Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

sabato 28 settembre 2013

Il Pensiero di Socrate (interpretazioni)

Da WikiPedia:

« ...dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo. L'Umanesimo e il Rinascimento videro in Socrate uno dei modelli più alti di quella umanità ideale che era stata riscoperta nel mondo antico. Erasmo da Rotterdam, profondo conoscitore dei testi platonici era solito dire: «Santo Socrate, prega per noi» (Sancte Socrates, ora pro nobis). Anche l'età dell'Illuminismo ha visto in Socrate un suo precursore: il XVIII secolo fu detto il "secolo socratico", giacché in quel periodo egli rappresentò l'eroe della tolleranza e della libertà di pensiero. Ogni epoca ha dunque ricostruito una propria immagine di Socrate, ma ha anche insistito sulla complessità che caratterizza la sua figura.... In conclusione, credo che la vera ragione della continua presenza di Socrate nella nostra tradizione culturale sia dovuta al fatto che egli è stato veramente il primo filosofo, colui che per primo ha riconosciuto di non sapere, e per questo ha desiderato sapere. Ritengo che sia questa la ragione fondamentale che fa di Socrate una delle fonti perenni della riflessione filosofica. »
(Gabriele Giannantoni, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche)

Il Socrate di Nietzsche

« Socrate è la svolta decisiva della storia universale »
(Nietzsche, "Il crepuscolo degli idoli")
Friedrich Wilhelm Nietzsche considera Socrate[1] come un caso di eccesso di razionalità causato dai suoi istinti disordinati. Secondo Nietzsche, Socrate per contrastare i suoi violenti eccessi interiori aveva bisogno di ricorrere alla ragione per non farsi sovrastare completamente. Questa repressione degli istinti fa di lui un fanatico sostenitore della morale tanto che in lui «tutto (...) è esagerato, cialtronesco, caricaturale; [e dove] tutto è, nello stesso tempo, pieno di nascondimenti, di retropensieri, di sotterfugi» (Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli). Distruggendo la tragedia, Euripide così come Platone inaugurano per Nietzsche la nuova era del nichilismo dove l'uomo si distingue non più per l'affermazione di sé ma per la "giustificazione di sé". È questo il significato della sofistica di cui Socrate è il migliore maestro e servendosi di quella dottrina Socrate manda in rovina lo spirito originario greco.L'oracolo di Delfi annunciava che Socrate era il più sapiente ma quella sua sapienza è la ricerca del Sommo Bene attraverso il buon senso e il sapere, una sapienza razionale che si oppone alla saggezza istintiva dei Greci (che era un moto istintivo creativo, ottenuto con un entusiasmo debordante, raggiunto attraverso l'intuizione del grande, del sublime e del nobile). Ed è questa la sapienza che Socrate condanna denunciandone l'incapacità dei «piccoli signori della città» (gli artisti e i politici) di descrivere la loro creazione. Socrate è uno spirito debole incapace di creazione che demolisce la Grecia e annuncia l'avvio di una nuova cultura quella della morale platonica che si basa tutta sulla razionalità. È questo d'altra parte il senso del δαιμων che ha unicamente il compito di trattenere Socrate dai suoi eccessi istintivi, è il simbolo di una inversione di significati per cui l'istinto è restrittivo e la morale invece creatrice.
Socrate non è dunque altro che un sofista, egli è il peggiore dei sofisti che s'impegna a demolire i suoi interlocutori, egli s'ingrandisce rimpicciolendo l'altro: egli rappresenta bene lo spirito di risentimento, d'invidia del debole (che Nietzsche collega alla sua bruttezza). Invece di affermare il senso tragico dell'esistenza egli tenta di controllarlo e giustificarlo con una morale del sapere dove il cattivo non è altro che un ignorante. Egli compie un salto mortale nel dramma borghese dove l'individuo non fa altro che cercare giustificazioni del suo comportamento invece di accettare il suo destino tragico. Socrate è un pessimista nichilista che umilia il valore della vita, la sua vigliaccheria nasce dalla negazione della volontà di potenza.
Nietzsche si spinge ancora oltre quando afferma che quel Sommo Bene che Platone esalta, Socrate considera sia quello di non essere mai nato. Poiché egli vede la vita come una malattia, per questo egli dice nell'ora della sua condanna di dovere «un gallo a Asclepio», che è infatti il dio della guarigione e quindi Socrate gli deve un sacrificio perché il dio l'ha liberato, l'ha guarito dal male della vita dandogli la morte. «È Socrate che volle morire: non fu Atene, fu lui stesso che si diede la cicuta, egli costrinse Atene a dargliela» (Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli)

Il Socrate di Hegel

Nella filosofia hegeliana chi vuole prendere coscienza di sé stesso deve uscire da sé al fine di oggettivarsi e impadronirsi così della sua stessa realtà: solo contrapponendosi all'oggetto, uscendo fuori di sé egli può prendere coscienza di sé. Se non si avessero i sensi che ci mettono in rapporto con quell'oggetto che è il nostro stesso corpo non potremo mai essere coscienti di noi stessi.
Ora per Hegel questa spiritualità individuale fa parte dello Spirito di un popolo. In Oriente egli nota lo spirito è concepito come inaccessibile (è questo il significato delle piramidi impenetrabili, della Sfinge con gli occhi chiusi...) mentre in Occidente lo spirito vive nella soggettività cosciente
« Gli individui sono il luogo nel quale lo spirito parla »
Questo spiega perché in Occidente le statue degli dei sono rappresentati come uomini e perché i templi sono aperti verso il mondo. Questo passaggio dalla concezione orientale dello spirito a quella occidentale è simboleggiato nel mito di Edipo e nella filosofia socratica. Quando Edipo all'enigmatica domanda della Sfinge «Che cos'è che cammina a quattro zampe il mattino, a due il mezzogiorno e a tre la sera?» risponde che è l'uomo, ella in effetti, secondo Hegel, gli chiede che: «Che cos'è lo spirito» (poiché anche il Sole passa dal mattino alla sera e così lo Spirito passa dall'Oriente all'Occidente), così la risposta di Edipo («L'uomo») vuol dire che lo spirito è nell'uomo. La morte della Sfinge poi rappresenta lo spirito misterioso dell'Oriente mentre Edipo vince incarnando lo spirito d'Occidente (lo spirito nell'uomo). Edipo è colui che cerca l'enigma da svelare, una verità che una volta scoperta, gli fa serrare gli occhi, quelli del corpo per aprire quelli dello spirito.
« Socrate è il ritorno dello spirito nella sua interiorità »
(Hegel)
Egli è colui che proclama il γνῶθι σεαυτόν (Conosci te stesso) l'iscrizione sul tempio di Delfi dove la Pizia aveva annunciato a Socrate che egli era il più sapiente degli uomini. Socrate dunque incarna lo spirito occidentale che si è interiorizzato in lui: egli rompe lo spirito orientale greco e avvia la cultura del pensiero occidentale.

