Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

mercoledì 25 settembre 2013

Il Dialogo socratico

Da "http://www.parodos.it" :

V. MANNUCCI:

Non sappiamo se la definizione dell'uomo come «animale che parla» sia più esatta rispetto ad altre.

Forse è la più decisiva, quella che le comprende tutte.
La parola è la soglia di ingresso nell'universo umano.
Parlare, dare un nome, è in qualche misura chiamare all'esistenza, trarre dal nulla.
Finchè l'uomo non prende la parola, la realtà intrinseca del mondo resta là, non solo inservibile, ma senza significato reale.
Nietzsche chiamava gli uomini di genio dei «nominatori»: «Essi vedono qualcosa che non porta ancora un nome, benchè tutti lo abbiano sotto gli occhi».
L'Adamo biblico penetra l'essere di ciascun animale per dargli un nome; gli animali sono là, creati da Dio, ma non sono reali per l'uomo finchè egli non li «nomina» (Gn 2,19-20).
Pur successiva alla creazione, l'imposizione del nome è un atto dell'attività ordinatrice con cui l'uomo si impadronisce spiritualmente delle creature, oggettivandole davanti a sè.
Dunque, mediante la parola, l'uomo penetra nel groviglio del mondo e con essa gestisce la sua interiore inclinazione a conoscere, interpretare, approfondire, ordinare, destinare.

M. HEIDEGGER:

Secondo una tradizione antica, noi, proprio noi, siamo gli esseri che sono in grado di parlare, e che perciò già possiedono il linguaggio.

Nè la facoltà del parlare è nell'uomo solo una capacità che si ponga accanto alle altre.
E' per contro la facoltà che fa dell'uomo un uomo.
Questo tratto è il profilo stesso del suo essere.
L'uomo non sarebbe uomo se non gli fosse concesso di parlare, di dire «è», ininterrottamente, per ogni motivo, in riferimento ad ogni cosa, in varie forme, il più delle volte tacendo.
In quanto il linguaggio concede questo, l'essere dell'uomo poggia sul linguaggio.
Già dall'inizio noi siamo dunque nel linguaggio e con il linguaggio.

M. Heidegger, "In cammino verso il linguaggio"



LE BARRIERE DELLA COMUNICAZIONE

Dialogo socratico

Socrate: Dunque, neppure chi diviene ricco sfugge all'infelicità, ma solo chi diviene saggio.
Alcibiade: Evidentemente.
S.: Non hanno dunque bisogno di mura, di triremi e di arsenali gli stati, caro Alcibiade, se avranno a prosperare in felicità, nè hanno bisogno di masse e di grandezza prive di virtù.
A.: Veramente no.
S.: Così se t'appresti a metter mano agli affari dello stato, correttamente e nobilmente, tu devi far parte ai cittadini della tua virtù.
A.: Sicuro.
S.: Ma potrebbe qualcuno dare ciò che non ha?
A.: E come farebbe?
S.: Per te stesso devi prima conquistarti la virtù. tu o chiunque altro che voglia governare e prendersi cura non solo privatamente di sè e delle sue cose, ma anche dello stato e dei suoi affari.
A.: E' vero.
S.: Non devi dunque procurare potere a te stesso e allo stato per fare ciò che ti piaccia, ma giustizia e saggezza.
A.: Evidentemente.
S.: Perchè, mio caro Alcibiade, chi possieda la potenza per fare ciò che gli piaccia, ma non abbia alcun senno, cos'è probabile che gli accada, sia lui una persona o uno stato? Se per esempio un malato ha il potere di fare ciò che gli piace e, privo di ogni idea di medicina, spadroneggia a tal punto che nessuno può riprenderlo, cosa accadrà?

Non si rovinerà la salute? E ciò non sarà naturale?
A.: E' vero.
S.: Se in una nave uno avesse la libertà di fare ciò che gli pare, privo della minima idea di scienza nautica. te lo immagini cosa avverrebbe di lui e degli altri imbarcati?
A.: Lo vedo: perirebbero tutti.
S.: Se dunque, in questo stesso modo, nello stato e in ogni altro tipo di governo e di dominio viene a mancare la virtù. ne consegue il vivere male?
A.: Per forza.
S.: Quindi non è il potere tirannico, mio ottimo Alcibiade, che ti devi procurare, nè a te stesso nè allo stato, ma la virtù, se volete prosperare in felicità.
A. E' vero.

