Recensione di Massimiliano Chiari - 21/04/2012
Dopo la pubblicazione de
L’anima e il suo destino (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007),
Mancuso prosegue il suo percorso di fondazione di una teologia laica,
cioè di una teologica filosofica che pervenga alla rielaborazione del
concetto di Dio, o più in generale del divino, in un’ottica
eminentemente razionale e compatibile con i risultati dell’attuale
ricerca scientifica, soprattutto nel campo della cosmologia e della
biologia.
Il movente e l’obiettivo del libro sono dichiarati nel Prologo, dove Mancuso afferma che:
“Questo libro nasce […] dall’esigenza interiore di rifondare al cospetto delle perplessità odierne il pensiero di Dio” (p. 17); la ragione contemporanea considera ormai insufficiente la fondazione di tale pensiero solamente a partire dalla Chiesa e dalla Bibbia; il nuovo concetto di Dio va elaborato “all’aria aperta della libertà di pensiero” (ivi). In questa prospettiva, il libro intende presentarsi come un’opera di “teologia fondamentale” (ivi) nella misura in cui vuole riflettere sui fondamenti del discorso teologico. Abbandonando ogni principio di autorità, in se stesso sterile o addirittura dannoso per l’autentica comprensione della divinità, l’obiettivo è quello di “contribuire a far sì che la mente contemporanea possa tornare a pensare insieme Dio e il mondo” (p. 18), ovvero – aggiungo io – a pensare Dio a partire dal mondo.
“Questo libro nasce […] dall’esigenza interiore di rifondare al cospetto delle perplessità odierne il pensiero di Dio” (p. 17); la ragione contemporanea considera ormai insufficiente la fondazione di tale pensiero solamente a partire dalla Chiesa e dalla Bibbia; il nuovo concetto di Dio va elaborato “all’aria aperta della libertà di pensiero” (ivi). In questa prospettiva, il libro intende presentarsi come un’opera di “teologia fondamentale” (ivi) nella misura in cui vuole riflettere sui fondamenti del discorso teologico. Abbandonando ogni principio di autorità, in se stesso sterile o addirittura dannoso per l’autentica comprensione della divinità, l’obiettivo è quello di “contribuire a far sì che la mente contemporanea possa tornare a pensare insieme Dio e il mondo” (p. 18), ovvero – aggiungo io – a pensare Dio a partire dal mondo.
Nei primi tre capitoli,
come precisa lo stesso autore nelle Avvertenze (p. 9), viene effettuata
una fenomenologia della situazione odierna in ordine alle forti
perplessità a cui va incontro, oggi, il concetto speculativo mondo-Dio; i
capitoli 6, 7 e 8 sono invece dedicati all’analisi critica, ovvero alla
pars destruens dell’impostazione teologica dell’autore; infine, i
capitoli 4, 5, 9 e 10 contengono la pars construens, ovvero la proposta
personale della nuova teologia mancusiana.
L’opera, proprio come
quella scritta da Mosè Maimonide – filosofo e rabbino spagnolo – tra il
1180 ed il 1190 d.C., vuole essere anche Una guida dei perplessi (come
recita il sottotitolo di Io e Dio), un testo che sappia riconciliare la
fede in Dio con “le nuove conoscenze filosofiche e scientifiche” (p.
21), senza la quale riconciliazione il credente è destinato a essere
vittima di innumerevoli dubbi e perplessità. Un esempio per tutti: “Dopo
milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è
semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza
storica. Ha scritto Primo Levi: «Se non altro per il fatto che un
Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di
Provvidenza»” (p. 33; la citazione di Levi è tratta da Se questo è un
uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 140); vale la pena di ricordare, proprio
su questo tema, il saggio del 1984 di Hans Jonas, Der Gottesbegriff
nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme (trad. it., Il concetto di Dio dopo
Auschwitz. Una voce ebraica, a cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo,
1993). Secondo Mancuso non possiamo più, oggi, spiegare la presenza del
male assoluto ricorrendo al più classico refugium theologorum
utilizzato dalla coscienza religiosa di tutti i tempi, vale a dire il
ricorso alla categoria del mistero (p. 34). Altra fonte di forte
perplessità, prosegue Mancuso, consiste nell’“associare immediatamente
al termine «Dio» un essere personale, pensando che ogni ricerca al
riguardo sia necessariamente una ricerca su questa entità personale: Dio
come un ente, come una cosa distinta da tutte le altre cose, per quanto
superlativa” (p. 77); l’autore, che dichiara – pur con tutti i
distinguo – di aderire alla fede cristiano-cattolica, pensa tuttavia che
“si debba parlare di un Dio personale in senso ben diverso dalla
modalità antropomorfica che campeggia solitamente nelle menti quando si
nomina il termine «persona». Dio è personale solo nella misura in cui è
anche impersonale, perché è il principium anche delle cose impersonali”
(p. 79).
Nel terzo capitolo, che
chiude la citata trattazione fenomenologica, Mancuso passa in rassegna
le diverse prove e dimostrazioni (o “argomenti”, come preferisce
considerarli) utilizzati nella storia della teologia per sostenere la
conoscibilità di Dio, con certezza, a partire dalla sola ragione. La
dottrina cattolica con il Concilio Vaticano I, precisamente nella
Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870, afferma
categoricamente: “La santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio,
principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza
mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose
create” (Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum definitiorum et
declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Peter Hunermann, ed.
it. a cura di Angelo Lanzoni e Giovanni Zuccherini, EDB, Bologna, 1986;
corsivo di Mancuso) e sanziona con la scomunica chi non accetta tale
insegnamento. Ora, si chiede Mancuso, come non provare delle forti
perplessità di fronte a tale certezza granitica ed autoritaria, tenuto
conto che “le prove dell’esistenza di Dio non hanno mai funzionato a
livello pratico” (p. 98); se avessero funzionato, l’esistenza di Dio
sarebbe del tutto evidente a ogni uomo dotato di ragione, ma sappiamo
che così non è.
