Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 28 gennaio 2014

Il Pensiero e la Catastrofe

1. Il dibattito filosofico dopo il terremoto di Lisbona del 1755

1.1. Prima del terremoto: l’ottimismo di Leibniz.

“Qualche avversario ... risponderà forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, è tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, benché questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che è stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Così nulla può essere cambiato nell'universo (così come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualità numerica. Così, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe più lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, è stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto”.
Si Deus est, unde malum? Se Dio esiste, da dove nasce il male ? (ma anche Si Deus non est, unde bonum?, se Dio non esiste da dove nasce il bene?) Noi che facciamo derivare tutto da Dio, dove troveremo la sorgente del male? La risposta è che essa deve essere cercata nella natura ideale delle creature, in quanto questa natura è presente nelle verità eterne che si trovano nell’ intelletto di Dio, indipendentemente dalla sua volontà (Teodicea). Leibniz si pone la stessa domanda che a suo tempo si era posto Agostino (così come Plotino), angosciato dalle tesi manichee che pretendevano l’esistenza di un principio del male accanto a quello del bene. Analoga a quella di Agostino è anche la risposta che Leibniz fornisce. Il male ha una natura puramente privativa: esso esprime la semplice mancanza di perfezione che necessariamente differenzia la creatura dal creatore. Il male non esiste come entità fisica, non ha un suo status ontologico. Plotino paragonava il bene al propagarsi della luce di una candela e il male non era altro che laddove il bene (la luce) non arrivava, ossia era una mancanza di bene. Anche per Leibniz ad esistere è solo il bene, l' essere, la perfezione; ma vi sono gradi diversi di essere, di bene, di perfezione. Ciò che manca ai singoli esseri, ai singoli beni, alle singole perfezioni per essere assoluti, questo è il male. Il male è dunque puramente negativo: non essere, non bene, imperfezione. Tutto ciò definisce il male metafisico, il male che nasce dalla mancanza di essere (pensiamo all’ esempio della candela di Plotino).

1.2. Dopo il terremoto: il pessimismo di Voltaire

Per segnare la nascita dell’età moderna possono essere scelti molti eventi. Uno di essi è, senza dubbio, l’immane terremoto che colpì Lisbona il 1° novembre del 1755. È stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale in cui si sono impegnate le menti più notevoli del tempo: Voltaire, Rousseau e Kant. Fra le macerie di Lisbona l’indifferenza della natura, il male e il dolore del mondo si riverberano sul volto di un Dio che se non rinuncia alla sua onnipotenza, come suggeriranno al pensiero le catastrofi “umane, troppo umane” delle guerre mondiali, della bomba atomica e dei campi di sterminio, deve almeno deporre la sua maschera di misericordia. Ma nelle pieghe dei discorsi della filosofia intorno alle rovine della città, un interrogativo, assai più inquietante, fa già la sua comparsa e ci accompagna fino a oggi: e se l’autentica catastrofe non fosse nient’altro che l’uomo stesso?
Voltaire proprio sull’onda dell’impressione sconcertante suscitatagli dal terremoto di Lisbona, scrisse un Poema sul disastro di Lisbona, nel quale nega l’affermazione della Teodicea di Leibniz secondo cui "tutto è bene". Non è vero che tutto sia volto a fin di bene, anche il male naturale, i singoli piccoli o grandi mali patiti da tutti gli uomini. Il bene è invece sempre mischiato con il male. E aggiunse: «Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza; tutto è bene oggi, ecco l’illusione».

