Da WikiPedia:
La crisi di Genova
Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova cadde in ciò che avrebbe poi descritto come una grave crisi esistenziale. Al mattino era deciso a ripudiare gli idoli della letteratura, dell'amore e dell'imprecisione per consacrare l'essenza della sua vita a ciò che indicò come
la via dello spirito: ce lo testimoniano i suoi
cahiers, diari nei quali si costringe ad annotare ogni mattino tutte le sue riflessioni.
Dopo di cui, aggiunge come battuta di spirito,
avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno.
Aveva quindi escluso completamente la poesia dalla sua vita?
No, anche se, a suo dire,
ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore, oppure, come aveva affermato
Malherbe, la tiene alla stessa distanza del suo predecessore che aveva detto molto più seriamente che
un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce.
Ad ogni modo, Valéry indicò ripetutamente questa notte come la sua vera nascita, l'inizio della sua vita mentale.
Nel 1894, si trasferì a Parigi,
dove trascorse il resto della sua vita, e dove cominciò a lavorare come
redattore al ministero della guerra.
Rimase lontano dalla scrittura
poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo.
Segretario
personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si affannava ogni mattino all'alba alla redazione dei suoi
Cahiers, diari intellettuali e psicologici, che vedranno la pubblicazione, non interamente, solo dopo la sua morte.
Nel 1900 sposò Jeannine Gobillard, con cui ebbe tre figli.
La jeune Parque
Nel 1917, sotto l'influenza principalmente di
André Gide, ritornò alla poesia, con
La Jeune Parque, pubblicato presso la
Gallimard, a cui seguirono un altro grande poema,
Le Cimetière marin (1920) e una raccolta,
Charmes (1922).
Sotto l'influsso di
Stéphane Mallarmé, privilegiò sempre nella sua poetica il formale dominio a scapito del senso e dell'ispirazione.
Dopo la prima guerra mondiale,
divenne una sorta di "poeta ufficiale" immensamente celebre che, nella
sua mancanza di interesse verso le cariche e gli onori, si diverte a
vedere gli ossequi di cui è circondato.
Nel 1924, venne eletto presidente del Pen Club francese, poi membro dell'Académie française l'anno seguente.
Seguirono anni di cariche sempre più importanti, al consiglio dei musei, al centro universitario di Nizza, la presidenza della commissione di sintesi per la cooperazione culturale per l'esposizione universale del 1936; nel 1937, addirittura, una cattedra (quella di
poetico al Collège de France) venne creata appositamente per lui.
Infine, nel 1939 divenne presidente onorario della
SACEM.
Ma durante tutto questo tempo, la sua vera
professione continuava nell'ombra: la profondità delle riflessioni che diede alle stampe in opere consistenti (
Introduction à la méthode de Léonard de Vinci,
La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (
Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale lo resero un interlocutore ideale per
Raymond Poincaré,
Louis de Broglie,
Henri Bergson e
Albert Einstein.
L'occupazione nazista
Sotto l'occupazione, essendosi rifiutato di collaborare, Valéry perse il suo posto d'amministratore a Nizza. Morì il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine del secondo conflitto.
Il presidente francese Charles de Gaulle richiese per lui funerali di stato, dopo i quali venne sepolto a Sète, al cimitero del mare che aveva già celebrato nel suo famoso poema.
Dopo la sua morte, furono pubblicati alcuni estratti dei suoi diari, i
Cahiers, ai quali consegnava quotidianamente l'evolversi della sua coscienza e le sue relazioni con il tempo, i sogni, il linguaggio.
I "Cahiers"
I Quaderni di Valéry (261 quaderni manoscritti, 26.600 pp.), vero e
proprio "laboratoire intime de l'esprit" schiudono a numerose
riflessioni, filosofiche, estetiche, religiose ed antropologiche.
Essi
testimoniano la perenne ricerca che animò la sua riflessione intorno ad
ambiti diversi, tesa, in un primo momento, a cercare un "système" di
operazioni mentali esteriorizzabili, che a loro volta costituissero la
compiuta messa in forma del "travail de l'esprit"; vi si scoprono le sue
inquietudini sull'eternità della civilizzazione (
Le nostre civilizzazioni sanno adesso d'essere mortali), sul futuro dei
diritti dello spirito, sul ruolo della letteratura
nella formazione, e la retroazione del progresso sull'uomo; la critica
ai concetti "vaghi e impuri" di cui si serve la filosofia (quali, ad
esempio, spirito, metafisica, interiorità), quindi la conseguente azione
di "repulisti" della situazione verbale, oltre che un'insospettata
componente affettivo-spirituale che aspira a liberarsi da un "divino"
istituzionalizzato per recuperarlo in maniera pura, scevra di ogni
contaminazione fiduciaria.
La serie
Variété, invece, si compone di scritti di tutt'altro
tono: quelli che gli sono stati richiesti e che, senza alcun dubbio e
per sua stessa confessione, non avrebbe mai scritto.
Non sono meno
testimoni di altri della profondità di analisi spesso abbagliante (si
legga in particolar modo
Notre destin et le lettres, in
Regards sur le monde actuel).
