Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 27 settembre 2013

Gli Errori dei Filosofi

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Se gli uomini non commettessero talvolta delle sciocchezze, non accadrebbe assolutamente nulla di intelligente. (Wittgenstein)

Anche i filosofi sbagliano! Ed è per questo che ho qui raccolto una serie di loro errori, spesso veniali, ma talvolta sconcertanti.
Si tratta per lo più di errori concettuali e di contraddizioni: voglio dire, non intendo discutere se Hobbes avesse ragione o no a sostenere lo Stato assoluto, poichè sarebbe naturalmente un parere personale, che chiunque altro potrebbe non condividere.
Intendo piuttosto mettere in luce gli errori commessi nei passaggi argomentativi dai vari filosofi, che, bene o male, siamo tutti costretti a riconoscere.

Protagora e Gorgia

Gorgia e Protagora sono accomunati dalla convinzione che non vi sia verità alcuna e che, in assenza di essa, la parola possa tutto. Tuttavia, se per Protagora ogni cosa è vera, per Gorgia, invece, ogni cosa è falsa. Con l'espressione " l'uomo è misura di tutte le cose , di quelle che sono in quanto sono , e di quelle che non sono in quanto non sono " Protagora intende appunto sottolineare l'assoluta relatività della verità, facendo notare come ciascuno veda le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto agli altri: se io dico che una bevanda è dolce ed un altro dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che dica la verità, il che è impossibile; si può magari chiedere il parere di un'altra persona, ma anche questo è un parere personale, privo di validità universale. Tuttavia, se in assenza di una verità si può dire che tutto è vero (come fa Protagora) o che tutto è falso (come fa Gorgia), nasce un'aporia, sottolineata già da Platone: egli obietta a Protagora che, se tutte le opinioni sono vere, é vera anche l'opinione che sostiene che non tutte le opinioni sono vere e, di qui, anche quella che sostiene che la tesi di Protagora é falsa; allo stesso modo, se tutte le opinioni sono false, allora anche l'opinione di Gorgia, secondo cui tutto è falso, è falsa. A supportare le tesi di Platone è il suo allievo Aristotele, il quale fa notare che con i sofisti, a rigor di logica, non si può neppure discutere perchè, sostenendo che tutto sia vero o che tutto sia falso, nel momento stesso in cui un sofista discute, smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso, la possibilità dell'errore: se infatti ci fosse solo il vero o il falso, nota Aristotele, che motivo ci sarebbe di discutere?

Carneade e degli Scettici

La questione si risolve qui molto in fretta: Carneade e gli Scettici dicono che non si può sapere nulla con certezza, ma allora non si potrebbe nemmeno sapere di non sapere nulla con certezza. In altri termini, essi sanno con certezza che non si può sapere nulla con certezza, ma già per il fatto di sapere che non si può sapere hanno una certezza. In parole povere, se non posso sapere niente, allora non posso sapere neanche di non sapere niente. Questa è la contraddizione di fondo che serpeggia nella filosofia scettica, ma non è l'unica. Infatti, Carneade é il fondatore del cosiddetto "probabilismo", ossia della teoria secondo la quale, nell'impossibilità di conoscere la verità, si possono comunque tracciare gradi di conoscibilità: ci saranno, cioè, cose più vere e cose più false, anche se la verità in assoluto resta irraggiungibile. Il concetto di probabilismo risulta però inaccettabile, poichè indisgiungibilmente legato a quello di certezza: per poter dire che una cosa é più probabile rispetto ad un'altra, infatti , devo per forza avere una pietra di paragone; in altri termini, se conosco con certezza alcune cose, allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla con certezza (come di fatto sostengono gli Scettici) , allora non posso neanche parlare di probabilità.