Da Platone: "Alcibiade primo"

Dialogo evangelico

Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere acqua.

Gesù le dice: «Dammi un po' d'acqua da bere»,
Risponde la donna: «Perchè tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono samaritana?» (Si sa che i giudei non hanno buoni rapporti con i samaritani).
Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui.

Se tu lo sapessi saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva».
La donna osserva: «Signore, tu non hai un secchio e il pozzo è profondo. Dove la prendi l'acqua viva? (...)».

Gesù risponde alla donna: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece se uno beve dell'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente per l'eternità».
La donna dice a Gesù: «Signore dammela quest'acqua, così non avrò più sete e non dovrò più venir qui a prendere acqua».
Gesù dice alla donna: «Va' a chiamare tuo marito e torna qui».
La donna gli risponde: «Non ho marito».
Gesù le fa: «Giusto. E vero che non hai marito: ne hai avuti cinque di mariti e l'uomo che ora hai non è tuo marito».
La donna esclama: «Signore, vedo che sei un profeta! I nostri padri samaritani adoravano Dio su questo monte; voi, in Giudea, dite che il posto per adorare Dio è a Gerusalemme».
Gesù le dice: «Voi samaritani adorate Dio senza conoscerlo; noi in Giudea lo adoriamo e lo conosciamo, perchè Dio salva gli uomini cominciando dal nostro popolo. Ma credimi, viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme; viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio».
La donna gli risponde: «So che deve venire un Messia, cioè il Cristo, l'inviato di Dio. Quando verrà ci spiegherà ogni cosa».
E Gesù: «Sono io il Messia, io che parlo con te».

dalla Bibbia: "Vangelo secondo Giovanni", 4,1-26.

Dialogo psicanalitico

Una sera il dott. Frink ed io, passeggiando, discutevamo di alcune questioni della Società psicoanalitica di New York. Incontrammo un collega, il dott. R., che non vedevo da anni e della cui vita privata non sapevo nulla.

Ci fece molto piacere esserci nuovamente incontrati, ed io proposi di andare in un caffè, dove discutemmo animatamente per due ore.
... Alla mia domanda se fosse sposato rispose di no e aggiunse: «Perchè dovrebbe sposarsi un uomo come me?».
Mentre lasciavamo il locale, egli si rivolse improvvisamente a me: «Vorrei sapere cosa farebbe lei nel caso seguente: conosco un'infermiera coimputata in un processo di divorzio. La moglie aveva chiesto il divorzio per colpa del marito, indicando come correa l'infermiera, ed egli ottenne il divorzio».
Lo interruppi: «Intende dire che essa ottenne il divorzio».
Egli si corresse subito: «Ma certo, essa ottenne il divorzio», e continuò a raccontare che l'infermiera era rimasta così sconvolta per il processo e lo scandalo che cominciò a bere, a essere molto nervosa, ecc. e mi chiese consiglio su come curarla.
Dopo aver corretto il suo errore lo pregai di spiegarmelo, ma ottenni le solite risposte meravigliate: se ogni persona non abbia forse il diritto di commettere un lapsus, che era solo un caso e non c'era nulla da scoprire, ecc.
Risposi che ogni lapsus verbale deve avere un suo motivo e che ero tentato di credere che fosse lui stesso l'eroe della vicenda se non mi avesse già detto di essere scapolo.
In questo caso avrei potuto spiegarmi il lapsus con il desiderio che sua moglie e non lui avesse perso il processo...
Respinse ostinatamente la mia ipotesi.
Il dott. Frink ed io, però, eravamo fermamente convinti della mia spiegazione del suo lapsus ed io decisi di informarmi per averne la prova o la smentita.
Alcuni giorni dopo feci visita ad un vicino, un vecchio amico del dott. R., che potè confermarmi in pieno la mia spiegazione.
Il processo aveva avuto luogo alcune settimane prima e l'infermiera era stata citata come correa.
Il dott. R. è ora fermamente convinto dell'esattezza dei meccanismi freudiani.

Caso citato in S. Freud, "Psicopatologia della vita quotidiana"


Emigrati dall'oriente gli uomini trovarono una pianura nella regione di Sennaar e vi si stabilirono.
Si dissero l'un l'altro: Forza! Prepariamoci mattoni e cuociamoli al fuoco!
Pensarono di adoperare mattoni al posto delle pietre e bitume invece della calce.
Poi dissero: Forza, costruiamoci una città! Faremo una torre alta fino al cielo! Così diventeremo famosi e non saremo dispersi in ogni parte del mondo!
Il Signore scese per osservare la città e la torre che gli uomini stavano costruendo.

