Dignità ed integrità socratica
Meglio
 sarebbe suonare su di una lira scordata, che stonato fosse un coro da 
me diretto, che la maggioranza degli uomini non fosse d'accordo con me, e
 dicesse il contrario di quel che penso io, piuttosto che essere in 
disaccordo e in contraddizione con me stesso
Gorgia 
Ma
 infine, Socrate, dicci in quale modo dobbiamo seppellirti?”, incalzano i
 discepoli. “Come volete”, rispose. E, ridendo tranquillamente, 
proseguì: “O amici, io non riesco a persuadere Critone che io sono 
questo Socrate, che ora discute e ordina ogni sua argomentazione: egli 
crede che io sia quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede 
come deve seppellirmi. Ciò che da un pezzo vado ampiamente dicendo, cioè
 che, dopo aver bevuto il veleno, non resterò più con voi, ma me ne 
andrò a raggiungere la felicità dei beati, queste per lui, mi pare, non 
sono che inutili parole per confortare voi e insieme me stesso. […] 
Sappi, mio buon Critone, che l’inesattezza di linguaggio non solo è una 
scorrettezza in se stessa, ma fa anche male alle anime. Bisogna, quindi,
 aver coraggio e dire che è il mio corpo che seppellisci e seppellirlo 
come ti piace e soprattutto come consideri più conforme alle usanze” 
Fedone (115d-e).
Non
 pretese mai di essere maestro…ma, solo mostrando il suo esempio, faceva
 sperare a quanti lo frequentavano che, imitandolo, sarebbero diventati 
come lui.
Senofonte
Socrate
 è il filosofo che scopre l’individuo, autocosciente, dissenziente, 
consapevole che, pensando con la sua testa, si pone come obiettivo 
primario quello di non diventare uno strumento d’ingiustizia, piuttosto 
che quello di difendere la tradizione, il tratto distintivo 
dell’Antigone di Sofocle. Il nucleo centrale del suo sistema teorico è 
l’idea dell’equivalenza dello status di tutti gli esseri umani. Con 
Socrate si diffonde il precetto che tutti gli esseri umani hanno un 
medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si 
fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi 
democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti 
umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate 
oltrepassa i confini categoriali che di solito ostacolano il 
riconoscimento del nostro prossimo come un essere umano pari in dignità 
rispetto a noi perché si dice certo che la condizione dell’anima ci 
accomuna e con essa la ricerca della virtù e della felicità: chi sbaglia
 direzione lo fa perché s’inganna, non perché sia privo della 
possibilità di vivere rettamente o perché le direzioni giuste siano 
molteplici – tutte le direzioni portano a destinazione, ma alcune sono 
tortuose e dolorose, anche se in apparenza sembrano agevoli, altre sono 
più lineari, anche se in apparenza paiono più gravose. Nel Menone 
leggiamo che “Tutti gli uomini, allora, sono buoni nello stesso modo, 
perché diventano buoni per le stesse cose, ma non sarebbero certo buoni 
nello stesso modo, se non avessero la stessa virtù”
Socrate
 è convinto che sopravvivere non sia abbastanza, occorre esserne degni e
 devono essere presenti quelle precondizioni essenziali, senza le quali 
la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi 
ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è 
peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un 
confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci
 sono azioni che queste persone non commetterebbero mai, 
indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto 
disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente,
 che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci 
sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus 
ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno 
irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della 
loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe impossibile 
rifiutarsi di eseguirne altri, di ancora più discutibili e riprovevoli. 
Dunque ogni persona “socratica” ha un preciso dovere, quello di non 
agire in contrasto con la voce della coscienza, a prescindere dai suoi 
timori e dalle conseguenze che dovrà subire. L’integrità morale è più 
preziosa della vita. Ma da dove proviene la voce della coscienza? È 
pre-razionale, eppure non è emotiva. Nel Simposio Socrate si apparta per
 ascoltare il suo daimon. Rimane immobile per ore. Lo aveva già fatto 
nell’accampamento militare a Potidea, dove salvò la vita di Alcibiade. 
Il daimon che interloquisce con Socrate è un istinto più profondo, che 
non ha nulla in comune con la natura egoistica degli istinti basilari e 
delle emozioni superficiali. È un autoesame, un’autocritica continua, 
un’incessante conversazione tra sé e sé (il suo demone): si spezza in 
due, osservatore ed osservato; la voce interiore della coscienza gli 
impedisce di agire in certi modi. 
La
 soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad 
ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza 
ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. 
Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per 
insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è 
la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la 
presunta sovranità popolare incarnata nel capo. 
Oggi
 il concetto di dignità ha subito un’evoluzione, è diventato più 
sofisticato, ma si riconosce ancora la fisionomia socratica. A cosa ci 
si appella quando si parla di dignità, odiernamente? Qual è la sua 
rapporto con la nozione di diritti? Che cosa fonda i principi morali, 
che cosa conferisce loro la forza che esercitano su di noi? Il filosofo 
politico statunitense George Kateb (2011) ritiene che la dignità sia un 
valore esistenziale relativo all’identità di una persona come essere 
umano. Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa 
trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una 
creatura subumana. Il concetto di dignità può essere esteso anche alla 
specie umana nel suo complesso, in virtù della sua unicità. L'essere 
umano è l'unico animale indeterminato, in quanto parzialmente 
non-naturale, cioè frutto dell'interazione di genoma, ambiente naturale 
ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia 
nell'assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è
 il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi
 il senso morale e di responsabilità). Non solo, la sua fondamentale 
indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere 
migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, insospettabile, appunto.
