Ritratti a memoria è l’edizione italiana, pubblicata da Longanesi nel 1969 nella traduzione di Raffaella Pelizzi, della raccolta Portraits from Memory and Other Essays,
che Bertrand Russell (1872-1970) curò nel 1956. Il libro raccoglie una
serie di conferenze, loro estratti, e articoli che il filosofo, logico e
matematico inglese, uno dei più grandi intellettuali del Novecento,
aveva scritto perlopiù negli anni del secondo dopoguerra. Sono presenti
ricordi di personaggi che Russell aveva conosciuto sin dai tempi
dell’università, come Ludwig Wittgenstein, Joseph Conrad, Herbert George
Wells, David Herbert Lawrence, George Bernard Shaw, accanto ad articoli
che ripercorrono ricordi d’infanzia e di giovinezza (come la scelta
pacifista durante il primo conflitto mondiale, che gli costò il carcere e
la perdita degli incarichi accademici), e considerazioni sulla politica
mondiale dei suoi tempi, dominata dalla guerra fredda e dal pericolo di
un olocausto nucleare.
Gli ultimi articoli illustrano le sue posizioni su temi generali quali
moralità, problema ontologico, dimostrazioni scientifiche, futuro
dell'umanità, arte della scrittura, ricerca della felicità, trattati con
lucidità e chiarezza espositiva.
Tra questi scritti mi ha particolarmente colpito Conoscenza e saggezza, (Knowledge and Wisdom),
un articolo in cui Russell espone idee tuttora condivisibili riguardo
alla necessità che la saggezza, difficile equilibrio di responsabilità,
altruismo, rigore, senso del limite, imparzialità, si deve accompagnare
al progresso della conoscenza. Chi fa ricerca deve sempre tener presente
questo richiamo alla consustanzialità di scienza e coscienza personale,
qualunque sia il proprio pensiero filosofico, politico o religioso,
oggi più che mai, perché “A ogni accrescimento della conoscenza e
della tecnica, la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di
questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di attuare i nostri
scopi, e perciò aumenta la nostra capacità di far del male, se i nostri
scopi non sono saggi”. La saggezza si può anche insegnare, a patto che non si confonda il processo educativo con la mera trasmissione di saperi.
I più converranno che, sebbene la nostra epoca sorpassi di gran lunga
tutte le precedenti nella conoscenza, non c'è stato un correlativo
aumento della saggezza. Ma l'accordo cessa non appena si tenta di
definire la «saggezza» e di proporre i modi di darle impulso. Voglio
prima domandarmi che cosa è la saggezza, e poi ciò che si può fare per
insegnarla.
Credo che parecchi fattori contribuiscano alla saggezza. Di questi
metterei in primo luogo il senso delle proporzioni: la capacità di tener
conto di tutti i fattori importanti di un problema e di attribuire a
ciascuno di essi il peso dovuto. Questo è divenuto più difficile di
quanto non fosse prima, per la vastità e complessità della scienza
specializzata che si richiede a varie specie di tecnici. Poniamo, per
esempio, che siate impegnato in un lavoro di ricerca scientifica nel
campo della medicina. Il lavoro è difficile ed è probabile che assorba
interamente la vostra energia intellettuale. Non avete tempo di
considerare gli effetti che le vostre scoperte o invenzioni possono
avere fuori del campo della medicina. Voi riuscite (supponiamo), come è
riuscita la medicina moderna, a diminuire enormemente la mortalità
infantile, non solo in Europa e in America, ma anche in Asia e in
Africa. Questo ha il risultato interamente involontario di rendere
inadeguata la produzione dei generi alimentari e di abbassare il livello
di vita nelle zone più popolose del mondo. Prendiamo un esempio ancora
più spettacoloso, che è nella mente di tutti ai tempi d'oggi: studiate
la composizione dell'atomo per un disinteressato desiderio di
conoscenza, e incidentalmente date nelle mani di potenti lunatici i
mezzi per distruggere il genere umano. In tali modi la ricerca della
conoscenza può divenire dannosa se non sia accompagnata dalla saggezza; e
la saggezza, nel senso di una visione comprensiva, non è
necessariamente presente negli specialisti della ricerca scientifica.
