In verità, in
verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare
nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è
nato dallo Spirito è spirito…Il vento soffia dove vuole e ne senti la
voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo
Spirito.
Giovanni 3, 1-8
La crisi, il
default, i Maya, le catastrofi naturali, le schermaglie medio-orientali,
la guerriglia urbana, il cambiamento climatico, gli ordini della troika
finanziaria: tutto ci fa pensare alla morte, più o meno consciamente.
“E quando tornate a
casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla del
Ministro della Paura... guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi...è
straordinario...”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del
magnifico Antonio Albanese,
ma rappresenta accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla
regressione, la frustrazione all’aggressività, l’ansia
all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature che sanciscono
quella che Fromm ha chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga
dalla pace. Un antropologo statunitense, Ernest Becker,
ha studiato la paura dell’estinzione fisica e storica, ed è giunto alla
conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità
di produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di
generare l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982).
Quindi non si tratta della semplice reazione di chi si sente fisicamente
vulnerabile, tutti noi vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso,
che conti qualcosa, che dia un contributo significativo ad un’entità
durevole – la Chiesa, la Scienza, l’Etnia, la Società, la Razza, la
Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura, l’Arte, la Rivoluzione, la
Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la prospettiva della nostra
morte rende quest’esigenza ancora più pressante. Perfino avere un blog
può far sentire più vivi, più significativi. Il blog, come tante altre
attività umane, è un progetto di immortalità, un qualcosa che nega alla
morte – alla prospettiva di morire – il potere che esercita su di noi.
Il culto delle celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per
continuare a vivere fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di
acquisirne le proprietà magiche della permanenza ed invulnerabilità. Il
problema è che questi progetti di immortalità sono indissociabili
dall’affermazione di una verità assoluta che ci gonfia di un orgoglio
narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive alternative,
giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di
sistemi di immortalità diversi dai nostri. Chi ha paura di morire,
di norma, è egoista ed aggressivo: mors tua, vita mea. La paura ci
impedisce di praticare, per quanto è possibile la nonviolenza e la
solidarietà. Ci rende sociopatici, anche se in condizioni normali non lo
saremmo. Ci rende pecore in un gregge, desiderose di essere guidate dal
pastore (e costrette a crederlo buono).
Occorre tenere a
bada questa paura di morire, se vogliamo conservare la dignità, il
contegno, l’onore, l’autostima, una coscienza/anima che non sia
deturpata dal Male.
Occorre capire di che vita stiamo parlando.
Il credente può
restare interdetto nel leggere certi passi evangelici che riguardano la
vera vita. Gesù si dichiara un irriducibile amante della vita, ma non di
quella vita organica che la Chiesa sembra voler difendere oltre ogni
ragionevole aspettativa. Gesù insegna che esiste un’altra vita, una vita
sensibilmente più importante di questa, tanto che “chiunque è vivo per
colui che vive non vedrà la morte” (Tommaso, 111). È beato chi “si è
impegnato ed ha trovato la vita" (Tommaso, 58), ma il compito non è per
niente facile: “stretta invece è la porta ed angusta la via che mena
alla vita, e pochi son quelli che la trovano” (Matteo 7:14). È come
inoltrarsi in un labirinto, ma è necessario farlo, perché “chi vorrà
salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per
amor mio, la troverà” (Matteo 16: 25). Sarà una vita vera ed eterna, non
come quella del presente, che equivale ad una morte vivente: “Chi
ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna;
e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni
5:24). Il corpo di carne, infatti, è il fardello della caduta e Gesù non
sa che farsene: “È lo spirito quel che vivifica; la carne non giova
nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Giovanni 6, 63).
Il suo piano è incentrato proprio sul dono della vera vita: “io son
venuto perché abbian la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,
10). Questo l’ha ben compreso Paolo di Tarso, che rincara: “Perché ciò a
cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito ha l’animo, è
vita e pace” (Romani 8:6).
“Nirvana” era
originariamente il termine che indicava la condizione spirituale di chi
si è liberato dall’identificazione con ego e con l’universo materiale.