1.3. Voltaire, Il terremoto di Lisbona e il migliore dei mondi possibili

Una metà dei passeggeri, sfiniti, stremati dalle inimmaginabili angosce che il rullio d'un vascello provoca nei nervi e negli umori tutti del corpo agitati in senso opposto, non avevano nemmeno la forza di allarmarsi del pericolo. L'altra metà urlava e pregava; le vele eran strappate, gli alberi spezzati, il vascello squarciato. Chi poteva lavorava, nessuno capiva niente, nessuno comandava. L'anabattista aiutava un poco alla manovra; stava sulla tolda; un marinaio pazzo lo colpisce brutalmente e lo stende sul ponte; ma il contraccolpo fu così violento che la scossa lo buttò fuori bordo a testa in giú. Rimase sospeso, uncinato dall'albero spezzato. Il buon Jacques corre in suo soccorso, lo aiuta a risalire e dallo sforzo è precipitato in mare sotto gli occhi del marinaio, che lo lascia perire senza nemmeno degnarsi di guardarlo. Candide s'avvicina, vede il suo benefattore che riappare un momento e per sempre scompare. Vuol buttarsi in mare per soccorrerlo; il filosofo Pangloss glielo impedisce, gli dimostra che la rada di Lisbona è stata creata apposta perché quell'anabattista ci si annegasse. Intanto che glielo dimostra a priori, il vascello si spacca, ogni cosa perisce salvo Pangloss, Candide e il marinaio pazzo che aveva affogato il virtuoso anabattista; quel farabutto nuotò felicemente fino a riva, dove una tavola portò Pangloss e Candide.
Quando si furono un poco rimessi, s'incamminarono verso Lisbona; restava loro qualche soldo, col quale speravano di scampar dalla fame dopo esser scampati alla tempesta.
Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie. Il marinaio diceva fischiando e bestemmiando:
“Ci sarà da guadagnare qualche cosa, qui”.
“Quale sarà la ragion sufficiente di questo fenomeno?” diceva Pangloss.
“Ecco la fine del mondo!” esclamava Candide.
Il marinaio corre immediatamente in mezzo alle macerie, sfida la morte per cercar denaro, ne trova, se ne impossessa, s'ubriaca, e, dopo aver smaltito la sbornia, compera i favori della prima ragazza di buona volontà che incontra sulle ruine delle case distrutte, in mezzo a morti e moribondi. Frattanto Pangloss lo tirava per la manica.
“Amico,” gli diceva “non sta bene, vieni meno alla ragione universale, scegli male il momento”.
“Testa e sangue,” rispose l'altro “son marinaio, nato a Batavia; quattro volte ho calpestato il crocifisso in quattro viaggi al Giappone, sei cascato bene con la tua ragione universale!”
Alcune schegge di pietra avevan ferito Candide; era steso sulla strada, e coperto di macerie. Diceva a Pangloss:
“Ahimè! procuratemi un po' di vino e d'olio; muoio”.
“Questo terremoto non è cosa nuova,” rispose Pangloss: “la città di Lima provò le stesse scosse in America l'anno scorso; identiche cause, identici effetti: certamente c'è una striscia di zolfo sottoterra da Lima a Lisbona”.
“Non c'è nulla di più probabile”, disse Candide; “ma, per Dio, un po' d'olio e di vino”.
“Come, probabile?” ribatté il filosofo “sostengo che la cosa è dimostrata”.
Candide svenne, e Pangloss gli portò un po' d'acqua dalla vicina fontana.
Il giorno dopo ripararono un poco le forze con qualche provvista da bocca trovata strisciando fra le macerie. Poi si misero a lavorare come gli altri per soccorrere gli abitanti sfuggiti alla morte. Alcuni cittadini soccorsi da loro gli offrirono il miglior pasto che fosse possibile in quel disastro. È vero che il pasto era triste; i convitati innaffiavano il loro pane con le lagrime; ma Pangloss li consolò accertandoli che le cose non potevano andare altrimenti.
“Poiché” diceva “queste cose sono per il meglio. Poiché, se c'è un vulcano a Lisbona, non può essere altrove. Poiché è impossibile che le cose non siano dove sono. Poiché tutto va bene”.
Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse:
“Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo”.
“Domando umilissimamente perdono all'Eccellenza Vostra” rispose Pangloss ancora piú educatamente “perché la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”. [...]
(Voltaire, "Candido ovvero l'ottimismo", Rizzoli, Milano, 19944, pagg. 49-55)

