di Michele Turrisi
Eugenio
Lecaldano, "Un’etica senza Dio", Laterza 2006 (pp. XIV + 109, euro 12)
È
vero che niente può dirsi “sacro” senza una religione? Esiste davvero un originario
legame indissolubile tra etica e fede religiosa? Si può fondatamente sostenere che la moralità di atei, agnostici, liberi
pensatori sia per principio “a rischio”?
Comune
ai credenti di tutti i tempi è la salda convinzione che non si dà un’etica
senza Dio. Verrebbe fatto di chiedere quale Dio, essendo Yahweh, Gesù, Allah
(per citare le tre grandi religioni monoteistiche, che proprio in quanto
tali si annullano a vicenda) autori di imperativi fra loro inconciliabili; ma è
meglio frenare la curiosità per non cadere nel blasfemo. Da sempre i non credenti
sono visti come – poverini, magari inconsapevolmente! – portatori sani
di immoralità, non avendo alcun “timore di Dio” né, di conseguenza, una
coscienza morale illuminata e preservata da principi “superiori”. Ancora oggi
si ripropone la tesi che solo chi crede in Dio rispetta la vita (ma cosa non è
stato fatto e non si fa proprio in nome di Dio!); e alla domanda: In cosa
crede chi non crede? molti credenti (non tutti, per fortuna!) continuano a
rispondere con sfacciata sicumera: Ma in nulla! Se Dio non esiste, allora
tutto è possibile, opinabile, lecito… Non ancorati a Dio, il valore della vita
e la dignità umana restano senza fondamento. Viene ovunque e di continuo
ribadita la terrificante sentenza: una società senza Dio si autodistrugge,
inesorabilmente! Bisogna dunque diffidare dei non credenti. Per il bene di
tutti. Eppure rimane incontrovertibile questa tragica verità: né l’amore per
Dio né il terrore del fuoco eterno hanno mai impedito di concepire e compiere i
delitti più esecrabili. È appena il caso di ricordare qui che nell'Europa
cristiana non c'è stata gente migliore che in altre civiltà.
Nel suo godibilissimo libro, Lecaldano
– professore di filosofia morale presso “La Sapienza” di Roma – sostiene che
non solo la morale viene
prima della religione, ma questa finisce addirittura per danneggiarla. L’autore
intende “mostrare
l’inaccettabilità dell’idea di un’indissolubile connessione tra credenze
religiose e convinzioni morali, recuperando proprio gli argomenti critici
elaborati con grande chiarezza e rigore da molti pensatori dei secoli passati”
(di Hobbes, Spinoza, Hume, Kant, Feuerbach, Stuart Mill, Freud... si offre pure
una preziosa antologia nella seconda parte del libro). La tesi di fondo è che
“non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo
mettendo da parte Dio che si può realmente avere una vita morale”. Ma in che
senso la religione può nuocere all’etica? La risposta di Lecaldano – arricchita
dal riferimento puntuale a casi reali assai eloquenti – sottolinea anzitutto la
violazione del carattere universale dell’etica quando si lega l’etica
all’esistenza di un Dio rivelato: ciò infatti comporta che essa sia possibile
solo per una parte dell’umanità (cioè quella che crede esattamente nello stesso
Dio). I restanti (gli atei e tutti i diversamente credenti) saranno
“biasimati, emarginati, perseguitati o, nel caso migliore, costantemente
sollecitati ad abbandonare la loro visione del mondo”. Derivare l’etica da Dio
significa concepirla come un insieme di precetti emanati da un’autorità, cosa
che – in un certo senso – equivale a togliere valore etico alle norme morali,
riducendo il comportamento etico di un individuo alla pura obbedienza a un
comando. “Spostare l’attenzione al volere di Dio impedisce di prestare attenzione
a quello che gli altri patiscono e subiscono, induce un’atrofia morale
pericolosa e ostacola lo sviluppo di una effettiva sensibilità etica”. Che dire
poi dell’eclatante impotenza delle morali rivelate di fronte a molte delle
questioni nuove poste dalla bioetica? Oltre che per ragioni di principio,
dunque, è anche per necessità che l’etica deve camminare sulle proprie gambe.
“Un’etica senza Dio non pretenderà mai di imporre con qualsiasi mezzo una
pretesa verità morale a coloro che non la ritengono tale; il credere o no in
Dio e in quale Dio sarà faccenda pertinente alla sfera privata”.
Il
riproporsi nel dibattito pubblico dell’idea che l’etica sia possibile solo per
coloro che aprono le loro vite alla religione e al trascendente, “è il segno di
una fase di ripiegamento e di paura della società occidentale”. È in atto la
“crisi del processo di sviluppo, apertura e allargamento che la cultura
occidentale ha realizzato dall’Illuminismo ad oggi”.
Lungi
dall’ambizione di portare a termine l’impossibile cerimonia di seppellire Dio o
di assumere un ruolo diretto sul piano politico/giuridico o di costituire un
catechismo per non credenti, il libro di Lecaldano è un libro squisitamente
filosofico, interessato a influenzare nient’altro che le riflessioni critiche delle
persone, “muovendo dalla fiducia che la civiltà del nostro paese permetterà di
accogliere – senza scandali e tentazioni censorie – le idee di coloro che
sostengono esplicitamente che la morale e i valori sono qualcosa che non
solo può unire credenti e non credenti, ma che addirittura esige da tutti noi
un surplus di indipendenza e di autonomia, da realizzare vivendo come se Dio
non esistesse”.
Mi
vengono in mente le clamorose, stupende affermazioni del cristiano Albert
Schweitzer: “Se domani giungessi alla conclusione che Dio non esiste, e che non
esiste l’immortalità, e che la morale non è che un’invenzione della società (…)
ciò non mi turberebbe affatto. L’equilibrio della mia vita interiore e la
consapevolezza del mio dovere non ne sarebbero intimamente scossi. Riderei di
cuore e direi: Sì, e allora? (…) Questo mi riempie di sereno orgoglio”.
E mi
chiedo se verrà mai il tempo in cui i credenti di tutte le specie vorranno e
sapranno far proprie queste parole.
Nel frattempo, spero vivamente che non si riaffermi
la folle pretesa di far risalire a un Dio la fonte del diritto (sappiamo
benissimo cosa ciò ha comportato e comporterebbe).
Contro una simile pretesa il
libro di Lecaldano rappresenta senz’altro un importante contributo.
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