 E poiché è imprevedibile, è anche creativo ed innovativo. L'affinamento
 morale, civile, scientifico ed artistico derivano dalla porosità di 
questi confini dell'umano. In altre parole, come aveva intuito Sartre, 
gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni 
singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o 
falsa coscienza. A dispetto di tutto, la natura sarebbe impoverita se 
venissimo a mancare. La specie umana è infatti solo parzialmente 
naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende 
la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è
 la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica 
che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Come Adamo, l’essere 
umano può tornare ad essere il giardiniere, il guardiano e l’amico 
dell’ecosfera. 
Socrate
 crede nell’uguaglianza degli esseri umani e perciò non crede che il 
ruolo e la funzione definiscano una persona. Il potenziale di ciascuno 
si può esprimere in modalità imprevedibili, specialmente se ci liberiamo
 dalle catene che ci trattengono nella caverna dove tendiamo a credere 
che le ombre riflesse siano la realtà. Ma questo significa che nessuno 
avrebbe più diritto di altri ad essere convocato per rappresentare la 
specie umana in un ipotetico congresso delle specie che popolano la 
nostra galassia. Oggi si direbbe che non si può stabilire chi sia 
eugeneticamente più idoneo a rappresentarci tutti. Le potenzialità della
 specie non dipendono dal suo corredo genetico o configurazione 
biologica; non si raggiungerà mai il punto in cui si potrà dire: ecco, 
questo è il meglio che può dare l’umanità. Socrate chiede ai suoi 
interlocutori di sviluppare le proprie potenzialità invece di lasciarle 
latenti, di resistere alla tentazione di imitare gli altri o conformarsi
 in modo irriflessivo alle usanze, mode e mentalità prevalenti, 
resistere alla tentazione di fingere di essere ciò che non si è, ecc. 
Socrate crede che ciascuno possieda dentro di sé una quantità illimitata
 di informazioni e che domandare ad altri di rispondere ai propri 
interrogativi, attendere che siano altri a fare il lavoro al posto 
nostro, sminuisce e svilisce ciò che siamo, compromettendo il nostro 
libero arbitrio, deteriorando la nostra forza volontà e perciò 
esponendoci alla subordinazione passiva, infantile, all’altrui volere. 
Socrate ripete continuamente quest’idea che non dovrebbe essere lui a 
far procedere i ragionamenti, ma dovrebbe essere l’interlocutore che, 
spontaneamente, lascia che il suo intelletto prenda il volo, confidando 
nelle sue capacità. Per questo si definisce una levatrice. “È piuttosto 
chiaro che quel che hanno imparato non l’hanno appreso da me. Le 
magnifiche scoperte a cui hanno dato vita sono opera loro. A me ed al 
dio devono solo il parto” (Teeteto). Recentemente pare che la ricerca 
scientifica abbia confermato l’intuizione socratica. Uno studio degli 
indios amazzonici che ha coinvolto il CNRS francese, il Collège de 
France, tre università parigine e l’università di Harvard ha mostrato 
che non è solo il postulato maieutico ad essere corretto, ma anche il 
metodo dimostrativo di Socrate, che invita uno schiavo di Menone 
completamente a digiuno di geometria a dimostrare il Teorema di 
Pitagora: “tutti gli esseri umani potrebbero avere la capacità di 
dimostrare intuizioni geometriche. Questa capacità potrebbe però 
emergere solo dopo il raggiungimento dei 6, 7 anni di età. Potrebbe 
essere innato oppure acquisito nell’infanzia quando i bambini diventano 
consapevoli dello spazio che li circonda” (Izard et al., 2011)
La
 deontologia della levatrice prescrive che l’altro non sia creta da 
modellare ma un fiore che deve essere aiutato a sbocciare. Socrate si 
limita a mettere in dubbio le certezze del senso comune, nella speranza 
che chi dialoga con lui rifletta, analizzi ed espanda la sua conoscenza,
 ossia migliori la sua vita, divenga una persona più forte, più 
consapevole e più felice. Perché la felicità autentica dipende dalla 
crescita spirituale e quindi dal consolidamento della conoscenza. Nel 
fare tutto questo, Socrate assume per sé un unico compito, quello di 
insegnare agli altri come si insegna a se stessi, ad avere fiducia in sé
 e non nella volontà di una maggioranza, solo perché è una maggioranza. 
Tenta di convincere il prossimo a porsi delle domande, studiarle ed 
arrivare a delle risposte, autonomamente anche quando si confronta con 
le prospettive altrui (alle quali non si deve subordinare passivamente),
 perché è nelle sue corde farlo, se veramente lo vuole, perché le 
risposte sono già dentro di lui/lei e perché una vita ben spesa è una 
vita esaminata, una vita dedicata all’apprendimento, coralmente. Nel 
preludio all’esecuzione, i musicisti riscaldano ed accordano gli 
strumenti, suonando scale, arpeggi, o “soli”. In questa fase si deve 
porre attenzione al proprio strumento se si vuole creare della buona 
musica. Se invece si passa il tempo ascoltando ciò che fanno gli altri 
orchestrali, non sarà possibile ricavare della musica autentica dallo 
strumento che suoniamo. 