1.4. Rousseau e Kant. La responsabilità degli uomini

Rousseau entra in polemica con Voltaire, autore - all'indomani del sisma - del Poema sul disastro di Lisbona, un vero e proprio manifesto del disincanto, della disperazione, del pessimismo. In maniera sorprendente il primo scende in difesa dell'ottimismo: sembra voler dire a Voltaire che i poveri non possono permettersi il pessimismo, che i deboli, i diseredati e gli infelici debbono già sopportare un carico di miseria e di privazioni fin troppo pesante per poter accogliere anche il fardello di una disperazione senza rimedio. L'autentica catastrofe non proviene dalla natura: non questa «aveva riunito in quel luogo - scrive Rousseau a Voltaire - ventimila case di sei o sette piani». Se «gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto». È all'uomo, al particolare sviluppo storico della società, quindi che Rousseau imputa la radice della catastrofe. Con uno scarto politico il filosofo si distacca dal dibattito tradizionale della teodicea - tanto da coloro che con Leibniz giustificano il male come un dettaglio nell'armonia prestabilita del migliore dei mondi possibili, opera senz'altro di Dio, quanto da coloro che si abbandonano a un disincantato, amaro pessimismo verso l'incontrollabilità della natura. A loro contrappone la speranza nell'unica delle catastrofi a sfondo ottimistico, la rivoluzione.
In sintonia con le riflessioni rousseauiane si pongono anche i quattro scritti dedicati da Kant all'eco suscitata dal terremoto di Lisbona: l'ispirazione illuminista è palese quando il filosofo tedesco polemizza con l'uso superstizioso della catastrofe come spauracchio per indurre negli uomini una «cieca sottomissione». «Fra tutte le ragioni che muovono la pietà religiosa - scrive Kant - quelle che traggono spunto dai terremoti sono senza dubbio le più deboli». Anche qui il distacco dalle discussioni teologiche è evidente: al loro posto già si intravede negli scritti kantiani un reticolo di spiegazioni scientifiche e dati empirici, accompagnate dall'accusa nei confronti delle responsabilità dell'uomo - città costruite in luoghi a rischio, soluzioni urbanistiche che amplificano gli effetti dei sismi. La traiettoria dell'Illuminismo è così tracciata tra due fuochi: la scienza da un lato e la politica dall'altro come chiavi d'interpretazione del mondo.

2. Leopardi: la Natura “madre matrigna

2.1. L’indifferenza della Natura

Il Dialogo della Natura e di un Islandese fa parte delle "Operette morali" in cui Leopardi espone, sotto forma di prosa e di dialogo, il tema dell'assoluta infelicità dell'uomo, minacciato continuamente da una Natura indifferente al suo dolore.
Un uomo, simboleggiato dall'islandese, dopo aver cercato a lungo un luogo in cui vivere lontano dalle prepotenze della Natura, alla fine se la ritrova di fronte, bella e terribile insieme, sotto le sembianze di una donna gigantesca. L'uomo comincia a parlare con essa e quando l'accusa di perseguitarlo, sia con l'inclemenza dei climi sia con altri fenomeni, la Natura risponde sostenendo che l'uomo s'inganna se pensa che il mondo sia stato creato per lui. Anzi, essa non si accorge neppure dell'esistenza dell'uomo. La sua unica preoccupazione consiste nel garantire il "perpetuo circuito di produzione e distruzione" del mondo. Anche il più inquietante interrogativo dell'Islandese - "a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo?" - riceve una risposta indiretta nel finale ironico e amaro: la vita infelicissima che coinvolge tutto il creato non giova né all'Islandese né ai due leoni che, divorando l'uomo, potranno contare su un altro giorno di vita, prima di morire anch'essi.
Nel 1836, poco tempo prima di morire, Leopardi affidò al canto La ginestra o il fiore del deserto il suo testamento filosofico. Il poeta, evocando i popoli che un'onda di mar commosso (un maremoto), un fiato d'aura maligna (un'epidemia), un sotterraneo crollo (un terremoto) distrugge si', che avanza a gran pena di loro la rimembranza (distrugge al punto tale che di essi rimane a fatica il ricordo), invita l'umanità ad abbandonare gli odi e l'ire fraterne e ad incolpare delle proprie sofferenze l'unica vera nemica, la natura, madre di parto e di voler matrigna. La sola guerra che vale la pena di combattere è quella contro la natura: l'uomo magnanimo ritiene che i suoi simili dovrebbero essere fra se confederati e tutti abbraccia di vero amore, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli della guerra comune (porgendo ed aspettandosi dagli altri valido e pronto aiuto nei pericoli che minacciano ora gli uni ora gli altri e nelle angosce della guerra comune contro la natura ostile). Ammettere la nostra fragilità; abbandonare gli odi e le reciproche inimicizie; tentare di realizzare il solo progresso possibile, comunque imperfetto, mai risolutivo, ovvero migliorare, per quanto possibile, le condizioni dell'uomo; alleviare le sofferenze dei nostri simili; evitare di aggiungere le conseguenze nefaste della nostra brama di potere, del nostro egoismo, della nostra violenza (una violenza che spesso si maschera di giustizia) ai mali che già la nostra condizione "naturale", sottoposta alla malattia, al decadimento, alla vecchiaia, alla morte, ci impone: questa la splendida utopia del Leopardi.