La traduzione come “vuoto” o “nulla” ha stravolto orribilmente il suo
significato. Il fine del Buddha non era certo il raggiungimento di uno
stato di “non-esistenza” ma semmai il contrario, ossia uno stato di
piena, consapevole, obiettiva percezione della realtà.
Passiamo ora alla fisica quantistica, con una serie di citazioni:
“Nulla esiste finché non è misurato” (Niels Bohr, Nobel 1922).
“Un elettrone è una potenzialità immateriale finché non viene osservato” (Max Born, Nobel 1954).
“Se non sono
disturbati dall’osservatore, gli elettroni non sono cose, non esistono
nello spazio e nel tempo, la loro esistenza è meramente potenziale.
Emergono in una condizione di esistenza reale ma provvisoria nell’atto
di misurazione che è quindi un atto creativo” (Erwin Schrödinger, Nobel
1933).
“Per ciò che
riguarda le particelle che costituiscono la materia, non sembra esserci
alcuno scopo nel considerarle come composte di qualche materiale. Sono,
in un certo senso, pura forma, nient’altro che forma; ciò che si
manifesta di volta in volta in osservazioni successive è questa forma,
non uno specifico frammento di materia” (ancora Erwin Schrödinger).
“Le più piccole
unità di materia non sono, di fatto, oggetti fisici nel senso ordinario
della parola; sono forme, strutture o, nell’accezione platonica, Idee,
di cui si può parlare in modo non ambiguo solo nel linguaggio della
matematica” (Werner Heisenberg, Nobel 1932).
“La gente pensa
sempre che, quando si dice “realtà”, si sta parlando di qualcosa di
chiaramente noto a tutti, mentre invece per me il più importante e più
arduo compito del nostro tempo è lavorare alla costruzione di una nuova
idea di realtà” (Wolfgang Pauli, Nobel 1945, lettera a Markus Fierz,
1948).
“Gli elementi
costitutivi del mondo fisico sono quelli che chiamiamo eventi. Un evento
non persiste e non si sposta come un pezzo di materia tradizionale:
esiste semplicemente per un suo breve attimo e poi cessa” (Bertrand
Russell, “L’ABC della relatività”).
“Se si era
inizialmente creduto che nel corso del progresso delle scienze tutto ciò
che è ‘trascendentale’ sarebbe stato progressivamente soppresso, perché
in ultima analisi si poteva ricondurre tutto ad una spiegazione
razionale, si dovette poi ammettere che il mondo materiale che per noi è
così tangibile, si dimostra invece sempre più simile ad apparenza e si
dissolve in una realtà che non è fatta di cose e di materia, ma di forme
che predominano. [...] La fisica quantistica ci ha confermato ancora
una volta che la nostra esperienza scientifica, la nostra conoscenza del
mondo, non rappresenta la realtà ultima ed intrinseca, qualunque
significato si voglia attribuire a queste espressioni” (Hans-Peter Dürr,
fisico nucleare e quantistico tedesco, 1986).
“Se l’universo è
vivo, le emozioni possono avere un significato cosmologico” (Shimon
Malin, fisico teorico, Colgate University, 2011).
Infine, una riflessione di un biochimico belga, Christian De Duve, Nobel per la medicina nel 1974:
“Ora sappiamo che
l'immagine del mondo offerta dai nostri organi di senso, che pure
funziona perfettamente nella vita di ogni giorno, ha poco a che fare con
la realtà. Ciò che ci sembra solido e impenetrabile è perlopiù vuoto
[...]. Di conseguenza, la nostra definizione intuitiva della materia è
completamente distorta dai filtri che i nostri organi di senso
interpongono fra un oggetto e noi. Si tratta di una definizione
essenzialmente pragmatica, basata sul genere di informazioni che si sono
rivelate più utili nella ricerca del cibo, nella lotta contro i
predatori e per il successo riproduttivo. Come strumenti di conoscenza,
queste informazioni sono quasi prive di valore” (De Duve, 2002, pp.