Il Socrate di Kierkegaard

Kierkegaard interpreta Socrate come il filosofo più vicino allo spirito cristiano. Kierkegaard considera se stesso il Socrate del cristianesimo. Per lui si tratta di praticare l'ironia socratica nello spirito del cristianesimo. Ciò che caratterizza il fenomeno Socrate, al contrario del fenomeno Cristo è proprio la sua ironia. Per Hegel l'ironia è il segno della soggettività, anche se l'ironia abbia in sé un valore negativo è tuttavia un passaggio verso la positività della soggettività. Kierkegaard non accetta questa idea del passaggio negatività-positività: per lui l'ironia è essenzialmente e radicalmente negativa, esprimendosi nel paradosso antidogmatico dà la possibilità all'uomo di esporsi a se stesso. L'esperienza del non sapere è un'esigenza di verità che nessuna dottrina saprebbe soddisfare.
Socrate è un vuoto sul quale si sono costruite le personalità e le dottrine, per questo egli è un avvenimento; tuttavia «Socrate si consacrò talmente all'ironia che ne soccombette» Ciò non impedisce a Kierkegaard di voler essere il Socrate del Cristianesimo al fine di svuotarlo dal suo contenuto dottrinale e di riportarlo all'avvenimento Cristo e alla sua spiritualità. Questo intende Kierkegaard quando dice: «la somiglianza tra Cristo e Socrate si basa essenzialmente sulla loro dissomiglianza» . Ciò che accomuna Cristo e Socrate è il loro costituirsi come avvenimento storico, cioè essi erano portatori di una verità che non ha potuto sgorgare nel cuore dell'uomo, essi sono portatori della nascita di qualcosa d'imprevisto dalle molteplici conseguenze che non sono collegate a quell'imprevisto. Le dottrine filosofiche si sono sempre basata su Socrate come evento storico, ma per ciò stesso rendono Socrate evanescente. Questo perché quelle dottrine si basano sul vuoto dell'ironia che non impegna l'individuo in una spiritualità. Al contrario l'evento Cristo non è nell'ironia ma di un rapporto dell'individuo con la sua spiritualità individuale. Mentre con Socrate si esprime un rapporto di negatività. con Cristo vi è la spinta ad una diversa spiritualità. In altre parole l'incontro con il cristianesimo impegna l'uomo in tutta la sua spiritualità, da quel momento gli uomini lasciano la loro vita per la spiritualità cristiana.
Per approfondire, vedi Comunicazione filosofica (Kierkegaard).

Il Socrate di Lacan

Ricordiamo brevemente che per Jacques Lacan, (Parigi 13 aprile 1901 - 9 settembre 1981) psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti, la comprensione del desiderio passa attraverso l'oggetto inattingibile che costituisce la Cosa e che procura l'insoddisfazione perpetua del desiderio. Chi è sottoposto all'analisi cerca qual è l'oggetto del desiderio cioè la sua interezza ontologica. Essendo il linguaggio un cerchio chiuso, il soggetto non giunge mai a comprendere il significato dei simboli che lo costituiscono. Ora chi subisce l'analisi pensa che l'analista sarà capace di rivelargli il significato simbolico dei suoi desideri che egli esprime attraverso il linguaggio, pensa che egli sia Il Grande Altro che detiene la chiave del linguaggio. Lacan pensa che l'analista deve far scoprire che il Grande Altro non esiste e che non c'è nessun significato, il suo ruolo è dunque quello di fare riconoscere la "mancanza d'essere"
Socrate è dunque questo analista che attraverso i suoi dialoghi cerca la definizione del senso delle cose. Alcuni credono da quel momento che egli possa avere accesso al Sommo Bene (come chi è sottoposto ad analisi crede che l'analista possieda le chiavi del linguaggio) mentre i dialoghi socratici sono puramente aporetici. Socrate mette gli interlocutori di fronte alle proprie contraddizioni, egli li spinge a riflettere sulle proprie concezioni affinché siano coerenti. La sua posizione antidogmatica non permette il passaggio verso nessun sapere, si tratta al contrario di far capire che nessun sapere è possibile né accessibile.
È questo lo scopo dell'analista, fa capire a chi è in analisi che l'oggetto finale del desiderio non è né conoscibile né accessibile. Come dice Lacan: «Socrate è il precursore dell'analisi».

Socrate: l'interpretazione di Giannantoni

Socrate e la religione

Particolarmente controversa è l'interpretazione del pensiero di Socrate in relazione alla tematica della religione.[2]
Va innanzitutto tenuto presente che le divinità olimpiche cui faceva riferimento il sistema di valori della civiltà ateniese cui apparteneva Socrate, in nessun modo possono essere ricondotte alla religiosità di tipo monoteistico cui ad es. il pensiero cristiano fa riferimento. Il problema al centro della controversia riguarda il rapporto fra la ragione e la fede, intesa in questo caso, come il riconoscimento dei valori religiosi tradizionali.
Come ha fatto rilevare Nicola Abbagnano[3] (in Storia della filosofia, op.cit. Vol.I pp. 121 e sgg) :«... la sua [di Socrate] fede religiosa non è altro che la sua filosofia. Questa religiosità socratica non ha ovviamente nulla a che fare con il Cristianesimo di cui Socrate nella vecchia storiografia è stato spesso ritenuto l'antesignano. Non si può parlare di cristianesimo se si prescinde dalla rivelazione; e niente è più estraneo allo spirito di Socrate di un sapere che pretenda di essere rivelazione divina.» Nonostante ciò, molti pensatori cristiani, tra cui Agostino, Cusano, Erasmo, Kierkegaard, avevano visto in Socrate proprio un precursore della religione cristiana.
Lo storico della filosofia antica Gabriele Giannantoni[4], sostiene che per Socrate è la ragione a dover convalidare con il suo esame i principi della religione. Dice infatti Socrate nell'Apologia: «Forse l'unico senso in cui il responso del dio può essere vero è che mentre gli altri credono di sapere ma non sanno, io almeno una cosa la so: so di non sapere; e questo sapere di non sapere è appunto quella sofia (sophía), quella sapienza, che mi attribuisce la divinità.».
Osserva Giannantoni:«Si vede di qui che l'atteggiamento di Socrate verso la divinità non consiste nel riconoscerle la ragione perché è divinità, ma, paradossalmente, nel riconoscerne la divinità per il fatto che ha ragione. In altri termini, sono io, Socrate, che riconosco alla divinità il prestigio e la sacralità di cui le faccio credito, ma in base al mio esame. Quanto ad ogni sua pretesa di presentarsi come divinità, e di avere ragione per questo stesso motivo, questo è escluso. Anche questa è una concezione molto laica della divinità e della religiosità, che Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell'epoca.» (Gabriele Giannantoni: Socrate tra mito e storia qui paragrafo 11).