Disse: Ecco, tutti quanti formano un sol popolo e parlano la stessa lingua. E questo non è che il principio delle loro imprese! D'ora in poi saranno in grado di fare tutto quello che vogliono! Andiamo a confondere la loro lingua, così non potranno più capirsi tra loro.
E il Signore li disperse di là in tutto il mondo; perciò furono costretti a interrompere la costruzione della città.

"Genesi", 11, 2-8 


SOCRATE

LE CARATTERISTICHE DEL DIALOGO SOCRATICO

Il metodo di indagine praticato da Socrate costituisce, sotto un certo aspetto, uno sviluppo di quello dei sofisti. Esso pure, infatti, si basa sull'argomentazione discorsiva, ma rendendola più snella, più penetrante, più sincera.
Socrate non si vale più come i sofisti della perorazione lunga, complessa, rivolta a sostenere qualche tesi prestabilita; il suo metodo è il dialogo: dialogo tra persone sinceramente intese a sviscerare il problema in esame, a precisarne i termini, a chiarirne gli equivoci, sempre disposte a mutare le conclusioni raggiunte qualora si scoprano nuovi argomenti contro di esse.
Questa provvisorietà delle conclusioni è il sintomo di una apertura nuova, di una nuova sensibilità per i problemi, di un profondo amore della coerenza, che è tutto caratteristico di Socrate.
Anche la famosa ironia socratica fa parte di tale apertura.
E' una ironia che Socrate rivela innanzitutto contro coloro che si credono grandi maestri, non essendo consapevoli delle vere difficoltà delle questioni; ma non risparmia nemmeno contro se stesso, per evitare il rischio di trasformare le proprie concezioni in dogmi.
Il suo amico Cherofonte si è rivolto all'oracolo di Delfo per conoscere chi sia l'uomo più sapiente dell'epoca; e la sacerdotessa risponde che è Socrate.

Proprio lui però è il primo a non capacitarsi di tale risposta, e, desideroso di smentire l'oracolo, interroga i più illustri maestri per dimostrare che la loro scienza supera immensamente la propria.
Alla fine però deve convincersi che la sacerdotessa aveva ragione: egli è veramente il più sapiente, solo perché sa di non sapere.
La coscienza critica della non assolutezza del proprio sapere, è, proprio essa, l'unica vera scienza.
Socrate non ritiene di possedere alcuna verità da riversare nei discepoli.

La funzione della sua parola può soltanto essere quella di risvegliare gli animi; di richiamare ciascuno a guardare con sincerità nella propria coscienza.
Per questo l'insegnamento di Socrate è maieutico (= ostetrico), simile cioè all'arte della propria madre levatrice.
La levatrice non possiede un figlio da donare alla madre, ma aiuta questa a partorirlo; così Socrate non possiede alcuna scienza già costruita da donare al discepolo, ma solo aiuta il discepolo a chiarire la propria intima consapevolezza.
Platone interpreterà questo metodo maieutico in un altro senso come processo rivolto a richiamare nel discepolo conoscenze assolute già apprese in un'altra vita; però questa interpretazione è completamente estranea al pensiero socratico.
Pur essendo così aperto, l'insegnamento di Socrate non può dirsi privo di conclusione: questa non sarà tuttavia una conclusione teorica (in quanto non consisterà nel possesso di una verità assoluta), ma sarà una conclusione morale.

Risvegliando ciò che vi è di più intimo nelle coscienze, l'insegnamento avvia i giovani alla virtù: la virtù infatti è sapere, cioè consapevolezza dei valori che l'uomo porta in sé, è superamento della propria limitatezza con la comprensione di ciò che accomuna tutti gli individui.
Il metodo socratico oltreché dialogico-dialettico è dunque esortativo (o protrettico), cioè rivolto all'arricchimento della personalità umana in tutta la sua complessità.
Vi è una profonda unità fra questi due aspetti del socratismo.