292-293).
Cosa significa
tutto questo? Significa che l’elettrone esiste solo come campo di
potenzialità, potenzialità di diventare una cosa (o per meglio dire un
evento), con certe proprietà che possono essere misurate. Solo l’atto di
misurazione trasforma il potenziale in effettivo. Protoni e neutroni,
che formano l’atomo, assieme agli elettroni, si comportano allo stesso
modo. Questi sono gli elementi costitutivi della materia che forma
tavoli, sedie, libri ed esseri viventi. Continuiamo a chiamarli
particelle anche se non lo sono, per mancanza di un termine migliore. Sono eventi: ergo, solo la coscienza dell’osservatore rende reale ciò che non lo è (Malin, 2011).
Ciò vale per gli
atomi come per ogni elemento della realtà che vediamo. Questa
conclusione alla quale sono giunti molti dei fondatori della fisica
quantistica è in linea non solo col buddismo e con il neo-platonismo, ma
anche con il pensiero di David Hume e George Berkeley – “esse est
percipi”: essere significa essere percepiti. Solo ciò che è percepito è
reale. Non sorprende quindi che Werner Heisenberg, Albert Einstein,
Wolfgang Pauli, Arthur Eddington, Alfred North Whitehead, David Bohm ed
Erwin Schrödinger fossero affascinati dal neoplatonismo, dal
pitagorismo, o dal buddismo; per loro i determinismi potevano essere
trascesi. Pauli, nelle sue conversazioni con Jung, ipotizzava addirittura che gli archetipi potessero strutturare la materia.
Se la psiche e la materia sono un’espressione di un ordine retrostante,
comune ed obiettivo, allora l’archetipo è come uno specchio che si
manifesta come riflesso nella psiche e nella materia. Ciascuno si deve perciò assumere la responsabilità di ciò che crea ad ogni livello (Gieser, 2005).
Ma anche se
ignorassimo questa branca della fisica e continuassimo a credere
all’interpretazione materialista-riduzionista della realtà, resta il
fatto che la materia è fatta di atomi e gli atomi sono virtualmente
vuoti (al 99,9 periodico percento), tanto che se si togliesse lo spazio
tra elettroni e nucleo la Terra si ridurrebbe ad una palla da baseball.
Un altro esempio: se un atomo fosse grande come il Meazza, il nucleo
sarebbe più piccolo di un pisello a centro campo. Dunque la tastiera con cui scrivo queste parole è sostanzialmente vuota, come chi scrive, come ciascuno dei lettori. Il
mio fondoschiena non è a contatto con una sedia ma è sostenuto, nel
vuoto, dalla resistenza elettromagnetica alla compressione degli
elettroni (le particelle con la stessa carica si respingono).
Anche il
granito delle nostre montagne è vuoto. Se lo percepiamo come “granitico”
è solo perché i nostri sensi non ci consentono di cogliere la natura
quasi illusoria della materia. I nostri sensi sono materiali e quindi
accettano l’illusione di solidità di ciò che li circonda, che è prodotta
dal moto rapidissimo delle particelle atomiche, allo stesso modo in cui
i raggi di una ruota di bicicletta che gira sembrano formare un solido
ed uniforme disco di metallo, sebbene la ruota sia in gran parte vuota.
Dunque, se persino
ciò che il nostro cervello percepisce come indiscutibilmente solido,
pieno, stabile, permanente, tangibile, ecc. non lo è, risulta ancor meno
sensato badare a quegli spettri impalpabili ed evanescenti che sono i
nostri spauracchi e i nostri idoli e miti, tutto ciò che abbiamo
inventato per riuscire a soddisfare il nostro duplice bisogno
sado-masochista di venerare noi stessi e contemporaneamente prostrarci.