Ciò
 che è strumento di conoscenza è anche strumento di liberazione. Allora 
il dialogo esiste solo per distruggere la falsa conoscenza. Fatto salvo 
per le catastrofi naturali, i pericoli reali nel mondo nascono da dentro
 noi stessi. Perciò l’autoesame e la contemplazione dello svolgersi 
delle vicende umane è essenziale per la sopravvivenza della nostra 
stessa specie. È fin troppo facile esaminare e giudicare il mondo 
esterno. È doloroso esaminare se stessi. Per questo troppi non 
cominciano neppure a farlo. Eppure l’unica maniera per capire se la 
rozza mappa che stiamo usando per navigare nella vita sia almeno 
vagamente utile è metterla a confronto con altre mappe. Ciò è 
indispensabile perché nessun essere umano agisce direttamente nel mondo.
 Ciascuno si deve prima creare una rappresentazione del mondo in cui 
vive, una mappa, un modello da usare per navigare nella realtà. Questa 
rappresentazione della realtà determinerà in buona misura la nostra 
esperienza del mondo (percezione della natura umana, aspettative nei 
confronti del prossimo, tipo di scelte che riteniamo siano disponibili 
ed accettabili) e perciò anche il nostro comportamento. La coscienza è 
il mezzo con cui comprendiamo il mondo. Leggiamo la natura, la società e
 le motivazioni umane non come sono ma come la coscienza ci permette di 
interpretarle. L’errore che generalmente commettiamo è quello di 
scambiare la mappa per il territorio e di fossilizzarci su di essa, 
scambiando i nostri desideri e pregiudizi per la realtà. Questa tendenza
 è alla base di gran parte dei mali della nostra società. L’enorme 
merito di Socrate è stato quello di aver scovato una tecnica che 
consente di ovviare a questo problema, con perseveranza e pazienza. 
Invece di aspettare che siano gli altri a fornirci le risposte e le 
soluzioni e invece di credere di avere già in tasca le soluzioni adatte 
agli altri, dobbiamo concentrarci sull’oscurità ed ignoranza che ci 
avvince e fare luce da dentro, a beneficio di tutti. È un po’ quello che
 consigliava di fare Aleksandr I. Herzen, uno dei grandi pensatori russi
 del diciannovesimo secolo: “Se la gente cercasse, anziché di salvare il
 mondo, di salvare se stessa, anziché di liberare l’umanità, di liberare
 se stessa, avrebbe fatto molto per salvare il mondo e liberare 
l’umanità”. Accumulare conoscenza senza pregiudizi rende umili. 
L’umiltà, combinata con la conoscenza, inevitabilmente conduce alla 
conoscenza di sé. L’importante, ci insegna Socrate, è restare integri, 
cioè essere presenti a noi stessi e nel mondo, mostrare presenza di 
spirito, di carattere, agire in accordo con la propria coscienza, non 
inconsciamente, meccanicamente, per imitazione. Socrate chiede sempre ai
 suoi interlocutori di lasciar da parte quel che hanno sentito e di 
argomentare con la loro testa. Fare affidamento sulla propria coscienza 
anziché su quella altrui è un segno di maturità, o almeno un segno che 
una coscienza la si possiede – avere il proprio sistema di riferimento 
dentro di se, nella propria coscienza e non fuori, nelle regole imposte 
da altri, nei pregiudizi e nelle opinioni preconfezionate. Non 
egocentrismo ma coscienza di sé, cioè coscienza reale delle proprie 
potenzialità e dei propri limiti, integrità, una cosa ben diversa dalla 
mania di protagonismo. Socrate è un modello di integrità perché afferma 
di non sapere nulla. Naturalmente è un modo di dire. Socrate sa 
probabilmente molte più cose di tutti i suoi concittadini messi assieme,
 se non altro perché, a differenza di altri, è consapevole del fatto che
 quel che sa è una particella infinitesima di quel che si potrebbe 
sapere. Nelle parole dell’Apologia: “Certo sono più sapiente io di 
quest'uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo 
proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, 
mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un 
tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che
 non so, nemmeno credo di saperlo” (Socrate, Apologia). 
Democrito
 diceva che “bisogna sforzarsi di capire molto, non di avere una 
molteplice erudizione”. Socrate sa cos’è l’ingiustizia, ma non cosa sia 
un’eccellenza virtuosa, una vita migliore. Per questo invece di 
insegnare agli altri come comportarsi agisce astenendosi, evitando, 
negandosi, ignorando le ingiunzioni. La sua integrità, la sua piena 
presenza a se stesso ed agli altri, la sua attenta concentrazione, gli 
consentono di affermare di essere riuscito ad evitare gli errori più 
comuni e prevalenti. Si sforza di mostrare integrità e purezza nel suo 
agire, nella sua condotta, e di aiutare gli altri rendendosi disponibile
 per delle conversazioni, per far pensare gli altri e se stesso. Ne è 
convinto anche il dostoevskijano padre Zosima: solo quando uno conosce 
se stesso e si confronta a viso aperto, onestamente, può arrivare ad 
amare il prossimo e Dio. Senofonte ci tramanda il pensiero di Socrate su
 questo punto fondamentale: “Quelli che conoscono se stessi sanno ciò 
che loro conviene e discernono quel che possono e quel che non possono; 
facendo quel che sanno si procurano ciò di cui hanno bisogno ed agiscono
 bene, astenendosi da quel che non sanno, non sbagliano ed evitano di 
agir male”. In un altro passo: “Non gli premeva di rendere i suoi amici 
abili a parlare, ad agire e fronteggiare una situazione: riteneva che, 
prima, dovessero avere un retto sentire. Infatti, quanti, privi del 
retto sentire, erano in grado di far tutto ciò, riteneva fossero più 
ingiusti e più abili a compiere il male”.