Anselmo da Aosta

Anselmo da Aosta rientra nel novero di quei pensatori medioevali che si sforzarono di dimostrare, spesso con argomentazioni spericolate, l'esistenza di Dio. Egli elaborò la cosiddetta prova ontologica , ovvero dimostrò l'esistenza di Dio basandosi esclusivamente sulla sua essenza; la prova, che fu considerata valida fino al Settecento prima che Kant la confutasse (Hegel la riterrà invece valida), si basa sulla nozione stessa che di Dio hanno sia il credente sia l'ateo. Si tratta di una dimostrazione "pura" dell' esistenza di Dio, sgancita dalle esperienze sensibili: é una dimostrazione che parte dal puro concetto di Dio. Venendo al dunque, Anselmo immagina un discorso con un ateo, ossia con una persona che in cuor suo nega l'esistenza di Dio; per negare qualcosa si deve sapere per forza che cosa sia, altrimenti non lo si può negare: per negare l'esistenza di un drago devo pur sapere che cosa sia, il che implica che c'é differenza tra esistenza ed essenza. Dunque l'ateo deve sapere che cosa é Dio: Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore. Il drago, pur non esistendo nella realtà, ha un suo tasso di essere in quanto ente immaginario, pensato ; certo il suo tasso di essere sarà inferiore rispetto a quello di un cavallo, che esiste sia come ente pensato sia come ente reale. Immaginiamo per un attimo che il drago esista: al tasso di essere che ha in quanto pensato, si aggiunge quello che ha in quanto esistente. Ora passiamo a Dio come puro concetto e ammettiamo che Egli esista: prendiamo in esame il Dio come puramente pensato, che é quello che ha in mente l' ateo: Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore, ma se lo si vede come esistente avrà un tasso più elevato di essere e quindi sarà maggiore: rispetto all'essere di cui nulla si può pensare di maggiore si può pensare qualcosa di maggiore, il che è contradditorio. Il ragionamento dell'ateo cade in contraddizione, Dio deve per forza esistere. In fondo, il ragionamento di Anselmo può così riassumersi: l'essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza, altrimenti non sarebbe il più perfetto. Un contemporaneo di Anselmo, tale Gaunilone, in un trattatello Pro insipiente in cui assumeva la difesa dell'ateo, attaccò la dimostrazione di Anselmo, muovendole essenzialmente due critiche: in primo luogo, la dimostrazione dovrebbe valere per ogni forma di perfezione, vale a dire che se parliamo di un'isola felice, perfetta, allora, a rigore, secondo Gaunilone, seguendo il ragionamento di Anselmo, si dovrebbe arrivare a dire che essa esiste. E questo dovrebbe valere per tutti gli enti perfetti. Ma Anselmo fa notare che il suo ragionamento vale solo per l'essere perfetto in assoluto, Dio, e non per i "perfettissimi" di ogni categoria (l'isola perfetta, la casa perfetta, ecc): infatti, per fare un esempio, nell'essere perfetto assoluto ci sarà la sapienza, nell'isola perfetta non ci sarà. La seconda critica mossa da Gaunilone (alla quale Anselmo non fu in grado di controbattere) consiste nel fatto che, anche ammesso che funzioni, il ragionamento di Anselmo deve partire da un concetto corretto di Dio che solo chi ha fede può avere; il ragionamento anselmiano, dunque, funziona, ma solo per chi già ha la fede, non per l'ateo. Anselmo riconobbe che Gaunilone aveva ragione e ammise che il suo ragionamento serviva solo a chiarire al credente i fondamenti della sua fede. La prova ontologica chiarisce al credente che Dio é "causa sui" (ossia non é creato ma crea), e che in Lui (e solo in Lui) l'essenza implica l'esistenza. Tuttavia la prova ontologica verrà smascherata come errore da Kant in L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763): l'esistenza non può a nessun titolo far parte dell'essenza e il concetto di Dio è perfetto di per sè, indipendentemente dal fatto che Dio esista o meno. Per smascherare Anselmo, Kant si serve di un esempio molto efficace: immaginiamo di avere in tasca cento talleri. I cento talleri esistenti che io porto nelle mie tasche non sono affatto più perfetti dei cento talleri pensati, poichè, se così fosse, pur avendo cento talleri in tasca, dovrei averne in mente di meno, visto che, per Anselmo, l'essenza "vale meno" dell'esistenza. Il che sarebbe assurdo: ne consegue che non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima cosa pensata come inesistente.