Queste finzioni sono ombre o riflessi delle interazioni umane. Il mondo
reale non è una collezione di oggetti e la questione dell’identità,
dell’essere identici a se stessi, dell’essere vivi, corporalmente, non
ha alcun senso. Ogni evento è reale e unico, separato e distinto da ogni
altro. Non esiste alcuna entità che rimanga identica da un momento all’altro, il mondo è sempre nuovo, non si muore mai veramente. Panta rei, tutto scorre, come dicevano i Greci ben prima di Eraclito, al quale l’aforisma è stato erroneamente attribuito.
Noi ci formiamo
un’illusoria impressione di identità nel corso del tempo solo perché
entità sempre nuove continuano a creare schemi che ci appaiono come
analoghi, incessantemente. In questo senso la fisica quantistica è in
piena sintonia con i dati delle altre scienze che abbiamo citato
nell’introduzione a “Contro i miti etnici” (Fait/Fattor, 2010, p. 12):
“la biologia insegna che ogni organismo è un prodotto squisitamente
unico dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni istante della
vita di ciascuna persona. Per i genetisti di popolazione, se c’è da fare
una suddivisione della specie umana, l’unica distinzione significativa è
quella tra individui. Gli studi neurologici dimostrano che non esistono
due cervelli che siano identici, neppure tra gemelli identici, perché
le variazioni microscopiche di ogni cervello sono enormi. Analogamente,
le impronte digitali dei gemelli omozigoti sono distinte ed individuali.
Infine i linguisti hanno concluso che le parole e le frasi, nella loro
struttura e significato, hanno una storia che varia a seconda
dell’esperienza e del contesto di ciascuna persona. Insomma, l’evidenza
empirica demolisce ogni tentativo di essenzializzare e negare la
straordinaria diversità dell’umano nelle sue innumerevoli espressioni,
cioè il suo fascino e bellezza”.
Il fatto concreto non è l’esistenza del mondo fenomenico, ma l’esperienza che ne facciamo. La vera vita risiede nell’esperienza della nostra coscienza, che non è materiale.
La stessa materia di cui è costituito l’universo è l’insieme delle
esperienze e potenzialità di esperienza che si influenzano
reciprocamente. Perciò anche le identità personali sono illusorie, sono
eventi quantistici. Un essere umano, considerato nella sua vicenda
totale, è un flusso di esperienze, di occasioni d’esperienza, o di “occasioni viventi”, come le definisce Alfred North Whitehead, il grande filosofo e matematico britannico.
Se ogni evento è
inestricabilmente legato all’esperienza di una data coscienza, allora
per alcuni una sinfonia di Mozart sarà un’esperienza più reale e più
profonda di una canzone di Lady Gaga, così come il Barolo avrà un
livello di esistenza più intenso rispetto al succo d’uva. Søren
Kierkegaard, nel “Don Giovanni, la musica di Mozart e l’eros”, scrive: “Mozart
immortale! A te devo tutto, è per te che ho perso il senno, che il mio
spirito è stato colpito da meraviglia ed è stato scosso nelle sue
profondità; devo a te se non ho trascorso la vita senza che nulla fosse
capace di scuotermi”.
Ciò che conta è allora il potenziale di indurre in un essere senziente esperienze più profonde.
Per alcuni l’arte più sublime è più alta, più reale dell’atto di
leggere un quotidiano e un sacrificio solidale come quello del
poliziotto che muore nel tentativo di salvare un aspirante suicida è più
vero di un linciaggio tra tifosi. Mi auguro che ciò valga per una
maggioranza di persone, ma sicuramente non lo sarà per tutti. Perché?
Perché, come abbiamo già visto, esistono livelli di coscienza diversi
tra gli esseri umani. Il livello di coscienza di un Eichmann o di un
fondamentalista non è paragonabile a quello di un Martin Luther King o
di una Aung San Suu Kyi. Il processo dialettico attraverso cui un
individuo si vede simultaneamente come oggetto e come soggetto consente
un ampliamento ed un approfondimento della coscienza umana; uno sforzo,
questo, grandemente facilitato dalla possibilità e disponibilità a
costruire ponti invece di erigere muri. Il “segreto”, dunque, è la
curiosità. Essere curiosi significa cercare di informarsi, stare attenti
a ciò che si fa e ciò che fanno gli altri, cercare di capire le
motivazioni dietro le proprie e le altrui azioni e parole. Più limpida è
la conoscenza, più limpida è l’esistenza, più vera è la conoscenza, più
vera sarà la vita. È il senso dell’aforisma di Bruce Lee, che sarebbe
piaciuto molto a Socrate: “Conoscere sé stessi è studiarsi mentre si
agisce con l'altro”.