Così come la verità non si può risolvere per Socrate in alcun sistema chiuso di nozioni o di concetti, ma è essenzialmente ricerca e metodo del vero; così come egli trasferisce il piano del pensiero dalla sofia (= sapienza) a quello della filosofia (= amore, ricerca del sapere), parimenti l'etica non potrà tradursi in una serie di precetti morali.
Non esistono cose in sé buone o cattive, comportamenti in sé giusti od erronei.
Le une e gli altri sono qualificati dall'intenzione che ha dato loro luogo e dal senso che essi assumono nella singola situazione.
Il relativo giudizio, in altri termini, non può essere determinato dal loro contenuto ma soltanto dalla loro modalità.
E l'unica modalità positiva è per Socrate quella in cui la ragione e la coscienza controllano i comportamenti, conferiscono senso alle cose; controllo e senso che a loro volta non andranno intesi moralisticamente, ma in funzione della conquista di un sapere logico e pratico sempre più vasto ed armonico, cioè della suprema vocazione dell'uomo, la conoscenza.
Tutta la filosofia di Socrate era dunque tesa al riconoscimento di una unità del valore, per cui il vero non poteva essere più separato dal giusto né entrambi dal bello; e tale unità diventava a sua volta il traguardo, il bersaglio cui l'intera vita dell'uomo e della società dovevano indirizzarsi, trovando ín questa tensione il proprio significato e la propria giustificazione.
In questa direzione, Socrate dovette por mano ad una profonda riforma dei modi del pensiero greco e delle forme logiche in cui esso era uso esprimersi.
Il pensiero greco aveva sempre posto l'accento sulle « cose », sulla realtà esistente; il numero dei pitagorici era stato trasformato in principio delle cose, così pure il « principio » degli ionici, così l'essere eleatico, così il logos-fuoco eracliteo.
La logica che vi corrispondeva aveva posto tutto il proprio accento sul sostantivo, sul verbo sostantivato, e lo stesso verbo « essere » aveva sempre mantenuto il proprio valore insieme copulativo ed esistenziale.
Ora Socrate, per conferire al valore razionale ed etico quella formalità che sola poteva garantirne l'unità, per evitarne l'identificazione con qualsiasi nozione o cosa determinata, chiusa e dogmatica, doveva porre le premesse per una riforma di questo tipo di logica.
Doveva cioè spostare il peso della proposizione dal soggetto al predicato, incominciare ad isolare il senso copulativo del verbo « essere ».
Tipica di questo contrasto è la situazione del dialogo platonico Ippia Maggiore, dove Socrate pone al sofista il problema del significato dell'espressione « essere bello » ed Ippia non può se non rispondere elencando una serie di « cose belle »; al che Socrate ribatte osservando che ciascuna cosa può esser bella e brutta a seconda della modalità della situazione, e rivendicando invece all' « esser bello » un valore di qualificazione formale rispetto a qualsiasi singola cosa.
In tale riforma, Socrate trasse certamente profitto dalla riflessione anassagorea e dalle indagini logiche dei sofisti, specialmente di Prodico ; d'altra parte egli non giunse certo a teorizzarla esplicitamente, lasciandone anzi aperti gli sbocchi alle più svariate soluzioni da parte delle scuole che a lui si ispirarono ; tuttavia è fondamentale il suo merito nell'aver posto in crisi il modo di pensare tradizionale e nell'aver aperto al pensiero e alla sua espressione logica la possibilità di un metodo euristico più duttile e più comprensivo.

LA CONSAPEVOLEZZA ETICA

Aristotele ha attribuito a Socrate il merito di aver scoperto l'universalità dei concetti,
(1) limitatamente al campo etico. La critica moderna ritiene infondata questa attribuzione: Socrate non si è mai preoccupato di raggiungere il concetto nella sua astrattezza teorica (cioè nel senso che gli verrà attribuito da Aristotele).

Se di universalità vogliamo parlare, dobbiamo intenderla in un significato pratico, come conquista dei valori più profondi che si trovano alla base di ogni umana coscienza.

(1) Mentre il termine « rappresentazione » viene usato in riferimento ad un oggetto concreto (si ha, per esempio, la rappresentazione di « questo particolare tavolo su cui scrivo »), il termine « concetto » viene invece usato ad indicare una entità astratta (« il triangolo », « la virtù », ecc.) non identificabile con alcunché di empiricamente determinato.
Nell'esperienza troviamo parecchi triangoli particolari, molte virtù, ma non il triangolo né la virtù.
Per comprendere il senso dell'asserzione « il concetto è universale », basta riflettere a ciò che accade in geometria: se dimostriamo un teorema per il triangolo in generale, esso vale per ogni singolo triangolo. Ebbene: proprio in ciò consiste l'universalità.

