Da "http://marteau7927.wordpress.com/2012/06/12/sandro-penna-12-giugno-1906-21-gennaio-1977/" :
Favola
In un salone in cui gridano gli ori
- sorpresi dalla luce dell’aprile -
un re ascolta cento e cento prìncipi.
(Su vivi prati aleggiano taciuti
i canti…? Poi festosamente arriva
il grido umano della ragazzaglia).
Cadono voci e luci al vespro: frali
consistenze in aprile. Il re si perde
entro un lontano battere di ali.
Sandro Penna, Poesie (1927-1938)
Entro l’azzurro intenso di un meriggio d’estate
denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole.
Tutto è maturo e pieno. Non sono minacciate
le cose. E nondimeno, lontano come il sole,
e vicino, in sé vive – di sé solo – il mio amore.
denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole.
Tutto è maturo e pieno. Non sono minacciate
le cose. E nondimeno, lontano come il sole,
e vicino, in sé vive – di sé solo – il mio amore.
Sandro Penna, Appunti (1938-1949)
XIV Un po’ di pace è già nella campagna
L’ozio che è il padre dei miei sogni guarda
i miei vizi coi suoi occhi leggeri.
Qualcuno che era in me ma me non guarda
bagna e si mostra negligente: appare
d’un tratto un treno coi suoi passeggeri
attoniti e ridenti – ed è già ieri.
Sandro Penna, Una strana gioia di vivere (1949-1955)
Mi perdo nel quartiere popolare
tanto animato se la sera è prossima.
Sono fra gli uomini da me così
lontani: agli occhi miei meravigliosi
uomini: vivi e chiari, non valori
segnati. E tutti uguali e ignoti e nuovi.
tanto animato se la sera è prossima.
Sono fra gli uomini da me così
lontani: agli occhi miei meravigliosi
uomini: vivi e chiari, non valori
segnati. E tutti uguali e ignoti e nuovi.
In un angolo buio prendo il posto
che mi ha lasciato un operaio accorso
(appena in tempo) un autobus fuggente.
lo non gli ho visto il viso ma i suoi modi
svelti ho nel cuore adesso. E mi rimane
(di lui anonimo, a me dalla vita
preso) in quell’angolo buio un suo onesto
odore di animale, come il mio.
che mi ha lasciato un operaio accorso
(appena in tempo) un autobus fuggente.
lo non gli ho visto il viso ma i suoi modi
svelti ho nel cuore adesso. E mi rimane
(di lui anonimo, a me dalla vita
preso) in quell’angolo buio un suo onesto
odore di animale, come il mio.
Sandro Penna, Croce e delizia (1927-1957)
Mi adagio nel mattinodi primavera. Sento
nascere in me scomposte
aurore. Io non so più
se muoio o pure nasco.
Sandro Penna, Poesie giovanili ritrovate (1927-1936)
Inoltre questo articolo che (spero di averlo trascritto bene) è davvero molto intenso.
Consiglio davvero la lettura.
LexMat
Da "http://www.lafrusta.net/riv_Penna_Savelli.html" :
di Giulio Savelli
È un luogo comune critico, ed è anche una evidenza difficilmente oppugnabile, che la poesia di Sandro Penna rifugga da ogni confronto con la storia e con la pressione che il mondo concreto esercita.
Nel fare ricorso a un glossario spirituale di immagini e percezioni ben definito e limitato - che non esclude elementi in senso lato storicamente connotabili, inseriti però in una sorta di ciclicità spirituale e naturale – i versi di Penna appaiono sospesi in una dimensione temporaleimmobile.
Non per questo, tuttavia, possono essere considerati fuori della storia e del mondo – piuttosto elaborano con nitida ed elegante ossessività una mossa di fuori gioco a sua volta storicamente connotata, uno dei paradigmi disponibili per ‘uscire dal mondo’.
Ogni epoca storica infatti ha i suoi modelli di opposizione al mondo così com’è dato; e quello moderno ha istituito diversi modi di rifiutare se stesso.
Uno di questi consiste nella ricerca della diversità.
In Penna la diversità si manifesta come una condizione originaria, che lo situa subito ‘fuori del mondo’. Ne è espressione una poesia giovanile:
S’andava verso il mare di Civitavecchia.
L’ingegnere guidava la svelta sua macchina
e diceva «Su bella, ancora molta strada».
Io vedevo alle svolte nel sole apparire
un nudo corpo di fanciullo, ma badate
ho detto io vedevo apparire, - ché il fanciullo
nudo non c’era. Eppure in quell’anno facevo
conti per l’ingegnere, ero bene nel mondo.
«Eppure» indica come lo stare nel mondo e i fanciulli nudi nel sole non vadano d’accordo.