Se si riuscisse a metterlo in pratica gran parte dei problemi del mondo troverebbe una soluzione.
In che modo? La
via è già stata tracciata dai trascendentalisti statunitensi, R.W.
Emerson (1803-1882), Walt Whitman (1819-1892) e H.D. Thoreau (1817-1862)
e riproposta, più recentemente, dalla politologa Nadia Urbinati e dal
filosofo politico statunitense George Kateb (Kateb, 1992, 2002;
Urbinati, 1997). È una via che giudico ineludibile perché attualmente
non viviamo in società autenticamente democratiche, ma piuttosto in
democrazie formali che sono a tutti gli effetti oligarchie sostanziali.
La chiave per una riforma del nostro vivere associato che non passi per
la rivoluzione – uno strumento di crudeltà ed oppressione come pochi
altri – è l’individualità democratica.
Ecco cosa
intendevano i trascendentalisti americani per individualità democratica:
vivere deliberatamente, pronti a cogliersi in errore, a ridurre le
distanze rispetto al prossimo, se questi lo desidera; “al tempo stesso dentro e fuori dal gioco, osservandolo e meravigliandosene”
(Whitman). La capacità di identificarsi nel prossimo, trascurando ego,
grazie al coraggio morale, alla compassione ed alla generosità, ad una
diversa concezione del nostro stare al mondo, all’insegna dell’unità
della vita nella diversità delle sue espressioni, la comprensione del
nostro essere partecipi di un ciclo cosmico, una danza rigeneratrice in
cui un albero ha valore in quanto tale, non perché fornisce ossigeno e
legname, ed in cui quel che si consuma va restituito in qualche forma,
cioè possibilmente non accumulando rifiuti ed appestando l’aria. Un
sentimento di co-appartenenza che suscitava l’entusiasmo di J. L. Borges
nella sua prolusione all’edizione in spagnolo di “Foglie d’Erba”: “In
Whitman possiamo anche vedere tutta la vicenda del vivere; in Whitman
soffia anche la gratitudine miracolosa per i modi concreti, tattili e
multicolori in cui esistono le cose…Whitman, con impetuosa umiltà, vuole
assomigliare a tutti gli uomini”.
Ne fece esperienza diretta anche l’ateo Bertrand Russell,
durante una trance catalettica causata dall’esperire empaticamente la
sofferenza della moglie di Alfred North Whitehead (Russell, 1967):
“Sembrava tagliata
fuori da tutto e da tutti da muri di agonia ed improvvisamente fui
sopraffatto dal senso di solitudine di ogni anima umana. Da quanto mi
ero sposato la mia vita emotiva era stata calma e superficiale. Mi ero
scordato di tutte queste questioni più profonde, accontentandomi di
frivole arguzie. All’improvviso mi sentii mancare il terreno sotto i
piedi e mi trovai altrove…Al termine di quei cinque minuti ero diventato
una persona completamente differente. Per un momento, una sorta di
illuminazione mistica s’impadronì di me. Sentivo di conoscere i pensieri
più intimi di tutte le persone che incontrato per strada ed anche se
questo era indubbiamente un’illusione, mi trovai effettivamente a più
stretto contatto con tutti i miei amici e molte delle mie conoscenze. Da
imperialista, in quei cinque minuti, divenni un sostenitore dei Boeri
ed un pacifista. Dopo aver passato lunghi anni interessandomi solo alla
precisione ed all’analisi, mi ritrovai inondato di sensazioni
semi-mistiche riguardanti la bellezza, con un intenso interesse per i
bambini, e con un desiderio quasi altrettanto profondo di quello del
Buddha di trovare una quale filosofia che rendesse tollerabile la vita
umana. Fui preda di una strana eccitazione che conteneva in sé un
dolore intenso ma anche degli elementi di trionfo per via del fatto che
riuscivo a dominare la sofferenza, trasformandola, così credevo, in un
cammino di sapienza. Da allora l’intuizione mistica che immaginavo di
possedere si è annebbiata e l’abitudine all’analisi si è riaffermata. Ma
qualcosa di quel che ho pensato di vedere in quel momento mi è restato
dentro, motivando il mio atteggiamento nei confronti della prima guerra
mondiale, il mio interesse per i bambini, la mia indifferenza per i
piccoli inconvenienti ed un certo tono emotivo in tutte le mie relazioni
umane”.