Cartesio

Senz'ombra di dubbio, Cartesio è uno di quei filosofi che si propone di dare una veste rigorosa e razionale alla filosofia ma che poi, paradossalmente, forse perchè preso da una foga eccessiva nel razionalizzare ogni cosa, scivola spesso nell'irrazionalismo. A ragion veduta, egli proclama di voler mettere in forse ogni cosa, poichè non vi è nulla di certo: così come il remo immerso in acqua pare spezzato in virtù di un effetto ottico, cosa vieta di ipotizzare che i sensi ci ingannino anche quando pensiamo di avere di fronte a noi un mondo? Allo stesso modo, anche la matematica è suscettibile di un giudizio analogo: chi mi dice di non essere stato creato da un genio maligno che mi fa credere che 2+2 dia 4, mentre in realtà dà 5? E tuttavia, nota Cartesio, posso (e devo) dubitare di ogni cosa, fuorchè di una: nel momento stesso in cui dubito, penso e se penso, allora esisto ( cogito ergo sum ). Fin qui il ragionamento fila liscio: dopo di che, però, Cartesio fa il passo più lungo della gamba e finisce laddove non voleva finire, ossia nell'irrazionalismo. Infatti, giunto legittimamente alla certezza di esistere per il fatto di pensare, egli da ciò deduce di esistere come pensiero ( res cogitans ), ossia come anima priva di corpo. E' infatti il pensare che mi ha portato ad avere la certezza di esistere, dice Cartesio, e posso tranquillamente ipotizzare di esistere come cosa pensante priva di corpo. E commette un errore grossolano: dire che esisto per il fatto di pensare non significa che io esista solo come entità pensante; sicuramente come entità pensante esisterò , ma magari avrò un corpo, un' esistenza materiale e non solo spirituale. L' errore di Cartesio, in altri termini, sta nel passare da una cosa che pensa a una cosa pensante, che come unica caratteristica ha il pensare. Dell' esistenza del mio corpo non ho certezza (il cogito ergo sum mi dimostra l'esistenza intellettuale), ma non ho neanche certezza dell' inesistenza del corpo per dire che sono un pensiero senza corpo! Perchè mai devo essere un pensiero invece che un essere materiale che pensa? Cartesio si dimostra meno razionale del previsto: questa é l'aporia cartesiana, il non prendere nulla per certo (neanche l' esistenza del proprio corpo) per poi finire col prendere per certa l' inesistenza del proprio corpo! Locke, da buon cristiano, riprenderà le tesi di Cartesio ma non accetterà l'esistenza come mero pensiero, bensì dirà di essere un'entità materiale la cui prerogativa fondamentale sta nel pensare. Questo è probabilmente il più ecclatante degli errori di Cartesio, ma non è l'unico. Il pensatore francese sostiene l'onnipotenza della ragione umana e in ciò si rivela profondamente irrazionale, quasi come se assumesse un atteggiamentop fideistico verso la ragione, senza istituire quel "tribunale" di cui si avvarrà Kant per valutare le possibilità e i limiti della ragione. La stessa adesione totale al meccanicismo fa sì che Cartesio incappi in errori madornali: primo fra tutti, il rifiuto dell'azione a distanza e, in ultima istanza, della forza di gravità, che a Cartesio puzzava troppo di animistico, quasi come se i pianeti girassero intorno al Sole perchè vivi. L'unico movimento che Cartesio può ammettere è quello per contatto, come avviene su un tavolo da biliardo per cui ogni palla è mossa dall'urto con un'altra palla: il meccanicismo porta Cartesio a negare, in primis, l'esistenza del vuoto. L' estensione é, infatti, per Cartesio sinonimo di spazio e la materia é sinonimo di estensione, quindi la materia é sinonimo di spazio; ma se la materia é lo spazio, ne consegue che il vuoto non esiste perchè sarebbe uno spazio senza contenuto fisico, il che è inaccettabile. Dall' inesistenza del vuoto deriva una particolare concezione del movimento: non si può ipotizzare uno spazio vuoto, come abbiamo visto, e quindi non si può definire il movimento come spostamento "da qui a lì" nel vuoto; dunque, se un libro lo spostiamo da qui a lì, Newton dice che nello spazio si sposta da una parte all' altra, per Cartesio, invece, significa che il libro viene traslato dalla vicinanza di alcune parti di materia alla vicinanza di altre parti di materia. Con il suo meccanicismo radicale, tra l'altro, non poteva neanche spiegare che un oggetto cade perchè attirato dalla forza di gravità, ma doveva ricorrere a bizzarre interpretazioni: una penna cade al suolo, dice Cartesio, perchè sente una sorta di pressione esercitata dall'alto, dall'infinita quantità di materia sopra di noi. Non si tratta, pertanto, di un processo di attrazione a distanza, ma di un autentico processo di schiacciamento. Ben si può notare come il "sistema" cartesiano sia rigurgitante di errori spesso anche grossolani: due meritano ancora di essere sottolineati. In primo