2.2. La critica dell’ottimismo spiritualistico

Il Poeta sin dai primi versi sviluppa la sua polemica contro ogni forma di antropocentrismo (la pretesa da parte dell’uomo di essere il centro dell’universo e di dominare la Natura) e di ottimismo. Quali sono gli obiettivi polemici del poeta? Non soltanto gli spiritualisti cattolici – che pongono al centro dell’universo l’Uomo, creatura prediletta da Dio - , ma anche quel pensiero laico illuministico ottimista circa la possibilità di un progresso legato allo sviluppo delle scienze e delle tecniche, fiducioso quindi di una perfettibilità del genere umano.
La potenza della Natura, personificata nella terribile forza del Vesuvio, ci ricorda che con un suo piccolo movimento può annichilire il Tutto, irridendo in questo modo la sciocca pretesa di un futuro sempre più radioso per l’uomo (Le magnifiche sorti e progressive).

Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.


2.3. La “follia” della guerra e l’utopia solidaristica contro la Natura

L’accettazione dell’”arido vero” è il nucleo vitale di un pensiero che non fugge la realtà, non la mistifica, per vedere piuttosto “il mal che ci fu dato in sorte”, un pensiero che si lascia prendere da un sentimento di profonda pietà per l’uomo e gli altri esseri viventi vittime di un potere ostile che li condanna alla sofferenza. Il Poeta giunge a formulare quel progetto o quell’utopia solidaristica che costituisce secondo alcuni il punto più alto della lirica leopardiana: solo solidarizzando tra loro e confederandosi contro il comune nemico, fondandosi su una veritiera analisi della propria condizione e dell’esistenza universale, gli uomini potranno fondare una convivenza civile più umana, salda e duratura. Ma gli uomini agiscono diversamente: come soldati che circondati da un nemico che li circonda, piuttosto che unirsi per contrastare la minaccia incombente, combattono tra di loro.

Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.


2.4. La critica dell’antropocentrismo

La ginestra, il fiore che cresce sulle alture vesuviane, ha la perfetta consapevolezza dell’inutilità di ogni sforzo che miri a violare le leggi naturali e biologiche della vita umana e dell’universo. Il fiore del deserto continuerà a diffondere il proprio profumo pur nell’imminenza della distruzione, “saggia” perché consapevole, senza la codardia di un’inutile supplica (codardamente supplicando), senza il forsennato orgoglio di chi si sente padrone dell’universo e si finge un destino di immortalità (non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle), ma lenta, flessibile...perfetta metafora di chi ha raggiunto una perfetta consapevolezza filosofica della vita e del destino dell’uomo.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.


JEAN - JACQUES ROUSSEAU Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona (18 agosto 1756)
Introduzione