Il daimon

Contrariamente a coloro che vedono nel daimon una sorta di simbolizzazione della coscienza morale, altri storici della filosofia, come ad es. Guido Calogero, non condividono questa interpretazione del daimon : «Però si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni. Io ho l'impressione, soprattutto in base al fatto che nessun socratico ha ripreso questo tema, che fosse un dato certamente caratteristico della biografia di Socrate, ma senza grande rilievo per la sua filosofia; un suo modo caratteristico di porgere e di presentare le cose, di motivarle e di giustificarle, ma privo di risvolti di carattere più generale e più filosofico.» (in Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento)...

Conosci te stesso

«Per Socrate, il "conosci te stesso" è anche un'esortazione a conoscere il fondamento delle proprie convinzioni, a indagare quale sia la loro forza, e quindi la loro persuasività, la loro verità: è in questo senso che il motto, in Socrate, ha un significato più ampio di quello originario. Io non credo che possa essere interpretato in un senso introspettivo, che cioè Socrate esortasse a guardare nella propria interiorità piuttosto che non verso l'esterno, perché in genere l'esortazione di Socrate è piuttosto quella di parlare con gli altri.» (in G.Giannantoni, op.cit.)
Non distante da questa interpretazione è quella di Michel Foucault per il quale il celebre detto socratico "Conosci te stesso" va inteso in senso introspettivo e riconsiderato come parte di un più generale progetto di "cura del sé", progetto comune a gran parte della filosofia greco-romana caratterizzata dalla speculazione rivolta alla pratica. Dall'analisi di Foucault, supportata dal suo classico metodo genealogico e da costanti, vasti e approfonditi riferimenti ai testi dell'epoca, emergerebbe come la filosofia antica non sia consistita in speculazioni teoriche astratte, ma in una serie di pratiche teoretiche (il dialogo), psichiche e ancorché fisiche, volte alla trasformazione attiva del soggetto e delle sue modalità d'esistenza.

La maieutica

Il metodo socratico, la maieutica, non vuole trasmettere nozioni - Socrate infatti sa solo di non sapere - infatti nessuno possiede la verità e quindi la virtù che non è insegnabile. Allora non rimane che il dialogo, che non solo è una specie di tecnica, fatta di brevi domande e risposte e dell'uso del continuo domandare ti estì (che cos'è quello di cui parli), ma è anche uno strumento che ha valore di sé in se stesso, nel senso che, essendo la verità mai definitiva, ciò che conta è la ricerca, tramite il dialogo, non della verità assoluta e superiore ma di una verità che raggiunta potrà e dovrà essere rimessa in discussione. Il maestro allora è realmente sullo stesso piano dei discepoli, non è un modello che si abbassa al loro livello: questo non occorre poiché è il dialogo stesso che li rende eguali: nessuno è depositario di verità, tanto meno Socrate che va sempre ricercando e investigando. Dialogando inoltre si realizza un comportamento concretamente virtuoso perché il confronto con l'altro implica non tanto l'amore ma più semplicemente il rispetto, l'ascolto serio, vero e interessato delle ragioni dell'interlocutore a cui si dà spazio con la tecnica delle brevi domande e risposte. Lo scopo del dialogo quindi non è vincere l'interlocutore con ogni mezzo retorico, con un fiume di parole, come facevano i sofisti, ma con-vincere (vincere insieme), persuadendosi reciprocamente della verità contingente raggiunta. Ecco quindi la maieutica: la levatrice e la partoriente, collaborando, mettono insieme alla luce una verità.

Unicità del sapere

Socrate crede che esista una verità necessaria e valida per tutti ma che è semplicemente quella dell'unico sapere possibile per l'uomo: il dialogo. È questo che egli contesta ai politici: quello di credere di essere depositari di verità assolute derivate dal dio e dalla tradizione, che essi vogliono imporre, per fini personali di potere, ai loro concittadini. Ma Socrate smaschererà la loro presunta sapienza a copertura del loro potere e per questo essi lo odieranno.[5]

Unicità della virtù

Nel dialogo la definizione una volta per tutte di cosa fosse il bene era impossibile da conseguire ed allora non rimaneva per Socrate che il dialogo stesso: metodo di ricerca di cosa possa intendersi per bene ed insieme "sommo bene" , poiché esso presuppone, s'identifica nella sua traduzione in atto, con il principio etico del rispetto per l'interlocutore.
Questo è propriamente l'"intellettualismo etico" secondo alcuni interpreti dell'etica socratica. Socrate sosteneva cioè, che dal punto di vista etico unica causa possibile del male fosse l'ignoranza del bene («So invece che commettere ingiustizia e disobbedire a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta e cattiva. Perciò davanti ai mali che so essere mali non temerò e non fuggirò mai quelli che non so se siano anche beni.») (Platone, Apologia di Socrate, in G. Cambiano (a cura di), Dialoghi filosofici di Platone, U.T.E.T., Torino, 1970, pp. 66–68): una volta conosciuto il bene, non è possibile astenersi dall'agire moralmente. Il bene non può tuttavia essere stabilito a priori una volta per tutte, ma occorre ricercarlo ininterrottamente confrontandosi con gli altri. Questo collega l'etica al dialogo come metodo di confronto e principio morale esso stesso; questo è l'unica virtù che permette di evidenziare quegli errori che inducono gli uomini a confondere il male col bene. Questo spiega perché per Socrate i politici, come egli dice, debbano essere "competenti": non nel senso di essere portatori di una competenza tecnica di ciò di cui si occuperanno, ma come persone capaci di esercitare quella, come egli dice,"scienza del bene e del male" (il dialogo) che, prescindendo da ciò che essi ritengano sia il bene per la città, farà emergere dal confronto con i cittadini il bene condiviso da realizzare. Perciò, egli in fondo non riconosce nel comportamento dei sofisti e di quanti lo condannarono a morte una colpa, ma un'ignoranza di fondo (della propria ignoranza) che davanti alle loro coscienze li legittimava ad agire per l'utile senza nessuno scrupolo o remora morale. Come filosofo e cittadino greco, a Socrate premeva la verità etica, davanti alla crisi morale del suo tempo in cui la sofistica minacciava i fondamenti stessi della democrazia ateniese, con la fondazione di fatto di una nuova etica. Così diceva infatti il sofista Protagora: «Se la verità non esiste, siamo legittimati a scegliere e difendere quella più utile per noi».
Diversamente dai sofisti, per Socrate, l'ignoranza e il relativismo morale non sono dati per sempre da un'impossibilità interna alla verità di esistere o conoscerla, ma sono una condizione temporanea da superare mettendo in atto il dialogo che permette il superamento di ogni egoismo e di ogni atteggiamento ideologico di esclusione dell'altro. Quindi per fare il bene bisogna conoscerlo e una volta conosciuto la stessa piacevolezza del bene porterà l'uomo a comportarsi bene raggiungendo così la felicità intesa come serenità, tranquillità, eudemonìa (letteralmente essere con un buon demone).