E Penna, tra un fanciullo nudo che non c’è da una parte, e dall’altra il mondo che invece c’è - quello del lavoro, dell’ingegnere, dei conti da fare e dell’automobile veloce - Penna sceglie senza esitazione il fanciullo.
La scelta, anzi, neppure si pone: si dà la constatazione, esclamativa e lievemente stupita, di una scelta già fatta.
Nella poesia di Penna il mondo percettivo, costituito da colori e odori e luoghi, rimane, ma il resto del mondo, quello in cui vive l’ingegnere, per intendersi, non esiste.
La concentrazione sul tema erotico è riconosciuta da Penna stesso: «Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose. / Le altre cose son tutte noiose».
Le «altre cose» si può ipotizzare siano in relazione di reciproca esclusione con ciò che è presente: guardare un ragazzo significa voltare le spalle a tutto il resto: lo sguardo è complementare alla cecità. Il corpo nudo e luminoso di un ragazzino sembra cioè che abbia un valore metafisico preciso – che sia la fessura, invisibile ai più, dove il mondo dà accesso a un altrove.
Si esce dal mondo passando per il corpo di un adolescente. Cosa ci sia in questo ‘altrove’ non è toccato dalla poesia di Penna, forse è indicibile, forse non ha neppure senso pensare che ci sia qualcosa.
L’atto importante è infatti quello dell’uscita, e la sua ripetizione. L’altrove si fa condizione di vita e luogo abitabile proprio attraverso la ripetizione rituale, ossessiva e felice, del gesto di uscire dal mondo.
La poesia di Penna dà testimonianza di questo gesto e della soglia - dell’attraversamento di un desiderio erotico che volta le spalle al mondo.
Stare nel mondo, il mondo delle «altre cose», è invece la vita comune, e l’essere comuni significa stare nel mondo condiviso.
Nella prima parte de La rima facile, la vita difficile così si declina, sotto specie di depressione, il vivere comune:
La mia vita si appanna, e poi che piove
scelgo il passaggio sotto il tunnel
dove tutto è molliccio, ma però non piove.
Qui tra la gente solita, che muove
il passo verso le solite cose
anch’io mi muovo tra cose non nuove.
Più comune degli altri, non so dove
muove il mio passo stanco, che non vuole
tale apparire a se stesso ed altrove.
Le «solite cose» sono ciò che seppellisce eros e poesia («Mentre noi siamo qui, fra consuete / cose sepolti») e la poesia può alludere ad esse ma non toccarle, pena l’esserne prosciugata.
Consueto, comune, solito, non nuovo (spesso in associazione a stanchezza, vecchiaia, aridità, noia) disegnano un campo semantico il cui opposto – inconsueto, non comune, insolito, nuovo – si può riassumere con il termine diverso.
La diversità, nel mondo di Penna, connota eros e poesia.
Penna non è solito teorizzare, ma in un’occasione ha distillato un aforisma in quattro versi che permette di considerare la diversità quasi come un segno algebrico.
Il riferimento è alla quartina (la quartina, dice Garboli a proposito di Penna, è «il metro sapienziale per definizione»), con cui inizia la raccolta intitolata Appunti:
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
La poesia è di una semplicità assoluta, e tuttavia solo in apparenza trasparente.
Ciò che si comprende subito è all’incirca quanto segue: chi è diverso trova la felicità nella diversità; ma se, oltre a essere diverso, è anche comune, la sua felicità si converte in dannazione.
Quale, allora, il significato di diverso e di comune e quale la loro relazione?
La complessità nascosta della poesia si concentra nel valore simbolico dei termini impiegati, simili a una X e a una Y di cui si debba stabilire il valore numerico, e nel fatto che il loro senso appaia intuitivo ma non sia in realtà così evidente.
Occorre partire dal valore che diverso ha nel mondo poetico di Penna, ma occorre anche cautela nell’indicare in che modo subisca in questa poesia una torsione e una tensione.
Nel contesto offerto dall’opera di Penna risulta infatti ovvio che l’essere diversi abbia un connotato positivo, vitale, e si riferisca all’amore per i ragazzi e alla poesia che li celebra; ma se a «diverso» si dà una valenza relativa alle preferenze erotiche non si capisce cosa possa significare l’essere diversi essendo comuni. La poesia direbbe che un eros differente da quello più diffuso non è compatibile l’essere persone comuni che condividono la vita di tutti? Se si vive anche la vita consueta, allora la felicità diventerebbe dannazione? Perché mai? Si può inoltre osservare che la diversità consiste in una ricerca, ed è oggetto di una cura, di una attenzione: infatti la felicità associata all’essere diversi potrà essere sì originaria, ma può anche degradarsi e trasformarsi in dannazione o peccato se essendo diversi si è comuni.
Occorrerà dunque una attenzione e un lavoro interiore che consenta di mantenersi integralmente diversi - e la poesia, implicitamente, invita appunto a esercitare tale cura.