Socrate e il Male
E
 non è dunque chiaro che non desiderano le cose cattive quelli che non 
le riconoscono come tali, ma che desiderano quelli che ritengono essere 
buone, e che, viceversa, sono cattive? Cosicché, quelli che non le 
conoscono come cattive e reputano che siano buone, appare evidente che 
desiderano le cose buone. O non è così? […] Nessuno, dunque, o Menone, 
desidera le cose cattive, se non vuole essere siffatto. Che altro 
significa essere infelice, se non desiderare e procurarsi cose cattive? 
[…]Dunque, in termini generali, le cose che l'anima intraprende e nelle 
quali persevera, quando il senno fa da guida, vengono portate ad un 
felice compimento ; quando invece a fare da guida é la dissennatezza, 
terminano esattamente al risultato opposto.
Menone
Non
 dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra 
cosa prima e con maggior impegno che dell’anima in modo che diventi 
buona il più possibile.
Apologia
Socrate
 spiega agli Ateniesi che non durerebbe un giorno se, da politico, si 
opponesse al volere delle moltitudini ed impedisse loro di commettere 
ingiustizie ed illegalità. In una società ingiusta il giusto non 
partecipa alla vita politica. Nell’Apologia Socrate spiega che se ne 
rimane nella sfera privata perché solo lì può combattere per ciò che è 
giusto. Chi vuole veramente combattere contro le ingiustizie deve farlo 
come privato cittadino, non come funzionario pubblico. Si parte dal 
basso, con Socrate, dalla quotidianità. Il filosofo ateniese si limita a
 fare in modo che le persone capiscano che danneggiando il prossimo 
danneggiano anche se stessi. Nel farlo rivela che, troppo spesso, a quel
 tempo come nel nostro tempo, il “processo “civilizzatore” si oppone 
alla crescita interiore perché si fonda su valori materialistici, 
illusioni spirituali, eccitazioni, trepidazioni, e tutto ciò che spinge 
l’uomo ad identificarsi con gli aspetti animali e meccanici di sé. Il 
benessere di questi aspetti produce odio, ingiustizia, violenza, guerra,
 in una cornice di moralismo integralista che Socrate contrasterà fino 
alla sua morte. I vizi mantengono l’uomo in schiavitù, bisogna 
combatterli per salvare la propria libertà. Socrate è libero, per quanto
 è possibile, da convenzioni, paura, brame materiali, gerarchie sociali.
 Rifiuta le passioni in nome della libertà. Sa che chi non teme la 
sofferenza e la morte è libero: nessuno potrà costringerlo a fare 
qualcosa. Sono la paura ed il desiderio che ci privano della libertà. 
Nella sua visione trascendentalista, che sarà poi fatta propria dai 
filosofi neoplatonici, ogni vizio ed ogni brama inchiodano l’anima al 
corpo ed alla materialità. “E pensi che tutti questi piaceri diano tanta
 gioia quanto il pensiero di diventar migliore tu stesso e di acquistare
 amici migliori? Per me, è il pensiero che ho sempre” – afferma il 
Socrate di Senofonte – che poi aggiunge: “Non aver bisogno di niente è 
divino, di pochissimo è vicinissimo al divino”. Che credesse in una vita
 dopo la morte è testimoniato dal fatto che nel Fedone egli afferma che 
l'unico suo desiderio è quello di morire, perché soltanto la morte gli 
consentirà di raggiungere la piena autenticità del proprio essere. 
Questo desiderio presuppone ovviamente la fiducia nell’immortalità 
dell’anima, un’anima che si corrompe, perde progressivamente la sua 
integrità se ego la ignora. Il Fedone è, a tutti gli effetti, una guida 
al misticismo occidentale (McEvilley, 2002): l’anima deve ritrarsi dai 
sensi, concentrarsi su se stessa, diventare quieta ed immutabile per 
arrivare a conoscere ciò che è quieto ed immutabile, separatamente dal 
corpo (Fedone, 64-67). Nel Sofista (248a), Socrate spiega che 
“interagiamo con gli altri attraverso l’anima, per riflesso ed il vero 
essere si trova sempre in uno stato di immutabilità”. Quel che manca, 
per Socrate, è la consapevolezza di questo processo ed è quest’ignoranza
 che ci fa sbagliare. Lo ripete o vi allude un gran numero di volte: non
 si compie il male consapevolmente. Nessuno pensa di essere un malvagio.