Il dialogo sommo bene

Secondo l'interpretazione di base di Giannantoni, da cui dipende la sua visione complessiva del pensiero socratico, il dialogo stesso è metodo di ricerca ed insieme "sommo bene" , poiché esso presuppone, s'identifica nella sua traduzione in atto, con il principio etico del rispetto per l'interlocutore. La verità definitiva è irraggiungibile di per sé ed allora quello che conta è la ricerca della verità. Ma che senso ha ricercare una cosa che si sa di non poter conseguire? La risposta è che in effetti una verità, che libera dalla ignoranza, cioè dal presumere di possedere una verità definitiva, si consegue proprio con il dialogo, col confronto con gli altri, che è criterio ineliminabile per la scoperta di una verità condivisa e non definita per sempre. Il dialogo ha quindi un doppio valore:
  • --morale, di rispetto delle opinioni di coloro con cui ci confrontiamo,
  • --teoretico, perché se è vero che con il dialogo non si raggiunge la verità, proprio con questo si può conseguire una verità, quella di sapere di non sapere, che vuol dire accorgerci che spesso noi crediamo di sapere, di essere in possesso di grandi e profonde verità e che è proprio per questa falsa sapienza che rifiutiamo il confronto con chi sostiene idee diverse dalle nostre. Da qui nasce l'atteggiamento ideologico che genera odio come quello che ha portato alla condanna a morte di Socrate.
Ma questa relatività del sapere umano scaturisce tuttavia dall'intima consapevolezza dell'esistenza di una verità assoluta che, secondo Giannantoni, sarebbe lo stesso dialogo. Chi dialoga con Socrate apprenderebbe così non solo il valore teoretico del dialogo, come ricerca in comune di una verità sempre sfuggente, ma anche il valore morale (to meghiston agathòn, il sommo bene), questo sì definitivo: il rispetto dell'interlocutore che non dovrà mai mancare e che fa del dialogo un vero confronto e non una battaglia di parole dove chi più grida ha ragione.
Non a caso la figura di Socrate è stata da grandi filosofi della storia del pensiero assimilata a quella di Cristo.[6] Socrate non avrebbe predicato nessuna dottrina ma come Cristo è stato vittima della cecità ideologica umana, e come lui ci ha lasciato «quella legge evangelica che è la legge del dialogo come lo è la legge socratica del "nemo sua sponte peccat"[7] (nessuno pecca di sua volontà) e quindi della perenne doverosità dell'intendere le altrui ragioni e del chiarire agli altri le proprie.» (cfr.G.Calogero qui GUIDO CALOGERO)
Anche Cristo, inoltre, sembrerà individuare il male nell'ignoranza quando dirà: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Esistono tuttavia testimonianze di come Socrate ritenesse il dialogo incompatibile con la democrazia e con la partecipazione della maggioranza dei cittadini alla cosa pubblica. Claudio Eliano sosteneva che «Socrate non si conciliò mai con la costituzione ateniese; giudicava infatti la democrazia non diversa dalla tirannide e dal governo assoluto».[8]

Socrate e la legge

Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri.
Platone introduce quindi per mezzo delle parole di Socrate una prosopopea delle leggi. Le Leggi di Atene, quasi come fossero delle persone fisiche, sicuramente lo criticherebbero e lo accuserebbero se egli cercasse di sfuggire alla sua pena, in quanto esse sono state come dei genitori per lui, hanno garantito alla sua vita un sistema di controllo cui affidarsi nelle questioni civili; trasgredirle significherebbe quasi ricusare l'ordine che la sua vita ha avuto. L'ingiustizia era considerata causa di danno per l'animo, la parte umana di cui più dovremmo curarci. Inoltre, secondo Socrate è bene che le leggi terrene possano introdurlo come più si conviene alle loro sorelle dell'aldilà, che comunque andranno affrontate.
Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica: il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta la ingiusta condanna? Si confrontano ancora una volta le due interpretazioni che possono essere genericamente e sinteticamente riportate la prima a G.Reale, la seconda a G.Giannantoni.
Secondo quest'ultima interpretazione è errato ritenere che il comportamento di Socrate vada inteso come l'assenso a un principio di legalità, a un obbedire alle leggi sempre e comunque. Socrate invece ci spiega che, se è pur vero che le leggi che egli a suo tempo dialogando con loro aveva esaminato ritenendole giuste - e per questo egli è vissuto sempre ad Atene -ora, per il fatto che erano divenute ingiuste verso di lui, non sarebbe stato comunque moralmente corretto infrangerle con la fuga. Egli obbedirà alle leggi per non danneggiare gli ateniesi (dicono le Leggi: «Se fuggirai così vergognosamente...facendo male a coloro a cui meno dovresti, cioè a te stesso, agli amici, alla patria») (ibidem) che, avendolo condannato, continuano a credere di averlo fatto secondo giustizia. Il rispetto della legge, insegna Socrate, non è subordinato al nostro interesse particolare: essa va rispettata anche quando la si ritiene ingiusta, ma, nel contempo, è nostro dovere fare di tutto per modificarla col consenso degli altri (dicono infatti le Leggi a Socrate che egli è in difetto perché «non hai cercato di persuaderci se non facciamo bene qualcosa».(ibidem) Poiché allora il solo criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è, non essendoci una Giustizia a cui sempre obbedire, è quello di confrontarsi con gli altri con il dialogo.(in G.Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, pag.227 e segg.) C'era infatti un solo modo di fuggire alla condanna: convincere gli ateniesi dialogando con loro ma ormai, dice Socrate, me ne manca il tempo.(cfr. Cioffi ed altri,I filosofi e le idee (Vol.I, pag.139), Milano 2006). Come già aveva detto al processo: «E però, come vi dicevo fin da principio, sarebbe davvero un miracolo se io fossi capace di levarvi dal cuore in così breve tempo questa calunnia che vi ha messo radici così fitte e profonde.» (da Platone Apologia di Socrate)
Aggiunge Socrate: «Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. [...] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al daimon, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male.» (Platone, Apologia, 37 a-38 c; trad. di M. Valgimigli, In Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971, 62-64

Socrate: l'interpretazione di Giovanni Reale

Socrate e la religione

Molti pensatori cristiani, tra cui Agostino, Cusano, Erasmo, Kierkegaard, hanno visto in Socrate un precursore della religione cristiana. Secondo Giovanni Reale[9] in Socrate sono bensì presenti concetti estranei alla dottrina cristiana, e di cui semmai questa si approprierà. Socrate non si è in alcun modo arrogato il diritto di sottoporre all'esame della ragione la sfera del divino: il riconoscimento della divinità come tale era invece già implicito nell'uso critico e laico della ragione, dono dello stesso dio. Quindi egli non metteva in dubbio la fede, ma la sapienza. Socrate infatti insegnava come il sapere umano fosse poca cosa, perché il vero sapere è un possesso divino.