Ma se l’essere diverso (anche in quanto opposto all’essere comune) ha come corrispettivo esistenziale l’amore per i ragazzi, non è verosimile che sia l’attrazione fisica ad avere bisogno di attenzione per non degradarsi; è probabile, piuttosto, che questo amore sia parte di un insieme più vasto.
L’attività poetica rappresenta evidentemente tale insieme; interpretare tuttavia Felice chi è diverso in chiave baudeleriana - per cui il diverso sarebbe il poeta, felice nel momento in cui vive nel proprio elemento, in cui cioè è integralmente poeta, ma dannato in quanto anch’egli comune, costretto come l’albatro talora a posarsi - chiuderebbe la poesia entro i confini di un discorso metapoetico e metaletterario, prescindendo dalla consistenza esistenziale da attribuire all’essere diverso, quando Penna si propone invece una poesia in diretto contatto con la vita - «una poesia gocciolante di viva passione».
Oppure si deve intendere «guai» come senso di colpa, ossia come la condanna sociale interiorizzata che proviene dalla parte di sé convenzionale, «comune», quella arida e impoetica che ignora la bellezza dei ragazzini e il desiderio erotico che ispirano?
In questo caso la poesia parlerebbe del senso di colpa associato alla trasgressione erotica per invitare a ignorarlo. In una simile interpretazione potrebbe esserci del vero, ma la voce del mondo comune, che Penna di regola ignora, troverebbe allora in questa poesia un singolare spazio, non tanto di rappresentazione quanto funzionale.
Sarebbe infatti la sola poesia in cui il mondo comune, anziché essere spento grigiore, mostra una capacità sanzionatoria e un diritto all’ultima parola che mai altrove – e certamente non in poesia - Penna gli ha riconosciuto.
Provvisoriamente, un punto di equilibrio si potrebbe stabilire immaginando che l’amore per i ragazzi sia parte di una impegno verso la diversità da intendersi in senso sia erotico sia extraerotico.
Ci si trova, in ogni caso, di fronte a un significato contestualmente definibile che nel passare attraverso le relazioni imposte dal testo viene modificato.
Illuminante per la comprensione di cosa sia la ricerca della diversità è l’intertesto di questa poesia.
La coppia costituita da «felice» opposto a «guai» richiama infatti, palesemente, l’analogo «beati» opposto a «guai» del Vangelo di Luca (6, 20-6). Ovviamente la beatitudine è propria del regno dei cieli, mentre la felicità è terrena; tuttavia la corrispondenza delle opposizioni e l’uso della locuzione «guai a…», certo non consueta nella poesia moderna e comunque unica in quella di Penna, assieme alla forma assertiva, didascalica e quasi profetica del discorso, rendono il riferimento evangelico una traccia intertestuale assai evidente - oltre che rilevante sotto l’aspetto interpretativo. I beati del Vangelo di Luca, ricordo, sono i poveri, gli afflitti, gli affamati e coloro che seguono Gesù; la maledizione è diretta invece ai ricchi, ai sazi, a chi è senza preoccupazioni e benvoluto.
La prima indicazione ricavabile dall’intertesto evangelico è un ovvio parallelismo: il diverso è il povero, il sofferente, il diverso è chi segue la vera fede. Risulta evidente, pertanto, che la dannazione della diversità non consiste nell’emarginazione da parte della società. «Quando vi metteranno al bando e v’insulteranno (…) rallegratevi (…) ed esultate» (6, 22-3) dice il Vangelo: la beatitudine è per chi non ha quaggiù il suo posto: la beatitudine è nell’altrove rispetto a questo mondo, è nel regno dei cieli - proprio come la felicità è nell’altrove dal mondo della vita comune, pur essendo di questo mondo. Il riferimento evangelico rende poco plausibile, cioè, una interpretazione del secondo distico - «guai a chi è diverso / essendo egli comune» – che si basi sul senso di colpa per non essere conformi alla morale sessuale comune. Sarebbe come dire che un cristiano potrebbe sentirsi in colpa in quanto cristiano perché immerso in un contesto sociale pagano. Dire «felice» di chi è diverso è come dire «beato» di chi soffre: è un paradosso che indica il senso autentico della propria condizione ovviamente penosa. L’altrove – regno dei cieli o felicità amorosa - risarcisce della sofferenza e dell’emarginazione. Sebbene sia anche la ragione dell’emarginazione, essendo questa causata appunto dalla fede.
Si manifesta qui l’essenza della diversità: seguire la propria fede, opposta al mondo. Riguardo il passo evangelico intertesto di Felice chi è diverso, ossia il Discorso della Montagna, si può ipotizzare un tramite che conduce proprio al concetto originario di ‘diversità’. Appunti raccoglie, secondo Penna stesso, poesie composte dal 1938 al 1949; nel 1937 Penna stava leggendo una Vita di Gesù che, con tutta probabilità, si può identificare in quella scritta da Mauriac:
Anche se il vento copre
la primavera, il popolo
canta nella notte.