La sola comprensività non è, tuttavia, sufficiente per costituire la
saggezza. Si deve avere anche una certa consapevolezza dei fini della
vita umana. Questo può essere illustrato con lo studio della storia.
Molti eminenti storici hanno fatto più male che bene perché hanno
interpretato i fatti attraverso la lente deformante delle loro passioni
personali. La filosofia della storia di Hegel non manca di
comprensività, poiché comincia dai tempi più antichi e continua fino a
un indefinito futuro. Ma la più importante lezione della storia che egli
cercava di inculcare era che, dall'anno 400 di Cristo fino al suo
tempo, la Germania era stata la nazione più importante e la vessillifera
del progresso nel mondo. Forse si potrebbe estendere la comprensività
che costituisce la saggezza fino a includervi non solo l'intelletto, ma
anche i sentimenti. È tutt'altro che raro vedere uomini di grande
cultura, ma di meschini sentimenti. Uomini simili mancano di ciò che io
chiamo saggezza.
Non è soltanto nelle cose pubbliche, ma anche nelle private, che la
saggezza è necessaria. È necessaria nella scienza dei fini da perseguire
e nell'emancipazione dai pregiudizi personali. Anche un fine il cui
perseguimento sarebbe nobile, se fosse raggiungibile, può venir
perseguito con poca saggezza se è inerente a esso una impossibilità di
attuazione. Nelle epoche passate, molti uomini hanno dedicato la vita
alla ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita. Senza
dubbio, se avessero potuto trovarli questo sarebbe stato un gran dono
per l'umanità; di fatto, però, le loro vite furono sprecate. Per
discendere a cose meno eroiche consideriamo il caso di due persone, il
signor A e il signor B, che si odiano e a causa di questo odio reciproco
si distruggono l'un l'altro. Supponiamo che voi andiate dal signor A e
gli diciate: «Perché odiate il signor B? » Senza dubbio egli vi darà una
lista schiacciante dei vizi del signor B, in parte vera e in parte
falsa. Ora supponiamo che voi andiate dal signor B. Egli vi darà un
elenco esattamente simile dei vizi del signor A, con un'eguale
mescolanza di vero e di falso. Supponiamo che ora voi torniate dal
signor A e gli diciate: «Vi farà meraviglia l'apprendere che il signor B
dice di voi le stesse cose che voi dite di lui»; e che voi andiate dal
signor B e gli facciate lo stesso discorso. Il primo effetto, senza
dubbio, sarà di accrescere il loro odio reciproco poiché ciascuno sarà
inorridito dall'ingiustizia dell'altro. Forse però, se sarete abbastanza
paziente e abbastanza persuasivo, potrete riuscire a convincere
ciascuno dei due che l'altro ha soltanto la misura normale della
cattiveria umana, e che la loro inimicizia fa male a entrambi. Se
riuscirete a far questo, avrete instillato in loro un qualche frammento
di saggezza.
Penso che l'essenza della saggezza sia l'emancipazione, per quanto
possibile, dalla tirannia dell'adesso e del qui. Non possiamo liberarci
dall'egoismo dei nostri sensi. La vista, l'udito e il tatto sono legati
strettamente al nostro corpo e non possiamo renderli impersonali. In
modo analogo, le nostre emozioni partono da noi stessi. Un bambino
piccolo sente fame o disagio, e niente lo tocca tranne la sua condizione
fisica. Gradualmente, con gli anni, il suo orizzonte si allarga e, a
misura che i suoi pensieri e sentimenti divengono meno personali e meno
preoccupanti dei suoi stati fisici, egli attinge un grado crescente di
saggezza. Si capisce che è una questione di grado. Nessuno può guardare
il mondo con un'imparzialità completa; e se qualcuno lo potesse, gli
sarebbe assai difficile rimaner vivo. Ma è possibile avvicinarsi
continuamente, per gradi, all'imparzialità, da un lato mediante la
conoscenza di cose abbastanza remote nel tempo o nello spazio, e
dall'altro lato attribuendo a simili cose, nei nostri sentimenti, il
peso loro dovuto. È questo avvicinamento all'imparzialità che
costituisce l'accrescimento della saggezza.