luogo, l'interpretazione che Cartesio dà del funzionamento del cuore. In un'ottica in cui ogni movimento avviene per contatto, egli respinge la teoria secondo la quale è il cuore a far muovere il sangue, poichè altrimenti il cuore sembrerebbe essere un organo vivente e ciò sarebbe in antitesi con il meccanicismo. Per Cartesio, al contrario, essendo il cuore un organo caldissimo, é il sangue che, surriscaldandosi per via del calore presente nel cuore, si dilata e per questo dilatarsi schizza via dando luogo alla circolazione che riporta il sangue raffreddatosi al cuore, dove si riscalda nuovamente, si dilata, schizza via e il processo ricomincia: il cuore è concepito da Cartesio come un motore a scoppio. L'altro grande errore commesso dal filosofo risiede nel tentativo di spiegare il rapporto tra spiritualità e materialità, dopo che egli ha ammesso, nonostante i tentennamenti iniziali, l'esistenza del corpo. Diventa difficilissimo spiegare come l'anima muova il corpo e viceversa, visto che l'anima, per definizione, é sostanza spirituale e non é riconducibile ad estensione. Nell' ottica meccanicistica cartesiana, ogni movimento é causato da urti fisici, ma come fa il corpo materiale ad urtare l'anima immateriale per farla muovere a sentire il calore quando appoggiamo la mano su una superficie calda? Come può esserci movimento per contatto tra una realtà fisica e una spirituale? E' una contraddizione parlare di movimento e di urti a riguardo dell' anima. Ecco allora che Cartesio tenta di fornire una spiegazione ipotizzando proprio un contatto tra anima e corpo, una spiegazione non molto convincente già all'epoca; i problemi sollevati da Cartesio in merito finiscono più per essere ampliati che risolti; che rapporto ci sarà mai tra anima e corpo, due realtà diverse e inconciliabili che nell' uomo trovano il loro punto di contatto? Per spiegare il rapporto anima-corpo Cartesio si serve di due realtà fisiche: la ghiandola pineale e gli spiriti animali. Supponiamo che Cartesio debba spiegare il rapporto anima - corpo quando con la mano si tocca una superficie calda e il calore viene dal corpo trasmesso all' anima. Cartesio dice che la superficie calda mette in moto le particelle dei polpastrelli della mano e fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e corporeo; dopo di che egli tira in ballo il reticolo nervoso (lo si era da poco scoperto in medicina : esso si concentra soprattutto alla base del cervello); Cartesio individua nel reticolo nervoso la via per la quale gli impulsi vengono trasmessi dalla periferia al centro e viceversa: attraverso i nervi la sensazione di calore che si ha quando si tocca con mano una superficie calda viene trasmesa dai polpastrelli verso il cervello. Da notare che Cartesio evita appositamente di servirsi di spiegazioni chimiche ed elettriche: egli accetta e si serve solo di spiegazioni meccanicistiche: contatti fisici che causano il movimento. Ipotizza che all'interno dei nervi ci siano degli spiriti animali : non dobbiamo farci ingannare dal nome; si chiamano spiriti non perchè sono realtà spirituali (il che sarebbe assurdo) ma per via della loro estrema sottigliezza (sono talmente sottili da stare nei nervi); si chiamano poi animali perchè trasmettono gli impulsi dell' anima. Grazie alla loro sottigliezza questi spiriti animali vengono urtati dal calore della superficie e trasmettono questo moto fino al cervello; fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e lo stesso avviene tanto negli animali quanto negli uomini. Da questo punto in poi, però, negli animali l'impulso arrivato al centro (il cervello) in modo meccanico genera una reazione meccanica: ad ogni imput corrisponde un output; se prendo una zampa ad un gatto e la metto su una superficie calda, gli spiriti animali dalla zampa si muovono fino al cervello e generano una reazione meccanica (il miagolare nel caso del gatto); tutto questo avviene senza la mediazione di un organo che genera sensibilità: ricordiamoci che per Cartesio gli animali sono macchine. Nell' uomo invece il processo si differenzia: il centro dell' uomo é la cosiddetta ghiandola pineale, una delle ghiandole che sta alla base del cervello: essa, spiega Cartesio, é il centro della sensibilità e gli animali, proprio perchè macchine prive di sensazioni, ne sono sprovvisti. A questo punto avviene un fenomeno misterioso e inspiegabile: nella ghiandola pineale l'impulso nervoso guidato dagli spiriti animali incontra l'anima, che nel corpo ha la sua dimora provvisoria e nella ghiandola pineale trova il suo punto di incontro e di rapporto con il corpo: qui dall'incontro con gli spiriti animali viene generata la sensazione. Evidentemente, quella di cartesio è una soluzione che soddisfa poco ed è anzi clamorosamente sbagliata.