 Gli inquisitori spagnoli erano convinti di salvare delle anime 
dall’inferno. Hitler era convinto di salvare il mondo dalla piaga 
ebraica. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. 
Ognuno ritiene di fare la cosa giusta, ma confonde il bene col male. 
Aristotele aggiunge il cruciale fattore della razionalizzazione 
utilitaristica del male: si compie il male ben sapendo che non è il bene
 ma nella prospettiva di un bene maggiore. In genere è solo per 
nascondere appetiti e brame irresistibili ed una generale debolezza di 
carattere. Un malvagio non si rende minimante conto del fatto che 
danneggia prima di tutto se stesso. Non c’è dunque malvagità senza 
ignoranza e debolezza morale, che comporta l’incapacità di tener testa 
ai propri appetiti. Il male è perciò un deficit caratteriale, è assenza 
di una corretta armonizzazione, sintonizzazione delle proprie 
disposizioni, eccesso, sproporzione, esagerazione nelle brame, 
indomabili, incontrollate. Se facciamo qualcosa di sbagliato è perché 
per un momento, oppure permanentemente, abbiamo perso di vista il nostro
 vero bene, visto che non ha senso ritenere che uno scelga 
deliberatamente di danneggiare se stesso (eccetto in casi patologici). 
Sbagliamo perché scegliamo quel che riteniamo sia meglio per noi nel 
breve termine invece di abbracciare una prospettiva di più ampio 
respiro. Meglio (per l’anima) sarebbe coltivare la virtù e difendere la 
propria integrità morale. Non saremo mai in grado di usare bene status, 
potere e denaro se la nostra anima non è in buone condizioni. Per amare 
bisogna sapere, e sapere significa essere illuminati, ed essere 
illuminati significa amare e conoscere è amare e così via. Il filosofo 
non si accontenta della molteplicità degli individui e dell’apparenza ma
 cerca la conoscenza della vera natura di ogni essenza, perché conoscere
 la virtù significa comparteciparne, diventare la virtù. La conoscenza 
riorganizza una persona dall’interno, il suo intero essere (Repubblica 
490a-b). Un sistema morale basato su adesioni emotive è illusorio ed 
ingannevole. L’ideale morale, la sapienza purificano da questa 
emotività. L’anima è distaccata dall’emotività del corpo e conosce tutte
 le cose (Fedone 69). “Sappi, insomma, che la vera virtù non è mai 
disgiunta dalla Sapienza, si accompagnino o meno alla virtù piaceri, 
terrori e altre siffatte passioni. In una parola, tutto ciò che è da lei
 separato e oggetto di mutuo cambio, non è vera virtù, ma scenario 
dipinto, cosa ignobile e servile che non presenta nulla di sano e di 
vero. Penso che proprio il purificarsi da tutte queste passioni 
costituisce la temperanza, la giustizia e la fortezza, e che il sapere 
stesso è un mezzo di purificazione” (Platone, 2007). Il piacere ed il 
dolore mettono l’anima ai ceppi del corpo. Ogni piacere serve a 
convincere l’anima che il punto di vista del corpo è quello giusto.
Gli
 archetipi platonici formano il mondo, manifestandosi nel tempo, ma 
rimanendo fuori dal tempo. Ciò che è bello lo è perché è partecipe della
 forma assoluta del Bello. Socrate crede che la conoscenza della virtù è
 necessaria per una vita virtuosa e concetti universali obiettivi di 
giustizia e bontà sono indispensabili per un’etica autentica. Senza 
queste costanti immutabili che trascendono i capricci e le stravaganze 
umane e delle loro istituzioni non ci sarebbe alcun fondamento utile per
 discernere i veri valori e si sprofonderebbe nel relativismo amorale. 
L’universale è superiore rispetto al particolare e non cambia, dunque è 
più reale. Solo la conoscenza che deriviamo dalle Idee è infallibile, 
solo quella è vera conoscenza. Le cose del mondo non esistono realmente,
 perché tutto è in un costante stato di trasformazione in qualcos’altro.
 Fortunatamente la mente umana è attrezzata per capire l’universale, 
essendo ordinata secondo le stesse strutture ed essenze archetipiche. È 
nella natura degli esseri umani la ricerca della felicità, ma la 
felicità si ottiene quando si vive un’esistenza in armonia con le 
esigenze dell’anima. Ricchezza, potere, fama nulla possono se la vita 
non è adatta all’anima (Tarnas, 1991).
Per
 vedere le cose come sono (e non come sembrano essere o come desideriamo
 che siano) occorre disciplina mentale e forza caratteriale. Ci si deve 
distanziare dall’oggetto per impedire alle nostre paure, fantasie ed 
affetti di interferire con la nostra obiettività. Gli egoisti ed 
egocentrici – e lo siamo tutti, sebbene in misura diseguale – sono 
incapaci di sviluppare se stessi e l’obiettività poiché ciò risulta 
dall’espandersi all’esterno non dal ritrarsi all’interno. La loro sorte è
 miserevole, diventano simultaneamente servi e tiranni. Infatti chi è 
tiranno non ha mai amici, è sempre signore di qualcuno e servo di 
qualcun altro. In genere è associato alle persone peggiori, agli sleali 
ed ai sicofanti. 