È un sentimento
che nasce da uno sguardo dall’esterno o dall’alto, da una prospettiva
sovrastante, remota, estraniante, esotica, come quella degli astronauti
di varie nazionalità che, nell’ammirare la Terra, si sono resi conto
della ristrettezza di vedute di chi attribuisce importanza a frontiere e
barriere. Riporto alcune delle loro riflessioni perché varrebbe la pena
rileggersele, quando ripiombiamo nei nostri particolarismi e piccinerie
egocentriche:
“Volare nello
spazio significa vedere la realtà della Terra, solitaria. È stata
un’esperienza che mi ha cambiato la vita e il mio modo di vedere la vita
stessa” (Roberta Bondar).
“Man mano che ci
allontanavamo, la Terra si restringeva. Alla fine si ridusse alle
dimensioni di una biglia, la più bella che uno potesse immaginare.
Quell’oggetto così bello, caldo e vivo sembrava così fragile, così
delicato, che se lo si fosse toccato con un dito si sarebbe infranto.
Vedere una cosa così ti cambia per forza la vita” (James B. Irwin).
“ La Terra era piccola, azzurra, e così pateticamente sola…la nostra casa va protetta come una sacra reliquia” (Aleksei Leonov).
“Nello spazio
sviluppi istantaneamente una coscienza globale, un comportamento
prosociale, un’intensa insoddisfazione per come vanno le cose nel mondo
ed un desiderio irrefrenabile di fare qualcosa per cambiarle. Vista da
lassù, dalla luna, la politica internazionale sembrava così
insignificante” (Edgar Mitchell).
“Per chi ha
visto la Terra dallo spazio, e per le centinaia e forse migliaia di
persone che seguiranno, è un’esperienza che cambia la tua prospettiva
sulle cose. Ciò che ci accomuna è molto di più di quel che ci divide” (Donald Williams).
Per i
trascendentalisti l’individualità democratica comporta il legarsi al
particolare, provvisorio e precario, nella piena consapevolezza di dover
comunque raggiungere una realtà che fonda, permea o travalica il
particolare, provvisorio e precario. Per loro non c’è vera democrazia
senza questa individualità impersonale. Emerson spiega che osservare usi
e costumi obsoleti disperde le nostre energie, ci fa sprecare tempo ed
offusca l’impressione del nostro carattere. Una vita in funzione dei
giudizi e delle comprensioni altrui è mal spesa e, in un certo senso,
quasi cessiamo di esistere. Come si può pretendere che le persone
foggino la loro identità, condotta, mentalità e strutturino il loro
pensiero su un passato ed un futuro determinati, un ambiente ed un
orizzonte limitati? Premiando il conformismo si umiliano la creatività,
l’imprevedibilità e la specialità dei singoli, trasformandoli da
soggetti in oggetti, da cause in effetti, in luogo delle irripetibili
rivelazioni dell’eternità e dell’infinitezza, irriducibili e per questo
preziose alterità che in realtà sono. Eventi quantistici: è quello che siamo, non fasci di appartenenze. Non è dissolvendosi e dissipandosi verso l’esterno che si consolida la propria personalità. Una forte personalità autocentrata (self-reliance,
la chiama Emerson) permette invece di mettere da parte ego e di
coltivare una genuina sollecitudine nei confronti del prossimo.