Hobbes

Thomas Hobbes si propone di affrontare e risolvere il difficile problema sul rapporto tra spiritualità e materialità lasciato in eredità da Cartesio; la soluzione che egli prospetta è molto semplice e, per molti versi, drastica: essa consiste nell'eliminazione di una delle due res . E Hobbes non si fa scrupoli a dire che ad esistere è solo la materialità, eliminando così la res cogitans , la spiritualità: essa viene da lui intesa come una manifestazione secondaria (epifenomeno) della materialità stessa. Tuttavia, la soluzione avanzata da Hobbes finisce per generare nuovi problemi irrisolvibili: tutto ciò che esiste é materia, dice Hobbes, e le sensazioni stesse sono una forma di movimento microscopico. L'errore di Hobbes sta nel fatto che per lui le sensazioni non sono prodotte da movimento, bensì sono movimento, il che é davvero assurdo. La sensazione é sensazione, non é un movimento, ce ne accorgiamo tutti bene o male! Hobbes dice che esiste solo ciò che può fare o subire un'azione, quindi esiste solo la res extensa (la materia); la nostra stessa coscienza é riconducibile a materia, a corpo e a movimento: movimenti che dal centro (cuore o cervello) vanno verso la periferia e viceversa. E' evidente come Hobbes, per risolvere le aporie cartesiane, ne abbia create di nuove.