Le proprietà universali non dipendono dalle differenti condizioni cui soddisfano i singoli individui, ma valgono indifferentemente per ciascuno di essi, in quanto soddisfacente al concetto in questione (cioè in quanto triangolo, in quanto virtù, ecc.).
La scienza (epistème) si occupa delle proprietà universali, e perciò è conoscenza di concetti.
Invece l'opinione (doxa) si occupa delle proprietà particolari, e perciò è conoscenza di singoli oggetti (per esempio, di singoli triangoli o di singole virtù).

Il sapere cui Socrate mira non è un sapere astratto ma tecnico-pratico: ossia è la consapevolezza di ciò che l'uomo fa, in qualunque mestiere egli operi (sia calzolaio o stratega, politico o artista).
« Conoscere se stesso » significa, in questa concezione, avere piena coscienza del significato delle proprie azioni e quindi saperle compiere meglio, in modo via via più perfetto, ottenendo sempre migliori risultati.
Socrate è convinto, non meno dei sofisti, che il sapere deve riuscire utile: ma interpreta questa utilità in senso più largo e più concreto.
Non si tratta più soltanto di un sapere utile alla vita pubblica, ma utile all'uomo in quanto essere ragionevole, e perciò utile a tutte le attività umane, anche alle píù modeste; qualsiasi attività umana infatti deve trarre un immenso vantaggio dal diventare consapevole di sé.
In questo senso, egli può affermare che la virtù è sapere: ossia è riflessione razionale, è chiarezza ottenuta attraverso questa riflessione.
E può di conseguenza affermare che « la virtù è unica » (perché unico è il tipo di consapevolezza, raggiunta attraverso la riflessione razionale) ed inoltre che è insegnabile (perché ínsegnabile è il mezzo con cui attuare tale processo chiaríficativo).
Entro la spiegazione ora accennata, si può facilmente risolvere la seguente antinomia socratica: tra due persone che fanno il male, quella che lo fa sapendo di farlo è migliore di quella che lo fa inconsapevolmente.

Per Socrate, infatti, conoscere il carattere buono o cattivo di un'azione significa avere in sé almeno un germe di razionalità (chi possegga una razionalità completa non può secondo lui che operare il bene); non conoscerlo significa invece vivere nella oscurità, e quindi nell'irresponsabilità (il bene fatto inconsapevolmente non può essere che un bene accidentale).
Del resto, assunto il principio socratico della unità del valore, il paradosso significa anche questo: che il male compiuto razionalmente e consapevolmente non sarà davvero « male »; sarà soltanto ciò che il pregiudizio e la convenzione considerano male, ma che alla luce di una rinnovata coscienza è invece orientato verso il vero e dunque verso il bene.
E' questo il famoso "intellettualismo etico" di Socrate fatto oggetto di innumerevoli critiche.

Si è osservato che una simile dottrina, riducendo il male ad un semplice errore, da un lato contrasta evidentemente coi fatti, non tenendo conto della forza degli impulsi e dell'intervento della volontà; dall'altro viene a distruggere il principio stesso della libertà pratica.
Per Socrate il sapere non è un riconoscimento inanimato, generico, di seconda mano, ma una conquista personale, intima, vitale; una convinzione ottenuta attraverso lunghe, e spesso dolorose, esperienze, che, in quanto tale, non può non coinvolgere la volontà e l'azione.
Troppo spesso, invece, la vita dei singoli trae orientamento da una mera presunzione di sapere, basata su affermazioni generiche e incontrollate; così come la politica si fonda sopra formule retoriche celanti inconfessabili egoismi.
Ne deriva che noi viviamo in un mondo di incertezza, di arbitri, di compromessi.
La penetrazione di ciò che vi è di più intimo nella propria coscienza potrà infine, secondo Socrate, rendere chiara all'individuo la misteriosa voce divina che è presente in lui.
Come ci raccontano varie testimonianze, Socrate asseriva di sentire vivissima questa voce in sé, e la riferiva a un démone che sarebbe stato solito intervenire in lui solo in momenti di particolare importanza per vietargli determinate azioni.
Forse la personificazione della voce anzidetta in forma di démone risale a tradizioni orfico-pitagoriche, forse è una semplice concessione a credenze popolari
 L'importante è che anche questa intuizione morale viene, secondo il nostro filosofo resa più viva, più chiara, più efficiente dalla consapevolezza etica ottenuta attraverso la riflessione razionale.