La sua corrispondenza, segnatamente quella con
André Gide, ma anche quella con
Gustave Fourment,
André Fontainas e
Pierre Louÿs è stata ormai pubblicata interamente, mentre la totalità dei
Cahiers è consultabile nella biblioteca del Centre Pompidou di Parigi;
inoltre, i principali manoscritti inediti sono conservati per la
maggior parte presso il Dipartimento dei Manoscritti Occidentali e
Orientali della Bibliothèque Nationale di Parigi
(site Richelieu).
Questo materiale è tuttora in corso di pubblicazione,
specialmente ad opera dell'Equipe des Etudes Paul Valéry (ITEM-CNRS).
Da WikiQuote:
Citazioni di Paul Valéry
- Il genio si muove nella follia, nel senso che si tiene a galla là dove il demente annega.
- [Su Marcel Proust]
Il suo modo di scrivere si collega senza dubbio alla nostra migliore
tradizione. Qualcuno fa notare che le sue opere non sono di lettura
molto facile. Ma io non mi stancherò mai di affermare che dobbiamo
accogliere con entusiasmo gli autori difficili del nostro tempo. Se
qualcuno li leggerà, non sarà solamente per la loro piacevolezza. Essi
ci riportano a Montaigne, a Descartes, a Bossuet e ad altri che vale forse ancora la pena di leggere.
- Il vero snob è colui che non osa confessare che s'annoia quando s'annoia e che si diverte quando si diverte. (da Melange)
- La fede
(religiosa) è forse un mito. I credenti che si incontrano sono
posseduti innanzitutto dai propri interessi. Ma se si prescinde dalla
loro sorte, dalle loro paure, dai loro bisogni − la loro fede non è
niente. (da Quaderni, 1894-1945)
- La Francia, dove l'indifferenza in materia di religione è tanto
comune, è anche il paese dei miracoli più recenti. Negli stessi anni in
cui Renan sviluppava la sua critica e il positivismo o l'agnosticismo si diffondevano, un'apparizione illuminava la grotta di Lourdes.
- La marchesa uscì alle cinque. (citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993)
- La venerazione del passato conduce a un pessimismo ingiustificato
sul presente e impedisce di capire che l'avvenire non è già più quello
che era. (da Letterature)
- Nell'arte della danza, i movimenti dei corpi non hanno nessun fine. (citato in Corriere della Sera, 18 giugno 2003)
- O credente, ammetto che hai un ideale,
e il tuo lume nella tua foresta; pensi che io non abbia il mio? Ma
mentre il tuo l'hai ricevuto e accettato senza quel severissimo esame
che il problema merita, se ha qualche importanza; e mentre ti giunge
dalla bocca altrui, bell'e fatto e articolato, il mio si forma nei miei
tentativi − ed è inseparabile da essi, se addirittura non vi si confonde
completamente. È la ricerca il mio espediente, e non potrei trovare
niente che valga di più della propria ricerca, compreso l'ideale da
assegnarsi. (da Quaderni, 1894-1945)
- Quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore. (citato in Marco Travaglio e Peter Gomez, Inciucio, BUR, 2005)
- Quello che viene creduto da tutti, per sempre, dovunque, ha molte probabilità di essere falso.
- Verona,
con le sue vecchie mura che l'attorniano, i suoi ponti dai parapetti
merlati, le sue lunghe e larghe vie, i suoi ricordi del medio evo, ha
una grande aria che incute rispetto.[6]
Album di versi antichi
- Sento i corni profondi e le trombe militari | ritmare la volata
dei remi; il chiaro canto | dei curvi vogatori incatena il tumulto, || e
gli Dei, sulla rupa eroica esaltati | nell'antico sorriso che la schiuma insulta | tendono a me le braccia indulgenti e scolpite. (da Elena)
- Qual cuore
può soffrire l'incanto inesorabile | della notte abbagliante e il
firmamento fatale | senza erompere un grido puro siccome un'arma? (da Lo stesso incanto)
- Si bagna un carneo frutto in una giovane vasca, | (azzurro nei
giardini tremanti) ma fuor d'acqua, | isolando la chioma che ha forza
d'elmo, splende | l'aureo capo che tronca alla nuca una tomba. (da Bagnante)
- Quanto lamento il puro e fatale tuo splendore | da me sì
dolcemente circondata o fontana, | dove attinsero gli occhi in un
mortale azzurro | la mia immagine d'umidi fiori incoronata! (da Narciso parla)
- Estate, roccia d'aria pura, e tu, ardente alveare, | o mare!