Spinoza

L'errore o, meglio, la contraddizione in cui scivola Spinoza è la tipica contraddizione in cui son scivolati tutti quei pensatori che, dagli Stoici in poi, hanno negato l'esistenza della libertà a favore della necessità: Spinoza dice che tutto, per definizione, va come deve andare, razionalmente, necessariamente e quindi giustamente e, anche ciò che ai singoli uomini sembra sbagliato o ingiusto, se visto dal punto di vista del tutto ( sub specie aeternitatis ) è positivo. E' dunque assurdo il pentimento, poichè non ha senso alcuno provare dispiacere per aver fatto o per non aver fatto una determinata cosa: non poteva andare diversamente, poichè tutto avviene secondo necessità. Fin qua il discorso di Spinoza ha una sua logica: tuttavia, la contraddizione in cui egli incappa sta nel fatto che, dopo aver proclamato che non vi è libertà e che tutto avviene in modo rigorosamente deterministico, egli impartisce degli insegnamenti etici. In altri termini, come é possibile che mi si dica come comportarmi, quando tutto procede secondo necessità e non vi é libertà alcuna? L' etica di Spinoza é accettabile fin tanto che il pensatore ebreo si limita a descrivere il comportamento necessario dell'uomo, ma diventa autocontradditoria nel momento in cui dà indicazioni sulle modalità di comportamento da seguire, quando cioè invita l'uomo a porsi dal punto di vista della res divina per poter così guardare le cose sub specie aeternitatis . La contraddizione, banalizzando un pò il discorso, sta nel fatto che Spinoza indichi come comportarsi, come se si avesse la libertà di scegliere. La teoria etica spinoziana comporta poi un altro paradosso, derivato dal primo: il dirmi di comportarmi così non implica solo la possibilità di una scelta, ma anche la condanna di certi comportamenti che vanno evitati. Ma se non c'é libertà di scelta perchè tutto é determinato, non c'é nemmeno la possibilità di condannare certi comportamenti: tutto avviene, infatti, necessariamente (non c'é libertà), quindi tutto ciò che avviene é un bene e comportamenti negativi, per definizione, non ce ne possono essere. Come é quindi possibile che Spinoza condanni il pentimento, la rabbia e le passioni, visto che tutto ciò che avviene é un bene? Se tutto avviene razionalmente, poi, é evidente che però le passioni sono (per definizione) qualcosa di irrazionale e ci sono perchè Spinoza dice che vanno eliminate: ma se ci sono le passioni vuol dire che forse non tutto va poi così razionalmente e il sistema spinoziano vacilla.