Così ci si
lasciano alle spalle il narcisismo letargico (egotismo) e l’altruismo
compulsivo (assenza di personalità, alienazione del sé) che, dopo la
crudeltà, sono i peggiori vizi dell’umanità. Per raggiungere questo
obiettivo serve un intelletto critico e indipendente che sappia
infrangere le convenzioni quando la coscienza – il severo scrutinio
delle proprie intenzioni e premesse – lo imponga, ossia quando sono
ingiuste o malvagie; che non s’inchini di fronte a nomi e costumanze. “Gli uomini sono diventati strumenti dei loro strumenti”, si lamenta Thoreau in “Walden” (1854). Il valore materiale supera quello umano e la vita spirituale si ritrae. È il risultato della devozione ai falsi idoli, ai golem.
Perciò
l’individualità democratica è la premessa dell’assunzione di
responsabilità, non della deresponsabilizzazione, come erroneamente
alcuni hanno creduto, confondendo il trascendentalismo americano con
l’egoismo aristocratico del romanticismo europeo. Emerson e Whitman
si spesero in prima persona nella battaglia per i diritti civili ed il
secondo, ultraquarantenne, si offrì volontario come infermiere in vari
ospedali da campo per gli ultimi tre anni di guerra civile.
Demandare e
delegare alle autorità comunitarie ed alle convenzioni è irresponsabile
nonché pericoloso. Le convenzioni congelano la metamorfosi del sé,
l’affinamento del proprio stare al mondo. Solo chi pensa e decide con la
sua testa è un cittadino democratico responsabile. La democrazia e la
coscienza morale fioriscono nell’autoconsapevolezza, non
nell’infantilismo e nella tutela genitoriale dei golem, degli idola tribus, ossia delle astrazioni che creiamo perché ci soggioghino, spaventati come siamo dalla libertà, dalla responsabilità, dalla vita e dalla morte.
La democrazia è la manifestazione dello sforzo secolare di alimentare
la vita sociale in buona fede e non superstiziosamente. Dunque
l’individualità democratica, cioè a dire l’autonomia personale, è un
acido che corrode la mistica dell’autorità non solo nella sfera politica
ma anche in quella sociale, consentendo ai cittadini di giudicarsi di
dignità e valore pari agli altri, non intrinsecamente inferiori o
superiori, non giustificati nella loro ossessione per i propri bisogni, i
propri desideri, le proprie smanie, o nella predilezione per le
categorizzazioni spersonalizzanti dell’umano. È un fattore di
progressiva democratizzazione di tutti i rapporti interpersonali, di
dispiegamento dell’empatia, la disposizione a vedere nell’altro un altro
sé, invece che un altro da sé.
Nel suo
“Democratic Vistas” Whitman sostiene che l’unica ampia e soddisfacente
giustificazione della democrazia risiede nella prospettiva di riuscire a
generare un copioso numero di caratteri esemplari tra la gente, in un
contesto di sana e piena religiosità, intesa come spiritualità, non come
la cieca fede delle religioni monoteiste. Per Thoreau la democrazia,
invece di elevare un gruppetto di nobili sopra le masse, rende possibile
l’esistenza di “nobili villaggi d’uomini”. Secondo Emerson
l’individualità, a differenza dell’individualismo, lungi dal
rappresentare una minaccia per la libertà e la società, ne è invece la
base morale più salda ed irrinunciabile.
Unità ed
uguaglianza nella diversità, non appiattimento nell’uniformità
omologante del gruppo un meccanismo infernale che produce
invariabilmente oligarchie, dai paesi rurali ai grandi stati nazionali.
In questo modo ci si vaccina contro il livellante zelo comunitarista,
la perniciosa xenofobia, la mortificante idolatria del proprio gruppo
di appartenenza, la disumana, bestiale dissoluzione nella massa.
La riforma da
realizzare è in ciascuno di noi, prim’ancora che nelle istituzioni.
Queste ultime cambiano solo dopo che i cittadini sono cambiati.
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