Il daimon

Il professor Reale ha sottolineato la portata rivoluzionaria di questa nuova concezione nel panorama della filosofia greca antica. Col daimon la speculazione filosofica si orienterà d'ora in poi verso l'analisi introspettiva, verso lo studio dell'anima (psyché). Per Socrate cioè, l’essenza dell'uomo consiste principalmente nella sua anima; prendersi cura di lei è il compito fondamentale della filosofia.
« Socrate diceva che il compito dell’uomo è la cura dell’anima: la psicoterapia, potremmo dire. Che poi oggi l’anima venga interpretata in un altro senso, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronunciava sull’immortalità dell’anima, perché non aveva ancora gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma, nonostante più di duemila anni, ancora oggi si pensa che l’essenza dell’uomo sia la psyche. Molti, sbagliando, ritengono che il concetto di anima sia una creazione cristiana: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di anima e di immortalità dell’anima è contrario alla dottrina cristiana, che parla invece di risurrezione dei corpi. Che poi i primi pensatori della Patristica abbiano utilizzato categorie filosofiche greche, e che quindi l’apparato concettuale del cristianesimo sia in parte ellenizzante, non deve far dimenticare che il concetto di psyche è una grandiosa creazione dei greci. L’Occidente viene da qui. »
(G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e pensiero, Milano 1975)

Conosci te stesso

Secondo G. Reale, conoscere se stessi significa conoscere il bene, in base al quale poter compiere scelte giuste e assennate sul piano pratico. Una tale conoscenza coincide con la virtù (areté); l'opposto della saggezza è l'ignoranza, che coincide col vizio. Socrate d'altra parte poteva mettere in dubbio la sapienza degli uomini proprio perché la metteva in rapporto con quella della divinità.[10]
Anche Emanuele Severino ha evidenziato come in Socrate, pur proclamandosi egli ignorante, fosse ben presente l'idea di verità, di cui egli constata appunto la mancanza.[11]. Il suo sapere di non sapere significa dunque, per l'autore citato, trovarsi già "nella" verità. Si tratta di una verità che non si rivela in forma positiva, come affermazione fissa ed esaustiva, ma in forma unicamente negativa: essa consiste cioè nel movimento stesso di confutazione dell'errore. In altri termini, la verità non è conoscenza del vero, bensì conoscenza del falso, e quindi capacità di saperlo evitare. Il riconoscimento del falso è il lavoro critico e maieutico che bisogna compiere, dopo il quale la verità potrà sgorgare finalmente da sé, senza sforzo.

La maieutica

Alcuni sostenitori dell'interpretazione religiosa della dottrina socratica[12] hanno rilevato come Socrate, nel porsi come maestro e modello di virtù, intendesse suscitare nei suoi discepoli il desiderio del sapere e l'amore disinteressato per la verità. Insegnare per Socrate non vuol dire trasmettere delle nozioni, ma suscitare negli altri uno spirito critico, così da metterli in grado di "partorire" da sé la verità universale e necessaria. Il suo è quindi il metodo della maieutica, ovvero il metodo dell'ostetrica (il mestiere che svolgeva sua madre): come quest'ultima aiuta semplicemente la donna a partorire il bambino (non lo partorisce lei stessa), così Socrate intende soltanto aiutare gli altri a partorire la verità. Il sapere infatti, così come la virtù, non è insegnabile a parole[13]: la ragione a cui Socrate cerca di abituare i discepoli non è da intendersi come una razionalità, diremmo oggi, tecnico-strumentale. Socrate non insegna una tecnica come i sofisti, ma vuole educare a riconoscere il fondamento supremo di ogni altro sapere. Per far questo, egli si pone in un rapporto paritario coi suoi discepoli, ma al fine di sollevarli al proprio livello; egli è mosso in questo da un sincero atto d'amore, che lo lega strettamente ai suoi allievi. Secondo gli interpreti citati quindi, il dialogo e la dimensione intersoggettiva, in un tale contesto, risultano fondamentali per avvicinarsi alla verità, ma questa non coincide col dialogo stesso: il dialogo è piuttosto la condizione che permette il riconoscimento della verità e la realizzazione di un comportamento autentico e virtuoso. La verità, infatti, di per sé non è mai definibile a parole.

Unicità del sapere

Si è detto come Socrate, secondo alcuni interpreti, educasse a riconoscere il fondamento supremo di ogni altro sapere che è per lui la coscienza di sé, o autocoscienza, riconducibile alla consapevolezza della propria voce interiore o daimon. Ad essa sono riferibili tutte le varie forme di sapere. Era proprio questa forma di saggezza, il fondamentale sapere, che egli trovò del tutto assente quando si propose di investigare se la fama di coloro che erano ritenuti sapienti fosse giustificata. Mancava in loro questa saggezza che ha un valore universale e necessario, perché ogni altro sapere particolare dipende da quella.

Unicità della virtù

Socrate applicò il suo metodo anche all'esame dei concetti morali fondamentali del tempo, come ad esempio le virtù di pietà, saggezza, temperanza, coraggio, e giustizia. La novità di Socrate rispetto ai suoi concittadini risiede (cfr. G. Cambiano ed altri) nel fatto che, mentre questi ultimi si preoccupavano di individuare casi particolari di notevole rilevanza morale, Socrate si preoccupa invece di definire in cosa consista, su un piano astratto, il concetto in sé di "virtù". Secondo Socrate, tutte le varie forme concrete in cui si esprime la virtù sono riconducibili ad una sola, che ha valore di universalità. In tal senso va interpretato il tì estì (ciò di cui si parla), cioè come ricerca di quel quid in cui propriamente consiste la virtù e, in senso più generale, la Giustizia. L'astrattezza del concetto rimaneva comunque sempre legata alla concretezza della situazione in esame.
L'esercizio della virtù conduce all'eudemonia intesa come felicità che consisterebbe per Socrate nella realizzazione della propria essenza, di ciò che noi siamo nati per fare: ognuno ha una sua missione divina da svolgere, un compito a cui è stato assegnato, che corrisponde alla natura della propria anima. A Socrate, ad esempio, il dio aveva comandato di svolgere il mestiere della maieutica (v. Apologia di Socrate).
« Perfezionare l'anima con la virtù (con la conoscenza) significa, come s'è visto, per l'uomo, attuare la sua più autentica natura, essere pienamente se stesso, realizzare il pieno accordo di sé con sé, ed è esattamente questo che porta a essere felici. La felicità è ormai interamente interiorizzata, è sciolta da ciò che viene dal di fuori e perfino da ciò che viene dal corpo, ed è posta nell'anima dell'uomo, e, dunque, consegnata al pieno dominio dell'uomo. La felicità non dipende dalle cose o dalla fortuna, ma dal logos umano. »
(G. Reale, Socrate e la scoperta dell'essenza dell'uomo, da Il pensiero antico, Vita e Pensiero, Milano 2001)

