L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.
Marco Deriu
C’è
 un giudizio fatale che Arthur Schnitzler mette in bocca al medico 
socialista ed ebreo Berthold Stauber in “Verso la libertà”: “E non nego 
di avere, su questo tema, diverse idee che tendono in quella direzione e
 che sulle prime potrebbero sembrare crudeli. Ma il futuro, io credo, 
appartiene a queste idee”. Le idee in questione, espresse da un uomo che
 reputava di essere animato dalle più nobili motivazioni umanitarie, 
riguardavano l’eliminazione delle persone inadatte alla vita in società.
La
 sua è una sensibilità gnostica, legata al feticismo delle idee, a 
detrimento della dignità delle persone, ed alla vocazione assolutista di
 chi vive di idee, che sfocia molto spesso nel disprezzo per le persone 
comuni. Si legga quel che affermava il biologo e genetista comunista 
J.B.S. Haldane in un saggio dal titolo: “The inequality of man and other
 essays” (1932: 213): “Non so cosa farmene di quelle persone che non 
sono a contatto con il mondo invisibile [quello delle idee, teorie, 
teoremi, leggi scientifiche, postulati, ecc. NdR]. Nella migliore delle 
ipotesi sono dei buoni animali, ma quasi sempre neppure quello”.
A
 detta di Emerson (1857), ben pochi geni avevano saputo evitare di 
manifestare pubblicamente questa boria spregevole, e questo perché le 
realizzazioni terrene non corrispondevano mai alle idee pure, ai 
progetti ideali che avevano formulato nelle loro menti.
La
 discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che il narcisista trova 
arduo non provare disgusto per ciò che stona, fossero pure degli esseri 
umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli esseri 
umani come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, 
si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale 
universo di determinismi riduzionistici che lo deresponsabilizzano e 
spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine
 e chiarezza e li può trovare anche nella superstizione del gene 
onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e 
neo-tribale, cioè nell’idea per sé, immacolata ed omogenea, nel marchio 
prestigioso. La mitologia della virilità e l’esaltazione 
dell’appartenenza al gruppo procedono dal narcisismo: amare se stessi 
non va bene ma se ci si riconosce in un gruppo o ci si identifica nei 
propri eroi, questo è un modo efficace di depenalizzare il narcisismo.
Un’idolatria
 che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto 
ciò che contamina la purezza dell’idea e dell’immagine. Se questa 
minaccia non viene opportunamente neutralizzata la condanna è 
all’alienazione. Per questo ci sono esseri umani che sono rivoluzionari 
di professione, ossia non possono far altro che continuare a combattere 
per un’idea fissa. Un inconscio processo di alienazione è già in atto, 
perché il narcisista è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi
 altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno,
 vere e proprie epidemie di narcisismo e psicopatia. Sogni narcisistici 
trasformati in fantasie di onnipotenza ed incubi globali.
Ciò
 potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al 
narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In 
realtà non è così semplice. Il narcisista, se privato della sua sorgente
 di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza
 scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli 
oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia
 degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente 
l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che 
fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché 
queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può 
conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi 
padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché 
entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto 
patologico più di quanto necessitino un certo status. È il vuoto 
interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro
 che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un 
problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il
 suo pensiero non è mai profondo, né lo è la sua stima nei confronti 
degli altri esseri umani, che non sono mai suoi simili. È banalmente 
maligno, direbbe la Arendt, ma il suo male non è mai banale.
Il
 consumismo, l’esibizionismo, il feticismo, il presenzialismo, il culto 
dell’immagine televisiva, dell’essere sul piccolo schermo ad ogni costo 
(il velinismo che affligge anche l’intellettuale da palcoscenico), 
l’illusionismo nella sua accezione più ampia: questi sono gli 
ingredienti tipici dell’habitat del narcisista. Il suo panorama 
interiore è dozzinale, la vita della sua mente blanda. Non potendo 
contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte 
concentrandosi sull’immagine e sull’idea, credendole immortali e si 
autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è 
dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto 
precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un 
movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso 
alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è
 autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua 
esistenza. Al contrario è eterodiretto, assimilato in fazioni, sette, 
tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi 
distorti della realtà, drogato di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, 
apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha 
bisogno di ripetute conferme. È una comparsa nella sua vita, non il 
protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e 
risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.
Sebbene
 questo tipo di personalità abbia un carattere patologico, 
un’inclinazione più o meno forte al narcisismo è presente in ciascuno di
 noi (anche se nelle donne è forse più diffuso l’istrionismo) e, quando 
si fonde con il cinismo, le conseguenze possono essere tremende. Il 
cinismo, nemico mortale di un salutare scetticismo, è l’atteggiamento 
profondamente infantile, sterile e deleterio, nonché autodistruttivo, di
 chi ha già deciso che il mondo e la società sono corrotti, gli esseri 
umani non sono degni di fiducia perché animati solo dall’interesse 
personale, da istinti egoistici, dall’inclinazione a fregare il 
prossimo. Il cinismo è la condanna a morte del riformismo, 
dell’idealismo, dell’umanitarismo sincero, della cooperazione, del senso
 del dovere, della speranza e quindi, più in generale, della democrazia e
 del progresso morale e spirituale.