Col terremoto di Lisbona del primo novembre 1755 inizia, ad avviso di molte voci storiografiche autorevoli, l’età moderna. Dinanzi a tanta e tale tragedia, si scatena una vivacissima reazione intellettuale, un’aspra e (talora) sdegnata protesta contro l’ingiustizia divina al cui fondo - nel silenzio sfiduciato della sua solitudine, nel gelo propagatosi con la mattanza lusitana - l’uomo europeo sembra ritrovare, almeno in qualche misura, il proprio enigma. All’ottimismo teologico-filosofico dei leibniziani sostenitori che viviamo nel migliore dei mondi possibili – basti qui menzionare Alexander Pope, che, nel suo Saggio sull’uomo, sosteneva che: «tutto è bene e l’uomo gode della sola misura di felicità che il suo essere è suscettibile di provare» -, risponde con profondo, asperrimo disincanto Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona, ove dichiara, fra l’altro, che «non tutto è predisposto a favore della nostra felicità, il male è sulla terra; il principio segreto della natura ci è sconosciuto e tutti gli elementi di essa - animali, esseri umani, piante e minerali - sono in guerra… L’uomo è straniero a sé stesso, e la natura è il regno della distruzione; quello che nasce spira».
Ad esso si rivolge polemicamente Jean-Jacques Rousseau nella Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, ben più nota come Lettera sulla Provvidenza perché, in qualche modo, della Provvidenza Voltaire aveva parlato, delineandola come una sorta di consolazione all’umano patire. Dopo aver criticato l’atteggiamento di chi, come il gran decano dell’Illuminismo, contempla il disastro dalla riva opposta, ribadisce ore rotundo l’assoluta fiducia nella immortalità dell’anima, e in una sorta di fede assoluta nell’umana natura: «I nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e li avremmo evitati quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura».

Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona

[…] Vi riferirò senza giri di parole non tanto delle bellezze che ho individuato nei vostri due poemi — il compito spaventerebbe la mia indole pigra — e nemmeno dei difetti dei quali si accorgeranno forse lettori ben più bravi di me, ma dei dispiaceri che in questo momento offuscano la gioia che pur provo dai vostri insegnamenti. […] Tutte le mie rimostranze sono dunque rivolte contro il Poema sul disastro di Lisbona, perché mi aspettavo da voi un risultato più degno dell’umanità che sembra avervelo ispirato. Rimproverate a Pope e a Leibniz di insultare i nostri mali sostenendo che tutto è bene e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie che ne aggravate il peso: invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi; si direbbe che temiate che io non mi renda conto a sufficienza di quanto sono infelice e che crediate — così sembra — di tranquillizzarmi provandomi che tutto è male.
State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell’ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. Il poema di Pope allevia i miei mali e mi invita alla pazienza; il vostro inasprisce le mie pene, mi spinge a lamentarmi e, togliendomi tutto all’infuori di qualche briciola di speranza, mi porta alla disperazione. In questa strana opposizione che regna tra quello che dimostrate e quello che provo, calmate la perplessità che mi agita e ditemi se a sbagliarsi è il sentimento o la ragione.
«Uomo, sii paziente», mi ricordano Pope e Leibniz, «i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest’universo. L’Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuol dire che non era possibile farlo».
Ora, cosa mi dice, invece, il vostro Poema? «Soffri per sempre, infelice. Se esiste un Dio che ti ha creato, senza dubbio è onnipotente; poteva evitarti tutti i mali: non sperare, dunque, che questi abbiano mai fine; perché non c’è altro motivo per la tua esistenza, oltre la sofferenza e la morte». Non capisco come una simile dottrina possa risultare più consolatrice dell’ottimismo e della stessa fatalità. Confesso che per me è ancora più crudele del manicheismo. Se il problema dell’origine del male vi costringeva a intaccare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà? Se è necessario scegliere tra i due errori, personalmente preferisco il primo. […]
Inoltre, credo di aver dimostrato che eccetto la morte, che è un male solo se la si considera alla luce del modo con cui la aspettiamo e ci prepariamo ad essa, la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono anch’essi opera nostra.
Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l’identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?
Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?
Ci sono avvenimenti che ci colpiscono di più o di meno a seconda della prospettiva dai quali li si considera e che perdono buona parte dell’orrore che suscitano inizialmente quando si prende a esaminarli da vicino. Ho imparato da Zadig, e la natura me lo conferma ogni giorno, che una morte prematura non è sempre un male assoluto, ma, anzi, che qualche volta essa può avere i risvolti di un bene relativo. Tra tutti quegli uomini sepolti sotto le macerie di quella sventurata città, molti, senza dubbio, hanno evitato sciagure peggiori e malgrado la descrizione toccante e poetica dei vostri versi, non è neanche sicuro che uno solo di quei disgraziati abbia sofferto di più per la morte che l’ha sorpreso piuttosto che se l’avesse attesa con lunga angosciosa agonia e secondo il corso ordinario degli eventi.
Esiste, forse, una fine più triste di quella di un moribondo tormentato da inutili cure, al quale un notaio e gli eredi tolgono il fiato, che i medici assassinano senza scrupoli nel suo letto e al quale dei preti barbari fanno con arte assaporare la morte? Personalmente vedo ovunque che i mali che ci assegna la natura sono molto meno crudeli di quelli che aggiungiamo per nostra scelta ad essi. […]
A proposito del bene universale preferibile a quello individuale voi fate dire all’uomo: «lo, essere pensante e senziente, devo stare tanto a cuore al mio Signore quanto i pianeti che, con tutta probabilità, non provano sentimento alcuno». Senza dubbio questo universo materiale non dev’essere più caro al suo creatore di un solo essere pensante e senziente, tuttavia, il sistema di quest’universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri pensanti e senzienti deve stargli più a cuore di uno soltanto di questi esseri. Egli può dunque, malgrado la sua bontà o piuttosto a causa di questa sua stessa bontà, sacrificare parte della felicità degli individui per la conservazione del tutto. Credo e spero di valere agli occhi di Dio più del materiale che forma un pianeta, ma se i pianeti sono abitati, com’è probabile, perché ai suoi occhi dovrei valere più io di tutti gli abitanti di Saturno? Anche se spesso ci si beffa di tali idee, è certo che molte analogie fanno propendere per l’esistenza di queste popolazioni siderali e solo l’orgoglio umano vi si oppone. Ora, ammessa l’esistenza di queste popolazioni, la conservazione dell’universo sembra avere per Dio stesso una morale che si moltiplica per il numero dei mondi abitati.
Sapere che il cadavere di un uomo nutra vermi, lupi o piante non è, ne convengo. un modo per risarcirlo della sua morte: ma se nel sistema dell’universo è necessario, per la conservazione del genere umano, che vi sia un passaggio di sostanza tra uomini, animali e vegetali, allora il singolo male di un individuo contribuisce al bene generale: muoio, vengo mangiato dai vermi, ma i miei fratelli, i miei figli vivranno come ho vissuto io e faccio, per ordine della natura, ciò che fecero Codro, Curzio, Leonida, i Deci, i Fileni e mille altri per una piccola parte degli uomini.