C’è
 uno spettro di umanità che va da un basso livello di sviluppo emotivo, 
caratteristico di quelle persone che vivono essenzialmente per 
soddisfare i propri bisogni primari istintuali ed automatici e per 
l’auto-preservazione, ad un elevato tasso empatico che in alcuni casi 
arriva ad incorporare l’intera ecosfera e l’universo: i mistici e 
presumibilmente, a giudicare dalle sue parole, anche Socrate. Senza 
l’aiuto del prossimo, che fa le veci di Socrate, gli esseri umani non 
sono strutturalmente capaci di pensare in modo obiettivo, ma solo per 
approssimazione, mentre la pace, l’amore e la ricerca della verità e 
della felicità richiedono equanimità ed obiettività. Per Socrate, come 
per Camus, il peggior fallimento di una persona è quello di ingannare se
 stessi e vivere nella menzogna, in cattiva fede. Si rispettano gli dèi,
 ma si venera la verità, si usano parole giuste e veritiere, si agisce 
senza arroganza e superbia, senza pretendere necessariamente favori e 
contraccambi. Menzogna è parlare di cose che non si sanno e che persino 
non si possono sapere come se si sapessero e si potessero sapere. Spesso
 si accompagna alla generazione di scenari immaginari, che ci piacciono,
 completamente avulsi dalla realtà obiettiva. Si finisce per credere che
 sia reale e vero ciò che non lo è. 
La violenza, la non-violenza e la non-resistenza al male in Socrate
Nemmeno
 se ci viene fatta ingiustizia si deve rendere ingiustizia, come invece 
pensa la maggior parte della gente. […] Dunque né si deve rendere 
ingiustizia di ricambio né far male a nessuno degli uomini, neanche se 
si sia patito qualche male da costoro 
Critone
È più vergognoso compiere ingiustizia che riceverla
Gorgia
La
 miglior illustrazione socratica dell’origine della violenza umana e 
delle tecniche che ci possono consentire di mitigarne gli effetti, se 
non proprio di tenrla a bada tutto il tempo si trova nel Fedone. 
Socrate, dopo aver dialogato con Simmia, conclude: “Dunque tutte queste 
considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale
 da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un 
sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il 
corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non 
riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà
 infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si 
ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È
 ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di 
immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il 
pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le 
rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue 
passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e 
queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come 
siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla 
filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere 
liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, 
ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e
 tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non 
siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato 
che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo 
distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora 
soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci 
costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo 
amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, 
che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si 
esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che 
agli altri” (Platone, 2007).
È
 possibile che l’anima ricerca disperatamente la via del ritorno 
all’origine, cioè alla destinazione e, nella sua disperazione, affanno e
 sviamento, cozza contro tutto e tutti, nella speranza di trovare un 
passaggio, una via di fuga da una realtà implacabile e densa. Questo lo 
pensava Diotima, la maestra di Socrate (Simposio, 210) e non è un’idea 
estranea all’Immanuel Kant della “Critica del Giudizio”: “la sublimità 
dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell'animo nostro, 
in quanto noi possiamo riconoscerci superiori alla Natura”. L’anima 
riflette meglio quando si libera dalle distrazioni corporali, quando 
ignora il corpo. Il corpo è solo un’interferenza nella contemplazione 
del vero. Nel Simposio Socrate parla di Eros, la guida per la crescita 
spirituale e spiega che si comincia con l’amore per i bei corpi, che può
 essere di stimolo, ma quasi sempre conduce alla gelosia, alla 
possessività, invidia, egotismo, ecc. Questo è seguito dall’amore per 
tutti i bei corpi, che è più distaccato, non legato ad un corpo 
specifico ad esclusione di tutti gli altri. È più difficile mantenere un
 senso di possesso: si passa da “è mio!” a “sono anche miei”. Il terzo 
stadio è quello in cui si amano non i bei corpi ma le belle anime. 
Succede allora che l’anima, guardando nelle altrui anime, comincia a 
(ri)conoscersi (Alcibiade 133b). Al quarto stadio c’è l’amore per le 
leggi giuste che preservano l’armonia nella comunità, allontanandosi 
sempre di più dalla sfera materiale. Al quinto l’amore comincia ad 
ammirare i principi universali dietro ad ogni fenomeno particolare. 
Nell’ultimo stadio c’è la visione della bellezza universale che sostiene
 l’universo, la mente ha raggiunto un completo distacco dal corpo, 
raggiungendo la conoscenza e la virtù assolute e diventa immutabile. È 
utile porre a confronto questa ricostruzione del processo di 
conscientizzazione con gli stadi di maturazione cognitiva, morale e 
spirituale proposti dagli psicologi e pedagogisti Jean Piaget 
(1896–1980) e Lawrence Kohlberg (1927–1987). 
È
 con il Critone che apprendiamo la filosofia socratica dell’astensione 
dal rendersi complici di iniquità. Il messaggio centrale di questo 
dialogo giovanile è che l'importante non è vivere, ma vivere bene. Il 
discepolo Critone vuole che Socrate si metta in salvo prima dell’arrivo 
di una nave sacra che segnerà il suo destino, l’esecuzione della sua 
condanna a morte. È preoccupato perché teme che la gente finisca per 
schernire i discepoli e gli amici di Socrate che non l’hanno tratto in 
salvo quando potevano. Che esempio darebbero? Socrate replica che non ci
 si deve preoccupare delle opinioni di chi, come non è capace di 
commettere grandi iniquità non è neppure in grado di fare del gran bene.