Kant

Anche Kant ha commesso degli errori, anche se probabilmente più ingenui e meno grossolani rispetto a quelli di Cartesio. Il primo che esaminiamo risiede in quelle che Kant definisce forme a priori della sensibilità , ovvero lo spazio e il tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno , il tempo quella del senso interno. Spazio e tempo non sono dunque né rappresentazioni astratte dall' esperienza, né concetti costruiti discorsivamente dall' intelletto, ma intuizioni pure, le quali costituiscono le condizioni a priori di qualsiasi rappresentazione sensibile e quindi sono precedenti ad ogni esperienza possibile. In altri termini, tutto ciò che è dato nell'intuizione, viene necessariamente rappresentato nello spazio e nel tempo. A causa di questo processo di spazializzazione e di temporalizzazione noi non conosciamo gli oggetti come essi sono in sé, ma soltanto come ci appaiono , ovvero come fenomeni. Più precisamente, lo spazio è l' intuizione pura dei fenomeni del senso esterno, il tempo è l' intuizione pura dei fenomeni del senso interno. In parole povere, Kant dice che lo spazio e il tempo non appartengono alle cose come esse sono in sè (noumenicamente), bensì appartengono alle cose così come esse ci appaiono (fenomenicamente), quasi come se avessimo davanti agli occhi delle lenti amovibili che ci impediscono di vedere le cose come sono per davvero, ma ce le fanno vedere inevitabilmente sotto colorazioni che non appartengono alle cose in sè. Tuttavia Kant, che tende sempre a dimostrare rigorosamente ogni cosa, non dimostra che lo spazio e il tempo non appartengono alle cose in sè, ma lo accetta passivamente, quasi come un postulato. Non c'è nulla, del resto, che mi obblighi a negare che lo spazio e il tempo appartengano alle cose come sono in sè, o se anche c'è, Kant non l'ha dimostrato. Voglio dire, se sugli occhi abbiamo delle lenti verdi, è ovvio che ogni cosa ci apparirà colorata di verde anche se in realtà non lo è, ma tuttavia, quando vediamo una pianta o un prato, li vediamo verdi perchè abbiamo le lenti, ma se anche non le avessimo li vedremmo allo stesso modo, poichè sono verdi in sè. Non c'è dunque nulla che mi vieti di ammettere che lo spazio e il tempo appartengano alle cose come sono in sè, e non alle cose come ci appaiono. Un altro grande errore commesso da Kant risiede nella cosa in sè , quell'entità misteriosa e inconoscibile da cui deriva il materiale dell'esperienza che il soggetto conosce. Kant ha affermato che si può avere conoscenza solo dove vi è un'associazione di materiale empirico all'attività categoriale, dove cioè l'intelletto lavora e riorganizza materiale ricevuto dall'esperienza sensibile. La categoria di causalità sarà, pertanto, applicabile legittimamente solo in ambito empirico, quando ad esempio, dopo aver visto il fumo, dirò che è stato causato dal fuoco; eppure Kant ha fatto un uso meta-empirico della categoria di causalità, applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su di noi. Il paradosso (già colto dal filosofo Enesidemo, pseudonimo di Schulze) è che la cosa in sè resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo conoscitivo nella Critica della ragion pura . Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili!

Fichte

Il grande errore di Fichte affiora quand'egli, ormai surclassato dall'astro nascente di Schelling, si rifugia nella religione ed elabora la Filosofia dell'Assoluto. Dopo aver negato l'esistenza della cosa in sè kantiana con la conseguenza che è il soggetto a crearsi quel mondo che vede a sè contrapposto, Fichte ha anche asserito che l'Io, l'attore del processo, dopo aver posto il non-Io (il mondo) per poter esprimere tutta la propria potenza confrontandosi con degli ostacoli che esso stesso si è posto, è uno slancio infinito. Ora però, con lo slittamento verso la deriva religiosa, Fichte si rende conto che è assurdo parlare di uno "slancio infinito" se non si ammette un essere infinito, poichè uno slancio è per davvero infinito se tende verso una realtà infinita: Dio. Tuttavia, con l'ammissione di una sostanza autonoma (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito dell'Io, Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione, reintroducendo una cosa in sè (Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente sull'inesistenza di cose in sè e sul libero atto dell'Io.