La saggezza, intesa in tal senso, può essere insegnata? E, se lo può,
l'insegnamento di essa non dovrebbe forse essere uno dei fini
dell'educazione? Io risponderei affermativamente a tutt'e due queste
domande. La domenica ci dicono che dobbiamo amare il nostro prossimo
come noi stessi. Negli altri sei giorni della settimana, veniamo
esortati a odiarlo. Potrete dire che questa è una sciocchezza, poiché
non è il nostro prossimo, il nostro vicino, che veniamo esortati a
odiare. Ma ricorderete che il precetto evangelico era esemplificato
dicendo che il samaritano era il nostro vicino. Oggi giorno non abbiamo
più nessuna inclinazione a odiare i samaritani, e quindi è facile che ci
sfugga il senso della parabola. Per capirne il senso, dovrete
sostituire comunista o anticomunista, secondo il caso, a samaritano. Si
potrebbe obbiettare che è giusto odiare coloro che fanno del male. Io
non lo penso. Se li odiate è anche troppo facile che diventiate voi
stessi egualmente malefici; ed è molto improbabile che induciate loro ad
abbandonare la mala condotta. L'odio del male è già di per sé una
specie di asservimento al male. La via di uscita passa per la
comprensione, non per l'odio. Io non sostengo qui la tesi della
non-resistenza al male. Ma sostengo che la resistenza, perché possa
impedire la diffusione del male, deve andare assieme al più alto grado
di comprensione, e al minimo grado di forza compatibile con la
sopravvivenza di quelle buone cose che desideriamo salvare.
Si fa notare, comunemente, che un punto di vista del genere di quello
che ho qui sostenuto è incompatibile con il vigore nell'azione. Non
credo che la storia confermi tale opinione. La regina Elisabetta I in
Inghilterra ed Enrico IV in Francia vissero in un mondo dove quasi tutti
erano fanatici, dalla parte dei protestanti o da quella dei cattolici.
Entrambi restarono immuni dagli errori del loro tempo ed entrambi,
rimanendone immuni, furono benefici e certamente non inefficienti.
Abraham Lincoln condusse una grande guerra senza mai partirsi da ciò
ch'io ho chiamato saggezza.
Ho detto che, in qualche misura, la saggezza può essere insegnata. Credo
che questo insegnamento dovrebbe avere in sé un elemento intellettuale
più largo di quello che è stato finora usuale in quella che viene
considerata come istruzione morale. Credo che i disastrosi effetti
dell'odio e della ristrettezza mentale su quegli stessi che provano tali
sentimenti, possano essere fatti osservare incidentalmente
nell'impartire la conoscenza. Non credo che conoscenza e morale debbano
essere troppo separate. È vero che il genere di conoscenza specializzata
che si richiede per i vari tipi della tecnica ha ben poco a vedere con
la saggezza. Ma, nel processo educativo, la tecnica dovrebbe essere
completata con osservazioni più vaste, intese a metterla al posto debito
nel quadro delle attività umane. Anche i migliori tecnici dovrebbero
essere al tempo stesso buoni cittadini; e quando dico «cittadini» voglio
dire cittadini del mondo e non di questo o quel settore o nazione. A
ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica, la saggezza diviene
più necessaria, poiché ognuno di questi accrescimenti aumenta la nostra
capacità di attuare i nostri scopi, e perciò aumenta la nostra capacità
di far del male, se i nostri scopi non sono saggi. Il mondo ha
necessità della saggezza come mai prima d'ora; e se la conoscenza
continua ad accrescersi, il mondo avrà in futuro una necessità della
saggezza ancora più grande che non abbia ora.
1 commento:
Devo
ammettere che alcuni passaggi li ho mandati giu un po' a fatica, questo
ovviamente a causa delle mie convinzioni personali. Il seguente
passaggio invece, mi ha fatto riflettere: "Io non sostengo qui la tesi
della non-resistenza al male. Ma sostengo che la resistenza, perché
possa impedire la diffusione del male, deve andare assieme al più alto
grado di comprensione, e al minimo grado di forza compatibile con la
sopravvivenza di quelle buone cose che desideriamo salvare." - Sembra il
linguaggio di un chirurgo, e se penso ai progressi fatti in Medicina
assieme alle altre discipline scientifiche (penso, ad esempio
all'integrazione Medicina-Fisica), non riesco a non dire che aveva molta
ragione nel sostenere questa tesi. Grazie Pop per avercelo proposto.