Per tornare, Signore, al sistema che voi criticate, credo che non si possa esaminano in modo corretto senza distinguere con cura il male individuale, la cui esistenza non è mai stata negata da alcun filosofo, dal male generale che nega l’ottimismo. Non si tratta di sapere se ognuno di noi soffre o no, ma se sia un bene che esista l’universo e se i nostri mali erano inevitabili all’atto della sua costituzione. Così, mi sembra che l’aggiunta di un articolo renderebbe la proposizione più corretta e, invece di dire tutto è bene, si dovrebbe forse dire il tutto è bene o tutto è bene per il tutto. Allora, è evidente che nessun uomo potrebbe portare delle prove dirette né pro né contro quest’assioma, perché tali prove dipenderebbero da una conoscenza perfetta della costituzione del mondo e dei fini del suo creatore, e una conoscenza di questo tipo è incontestabilmente al di là di ogni intelligenza umana.
I veri principi dell’ottimismo non possono essere dedotti né dalle proprietà della materia né dalla meccanica dell’universo, ma solo per induzione dalla perfezione di Dio che sovraintende a ogni cosa, in modo tale che non si può provare l’esistenza di Dio con il sistema di Pope, ma il sistema di Pope con l’esistenza di Dio ed è, senza dubbio, dalla questione della provvidenza che è derivata quella dell’origine del male. Se queste due questioni non sono state ben analizzate, né l’una né l’altra, lo si deve al fatto che si è sempre ragionato male sulla provvidenza, e tutte le assurdità che sono state dette in proposito hanno ingarbugliato le conseguenze che si sarebbero potute trarre da questo grande e consolante dogma.
I primi ad aver guastato la causa di Dio sono i preti e i devoti, che non possono soffrire che qualcosa non si faccia seguendo l’ordine stabilito, ma che fanno sempre intervenire la giustizia divina negli avvenimenti prettamente naturali e, per essere sicuri di quanto affermano, puniscono e castigano i malvagi, mettono alla prova e ricompensano i buoni, indifferentemente con benefici o danni, a seconda delle circostanze. Non so, da parte mia, se questa sia buona teologia, ma trovo che sia una pessima maniera di ragionare il fondare sui “pro” e sui “contro” le prove della provvidenza e di attribuirle senza discernimento tutto ciò che accadrebbe ugualmente anche senza di essa.
I filosofi a loro volta, non mi sembrano molto più ragionevoli quando li vedo prendersela col cielo perché non riescono ad essere impassibili o quando gridano che tutto e perduto perché hanno il mal di denti, o perché sono poveri, o perché vengono derubati e vorrebbero, come dice Seneca, incaricare Dio di far la guardia alloro bagaglio. Se qualche tragico incidente avesse provocato la morte di Cartouche o di Cesare durante la loro infanzia ci si sarebbe chiesti che crimine quei bambini avessero mai commesso? Invece, questi due furfanti sono sopravvissuti e ora noi ci chiediamo perché li si sia lasciati vivere? Al contrario, un devoto vi dirà, nel primo caso, che Dio intendeva punire il padre togliendogli suo figlio e nel secondo, invece, che Dio ha voluto mantenere in vita il figlio per castigare il popolo. Così, qualunque sia la decisione della natura, la provvidenza per i devoti ha sempre ragione e per i filosofi sempre torto. Ma, forse, nel corso degli eventi umani, essa, in fondo, non ha né torto né ragione, perché tutto deriva da una legge comune e non ci sono eccezioni per nessuno. Bisognerà credere che i singoli eventi individuali non contano nulla agli occhi del Signore dell’Universo e che la sua provvidenza sia solo universale. Il Signore dell’Universo si accontenta di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo trascorre questa breve vita. Un re saggio, che vuole che ognuno viva felice nel suo regno, ha forse bisogno di sapere se le locande che vi si trovano sono pulite? Il passante brontola per una notte quando le trova sporche e per tutto il resto della sua vita ride al ricordo di un’insofferenza così sproporzionata. «Commorandi enim natura diversorium nobis, non habitandi dedit» [La natura ci ha dato la vita come un luogo nel quale dimorare, non come qualcosa da possedere, Cicerone, De Senectute]
[…] Se riporto tali diverse questioni al loro comune principio mi sembra che si riferiscano tutte all’esistenza di Dio. Se Dio esiste, è perfetto; se è perfetto, è saggio, onnipotente e giusto; se è saggio e onnipotente tutto è bene; se è giusto e onnipotente la mia anima è immortale; se la mia anima è immortale trent’anni di vita non son nulla per me, mentre sono forse necessari alla conservazione dell’universo. Se mi si concede la prima affermazione, le altre saranno di conseguenza inattaccabili; se la si nega, a che serve discutere sulle sue conseguenze?
Né voi né io rientriamo in quest’ultimo caso. Sono ben lontano dal presumere che voi condividiate quest’opinione leggendo la raccolta delle vostre opere. Infatti, la maggior parte dei vostri scritti mi offre le idee più grandi, più dolci e più consolanti della divinità, e preferisco un cristiano come voi a quelli della Sorbona.
Quanto a me, vi confesserò francamente che non mi sembra che i lumi della ragione abbiano dimostrato né il “pro” né il “contro” in merito a questa importante questione e che se il teista basa il suo sentimento solo sulle probabilità, mi pare che l’ateo, con ancor minor precisione, poggi invece il suo semplicemente sulle possibilità opposte. Inoltre, le obiezioni di entrambe le parti sono sempre insolubili perché poggiano su cose delle quali gli uomini non hanno alcuna idea precisa. Ne convengo in tutto e per tutto, e tuttavia credo in Dio con la stessa forza con cui credo in qualunque altra verità, perché credere o non credere sono le cose al mondo che meno dipendono dalla mia volontà. Lo stato del dubbio è una condizione troppo violenta per la mia anima. Quando la mia ragione è indecisa, la mia fede non può restare a lungo in sospeso e decide senza di essa. Allora, mille motivi mi spingono di preferenza sul versante dove vi è maggior consolazione e aggiungono il peso della speranza all’equilibrio della ragione.

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