Finora Mancuso si è
limitato a sollevare una serie di perplessità; nei capitoli 6, 7 e 8
invece viene messa in atto la vera e propria pars destruens del suo
percorso teologico, vale a dire l’analisi (fortemente) critica di alcune
posizioni, credenze e dogmi, in particolare della tradizione cattolica.
Questa, dal punto di vista teoretico, ritengo sia la parte meno
interessante del saggio, in quanto mette in evidenza aporie e
contraddizioni tutte interne alla Chiesa. Il lettore non cattolico, o
ateo, non necessita, in fondo, di questa operazione di pulizia per
elaborare in modo proficuo una riflessione ed un pensiero su Dio,
essendo tale lettore per definizione immune dalle polemiche interne alla
Chiesa cattolica.
(Finale in crescendo!)
LexMat
Ma Mancuso è figlio di
tale Chiesa e così sente forte il bisogno di superare il
principio-autorità in favore del principio-autenticità: “Desidero in
particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il passaggio dal
principio di autorità al principio di autenticità. Per principio di
autorità intendo la prospettiva secondo cui si accetta di aderire a un
concetto o a una dottrina non per motivi intrinseci alla cosa stessa, ma
per motivi estrinseci legati all’identità di chi la propone. […] Tale
principio di autorità è ancora oggi dominante nel cattolicesimo, a tal
punto da essere di fatto il dogma primordiale da cui tutti gli altri
dipendono” (pp. 194-195). Al contrario, l’autore intende promuovere “il
passaggio da una fede come «dogmatica ecclesiale» […] a una fede
«laica», non-clericale, per la quale l’istanza conclusiva è la coerenza
del pensiero rispetto all’esperienza concreta della vita” (p. 198).
Autenticità significa
anche la capacità della religione di sostenere le sue affermazioni al
cospetto della comprensione scientifica del mondo naturale e resistere
alla verifica della razionalità (p. 200). Segue l’esposizione dei
numerosi errori e crimini compiuti dalla Chiesa cattolica in forza del
citato, nefasto, principio di autorità.
Autenticità, infine,
significa per Mancuso non rinunciare a quell’onestà intellettuale che
impone di non tacere le numerose contraddizioni, anche rilevanti,
contenute nei libri sacri (messe puntualmente in evidenza nel cap. 7) e
di non mascherare quelle aporie dottrinali, come il problema del male
(di cui si parla nel cap. 8), mai affrontate e risolte fino in fondo
dalla fede cattolica tradizionale.
Sicuramente la parte più
suggestiva del saggio è la pars construens, quella contenuta – in
particolare – nei capitoli 4, 5, 9 e 10. Innanzitutto, ci ricorda
Mancuso, per pervenire a quella forma di “religiosità autentica” che si
concretizza attraverso la “unità di Io e Dio” (p. 147), è necessario
liberarsi dai pregiudizi; questa operazione di pulizia intellettuale è
possibile nella misura in cui l’uomo è libero, desiderando – grazie alla
sua irrinunciabile libertà – di volere, sopra ogni cosa, la verità (la
verità dell’essere più che la verità della dottrina).
“È ora giunto il momento
di dichiarare qual è il mio assoluto, qual è, esistenzialmente
parlando, il mio dio. Rispondo in tutta franchezza che il mio assoluto
non è Dio, inteso come «essere perfettissimo creatore e signore» […]. Il
mio assoluto è il bene, l’idea e la pratica del bene [..] che si dice
[nella dimensione fisiologica e biologica] come salute, [nella
dimensione etica] come giustizia, [nella dimensione teologica, rispetto
alla meraviglia che l’essere-energia suscita] come grazia” (p. 173).
Ecco, con questo passaggio decisivo, qui oltremodo sintetizzato per
ragioni di spazio, Mancuso si pone e ci pone chiaramente fuori, oltre la
teologia dogmatica tradizionale, invitandoci a entrare nella
dimensione, suggestiva e inusuale, della sua teologia fondamentale e
laica, elaborata sulla scia di quelli che sono stati i suoi grandi
maestri spirituali: Pavel Florenskij, Dietrich Bonhoeffer, Simon Weil,
Etty Hillesum e il gesuita Teilhard de Chardin, per citare solo i
principali.
“Credendo in Dio, io
credo che quella dimensione dell’essere manifestata dalla tensione verso
l’organizzazione e la complessità non sia un’illusione, ma l’ultima, la
più fondamentale dimensione dell’essere-energia, e che essa sia il
destino del mondo” (p. 398): già da queste ultime parole si intuisce –
ma la lettura del libro ne consentirà un adeguato approfondimento – come
a fondamento della teologia di Mancuso vi sia, innanzitutto e per lo
più, una vera e propria ontologia che riconduce il concetto di essere a
quello, elaborato dalla scienza fisica contemporanea, di energia. Questa
dimensione eminentemente ontologica è stata, peraltro, diffusamente
trattata da Mancuso nel suo precedente lavoro del 2007 (L’anima e il suo
destino, op. cit.).
E dove dovrebbe condurre
questa nuova ontoteologia? Verso “una fede più umana” (titolo, questo,
del decimo e ultimo capitolo), verso una “fede non dogmatica” (p. 437)
dove l’assoluto non è più rappresentato dal dogma, ma dal bene, dove lo
statuto veritativo non è più di tipo dottrinale, ma pragmatico”
(ivi).