L’ascolto io dal mio letto.
Lascio la «Vita di Gesù».
Ardo a quel canto.
Mauriac nel commentare il Discorso della Montagna segue il Vangelo di Matteo (5, 1-48) piuttosto che quello di Luca, e interpreta, senza alcuna forzatura e tuttavia con sottolineature significative, le virtù predicate da Gesù come opposte al mondo, opposte alla natura, ed esclusive invece di coloro i quali vanno considerati «il sale della terra»:
Ces vertus à qui est promise la béatitude sont celles-là-même qui répugnent le plus à la nature. (…) «Heureux les doux car ils posséderont la terre… Heureux les pacifiques car ils seront appelés enfants de Dieu.» O dureté du monde! la douceur est encore et toujours ce qu’il y a de plus méprisé. Dès l’enfance, dans les petites classes, les doux sont persécutés. Nietzsche est au fond le philosophe du sens commun.
Le monde moderne est-il moins dur que le monde ancien? Rien n’est changé, sauf que ces Béatitudes ont été criées une fois pour toutes sur une colline, qu’aucune d’elles ne passera, que de génération en génération quelques créatures se les transmettront de coeur en coeur. Et cela suffit : «Vous êtes le sel de la terre.»
Le virtù cristiane sono virtù ‘contro natura’ e contrarie al senso comune: ancora oggi, nel mondo moderno, non meno duro di quello antico, sono virtù di alcune creature, e non certo di quelle più comuni. Essere cristiani, si può concludere, significa essere diversi.
In che modo possa avere echeggiato in Penna l’affermazione di Mauriac secondo cui le virtù a cui è promessa la beatitudine sono quelle stesse che maggiormente ripugnano alla natura non sappiamo: «Non è la costruzione il lieto dono / della natura. Un fiore chiama l’altro» afferma Penna in un’altra poesia di Appunti. Tuttavia non è questo il punto – non l’equivalenza banale e paradossale al tempo stesso fra eros comune e morale corrente, fra eros ‘diverso’ e morale cristiana. Il punto, piuttosto, è la costruzione della diversità come categoria, che origina dal cristianesimo e che può essere riempita dai contenuti psichici più diversi. Nella vita interiore di un individuo una passione, e in particolare una passione erotica, può essere analoga alla fede: può occupare la stessa centralità nella mente, farsi ossessione e abito mentale, aiutare nella solitudine e nel dolore come una droga, può essere altrettanto esclusiva e gelosa di ogni altra attività, può regolare su di essa le scelte di tutta la vita. Religione ed eros, pur fra loro antagonisti, sono analoghi – entrambi trasversali i campi del sacro e del profano, seppure ancorati una su di un lato e l’altro su quello opposto -, così che fede religiosa e scelta erotica possono, con particolare evidenza quando denominati ‘eresia’ e ‘perversione’, essere forme primarie ed equivalenti di diversità, implicando un’opposizione al comune sentire profonda e fondativa del Sé.
Il riferimento al Vangelo oltre a istituire un parallelo fra la fede e la diversità in senso erotico, sottolinea un altro aspetto di quest’ultima: l’accompagnarsi alla sofferenza. Non quella meritoria legata al seguire la vera fede, ma quella della miseria e della fame. In questo caso la fame è la frustrazione dell’amore. Il dolore dell’amore è ben noto e celebrato dalla letteratura; nella poesia di Penna però non proviene, come per Werther e infiniti altri, dall’amore infelice per chi, unico e insostituibile, non ci riama, bensì dalla rarità e fortunosità e precarietà dell’amore felice. Infatti, sebbene la focalizzazione sull’individuo sia di volta in volta la determinazione necessaria all’amore, non è il singolo oggetto del desiderio:
È il nobile sesso. E poi, di questo,
sola un’età (nobile, sì, ma fresco!).
Di questa solo alcuni rari esemplari.
L’oggetto del desiderio, sempre mutevole e inafferrabile, sempre impersonale come l’incarnazione provvisoria di una divinità, è un puro segno, un’astratta traccia interiore. Questa cerca e trova il luogo dove fermarsi e fissarsi, percorrendo tutto l’albero del desiderio, dal genere all’individuo, ma solo per ripetere l’incarnazione in un successivo percorso. Ciò che è irraggiungibile dell’essere amato non si trova nella profondità di una fusione impossibile, non si trova nel mistero dei sentimenti e dell’attrazione d’amore, ma nell’evanescenza e nella molteplicità delle apparizioni incarnate di volta in volta in questo o quel corpo. La sofferenza originata dalla mancanza dell’amore di chi si ama non ha dunque per effetto, come nell’amour-passion, una lacerazione dell’Io, ma una castità colma di desiderio e di allucinazione, che avvicina chi soffre per amore al povero e all’affamato del passo evangelico.
