"Se
 tu vedi un bruto che vuole violentare un bambino, che fai? Reagisci o 
lasci fare per non dovere ricorrere alla violenza? Io partirei da una 
riflessione, se cioè la tolleranza debba significare la rinunzia ad ogni
 giudizio di valore e se il tollerante non rischi di diventare un 
lassista morale, cioè una persona che non è in grado di capire qual è il
 confine che passa tra il bene e il male. Vorrei citare in proposito un 
bel saggio di qualche anno fa di Tzvetan Todorov, intitolato appunto La 
tolleranza e l'intollerabile. Scrive Todorov: «Voltaire diceva: 'Il 
diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro, è il diritto delle tigri'.
 Aveva senz'altro ragione per quanto riguardava i casi particolari cui 
egli pensava. Nel suo significato generale però questa formula è 
inaccettabile. Si potrebbe infatti sostenere il contrario: il
 diritto alla tolleranza illimitata favorisce i forti a scapito dei 
deboli. La tolleranza nei confronti dei violentatori significa 
l'intolleranza per le donne. Se si consente alle tigri di stare nello 
stesso recinto con gli altri animali vuol dire che si è pronti a 
sacrificare questi a quelle, cosa ancora più barbara e assurda. I 
deboli, fisicamente o materialmente, sono le vittime della tolleranza 
illimitata. L'intolleranza nei confronti di quelli che li aggrediscono è
 un diritto loro, non dei forti». Il fascismo e il nazismo 
avevano superato quanto anche la persona più tollerante deve tollerare. 
Si era andati al di là del tollerabile. Essi stessi erano dei fenomeni 
intollerabili che scatenavano la violenza, perché la violenza stava 
iscritta nei loro modelli di comportamento. E allora rispondere senza la
 violenza avrebbe potuto significare il dar partita vinta ai più 
violenti. Possiamo ricordare i versi di Giovenale, ripresi da Kant nella
 Critica della ragion pratica, che dicono che non bisogna Propter vitam 
vivendi perdere causas, cioè per mantenere la vita non si devono perdere le ragioni del vivere.
 È ovvio che la nonviolenza è un valore sicuramente superiore alla 
violenza; però non mi sento di escludere che ci siano dei momenti in cui
 la violenza riaffiori come cosa di cui non si può fare a meno. Faccio 
questa dichiarazione senza essere un violento né un sanguinario. […]. Mi
 sembra che alla radice della nonviolenza ci sia una antropologia troppo
 ottimistica, ed essa può dare luogo a disastri quanto una visione 
dell'uomo troppo pessimistica. […]. Mi sembra che sia stato un merito della dirigenza della Resistenza in tutte le sue componenti, quindi anche del PCI, avere
 tenuto presenti i rischi di degenerazione che comporta l'uso della 
violenza, e avere cercato quindi di evitare che essa eccedesse quel 
livello minimo indispensabile alla lotta in corso contro il nazifascismo".
Claudio Pavone, “Sulla Resistenza”, intervista di Giampiero Landi, rivista anarchica online.
*****
"Quando
 in Italia il fascismo ottenne i primi successi, i leader socialisti 
scoprirono repentinamente l’esistenza della filosofia pacifista. Un 
giornale socialista consigliava ai lavoratori di affrontare il 
terrorismo fascista con questo metodo: 1. Creare il vuoto attorno al 
fascismo; 2. Non provocare, sopportare con serenità ogni provocazione; 
3. Vincere dimostrando di essere migliori dell’avversario; 4. Non usare 
le armi di cui si serve il vostro nemico. Non seguire il suo esempio; 5.
 Ricordarsi che il sangue sparso durante una guerriglia ricade su quelli
 che l’hanno versato; 6. Ricordarsi che in una lotta tra fratelli i 
vincitori sono quelli che vincono se stessi; 7. Convincersi che è meglio
 subire un torto che infliggerlo; 8. Non essere impazienti. L’impazienza
 non è altro che egoismo acceso; è un istinto; è un piegarsi a quanto 
pretende il proprio ego; 9. Non dimenticare che il socialismo vince 
nella misura in cui soffre perché è nato dal dolore e vive delle sue 
speranze; 10. Ascoltare la mente e il cuore che consigliano al 
lavoratore di essere più vicino al sacrificio che alla vendetta. Non si sarebbe potuto dettare un decalogo più nobile. Ma i socialisti italiani furono annientati dai fascisti,
 le loro organizzazioni vennero distrutte e i diritti dei lavoratori 
furono subordinati ad uno stato governato dai loro nemici. Gli operai 
possono vivere “delle loro speranze”, ma non c’è alcuna probabilità che 
queste si realizzino sotto il presente regime se chi vorrà farle 
diventare una realtà sarà un cultore di quei puri principi morali che il
 giornale socialista summenzionato propugnava.