Marx

L'errore di Marx sta nel fatto che ciò che egli aveva profetizzato non si è avverato: era convinto che il sistema capitalistico, a lungo andare, sarebbe tramontato, poichè il capitale si sarebbe ammassato nelle mani di sempre meno uomini, con la conseguenza che la società avrebbe assunto una forma piramidale, con pochi ricchi al vertice, e una miriade di proletari alla base. Marx era convinto dell'esistenza di una "legge tendenziale di caduta del saggio di profitto", con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. E questo, a sua volta, formava ai suoi occhi un binomio indisgiungibile con l'immiserimento crescente degli operai: con l'avvento delle macchine, che possono sostituire il lavoro di molti operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche l'offerta di forza-lavoro sul mercato, cosicchè anche per questo aspetto i salari tendono a diminuire: aumenta la povertà e il numero dei disoccupati, di conseguenza il capitalista può tenere più bassi i prezzi dei salari e guadagnarci di più. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione e il carattere sociale sempre più rilevato della produzione, tra lo sviluppo delle forze produttive (il proletariato) e il numero sempre più ristretto di capitalisti: e Marx può affermare che " la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione ". Come sappiamo, però, questo non c'è stato: anzi, negli anni successivi a Marx, la società non ha assunto una forma piramidale, ma romboidale, con pochi capitalisti al vertice, pochi proletari sul fondo e un'infinità di borghesi nel mezzo. Si può però spezzare una lancia in favore di Marx e dei suoi pronostici: è vero che non si è verificata la polarizzazione profetizzata da Marx ed è anche vero che l'operaio del Novecento vive meglio di quello dell'Ottocento, ma è anche vero che la differenza di reddito tra proletario e "padrone" si è notevolmente accentuata, come se la forbice si fosse aperta. L'operaio sta meglio rispetto ai tempi di Marx, ma il divario col "padrone" è aumentato! Bisogna poi tenere a mente che il capitalismo si è mondializzato a tal punto che vi è una classe mondiale di sfruttatori (i Paesi ricchi) e una classe mondiale di sfruttati (i Paesi del 3° mondo), cosicchè anche i proletari dei Paesi sfruttatori stanno al tavolo dei "divoratori", pur accontentandosi delle sole briciole.

Popper

Il primo volume di The Open Society and Its Enemies, The Spell of Plato (La società aperta e i suoi nemici, I, Platone totalitario) è quasi interamente dedicato a un violento attacco contro il platonismo filosofico e politico. Per società chiusa , Popper intende la società tribale, che interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista, gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia. In essa gli individui non godono di nessuna libertà, ma ciascuno conosce concretamente la proprio posizione e i propri doveri. La società aperta , di contro, è consapevole di essere una costruzione culturale soggetta al cambiamento, ed ospita relazioni astratte ed individualistiche. Platone, pur essendo allievo dell'individualista Socrate, è un nostalgico della società tribale, sia perché è di famiglia aristocratica, sia perché vede nell'incertezza e nella mutevolezza della società aperta una fonte di infelicità: tutto il suo pensiero politico, afferma Popper, può essere ridotto a un progetto totalitario di restaurazione della società chiusa. Nella Repubblica Platone proponeva uno stato di stampo comunistico, caratterizzato dall'abolizione di ogni forma di proprietà privata. Infatti, Popper critica di Platone l' aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli, la cui vita non conta nulla di per sè, se non in funzione dello stato. Popper, con le sue posizioni liberali, criticava la società di Platone, perfetta e totalitaria , ed era in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare. Popper era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perchè l'uomo stesso è imperfetto per natura. La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta non ha motivo di fare questo. Platone insiste invece sull'immutabilità: la società per lui è perfetta così com'è e non deve assolutamente cambiare. Popper ha però commesso un errore dimenticandosi, nella foga, che Platone parla di un'idea statale e un'idea, per definizione, non è mai realizzabile. E' solo un punto verso cui muovere. Nelle Leggi Platone delineerà lo "stato secondo": dal momento che quello delineato nella Repubblica è puramente ideale, Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili. Il ragionamento di Popper è dunque in parte fuori luogo: se ipotizzassimo la società perfetta, perchè mai dovremmo cambiarla? Perchè cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio. Lo stato delineato nella " Repubblica " è un'utopia e, in quanto tale, non potrà mai essere attuato. In altri termini, "utopistico" è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna non lo è; "utopico" è, invece, un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo, che molti credono buono così com'è, imperfetto e migliorabile: il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiare. Si può dire che il concetto di "utopistico" si avvicini molto a Platone, che nelle Leggi fa notare che lo stato così com'è non va bene e ne propone uno "misto", dal momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper ha invece preso l'idea di Platone utopica di stato per utopistica, e qui sta il suo errore.



Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d'altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo - in misura crescente - la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario.
Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa.
Dall'altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato.
(K. Marx, "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica")

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