La diversità e la sua felicità si edificano dunque attraverso la sofferenza, e si servono di questa: l’ascesi è un risultato non desiderato nella ricerca della felicità, e tuttavia è il tema profondo di tale ricerca, ne è il nòcciolo. Il mondo comune scompare, si dissolve, nella mancanza e nella ricerca prima ancora che nella felicità. L’elevazione che accompagna la sofferenza permette di intravedere il valore simbolico dell’oggetto del desiderio: il corpo nudo di un ragazzino è una metafora carnale che sta per un simbolo il cui valore spirituale è un segno negativo. Felicità e sofferenza sono due aspetti della stessa opposizione al mondo. La diversità si incardina attorno a questo nucleo di assenza, a questo rifiuto, che ha un doppio connotato: positivo nel desiderio e nella sua soddisfazione, che conduce ‘fuori del mondo’; negativo nel disinteresse per il mondo stesso, e nelle condizioni a cui la soddisfazione del desiderio è assoggettata, tali da renderla ardua se non impossibile.
Questo nucleo di assenza trova in uno degli ultimi racconti di Kafka, Un digiunatore, una sorta di exemplum. La storia narra di un digiunatore professionista, che del suo talento ha fatto un’arte e che vive esibendosi al pubblico, chiuso in una gabbia sorvegliata, in lunghissimi periodi di astinenza dal cibo. Quando l’interesse del pubblico per la sua arte scema egli, che sempre era stato insoddisfatto delle proprie prove, limitate nel tempo dall’impresario, digiuna a oltranza, fino a morire. Appena prima di spirare confessa che egli digiunava perché mai aveva trovato cibo che gli fosse piaciuto. Come sempre in Kafka la parabola si presta a molte interpretazioni. La lettura più semplice, tuttavia, mette in evidenza la relazione fra il rifiuto della vita e l’arte, che viene identificata proprio nel rifiuto. La sofferenza del digiuno, ammirevole quanto incomprensibile, rende l’artista equivalente profano del mistico asceta, ed è inscindibile dall’arte, che consiste nel saper rifiutare la vita e vivere di questa negazione.
Nella costruzione della diversità profana creazione artistica e amore sessuale si equivalgono, in quanto possono essere considerate due varianti dell’originaria matrice cristiana. A proposito di questo rapporto, della relazione cioè che lega sofferenza, amore, creazione artistica e cristianesimo, si può ricordare quanto scriveva Susan Sontag nel saggio sull’artista come vittima esemplare:
In Occidente il culto dell’amore è un aspetto del culto della sofferenza, intesa come prova suprema di serietà (l’esempio della Croce). Gli antichi ebrei, i greci e gli orientali non attribuivano lo stesso valore all’amore perché non attribuivano lo stesso valore positivo alla sofferenza. Essa non era il marchio della serietà, che consisteva piuttosto nella capacità dell’individuo di evitare o superare la punizione della sofferenza e di conquistare la tranquillità e l’equilibrio. La sensibilità che abbiamo ereditata identifica invece la spiritualità e la serietà con il turbamento, la sofferenza e la passione. Per duemila anni cristiani ed ebrei hanno considerato spiritualmente elegante essere in pena. Non è dunque l’amore che sopravvalutiamo, ma la sofferenza; più precisamente i meriti e i benefici spirituali della sofferenza. Il contributo moderno a questa sensibilità cristiana è consistito nella scoperta che la creazione dell’opera d’arte e l’avventura dell’amore sessuale sono le due fonti della sofferenza più acuta.
Quando si trovano dei benefici spirituali nella sofferenza si può riconoscere una matrice religiosa cristiana; l’eleganza spirituale, nella cultura occidentale, richiede sofferenza, e questa nella sua forma profana passa elettivamente per l’amore e per la creazione artistica. Il cristianesimo inoltre ha offerto il modello originario della diversità, intimamente connesso con la sofferenza, e dunque a sua volta imparentabile con l’amore e con l’arte. Quando l’amore, la creazione artistica, il pensiero contestano il mondo, quando la virtù cristiana si muta in profana conservando la sua capacità di designare chi rappresenta «il sale della terra», allora si dà la diversità. E così come la secolarizzazione ha conservato all’arte e all’amore la natura seria e profonda della sofferenza esaltata dal cristianesimo, così ha prodotto delle varianti della diversità originaria, edificandola come una costruzione a molti piani, uniti da comode scale e trabocchetti. Nello sviluppo della modernità la diversità è stata il corrispettivo esistenziale dell’arte rivoluzionaria, dell’opposizione politica radicale, della critica sociale e culturale, della trasgressione erotica, e ha accompagnato ora l’una ora l’altra di queste forme di opposizione. In Penna non c’è alcuna forma di lotta ideale o politica, né di distanza critica, ma una opposizione passiva quanto radicale al mondo. Il rifiuto non è colmato da argomenti e da pensieri, ma da corpi e da parole: eros e poesia in tale rifiuto globale sono congiunti. La poesia e l’amore per i ragazzini - per quelli che lui chiama invariabilmente i fanciulli - sono specchi contrapposti, rimandano uno all’altro, e vivono in simbiosi: la poesia nasce dall’amore per i fanciulli e lo celebra, così come i fanciulli non sono individui incontrati, non sono persone, e neppure esperienze, ma le ostie adoperate per un rito interiore. Significato del rito, testimoniato dalla poesia, è l’astinenza dal mondo condiviso: quella che Pasolini ha definito la «santità del nulla» propria di Penna.