[...].
Il
 tentativo di applicare le dottrine di Tolstoj alla situazione politica 
russa non ebbe un effetto molto diverso. Tolstoj e i suoi discepoli 
ritenevano che i contadini russi avrebbero potuto vincere la loro 
battaglia nella misura in cui non sarebbero stati contaminati da quella 
stessa violenza di cui il regime zarista dava prova nei loro confronti. I
 contadini dovevano rispondere al male con il bene, e vincere la loro 
lotta applicando i principi della non-resistenza. […] Nel complesso i 
risultati del suo movimento furono socialmente e politicamente deleteri.
 La dottrina tolstoiana finì per favorire la dispersione di un nascente 
movimento di protesta contro l’oppressione economica e politica e per 
far ripiombare i russi nella loro pessimistica passività. Gli eccessi 
dei terroristi sembrarono dare ragione all’opposizione tolstoiana alla 
violenza e alla resistenza. Ma alla fine i pacifisti si dimostrarono non
 meno inutili dei terroristi. […] La verità è che tanto
 il pacifismo quanto il terrorismo trovavano la loro matrice in un 
romanticismo borghese o in un idealismo aristocratico, mentalità 
entrambe troppo individualiste per ispirare delle iniziative 
politicamente efficaci. […]. Le loro [dei terroristi] idee erano
 etiche, e in una certa misura religiose, anche se loro si consideravano
 degli irreligiosi. L’efficacia politica di tale violenza era per loro 
una questione secondaria. I pacifisti tolstoiani cercarono di risolvere 
il problema sociale con una politica diametralmente opposta; ma avevano 
in comune con i terroristi il fatto che i loro propositi trovavano la 
loro origine nelle coscienze singole di individui inquieti. Né gli uni 
né gli altri comprendevano la realtà della vita politica, perché né gli 
uni né gli altri avevano un’idea del comportamento umano collettivo. I 
terroristi, da bravi romantici, non erano capaci di inquadrare i loro 
isolati atti di terrorismo in un qualsiasi programma politico concreto. I
 pacifisti d’altra parte attribuivano erroneamente un’efficacia politica
 alla pura non-resistenza".
Reinhold Niebuhr, "Uomo morale e società immorale".
*****
Quello
 che occorre è un approccio indiretto che escluda il braccio di ferro, 
la contrapposizione tra forze antitetiche ciascuna intenta a sopprimere 
l'altra, perché questo atteggiamento serve unicamente ad aggravare i 
problemi esistenti. Quel che occorre è una maggiore conoscenza della 
filosofia dell’Aikido, un’arte “marziale” che si fonda 
sull’autodisciplina interiore.È la strategia del disimpegno difensivo, che usa la forza in ossequio al sacrosanto diritto alla legittima difesa ed all’istinto di sopravvivenza, ma per il resto cerca di far prevalere un orientamento democratico, universalista ed umanista, predicando l’assertività in luogo dell’aggressività e della passività.
Si afferma la propria coscienza ed identità, ma senza sopraffare gli altri - salvo quando stanno cercando sisopraffarci -, nella consapevolezza che si è detentori di verità solamente parziali e che ci si deve assumere la responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni. Ci si difende, ma senza lasciarsi prendere la mano, senza trascurare la sollecitudine nei confronti degli altri e della natura. Per il suo fondatore, Morihei Ueshiba, la pratica dell’aikido serve a creare una comunità, un senso civico universale, per quanto possibile riconciliativo e nonviolento, ma non succube e remissivo. Richiede autodisciplina, onore, rispetto per sé e per gli altri, coraggio, forza, lealtà, tenacia, oltre alla capacità di accettare che la discordia ed il conflitto sono parte integrante della natura, sono generatori di vita, fino a quando non sono irriducibili, fino a quando conducono a nuovi equilibri riconciliativi, fino a quando l'intento non è solo quello di rimuovere il nostro prossimo una volta per tutte.

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