 Ci si cura solo dell’opinione delle persone assennate: “se fosse vero, 
Critone, che i più siano capaci di fare i mali più grandi, per essere 
anche capaci di fare i beni più grandi, sarebbe una bella cosa. Ma in 
realtà non sono capaci né di una cosa né dell’altra; perché non hanno la
 possibilità di rendere nessuno né saggio né stolto, ma fanno quel che 
capita” (44d). Critone assicura Socrate che chi gli vuole bene è pronto a
 mettere a sua disposizione tutto quel che serve per salvargli la vita: 
non bisogna darla vinta ai nemici e poi il maestro ha ancora molto da 
insegnare. Socrate non è turbato dall’idea di morire: ha sempre ribadito
 che il corpo è molto meno importante dell’anima e per questa ragione il
 semplice vivere è di valore secondario: ciò che deve importare è vivere
 bene, ossia secondo giustizia. “Se, per prestare ascolto all’opinione 
degli incompetenti, rovineremo quella parte che è resa migliore da ciò 
che è salutare ed è corrotta da ciò che è malsano, potremo ancora vivere
 quando essa sarà corrotta? Questa parte è il corpo: non è così? […] 
Potremo vivere quando sia corrotta quella parte che è rovinata 
dall’ingiustizia e avvantaggiata dalla giustizia? O pensiamo che sia da 
meno del corpo questa parte…?” (47d-e) Socrate spiega che quella, 
l’anima, è la parte più pregevole e poi continua: “esamina se anche 
questo ci rimane assodato o no: se ciò che si deve apprezzare di più non
 sia il vivere, ma il vivere bene”. Critone risponde: “Rimane assodato”.
 Al che Socrate insiste: “E che il vivere bene è la stessa cosa che 
vivere onestamente e giustamente, rimane assodato o no?”. Critone 
conferma: “rimane assodato” (48b). 
È
 quindi giusto o no mettersi in salvo? Socrate è dell’idea che non si 
debba mai commettere un’ingiustizia, neppure per ricambiarne una che si è
 subita. “Noi diciamo che in nessun modo si deve commettere 
volontariamente ingiustizia o che in qualche modo si può e in un altro 
no? Il commettere ingiustizia non è come spesso anche in passato abbiamo
 ammesso mai e in nessun modo né buono né bello? …sia che i più lo 
riconoscano sia che no, sia che dobbiamo subire mali ancor più gravi di 
questi o meno gravi, la cosa sta proprio come dicevamo allora, cioè che 
in ogni modo il commettere ingiustizia è, per chi la commette cosa 
brutta e cattiva? Lo diciamo o no? […] Dunque neppure se si subisce 
ingiustizia, bisogna ricambiarla, come credono i più, perché non bisogna
 commettere ingiustizia in nessun modo. […] Dunque non si deve né 
ricambiare l’ingiustizia né far male a nessuno degli uomini qualunque 
cosa si subisca da essi. […] Tra quelli che sono di questo parere e 
quelli che non lo sono, non è possibile una decisione comune, anzi 
necessariamente si disprezzano reciprocamente vedendo le rispettive 
decisioni. Perciò osserva anche tu molto attentamente se ti associ e 
condividi la mia opinione: in tal caso cominciamo a decidere partendo da
 questo punto, che non è mai cosa retta né commettere ingiustizia né 
contraccambiarla né, quando si subisce un danno, vendicarsi 
ricambiandolo” (49). 
Ma
 se le leggi sono ingiuste? Non è forse giusto violare delle leggi 
ingiuste che oltraggiano il buon senso e la moralità dei cittadini? La 
fuga non è dunque una forma di disubbidienza civile, un gesto di 
condanna dell’iniquità? Socrate – curiosamente, dato che per tutta la 
vita sceglieva di dibattere con persone in carne ed ossa e non con 
astrazioni prive della facoltà di esprimersi –s’immagina che le leggi 
parlino con lui e gli domandino ragione del suo comportamento e delle 
sue intenzioni. Il suo giudizio complessivo nei loro confronti non è 
troppo dissimile da quello espresso da Paolo nella lettera ai Romani 
(13, 1): le leggi e le autorità vanno rispettate comunque. È vero che 
c’è la scelta tra ignorarle emigrando e osservarle restando ma Socrate è
 sempre rimasto al suo posto, dimostrando il suo attaccamento alla polis
 e di conseguenza alle sue leggi. Infrangerebbe un tacito accordo. Non 
sono le leggi che l’hanno offeso, ma i giudici e non c’è ragione di 
temere la “giustizia” di esseri umani privi di lucidità, di una polis 
che non è stata all’altezza dei suoi migliori principi. 
Eppure
 questo stesso Socrate fu di uno dei primi esempi di disobbedienza 
civile a noi pervenuti. Nel 404 a.C. i Trenta Tiranni gli avevano 
ingiunto di arrestare Leone di Salamina, ma lui aveva deliberatamente 
ignorato l’ordine, ritenendo che la fonte dell’autorità fosse 
illegittima, come le sue disposizioni. 