I fanciulli sono il segnaposto del ‘nulla’, il velo che lo avvolge, oltre a esserne la soglia. La diversità in Penna non è distanza critica, non si articola cioè come opposizione dichiarata, ma la sua radicalità esistenziale la rende un modello di ogni possibile rifiuto del mondo comune.
Tornando alla quartina Felice chi è diverso, ci si può ora chiedere come interpretare il secondo distico - «Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune». Il riferimento al Vangelo diviene qui asimmetrico: se nel Vangelo di Luca sono infatti i ricchi e i sazi a essere maledetti, in Felice chi è diverso i guai non sono per i comuni ma per i ‘diversi-comuni’. I guai, cioè, sono la condanna di una diversità che fallisce, il suo peccato. La maledizione che Penna lancia è diretta contro l’imperfezione che colpisce la diversità quando si mescola al mondo comune - quando, come potrebbe avvenire nell’inganno di una porta girevole, l’atto di uscita dal mondo diventa un ingresso nel mondo. Il peccato del digiunatore è il cibo: è la vita che si intromette nello spazio sacro della diversità, che spezza il temenos della purezza ascetica, che inquina il luogo separato da cui si guarda alla vita.
Il peccato, insomma, è l’opposto della poesia, è il prosaico dell’amore – è la semplice realtà della vita comune. Come accade che l’uscita dal mondo getti nel mondo? Probabilmente, è la soglia che consente di uscire, mille volte uscire, che può mettere in comunicazione col mondo: il corpo di un adolescente porta fuori di questo, ma anche dentro, e la sua violazione è un atto puro e impuro, sacro e profano, fisico e metafisico. Il sesso riporta al mondo comune. Non certo perché il sesso sia cosa sporca e colpevole, o perché lo sia il sesso fra adulti e adolescenti: in Penna il sesso è lieto e vitale e felice, solare come i suoi fanciulli; semmai lacrimevole per il povero mostro, ma sempre innocente nella sua essenza erotica. Il sesso ha però delle scorie, delle quali si rintracciano deboli tracce nella poesia. Queste scorie sono particelle di vita comune, e manifestano gli esseri umani sotto il profilo umano anziché sotto quello numinoso. Il desiderio erotico rivolto verso il genere, verso la divinità nelle sue incarnazioni innumerevoli, porta fuori del mondo; ma se nella rete tesa per il fantasma rimane impigliata l’imprevedibile umanità di un individuo, se l’impermeabilità affettiva ne viene scalfita, se si affaccia attraverso i sensi un vincolo che può trascendere il daimon erotico, allora il sesso riconduce alla vita comune e alla sua prosaicità. La vita comune infatti non solo corrisponde alla piattezza, ma anche alla pienezza del mondo, alla sua densità di relazioni affaticanti, alla pesantezza dell’amore gravato dall’affetto, alla sua ricchezza che sazia, ingombra di preoccupazioni la vita e rende torpido lo spirito; a cui si oppone il vuoto della diversità, la rarefazione dell’altrove dal mondo e la leggerezza dello spirito che in esso si muove. Il secondo distico - «Guai a chi è diverso / essendo egli comune» –, dunque, ammonisce il poeta da se stesso, dalla sua fragilità umana, dalla sua incapacità di essere compiutamente diverso: ingiunge la «santità del nulla» – perché questa è impossibile da realizzare. In questa impossibilità echeggia l’esortazione con cui termina il Discorso della Montagna secondo Matteo: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5, 48); e il commento di Mauriac: «Est-il dément? oui, c’est, au regard des hommes, un état de démence qu’il exige». Essere diversi esige una «cheta follia» il cui totale adempimento è impossibile. Non soltanto non si può essere fuori del mondo sempre, ogni istante della propria vita, ma proprio nell’essere diversi ci si può scoprire comuni.