LA MISSIONE DI SOCRATE

Abbiamo detto che, per Socrate, la virtù è sapere; da ciò segue che essa è felicità.

Agire con piena consapevolezza, conoscere il bene e attuarlo anche a costo della propria vita, significa infatti, per Socrate, realizzare ciò che vi è di meglio in noi; e questa realizzazione è la nostra vera felicità.
E' una felicità che non deriva da qualcosa di esterno a noi, e che proprio per questo noi siamo in grado di realizzare con i nostri esclusivi mezzi di uomini.

E' una felicità che non deve venir cercata in una vita ultraterrena, ma nella vita terrena dell'uomo pienamente consapevole di sé.
Come scrive E. Maier, « il pessimismo cede il campo ad un ottimismo vittorioso, ad un ottimismo tutto dominato da un senso intenso dell'al di qua ».
Il vangelo di Socrate è un vangelo interamente umano.
Ciò non significa che egli neghi l'immortalità; tuttavia non fa perno su di essa per la propria concezione dell'uomo, come invece farà Platone (la dimostrazione dell'immortalità dell'anima, compiuta dal Socrate platonico nel celebre dialogo Fedone, è assolutamente estranea al socratismo).

Sia l'ipotesi che l'individuo sopravviva, sia l'ipotesi contraria, non incidono secondo Socrate sulla morale, come non vi incide l'ipotesi che esistano o non esistano gli dei.
I caratteri fondamentali di questa morale, cioè l'autonomia e l'autarchia, escludono ogni riferimento ad un mondo ultraterreno.(2)

(2) Affermare il carattere dell'autonomia significa sostenere che è l'uomo stesso a darsi la legge morale; affermare il carattere dell'autarchia significa sostenere che la legge morale basta a se stessa, cioè non ha bisogno di cercare alcun fondamento fuori di sé.

La mancanza di una fede specifica nell'immortalità non sottrae però all'insegnamento di Socrate il carattere essenziale di « missione ».
Non si tratta, certo, della missione di un profeta convinto di portare all'umanità il verbo eterno di un dio trascendente, ma è la missione del saggio che si rivolge ai suoi simili per destarne la coscienza, per renderla consapevole di sé e quindi più virtuosa e felice.
E' in particolare la missione, determinata e concreta, che il cittadino ateniese Socrate sente il dovere di svolgere tra gli ateniesi del suo tempo, innanzitutto perché li ritiene maturi a riceverla, anche se in certe situazioni possono suscitare l'impressione contraria; e li ritiene maturi proprio a causa dell'alto livello di civiltà acquisito attraverso le complesse vicende politico-culturali della loro città.
Socrate ebbe, vivissima, la consapevolezza di questo carattere « missionario » del proprio insegnamento, come ce ne ha dato ampia prova con la sua fierissima difesa al processo, con il suo rifiuto a fuggire quando il discepolo Critone gliene fece la proposta, con la sua serenità al momento di bere la cicuta.
Egli intuì che il sacrificio supremo avrebbe costituito il massimo contributo al compimento della sua missione, e proprio per questo lo affrontò con tanto coraggio, dichiarando ai giudici che avrebbe proseguito (« mi mandiate assolto o no ») nel proprio insegnamento, « anche se dovessi morire più volte ancora ».
La sua intuizione fu esatta: proprio perché conclusosi col sacrificio della vita, l'insegnamento di Socrate fu uno dei più efficaci che la storia ricordi.
Per lo stesso pensiero greco contemporaneo, la ricerca socratica rappresentò uno stimolo dì valore inestimabile.
Oltre a dare l'avvio alla grande tradizione filosofica che si articolò nelle « scuole socratiche », dal platonismo ai cinici ai megarici, Socrate apportò un diretto contributo ai metodi di quelle scienze dell'uomo, dalla medicina alla storiografia, che tanto lo interessavano e con le quali era in stretto contatto; sicché la sua filosofia, che non si espresse í n alcuna opera scritta, ci appare continuamente sotto molteplici prospettive attraverso buona parte di quanto cì ha lasciato la migliore riflessione greca tra la fine del V e il principio del IV secolo.
Egli rimane ancora oggi, per ciascuno di noi, maestro insuperato di chiarezza filosofica e di profondo impegno culturale e morale.

Nessun commento:

Posta un commento

Salve, donatemi un pò dei Vostri Pensieri: