguono le nazioni ed i secoli e rappresentano la loro vera gloria. Ricordiamoci che un tempo, ed in un'epoca che non è ancora molto lontana, una pioggia od una siccità eccessive una cometa che trascinasse dietro di sè una lunga coda, le eclissi, le aurore boreali ed in genere tutti i fenomeni straordinari, apparivano come altrettanti segni della collera celeste. Si invocava il cielo per allontanare la loro funesta influenza. Non lo si pregava invece di sospendere il corso dei pianeti e del Sole: l'osservazione ben presto fece capore l'inutilità di queste preghiere. Ma, poichè quei fenomeni si manifestavano e sparivano dopo lunghi intervalli, essi sembravano contrari all'ordine della natura; si supponeva che il cielo li facesse nascere e li modificasse a suo piacimento per punire i delitti della Terra. Così la lunga coda della cometa del 1456 sparse il terrore nell'Europa, già prostrata per il rapido successo dei Turchi che avevano abbattuto il Basso Impero. Quest'astro, dopo quattro rivoluzioni, ha suscitato in noi un interesse ben diverso. La conoscenza delle leggi del sistema del mondo, acquista acquisita in questo intervallo di tempo, ha dissipato i timori prodotti dall'ignoranza dei veri rapporti dell'uomo con l'universo; ed Halley, riconosciuta l'identità della cometa con quella del 1531, 1607 e 1682, annunziò il suo ritorno per la fine del 1758 o l'inizio del 1759. Gli scienziati attesero con ansia questo ritorno, che doveva confermare una delle più grandi scoperte che fossero mai state fatte nelle scienze e compiere la predizione di Seneca, quando, a proposito della rivoluzione di questi astri che vengono da remore distanze, disse: "Verrà giorno in cui, dopo uno studio di parecchi secoli, le cose attualmente incomprensibili saranno evidenziate, e la posterità si meraviglierà che verità così tanto chiare ci siano sfuggite." Clairaut sottomise allora ad analisi le perturbazioni che la cometa doveva aver provato per l'azione dei due maggiori pianeti, Giove e Saturno: dopo lunghi calcoli fissò il suo prossimo passaggio al perielio per l'inizio circa dell'aprile 1759, cosa che l'osservazione non tardò a verificare. La regolarità. che l'astronomia ci presenta nel movimento delle comete, ha luogo, senza dubbio in tutti i fenomeni. La curva descritta da una semplice molecola di aria o di vapore è regolata con la medesima certezza delle orbite planetarie; non v'è tra di esse nessuna differenza, se non quella che vi pone la nostra ignoranza».
La probabilità: rapporto e frazione
Proprio a questo punto Laplace comincia esplicitamente a descrivere la probabilità, presentandolo come un concetto che appartiene all'ambito logico ed all'ambito empirico. "La probabilità - scrive Laplace - è relativa in parte a questa ignoranza, in parte alle nostre conoscenze. Sappiamo, ad esempio, che su tre o più eventi uno solo si verificherà; ma nulla ci porta a credere che uno debba accadere a preferenza degli altri. Data la nostra indecisione, ci è impossibile pronunciarci con certezza sul loro accadere. Tuttavia è probabile che uno di essi, preso ad arbitrio, non si verifichi, perchè vediamo che più casi ugualmente possibili ne escludono l'esistenza, mentre uno solo la favorisce. La teoria dei casi consiste nel ridurre tutti gli eventi dello stesso genere ad un certo numero di casi ugualmente possibili, cioè tali da renderci indecisi circa la loro esistenza, e nel determinare il numero dei casi favorevoli all'evento di cui si ricerca la probabilità. Il rapporto tra questo numero e quello di tutti i casi possibili è la misura della probabilità, la quale perciò non è che una frazione, il cui numeratore è il numero dei casi favorevoli ed il cui denominatore è il numero di tutti i casi possibili" L'esempio da cui mosse Laplace è quello di tre urne, due delle quali contengono solo palline bianche, mentre la terza contiene solo palline nere. Sapendo in anticipo come sono distribuite le palline, ma non dove sono, è ovvio che la frazione che descrive la probabilità di trarre da una delle tre urne una pallina bianca è di una su tre, pertanto la frazione che esprime il rapporto sarà di un terzo. Il calcolo delle probabilità risulta dunque particolarmente efficace quando conosciamo con esattezza il contesto entro il quale le possibilità che dobbiamo prevedere sono limpidamente distribuite. Le cose sono ovviamente più complicate quando questo non si verifica. In questi Essai philosophique sur les probabilites, Laplace si avvalse di un teorema scoperto da Jacques Bernouilli (1654-1705) e sviluppato Abraham de Moivre (1667-1754), e ne produsse uno di suo, nel 1810, dopo avervi riflettuto per oltre trentanni.
Il teorema di Bernouilli e il perchè tutte le generazioni animali ed umane producono maschi e femmine in un rapporto costante
Il teorema di Bernouilli era stato esposto in trattato divenuto classico intitolato Ars Conjectandi, pubblicato solo nel 1713, otto anni dopo la sua morte. Ma è corretto ricordare che la prima parte di questo testo era stata scritta da Huygens. E' solo nella terza parte che Bernouilli trattò la teoria della probabilità, ed è nella quarta che egli enunciò, dopo una lunga corrispondenza con Leibniz su questo punto, la "legge dei grandi numeri", poi ripresa da un allievo di Laplace, Denis Poisson (1781-1840) la versione elementare del teorema di Bernouilli afferma che tirando per lungo tempo a testa e croce una moneta perfettamente equilibrata, la frequenza delle "teste" si avvicina sempre più ad un valore fisso, pari ad ½. Laplace commentava così: « Consegue da questo teorema che, un una serie di avvenimenti indefinitamente prolungata, l'azione delle cause regolari e costanti deve prevalere alla lunga su quella delle cause irregolari. E' ciò che rende i guadagni del banco della lotteria certi quanto i prodotti dell'agricoltura...» Ma anche il rapporto dei numeri di nascite maschili e femminili è tendenzialmente fisso. ( E questo tra l'altro è anche qualcosa che finora nessuno è riuscito a spiegare in maniera convicente: perchè non succede quasi mai su larga scala, che si verifichi un'esorbitante variazione del numero delle nascite a favore dell'uno o dell'altro sesso?)
La teoria degli errori di Laplace
Il secondo teorema utilizzato fu propriamente di Laplace ed il nostro ci meditò attorno per circa trentanni prima di enunciarlo nel 1810. Per Laplace i rapporti, o medie che si ricavano dall'osservazione dei lanci della moneta o dal numero delle nascite, non sono veramente costanti se non dopo una lunga serie. Pertanto ogni grande serie varia, ed ancora di più possono variare le serie piccole. Tuttavia, per Laplace anche le variazioni seguono una certa legge. Scrive Bernard Bru: «Esse si concentrano attorno ad un valore fisso, che corrisponde al vero rapporto costante che si otterrebbe dopo un numero infinito di lanci. Le frequenza dei rapporti osservati diminuiscono via via che esse si discostano da questo valore medio. Così, quale che sia l'ordine fisico o morale al quale si riferiscono i rapporti misurati, i loro valori si distribuiscono su una curva a campana, descritta da una formula matematica unica» (da Laplace probabilista, cit.). Muovendo da questa considerazione Laplace formulò la teoria degli errori, applicandola in particolare alla pratica delle misurazioni, che è alla base di qualsiasi procedura di fisica meccanica. Ad esempio, anche utilizzando strumenti di massima precisione, se proviamo a misurare il perimetro della casa in cui viviamo, ben difficilmente, otterremo il medesimo risultato, ma solo valori molto prossimi l'uno all'altro. Non solo: una delle prime cose che si imparano in fisica è che la precisione dello strumento non deve essere confusa con la precisione della misura. La media dei risultati di ogni misurazione garantisce che il valore della misurazione potrebbe approssimarsi alla reale lunghezza della casa, ma non fornisce la certezza dell'esattezza. Questa teoria degli errori di Laplace è ancora universalmente utilizzata per ridurre al minimo le imprecisioni.
Il tentativo di interpretare i fenomeni termici
Pur forte dell'abito mentale determinista e meccanico, Laplace riconobbe esplicitamente la difficoltà di spiegare matematicamente i fenomeni termici. La sua ipotesi poggiava su di una complicazione, ovvero che il calore fosse un fluido composto di particelle e che quindi occorresse studiare l'interazione tra molecole di gas e particelle di calorico per dedurre le leggi. Il modello di descrizione che si ricavava da questa ipotesi portava ad immaginare molecole di gas circondate da particelle di calorico come in una serie di microsistemi poco stabili nei quali le molecole acquisivano e perdevano particelle, pur rimanendo nel tempo una certa costanza. Ciò comportava la conseguente affermazione che il calorico esistesse all'interno del gas in due modalità distinte: come calorico libero costituito di particelle in movimento ad alta velocità e come calorico annesso alle molecole di gas. Questo tipo di spiegazione, basata comunque sempre sulla forza attrattiva della materia, si scontrava tuttavia con il problema della propagazione del calore. Se era certo che il calore fluiva spontaneamente dai corpi caldi a quelli freddi, era altrettanto certo che non accadeva il contrario, ovvero che un corpo freddo diventasse ancora più freddo a vantaggio di un corpo già caldo, rendendolo ancora più caldo. In sostanza, la meccanica laplaceana sembrava impotente di fronte a questi apparenti anomalie (anomalie, ovvio, rispetto al modello di descrizione prescelto). Un forte contributo al superamento di queste difficoltà verrà da Joseph Fourier (1768-1830), ma questo è un altro discorso.
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