Strano destino quello della preposizione greca μετά (meta), che
significava “dopo”, “a fianco di”, “con”, “stesso”, con variazioni di
senso che dipendevano dalla declinazione della parola successiva. Dalla
preposizione derivò il prefisso μετα-, più o meno con gli stessi significati.
Quando Andronico di Rodi, scolarca della ricostituita scuola
peripatetica, pubblicò nel primo secolo a. C. una nuova edizione delle
opere di Aristotele (quella che costituisce il Corpus Aristotelicum oggi noto), chiamò Metafisica una
serie di scritti in cui il grande filosofo si occupava della natura
degli enti fisici, tra i quali la divinità, in quanto esseri. Questi
trattati furono chiamati τὰ μετὰ τὰ φυσικά (“ciò che viene dopo la Fisica”) per il semplice fatto che essi nella compilazione venivano dopo il libro dedicato alla Fisica.
L’espressione venne però interpretata diversamente, come se il suo
oggetto fosse “ciò che va oltre la fisica”, in quanto divino. Quel
prefisso meta-, utilizzato da Andronico con un’accezione puramente locativa (post-), venne a significare un superamento, un’uscita da (trans-) per cui la metafisica divenne lo studio di ciò che va oltre le cose naturali, la scienza delle cose divine.
A Roma la parola “metafisica” arrivò con questo secondo significato, che
divenne quello definitivo anche perché venne fatto proprio dal
cristianesimo. Sul calco di metafisica si sono coniate nel
Novecento moltissime parole, soprattutto in ambito scientifico, in cui
il prefisso indica, di volta in volta, una trasformazione,
un’evoluzione, uno sviluppo, una derivazione (“posteriorità, mutamento,
trasformazione” secondo il Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani del
2012). In chimica le cose sono leggermente diverse e più specifiche, ma
non è il caso adesso di aggiungere troppa carne al fuoco.
In campo matematico il prefisso cominciò a essere usato alla fine della
grande discussione sui fondamenti e del tentativo di basare le
matematiche su sistemi logico-formali. Le geometrie non-euclidee, alla
metà dell’Ottocento, avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e
kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della
matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli
del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende
dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle
espressioni contenute nei postulati. In parole povere: non è
fondamentale che esista davvero un lonfo,
ma che un quadrato con tre lonfi per lato contenga davvero nove lonfi.
Ciò che importa al matematico puro è la struttura delle affermazioni
piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: egli non si
preoccupa se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi
sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche
necessarie delle ipotesi da cui è partito.
Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei
sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi
matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX,
provarono, consci di quella che prese il nome di crisi dei fondamenti, a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie,
cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle
stesse premesse, a conclusioni logiche opposte. Per un motivo o per
l’altro, capitava di dover ammettere che un lonfo barigatta e
contemporaneamente non lo fa.
Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (chissene se un lonfo esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in
termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle
conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche
interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:
a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è
consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che
una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o
dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è
sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita
e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio.
Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare
al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile
se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema. Se non
è così, succede ciò che descrissi tempo fa in questo limerick:
In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.
Ancor prima che Kurt Gödel dimostrasse nel 1931 che è impossibile per un
sistema formale coerente come l’aritmetica dimostrare la propria
coerenza, si arrivò a parlare di metamatematica e metalogica,
cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica e della
logica superandole, trascendendole. Così, mentre la logica studia il
modo in cui i sistemi logici possono essere usati per costruire
argomenti validi e corretti, la metalogica studia le proprietà dei
sistemi logici stessi. Analogamente, la metamatematica è lo studio della
matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra i lonfi una simile abitudine).
L’Oxford Dictionary, attento a registrare tutto ciò che capita alla lingua inglese, annota per la prima volta il termine metamathematics nel
1929, ma il concetto era già presente nei lavori del grande matematico
tedesco David Hilbert, colui che già nel 1900 aveva enunciato tra le
grandi sfide del secolo incipiente proprio la dimostrazione che gli
assiomi dell’aritmetica sono coerenti e che, intorno agli anni ‘20, con
il suo Programma, aveva tentato di formalizzare tutte le teorie
matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e
dimostrare che questi assiomi non conducevano a contraddizioni, per
esempio che la proposizione A e la sua negazione non-A siano entrambi
teoremi. Già ho detto che il sogno di Hilbert fu frustrato da Gödel, ma
fu proprio il meta- che consentì di superare certe difficoltà: si trovarono strade diverse, e la ricerca continua ancor oggi.
Nel 1937 Willard Quine utilizzò per primo il termine metateorema nell’articolo Logic Based on Inclusion and Abstraction,
per indicare “un X che riguarda X”, cioè l’equivalenza di strutture
logiche (la metafisica, al contrario, va oltre la fisica, ma non ha la
sua stessa struttura, è “un Y che riguarda X”). Così formulato da Quine,
l’ouroboros di cui ho parlato può essere visto in termini di
autoreferenza, con tutte le conseguenze, anche ludiche, di cui mi sono
occupato in un precedente articolo.
Quine è infatti ampiamente citato nelle opere di Douglas Hofstadter, che, nel suo Gödel, Escher, Bach (1979) e nel successivo Metamagical Themas, ha reso popolare il nostro meta.
Hofstadter addirittura lo usa come aggettivo, o come preposizione
(“going meta”, così come esiste “going to”, per indicare che si porta la
discussione su un altro livello di astrazione). Grazie a Hofstadter, e
al successo del suo bellissimo testo, oramai il prefisso meta- è
diventato di uso comune, soprattutto per indicare autoreferenze o quel
tipo di cortocircuiti logici che gli anglosassoni chiamano strange loops.
Oggi esistono persino i meta-jokes,
o meta-barzellette, battute autoreferenziali, o che si riferiscono ad
altre battute, come quella di un italiano, un francese e un americano
che entrano in un bar e il barista chiede: “Che cos'è, una
barzelletta?”.
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