Narcisismo
 e cinismo possono formare una salda alleanza quando il cinico 
narcisista ritiene di essere l’Ultimo dei Puri. Quest’intesa può 
infiammare l’immaginazione di chi ha potere decisionale e può 
determinare le sorti di milioni di persone, viste come materiale umano 
da rimodellare a proprio piacimento, per renderlo compatibile con una 
certa concezione di società ideale, a propria immagine e somiglianza. Fu
 il caso di Mussolini e di tanti altri demagoghi di più recente conio. 
In una società in cui Dio è morto non esistono limiti, se non quelli 
costituzionali, a ciò che il cinico narciso al potere può arrivare a 
compiere nella sua ricerca di purezza, autenticità e senso. D’altra 
parte narcisismo ed empatia sono incompatibili e senza empatia non c'è 
condotta morale.
Il narcisista umanitario (anche quando non è uno psicopatico integrato) è una minaccia permanente.
Albert
 Camus ha, a mio parere, scritto il suo capolavoro quando ha affrontato 
proprio questa problematica. La breve opera in questione è “La chute” / 
“La caduta” (1953).
Ecco la mia sintesi di quelli che personalmente considero i passaggi centrali (ma consiglio vivamente di leggerlo).
La
 mano caritatevole che si tende verso il cieco per aiutarlo ad 
attraversare la strada – il mendicante che si avvicinava alla mia porta:
 esultavo. Dopo tutto vivere in alto resta ancora l’unica maniera 
d’essere notato e salutato da un gran numero di persone. Ero fatto per 
avere un corpo, per risiedere nella materia. Non credevo in alcuna 
religione ma mi sentivo autorizzato ad essere felice da un qualche 
decreto superiore. Ogni gioia mi faceva desiderare la prossima. Forse 
non amiamo veramente la vita, è solo la morte che risveglia in noi i 
sentimenti: quanto ci mancano gli amici deceduti, quanto veneriamo i 
maestri che non parlano più, la loro bocca piena di terra. È la morte 
fresca che noi amiamo, la morte dolorosa, cioè le nostre emozioni, ossia
 noi stessi. L’uomo non può amare senza amarsi. Non si può vivere senza 
dominare o essere serviti. Ogni uomo ha bisogno di schiavi come ha 
bisogno di aria pura. Anche l’ultimo degli ultimi avrà un figlio o un 
animale da comandare. Ad ogni ragione se ne può opporre un’altra, solo 
la potenza taglia corto. Ma io voglio essere servito con il sorriso 
sulla bocca, se mi servono con l’aria triste avvelenano le mie giornate.
 Per questo è importante avere servi ma chiamarli uomini liberi, per non
 esasperarli. Così loro sorrideranno e noi avremo la coscienza a posto. 
Io, io, io, ecco il refrain della mia vita, l’unica continuità. Mi 
sentivo libero rispetto a tutti per la semplice ragione che non 
riconoscevo nessun altro come mio pari: più intelligente, più sensibile,
 più avveduto. Quando mi occupavo degli altri lo facevo con degnazione. 
Ci sono persone la cui religione è quella di perdonare tutto, senza però
 dimenticare nulla. La verità è che ogni uomo intelligente sogna di 
essere un delinquente e di regnare sulla società con la sola violenza. 
Che importa umiliare il proprio spirito se in quel modo si arriva a 
dominare il mondo? Macché difensore dei miserabili, mi piaceva prendere 
le parti degli accusati perché non ero io al loro posto e ciò mi rendeva
 eloquente. Quando invece ero io sul banco degli imputati diventavo un 
giudice inflessibile dei miei accusatori. Non sono mai stato misogino, 
ho sempre considerato le mie donne superiori a me: collocandole così in 
alto, le potevo usare più di sovente che servirle. Ho avuto un solo 
grande amore nella mia vita: me stesso. Un’incapacità congenita di 
vedere nell’amore qualcosa che non fosse quel che volevo vederci: 
piacevole e, coniugata con l’oblio, favoriva la mia libertà. Credevo a 
quel che dicevo, recitavo bene il mio ruolo [Mirabeau diceva di 
Robespierre: “Quest'uomo andrà lontano, perché crede in tutto ciò che 
dice” – NdR].
Non
 ci si può augurare la morte del mondo intero né, al limite, spopolare 
il pianeta per godere di una libertà che altrimenti sarebbe 
inimmaginabile. Non potevo vivere che a condizione che tutti gli esseri 
fossero concentrati su di me, privi di vita indipendente, pronti a 
rispondere alle mie chiamate in qualunque momento. Per essere felice 
bisognava che gli altri non potessero vivere. Potevano ricevere la vita 
solo da me, a piccole dosi. Conoscevo i miei difetti e me ne dolevo, ma 
continuavo comunque a dimenticarli, con meritoria ostinazione. L’idea 
più naturale per l’uomo è quella della sua innocenza. Ciascuno esige di 
essere innocente, a qualunque prezzo, anche se ciò comporta accusare il 
genere umano o il cielo. In genere tendiamo a confessarci con le persone
 più simili a noi, con le nostre stesse debolezze; questo è perché non 
desideriamo correggerci, migliorarci, cerchiamo complicità. Ogni eccesso
 diminuisce la vitalità e quindi la sofferenza. Non c’è nulla di 
frenetico nel vizio, nella corruzione. Non è che un lungo sonno, 
indifferenza, stasi dell’umore, assenza di umore.
Attribuiamo
 a un rivale i pensieri meschini che abbiamo avuto nelle medesime 
circostanze. Ci sono sempre delle ragioni per uccidere un uomo. È, al 
contrario, impossibile giustificarne l’esistenza.
LINK UTILI
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/psicopatici-al-potere-conoscerli-per.html
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