Giovanni
 Reale definisce Socrate un rivoluzionario. Ma in che senso? Nel senso 
nonviolento, perché si fa strumento della persuasione e della 
disobbedienza (Reale, 2001). Ma il Socrate del Cratilo sembra più simile
 al Gesù del “porgi l’altra guancia” ed al Tolstoj fautore della 
non-resistenza di fronte al male.
Nel
 Gorgia, Socrate discute con Polo dell’ingiustizia e di come essa 
corrompa l’anima. Socrate paragona gli effetti dell’ingiustizia 
sull’anima a quelli della povertà per il corpo. Ma il male dell’anima è 
il peggiore e “deve la sua superiorità a qualcosa di straordinario, ad 
un grande danno o ad un male portentoso, dal momento che non la deve al 
dolore”. L’ingiustizia, come l’intemperanza è un male massimo. Perciò la
 colpa massima ricade su chi sfugge ad un giusto verdetto e la sua anima
 sarà la più corrotta, ma non potrò accorgersene, perché sarà troppo 
ignorante per poterlo fare: “vedono il suo aspetto doloroso, ma restano 
ciechi di fronte alla sua utilità e ignorano quanto sia più infelice 
vivere con un’anima malata che con un corpo malato, cioè con un’anima 
corrotta, ingiusta ed empia. Per questo fanno ogni tentativo per non 
scontare la pena e non essere liberati dal massimo male, si procurano 
ricchezze e amici e cercano di diventare il più persuasivi possibile nel
 parlare”. Se ne deduce allora che commettere un’ingiustizia non è il 
male principale, quello più terribile. Peggiore ancora è lo sfuggire 
alla giusta sanzione. Tuttavia non era questa la condizione di Socrate, 
anzi. Socrate, usando il sofisma del colloquio con le leggi, accetta 
un’ingiusta condanna, emessa da un tribunale ingiusto, sulla base di 
accuse ingiuste e, nel farlo, sceglie di essere un cattivo esempio per 
chi, nella comunità, lo ha ammirato e ha cercato di emularlo. Infatti, 
da quel momento in poi, nessuno potrà più dire che subire un’ingiustizia
 passivamente sia sbagliato, mentre sottrarsi all’iniquità diventerà un 
atto di viltà ed una mancanza di rispetto verso leggi che non hanno 
colpa per la loro malinterpretazione da parte degli uomini. Questo tipo 
di comportamento da parte della cittadinanza di una democrazia non potrà
 che incrementare il tasso di iniquità ed ingiustizia in seno alla 
polis, esattamente l’opposto del risultato che si prefiggeva Socrate. 
Per ben due volte, nel 406 a.C. e nel 404 a.C. Socrate si era rifiutato 
di eseguire degli ordini per non commettere ingiustizie. Non era forse 
tenuto a farlo una terza volta, per non commettere un’ingiustizia nei 
confronti del suo insegnamento? Chi scrive non reputa che questo 
messaggio sia coerente con lo spirito di quanto affermato da Socrate nel
 corso della sua esistenza e si domanda se Platone abbia descritto i 
fatti come avvennero o abbia voluto “interpretarli” per armonizzarli con
 il suo temperamento chiaramente anti-democratico. 
È
 lecito, tra l’altro, domandarsi come il Socrate del Gorgia si sarebbe 
comportato nella Russia sovietica, nella Germania nazista, nella Cina 
dei nostri giorni o nell’America della Guerra al Terrore, quella dei 
“danni collaterali”, degli “omicidi extra-giudiziari”, dei “metodi 
d’interrogatorio più aggressivi” e delle “tecniche avanzate di 
interrogatorio” (leggi: tortura), delle “consegne straordinarie” 
(extraordinary renditions, cioè deportazioni illegali), dei “combattenti
 nemici illegali” (leggi: :inapplicabilità delle convenzioni di 
Ginevra), del Patriot Act, di Guantánamo, di Abu Ghraib, Abu Selim e 
delle altre prigioni segrete. Forse, in tali frangenti, Socrate avrebbe 
condiviso la critica rivolta dal saggio scita Anacarsi a Solone: “Si 
racconta che Solone abbia accolto amichevolmente Anacarsi, e che l’abbia
 ospitato a casa propria per qualche tempo, quando già aveva intrapreso 
la sua attività pubblica e andava compilando le sue leggi. Quando 
Anacarsi lo venne a sapere, derise l’impegno di Solone: egli credeva di 
trattenere le ingiustizie e le violenze dei suoi concittadini tramite 
degli scritti che non differivano in nulla dalle ragnatele; come le 
ragnatele, essi avrebbero trattenuto, fra chi vi incappava, i deboli e 
gli umili, mentre i potenti e i ricchi le avrebbero spezzate. Ma Solone –
 si racconta – gli rispose che gli uomini rispettano quei patti che a 
nessuno dei contraenti conviene trasgredire, e che egli rendeva le sue 
leggi adeguate ai concittadini, in modo da mostrare a tutti che agire 
rettamente era meglio che andare contro la legge. Tuttavia, i fatti si 
svolsero come Anacarsi aveva immaginato, più che come aveva sperato 
Solone” (Plutarco, Vita di Solone, 5, 3-6).
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