Socrate e la legge

Socrate non considerava ingiuste le Leggi della polis, ma unicamente il comportamento degli uomini. Immaginando di dialogare con le Leggi, Socrate fa dire loro: «Ora dunque tu te ne andrai all'Ade ingiustamente condannato non da noi Leggi, ma dagli uomini» (Critone, XVI). Socrate considera le Leggi delle entità vive, non impersonali, da rispettare in ogni caso, perché da esse, in fondo, egli ha ricevuto la vita: «E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?» (Critone, XII). Secondo Socrate quindi, la Giustizia va seguita sempre e comunque,(almeno secondo la testimonianza di Platone) anche se da ciò derivasse un male per noi. Rivolto a Critone inoltre afferma: «Non dobbiamo curarci tanto di quel che dirà la gente, ma del parere di chi si intende di giustizia e di ingiustizia, di colui che è la verità stessa. Tu non fai dunque un ragionamento corretto quando affermi che dobbiamo preoccuparci del parere della gente su ciò che è bello o buono e viceversa. È vero che qualcuno potrebbe obiettare che la gente può anche farci morire... Importante non è vivere, ma vivere rettamente» (Critone, VIII).

L'accettazione della condanna

Perché dunque, pur sapendo di aver ricevuto ingiustizia, Socrate accetta la condanna a morte?
Occorre a questo punto ricordare come Socrate nelle sue scelte si lasciasse guidare da un demone, ossia da una voce divina: come dice Emanuele Severino, «in effetti è, questa, la voce della fede, secondo cui è necessario si regoli chi non possiede la verità: altrimenti (se cioè non esistesse un criterio in base al quale decidersi in un senso o nell'altro) non potremmo più vivere. Il contenuto di questa fede socratica è attinto soprattutto da quei primi filosofi, di cui Socrate pur avvertiva la grandezza: un governo divino del mondo da cui l'uomo deve lasciarsi guidare. Per Socrate questo governo si esprime nelle stesse leggi della sua città, per non violare le quali egli rifiuta la proposta di fuggire dal carcere, fattagli dall'amico Critone. In questa fede è quindi presente anche l'accettazione della società in cui Socrate vive».[14]