Questi due versi, tuttavia, non solo ammoniscono circa la fragilità della diversità, ma indicano come il contatto fra diversità e mondo comune conduca a una perdita dell’innocenza – al peccato. Quando non è separatezza, ma condizione inclusa nell’essere comuni, la diversità perde ogni purezza, ogni santità, non è più il luogo a parte da cui guardare il mondo, ma è uno stare nel mondo, greve e torbido come il mondo stesso. È allora che vale quanto ne La religione del mio tempo affermava Pasolini: «essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente…».
Ciò che risulta compromesso nello stato del diverso che si trova a essere comune è la virtù della diversità, l’innocenza che proviene dalla sua natura antimondana.
Che la diversità erotica sia associata alla purezza e che l’essere comune o profano sia associato all’impuro deriva dalla natura originariamente religiosa della diversità in quanto tale. Mentre la mancanza di innocenza è infatti una caratteristica tipica dell’essere comune, e proviene direttamente dall’essere nel mondo, la cosiddetta perversione è in un certo modo il succedaneo disperato dell’innocenza, cercando nella ripetizione, nel rito, e nella mancanza di relazioni personali, la purezza e l’astrazione che il mondo non ha e impedisce di raggiungere. La perversione e il rito hanno entrambi la pretesa di un controllo magico del mondo. Come chi officia un rito o vi partecipa prefigura col suo agire un effetto preciso e prevedibile sul mondo spirituale, così il perverso si attende l’appagamento simbolico e perciò totale del desiderio. Adam Phillips, in uno dei suoi saggi psicanalitici, osserva che «le perversioni prefigurano sempre qualcosa», o che, «in altre parole, possiamo ritenerci perversi ogni volta che pensiamo di conoscere in anticipo ed esattamente quel che desideriamo». Conoscere in anticipo ed esattamente è il cuore della questione: ogni perversione, come anche ogni utopia, si fonda sulla pretesa di conoscere i desideri umani in anticipo e di prevenirli. La perversione è infatti una forma privata di utopia. Per tale motivo, intrinsecamente, è destinata al fallimento. Essere diversi è impossibile. Questa è forse la conclusione ultima che si può trarre dalla quartina di Penna – sebbene non sia la conclusione di Penna stesso. Nella sua opera poetica si alternano infatti e si mescolano i due atteggiamenti che appaiono in Felice chi è diverso: da un lato l’utopia erotica si trova rafforzata dalla propria inassimilabilità al mondo comune; dall’altro ci sono i «guai», che sono altro dalla sofferenza d’amore: sono l’innocenza perduta e il mondo senza desiderio, grigio e opaco, il mondo comune, sono in definitiva l’ombra di Saturno, divinità della malinconia e della malattia – miserie che Penna affronta con quieto stoicismo.
Non c’è invece in Penna (se non forse, velatamente, alla fine della sua vita e della sua produzione poetica) uno sguardo sul mondo comune che ne intuisca la pienezza vitale oltre alla densa e noiosa banalità. Quando la carcassa di Gregor, racconta Kafka, venne finalmente rimossa dalla nuova donna di servizio, i genitori e la sorella andarono a fare una breve gita in tram fuori città; i genitori si accorsero di come la sorella minore di Gregor fosse diventata una graziosa fanciulla, e cominciarono a immaginare che presto si sarebbe sposata: con queste parole finisce il racconto: «E fu per loro come una conferma dei nuovi sogni e delle loro buone speranze quando alla fine del tragitto la figlia si levò per prima in piedi e stirò il suo giovane corpo». La carcassa tutta ossa del digiunatore è stata invece pattumata insieme alla paglia della gabbia dagli addetti del circo; la vita è nelle famigliole che portano i bambini a vedere gli animali – la vita comune: quella che per Kafka è sempre stato l’orizzonte vitale irraggiungibile, e l’antitesi dello scrivere. Vita che altri scrittori hanno invece abbracciato, lasciando l’arte come un recinto sacro all’interno della propria esistenza borghese, per usare l’antitesi cara a Thomas Mann. Penna rappresenta un caso estremo di purezza, di coerenza e di cecità. «Guai a chi è diverso / essendo egli comune»: il conflitto che Tonio Kroeger ha sperimentato per la prima volta passeggiando sugli argini in compagnia di Hans Hansen è per Penna il limite estremo dello sguardo poetico, il panorama sfocato fra una sbarra e l’altra della gabbia. Non è il conflitto col mondo comune che interessa Penna, ma la delizia della sua assenza, e l’ossessione delle invisibili pareti che lo mettono in comunicazione con il nulla. Guai a scivolare per errore nell’essere comune.
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"Felice chi è diverso" è una poesia della prima metà del Novecento.
Non potrebbe essere stata scritta in questi ultimi venti anni più di quanto non potrebbe esserlo un sonetto di Petrarca.
Non è una questione di lingua o di stile. Semplicemente, il mondo a cui appartiene non esiste più.