Contrastanti interpretazioni su Socrate scopritore dell'anima

Secondo l'interpretazione data da John Burnet (1863-1928), Alfred Edward Taylor (1869-1945), Werner Jaeger, anche se non condivisa da tutti,[15] Socrate fu di fatto il primo filosofo occidentale a porre in risalto il carattere personale dell'anima umana.[16]
È l'anima, infatti, (psyché) a costituire la vera essenza dell'uomo. Sebbene la tradizione orfica e pitagorica avessero già identificato l'uomo con la sua anima, in Socrate questa parola risuona in forma del tutto nuova e si carica di significati antropologici ed etici:[17]
« Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona? »
(Apologia di Socrate, traduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1993)
Mentre gli Orfici e i Pitagorici consideravano l'anima ancora alla stregua di un demone divino, Socrate la fa coincidere con l'io, con la coscienza pensante di ognuno, di cui egli si propone come maestro e curatore.[18] Non sono i sensi ad esaurire l'identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l'uomo non è corpo ma anche ragione, conoscenza intellettiva, che occorre rivolgere ad indagare la propria essenza.[19] Non solo Platone in diversi passi dei suoi dialoghi, ma anche la cosiddetta tradizione "indiretta" testimoniano come Socrate, al contrario dei sofisti, riconducesse la cura dell'anima alla conoscenza dell'intima natura umana nel senso su indicato.[20]
Sino a Socrate l'anima veniva assimilata a un'immagine evanescente del corpo:
« Il termine greco che designa l'anima (psyche) indica in origine più genericamente la vita. Quando l'anima «se ne va», «se ne va» la vita; la morte è dunque un fuggire della vita o dell'anima. Si può parlare di una sopravvivenza dell'anima in qualche forma, proprio perché l'anima «se ne va», ma si tratta comunque di una sopravvivenza in forma diminuita; l'anima del defunto è solo un'immagine (èidolon) sbiadita, che ha perso il suo vigore vitale, cioè, in generale, le facoltà nelle quali consiste propriamente il vivere, dalla volontà alla coscienza.[21] »
Con la scoperta di Socrate, secondo gli autori citati, avviene invece un mutamento di prospettiva:
« La scoperta comportava qualcosa di più della semplice semantica del vocabolo psyché. Anche i pronomi greci, quelli personali e i riflessivi, cominciarono a trovarsi situati in nuovi contesti sintattici, ad essere usati per esempio come oggetti di verbi conoscere, o posti in antitesi col "corpo" o col "cadavere" in cui si riteneva che l'ego abitasse. Ci troviamo qui di fronte a un mutamento nella lingua greca [...] parte di una più ampia rivoluzione intellettuale che investì l'intero orizzonte dell'esperienza culturale della Grecia. »
(E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, , Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 161-162)
Che la concezione dell'anima immortale sia da riferirsi esclusivamente a Platone e non a Socrate è stato contestato anche da chi ha documentato come i riferimenti nei dialoghi, specie nel Fedro e nel Timeo, indicano come l'anima cui si riferisce Socrate non si possa ridurre ad una semplice sintesi di anima e corpo, bensì da concepire in opposizione dualistica con quest'ultimo.[22]
Secondo il Fedone di Platone, inoltre, Socrate afferma che solo con la morte egli potrà raggiungere la piena autenticità del proprio essere, prescindendo quindi dal corpo e sottintendendo l'immortalità dell'anima,[23] e così anche nell'Alcibiade Maggiore egli intesse un dialogo volto a distinguere nettamente l'anima dal corpo. Di seguito uno stralcio:[24]
Socrate: L'uomo non si serve di tutto il corpo?
Alcibiade: Senz'altro.
Socrate: Ma, a questo eravamo pervenuti, chi si serve di qualcosa è diverso da questa cosa di cui si serve.
Alcibiade: Sì.
Socrate: Allora l'uomo è diverso dal suo corpo?
Alcibiade: È chiaro.
Socrate: Che cos'è dunque l'uomo?
Alcibiade: Non saprei risponderti.
Socrate: Questo però lo sai, è colui che si serve del suo corpo.
Alcibiade: Sì.
Socrate: E chi altri, se non l'anima, si serve del corpo?
Alcibiade: Nient'altro.
[25]
Al di là del fatto che la paternità dell'Alcibiade Maggiore possa essere attribuita o meno a Platone per via di alcune somiglianze con l'opera di Senofonte e Aristotele,[26] esso rimane comunque una valida testimonianza su Socrate.[27]
In proposito è stato rilevato:
« È da notare che troviamo questa concezione dell'anima, come sede dell'intelligenza normale e del carattere, diffusa nella letteratura della generazione immediatamente posteriore alla morte di Socrate; essa è comune a Isocrate, Platone, Senofonte; non può quindi essere la scoperta di nessuno di loro. Ma è del tutto o quasi assente dalla letteratura delle epoche precedenti. Deve perciò avere avuto origine con qualche contemporaneo di Socrate, ma non conosciamo nessun pensatore contemporaneo al quale essa possa essere attribuita all'infuori di Socrate, il quale nelle pagine sia di Platone che di Senofonte la professa costantemente. »
(Taylor, Socrate, cit. in F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997)
Sulla stessa lunghezza d'onda Giovanni Reale:
« Ma posto anche che si negasse l'autenticità dell'Alcibiade Maggiore (ma io sono ben lungi dall'essere di questo parere), rimane il fatto che il Fedone dice le stesse cose, sia pure con altro linguaggio, ossia che il vero uomo è la sua anima»
(G. Reale, La concezione dell'anima in Platone, in Interiorità e anima: la psychè in Platone, , a cura di Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara e Arianna Fermani, Vita e Pensiero, 2007, p. 222)
Per quanto riguarda il "Fedone", ultimo dialogo della prima tetralogia di Trasillo, che tratta del contesto in cui si svolge la morte di Socrate, lo studio stilistico dell'opera, più narrativa che dialogica, pur motivando alcuni studiosi ad assegnare l'opera al periodo della maturità della filosofia platonica[28] anziché a quello giovanile come sostenuto da altri,[29] avvalora, se non la dottrina, l'autenticità delle vicende relative alla vita di Socrate.[30]
Oltre alla dottrina delle idee e alla concezione della natura, infatti, un importante argomento di cui tratta il Fedone è, come dice lo stesso Platone, «il discorso di Socrate intorno all'anima».[31] Secondo alcuni interpreti: «Certamente la struttura dialettica delle argomentazioni svolte a livelli diversi, di crescente profondità, e la teoria delle idee appartengono a Platone, che era sui quarant'anni quando scrisse il Fedone, e non a Socrate; tuttavia il messaggio della vita e della morte di Socrate, così come questo dialogo lo affida a noi, è, per quanto riguarda l'orientamento di fondo, un documento di genuino valore storico, a meno che non si voglia supporre Platone stesso capace di una conscia e deliberata falsificazione, riconoscibile come tale dalle persone che egli cita come fonti del suo racconto».[32]
Giannantoni ha contestato questi esiti, in particolare la dottrina dell'anima andrebbe riportata esclusivamente al pensiero platonico secondo «la cosiddetta interpretazione "evolutiva" della filosofia platonica, che però è piuttosto antiquata e messa già in crisi dal nuovo paradigma interpretativo della scuola di Tubinga,[33] cioè l’idea che nel suo lungo itinerario filosofico Platone avesse sviluppato e mutato, anche profondamente, il suo pensiero, passando gradatamente da una fase giovanile di preponderante impegno apologetico nei confronti di Socrate, di difesa della sua memoria e di riflessione appassionata sulla sua eredità filosofica, a una fase di progressivo distacco dal maestro (la fase della cosiddetta "crisi del socratismo"), fino alla conquista della sua piena maturità e originalità, caratterizzata dalla dottrina delle idee, dalla dottrina della natura e del destino dell’anima umana e dalla costruzione del suo grande edificio filosofico ed etico-politico».[34]
Occorrerebbe cioè constatare «...il riconoscimento nell’attività di Platone, di una fase letteraria giovanile, alla quale venivano fatti risalire quei dialoghi (Ippia minore, Liside, Carmide, Lachete, Protagora, Eutifrone, Apologia e Critone) nei quali manca ogni riferimento alla dottrina delle idee, qualsiasi indagine di filosofia della natura e di antropologia, non compare la dottrina dell’immortalità dell’anima e ci si limita a indagini morali, considerate tradizionalmente più proprie del Socrate storico»[35]
L'Apologia di Socrate resta comunque, secondo Reale, la testimonianza più attendibile in favore della tesi che vede Socrate come lo scopritore del concetto occidentale di anima:
« Per sostenere questa tesi basterebbe il documento della sola Apologia di Socrate. E che l'Apologia sia non una invenzione di Platone, ma un documento con precisi fondamenti storici è facilmente dimostrabile.[...] Il messaggio che nell'Apologia viene presentato come specifico messaggio filosofico di Socrate è, appunto, quello del nuovo concetto di anima con la connessa esortazione alla «cura dell'anima». »
(G. Reale, introduzione a Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. XVI.)