La diversità intesa come utopia privata e come distanza ascetica o estetica è assai difficilmente praticabile: è andato infatti perduto il senso da attribuire a una separatezza rispetto all’essere comune.
Ciò vale per tutti i differenti piani della diversità, da quella politica a quella privata.
Per quella politica, ad esempio, si ricordi il tormentato esilarante monologo morettiano di Michele, in Palombella rossa, che afferma e nega contemporaneamente la diversità insita nell’essere comunisti.
L’utopia ha abbandonato la politica, così come il sacro ha lasciato l’arte, così come la perversione è diventata normalità, oppure citazione e replica, ironica o grottesca, di ciò che era, oppure, ancora, puro e semplice crimine.
Un esempio di assimilazione può essere l’omosessualità, la cui ‘diversità’, proclamata e rivendicata, talvolta esibita, è diventata negli ultimi decenni il veicolo che la sta conducendo alla legittimità e all’omologazione.
Certamente l’eros di Penna rimane ancora oggi problematico, culturalmente parlando.
La trasgressiva zona d’ombra in cui egli si muoveva è stata tuttavia rigorosamente spartita in due territori, e la bellezza dei fanciulli oggi appartiene o al lecito della moda e delle sue numinosità da marketing, o all’abominevole universo criminale della pedofilia.
Scintillio del desiderabile prescritto o tenebra del male assoluto, insomma, niente spazio per la diversità come distanza estetica dal mondo comune.
La qualificazione estetica della diversità era iniziata con l’età moderna stessa, con l’artista rinascimentale che in quanto ‘genio’ si differenziava dall’uomo comune, sviluppandosi pienamente nel Romanticismo attraverso l’opposizione fra ideale e reale e fra individuo e mondo, trovando infine nel corso della prima metà del Novecento il suo perfezionamento.
Nella seconda metà del secolo la rivoluzione postmoderna ha scompaginato gerarchie e dislocazioni, mescolando ciò che era diviso e frammentando ciò che da secoli era congiunto.
Il valore spirituale della diversità è stata una delle vittime di questa rivoluzione culturale, come lo sono stati gli adolescenti che Penna amava.
Pasolini ha pagine accorate sul mondo scomparso che traspare come una testimonianza involontaria dal volumetto di racconti di Penna, "Un po’ di febbre"; e in un articolo del ’75 uscito sul "Corriere della Sera", replicando a Moravia, affermava che l’omologazione culturale travolgente – ciò che qualche anno dopo sarebbe stato classificato come ‘il postmoderno’ – lo toccava non solo in quanto intellettuale o cittadino, ma nella sua vita intima: l’omologazione – scriveva - «consiste (…) in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo».
Assieme ai ragazzetti di Pasolini e di Penna stava dissolvendosi la possibilità di amarli – di dare un senso extraerotico a una diversità erotica.
La massima sapienziale che recita «felice chi è diverso» stava diventando un anacronismo, o, al massimo, una parola d’ordine analoga a «nero è bello», una esibizione d’orgoglio finalizzata a fare della diversità una ‘differenza’.
Oggi risulta difficile capire di cosa Pasolini si lamentasse, oggi che il mondo è di nuovo stabile e in apparenza eterno nei suoi rituali di produzione e di consumo.
La transizione è infatti compiuta. Oggi quasi sembra che la poesia di Penna alluda all’impossibilità di possedere oggetti e di avere uno stile di vita che sia davvero eccezionale e invidiabile; sembra che metta in guardia dall’acquisto di un modello di cellulare che pur essendo esclusivo non fa più tendenza perché ce l’hanno in troppi.
Il fatto che la lettera del testo consenta questa interpretazione – un deliberato fraintendimento - dovrebbe gettare un lampo di luce sulla profondità esistenziale raggiunta dalla superficialità contemporanea.
Per questo "Felice chi è diverso" ha bisogno di un commento, di una chiarificazione: perché pur essendo una poesia molto semplice, parla con la voce di un passato prossimo che ci è però così lontano nella sostanza esistenziale e culturale da produrre facilmente la sensazione della trasparenza senza che a tale sensazione corrisponda una comprensione effettiva.
Cosa c’è infatti di più comune, intorno a noi, della diversità, e della ricerca della felicità attraverso il conseguimento di una diversità simbolica?
La separatezza dell’essere diverso, la distanza estetica dal mondo condiviso, l’arte e l’eros come religione e come eresia – ecco quanto è andato perduto.
In compenso, per così dire, la diversità si è resa disponibile quale opzione esistenziale di massa, senza innocenza, senza peccato, senza trasgressione; e l’universo globalizzato dei consumi potrebbe fare proprie le stesse parole di Penna, componendole in un ordine appena differente: «felice chi è diverso, essendo egli comune» potrebbe essere la massima che indica a tutti e a ciascuno il giusto posto nel mondo e la tranquillità dello spirito.
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