Note

  1. ^ Secondo Gabriele Giannantoni: «Perfino quei filosofi che non hanno nutrito grande simpatia per Socrate, come ad esempio Nietzsche, hanno tuttavia assunto nei suoi confronti un atteggiamento che riflette l'importanza che comunque gli hanno attribuito: in scritti come La nascita della tragedia, del 1872, e La filosofia nell'epoca tragica dei Greci, del 1873, il filosofo tedesco vede in Socrate il simbolo della decadenza, della forza distruttiva e disgregatrice della ragione rispetto alle passioni e agli istintiil dissolvitore dello spirito dionisiaco della tragedia, e quindi il fondatore della morale e dell'ottimismo..»
  2. ^ Non a caso le due interpretazioni che qui si contrastano riflettono le opposte concezioni filosofiche che ebbero modo di rivelarsi in occasione una critica da parte di Giovanni Reale (nell’introduzione a una nuova traduzione dei Presocratici del Diels-Kranz) riportata in due articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera" del 21 e 24 novembre 2006, nei quali, Gabriele Giannantoni, di formazione gramsciana, scomparso nel 1992, veniva accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana del 1969 di avervi perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio all’ideologia e alla «egemonia culturale marxista».
  3. ^ Alcuni storici della filosofia che condividono in vario modo questa tesi sono Gabriele Giannantoni, Guido Calogero, Giorgio Colli, Cornelius Castoriadis, Armando Plebe, Michel Foucault, Olof Gigon, Vittorio Hösle, Aldo Brancacci ed altri.
  4. ^ Ordinario di Storia della filosofia antica e successivamente di storia della filosofia dal 1979 al 1992, anno della sua morte, presso la facoltà di Filosofia della Università La Sapienza di Roma
  5. ^ Michel Foucault non ebbe dubbi nel riconoscere in Socrate il primo parresiasta - da parresia da intendersi a senso come il parlare schietto, anche in presenza di potenti e senza temere le conseguenze - cioè colui che con il dialogo ha il coraggio di dire la verità e di viverla, con franchezza ed autorevolezza. (cfr.Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1996.)
  6. ^ Nietzsche che pure ne "La Morte di Socrate" contesta duramente la dottrina socratica, tuttavia riconoscerà in lui il primo martire del pensiero occidentale, il primo Cristo laico.
  7. ^ Sant'Agostino in Contra Fortunatum, Disputatio primae diei
  8. ^ G. Giannantoni, Socrate, tutte le testimonianze, pag. 318, Bari 1978.
  9. ^ Già professore ordinario di «Storia della Filosofia Antica» presso la libera Università cattolica del Sacro Cuore, dove ha anche fondato il «Centro di Ricerche di Metafisica», e dal 2005 insegnante nella nuova facoltà di filosofia del San Raffaele di Milano.
  10. ^ Cusano, esponente rinascimentale del rinnovato pensiero neoplatonico, parlerà anche lui di una "dotta ignoranza": non ci si può scoprire ignoranti senza avere già almeno parzialmente intravisto cos'è che si ignora.
  11. ^ cfr. Emanuele Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1984
  12. ^ G.Reale e Gregory Vlastos il teorico dell' "ironia complessa" per cui Socrate è ignorante al modo di apparire, ma è essenzialmente sapiente perché il suo metodo della confutazione dà avvio a un cammino verso la conoscenza che ognuno deve compiere da sé.
  13. ^ Questa secondo alcuni storici della filosofia è una concezione socratica strettamente collegata alla convinzione che nessuno possiede la verità contrariamente a quello che penserà Platone che la verità e la virtù possono essere insegnate poiché nel filosofo sono presenti verità innate e definitive (N.Abbagnano in Storia della filosofia, Vol.I, Novara 2006). Secondo altri invece, tra cui spicca Giovanni Reale, non c'è una differenza così netta tra Socrate e Platone: neppure per quest'ultimo la verità sarà riducibile a una semplice nozione, tanto è vero che Platone collocherà le idee (corrispettivo del daimon) al di sopra della dialettica (corrispettivo della maieutica): non le farà coincidere. Per Platone la verità sarà assimilata più ad una visione che a un concetto definibile in modo esaustivo.
  14. ^ Emanuele Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, I, BUR, Milano 2004, p. 116.
  15. ^ Recensendo la monografia d Taylor a proposito di Socrate come scopritore dell’idea occidentale di anima, lo storico della filosofia Guido Calogero scrive: «L’audacia di questa ricostruzione, che non si basa su alcuna testimonianza positiva, ma solo sulla mancanza di strumenti di transizione tra gli antichi concetti naturalistici dell’anima e la concezione etica che ne presuppone il platonismo è anche più forte di quella che conduce ad ascrivere a Socrate la teoria platonica delle idee.» (cfr.G. Calogero in Giornale critico della filosofia italiana 2, 1934, pp.223-227
  16. ^ «Socrate, per quanto si sappia, creò la concezione dell'anima che da allora ha sempre dominato il pensiero europeo» (A. E. Taylor, Socrate, Firenze 1952, pag. 98).
  17. ^ «Labbro greco non aveva mai, prima di lui, pronunziato così questa parola. Si ha il sentore di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è che, qui per la prima volta nel mondo della civiltà occidentale, ci si presenta quello che ancora oggi talvolta chiamiamo con la stessa parola [...] La parola "anima", per noi, in grazia delle correnti per cui è passata la storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole; "servizio di Dio" e "cura di anime", essa suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha preso nella predicazione protrettica di Socrate» (W. Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, vol. II, Firenze 1967, pag. 63).
  18. ^ Cfr. Platone, Protagora, 313, e 2.
  19. ^ «Socrate: L'anima è quella che governa. Colui dunque che ci esorta a conoscere noi stessi ci invita ad acquistare conoscenza della nostra anima» (Platone, Alcibiade maggiore, 130 e, trad. di E. Turolla).
  20. ^ Cfr. F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997.
  21. ^ Platone, Fedone, traduzione di Manara Valgimigli, a cura di Bruno Centrone, Biblioteca Filosofica Laterza, Bari 2005, p. 8
  22. ^ «Dunque il corpo è coinvolto sì nel dialèghestai [nel discutere], ma che sia il soggetto di esso è solo ciò che appare a prima vista» (Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone, Vita e Pensiero, 2007 Introduzione, p.XI nota 11, p.XXXI nota 40 , p.XXXIV nota 46.
  23. ^ Fedone, 67 d-e.
  24. ^ tratto da Alcibiade Maggiore, 128 e - 130 e.
  25. ^ È stato osservato in proposito come Platone riproducesse del dialogare di Socrate «quel reinterrogare senza posa, con tutte le impennate di dubbio, con gli improvvisi squarci che maieuticamente tendono alla verità, non rivelandola ma sollecitando l'anima dell'ascoltatore a trovarla [...] in lui solo è riconoscibile l'autentica cifra del filosofare socratico» (G. Reale, I problemi del pensiero antico dalle origini a Platone, Milano 1972, p. 347).
  26. ^ La paternità era stata contestata dalla critica ottocecentesca e in particolare da Friedrich Schleiermacher, ma approvata in seguito da diversi interpreti quali M. Croiset, P. Friedlander, M.C. Vink, lo stesso Sarri.
  27. ^ Francesco Sarri, Socrate e la genesi storica dell'idea occidentale di anima, Volume 1, Abete, 1975, p.159 e seguenti.
  28. ^ L. Brandwood, Stylometry and chronology, in The Cambridge Companion to Plato, edited by R. Kraut, Cambridge 1992, p. 109, 115.
  29. ^ IL FEDONE di platone
  30. ^ W.K.C. Guthrie, Socrate, trad. it., Bologna 1986.
  31. ^ Platone, Lettera XIII, 363.
  32. ^ Matteo Perrini, Fedone, o delle ultime ore di Socrate, Giornale di Brescia, 1996).
  33. ^ Cfr. C. de Vogel, Ripensando Platone e il platonismo, Vita e Pensiero, 1990; T. Szlezak, Come leggere Platone, Rusconi, 1991.
  34. ^ G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Bibliopolis, Napoli 2005, ibidem
  35. ^ G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, ed. Bibliopolis 2005, ibidem

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