Sparso ovunque in mille mosche sopra | i cespi di una carne fresca come
una brocca, | e fino nella bocca dove ronza l'azzurro, || e, casa
ardente, Spazio, caro Spazio tranquillo, | dove l'albero fuma e perde
qualche uccello, | ed infinitamente vi si rompe il rumore | del mare, e
del moto e delle turbe d'acque, || conche d'odori, grandi cerchi delle
felici | stirpi sul golfo che corrode e che ascende al sole, | nidi
puri, cascate d'erbe, ombre d'onde cave, | cullate la fanciulla immersa
in un fondo sonno. (da Estate)
- Anna che in bianco drappo si avvolge e abbandona | i dormenti
capelli sugli occhi male aperti, | contempla le sue braccia mollemente
adagiate | sulla pelle incolore del ventre discoperto. || Ella vuota,
ella riempie d'ombra il suo petto lento, | e come un ricordo che preme
le sue carni, | una bocca spezzata e piena d'acqua ardente | svolge il
sapore immenso ed il riflesso dei mari. || Alfine in abbandono, libera
d'esser nuova, | l'addormentata sola dall'ombre colorate | fluttua sul
grigio letto e con un labbro riarso | nella tenebra sugge un soffio
amaro di fiore. || E sul lenzuolo dove increspa l'alba insensibile, |
cade, d'un braccio gelido sfiorato di carminio, | la rilassata mano cui
sfugge la delizia | tra le sue dita ignude spogliate dall'umano. (da Anna)
- E m'abbandono all'adorabile corso: leggere,
vivere dove conducono le parole. La loro apparizione è scritta; le loro
sonorità concertate. Il loro agitarsi si compone, seguendo un'anteriore
meditazione, ed esse si precipiteranno in magnifici gruppi o pure,
nella risonanza. Gli stessi miei stupori sono fissati; essi sono celati
in anticipo e fanno parte del numero.
MOSSO dalla scrittura
fatale, e se il metro sempre futuro incatena senza ritorno la mia
memoria, io risento ogni parola in tutta la sua forza, per averla
infinitamente attesa. Questa misura che mi trasporta e che io coloro, mi
protegge dal vero e dal falso. Né il dubbio mi divide né la ragione mi
affatica. Nessun caso, ma soltanto una sorte felice si fortifica. Io
trovo senza sforzo il linguaggio di questa felicità;
e artificiosamente penso un pensiero tutto certo, meravigliosamente
preveggente, dalle pause calcolate, senza tenebre involontarie, il cui
moto mi domina e la quantità mi colma: un pensiero eccezionalmente
compiuto. (da L'amatore dei poemi)
Cattivi pensieri
- Il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà.
- A volte penso, a volte sono.
- Ogni mente è plasmata dalle esperienze più banali.
- Ogni pensiero costituisce un'eccezione a una regola generale: quella di non pensare.
- Giudica le intelligenze facendo attenzione a dove mirano.
- Le idee hanno un valore puramente transitivo.
- Abbiate timore di ciò che avreste potuto pensare.
- La maggior parte degli uomini ignora tutto ciò che non ha nome; e la maggiora parte crede all'esistenza di tutto ciò che ha un nome.
- L'animale messo nella situazione critica, quella in cui i suoi automatismi d'azione non funzionano più, tende verso il pensiero.
- Un uomo è intelligente quando manifesta una certe indipendenza dalla comuni aspettative.
- L'intelligenza fa di nulla qualcosa, e fa di qualcosa nulla.
- Proseguire, perseguire qualcosa significa lottare contro ogni cosa.
- Non c'è nessuna profondità che sia in relazione con qualche infinito.
- Ogni perché implica molte cose che bisogna guardarsi bene dal porre dopo di esso.
- La retina rende tutto contemporaneo.
- La coscienza regna e non governa.
- Con le etichette delle bottiglie non ci si ubriaca né ci si disseta.
- Il bisogno del nuovo è indice di stanchezza o di fragilità della mente, che reclama ciò che le manca. Non c'è nulla, infatti, che non sia nuovo.
- L'uomo porta su di sé la propria morte come un segreto, un tesoro nascosto, un
pegno certo della fine di ogni cosa- un nulla, che riassume il tutto.
- Senza saperlo, l'uomo scommette quasi tutto il tempo della sua vita
che nei dieci minuti o dieci secondi successivi non sarà fulminato.
- Quello che non si fa; quel che non si farebbe mai- è questo a deliniare la nostra figura.
- Non ci si riconosce nelle proprie emozioni. Nulla di più estraneo-di ostile, anzi.
- Ciò che si è, è sempre un po' di quel che si è stati, e un po' di quel che non si è stati.
- Soffrire è vivere senza poter vivere; è anzi... essere vissuto da...
- Chi pensa- si osserva in ciò che non è.
- Se la vita fosse tutta delizie,/ se la vita fosse tutta tortura,/ non esisterebbe più da un bel po' di tempo.
- L'assoluto dell'amore si riconosce dall'inquietudine di chi ama.
- Felicità: l'arma più crudele nelle mani del tempo.
- La vanità non è altro che l'esser sensibili alla eventuale opinione degli alri su di noi. L'orgoglio nell'essere insensibili ad essa.
- Quel che dici può dire più di quanto tu creda- se chi ti ascolta è più di quanto tu credi che sia.
- Se pensi come la maggioranza, il tuo pensiero diventa superfluo.
- Gli essere sensibili non hanno voce potente, o meglio non gridano. Più quel che dicono li tocca, più l'abbassano.
- Tutto quel che dici parla di te: in particolar modo quando parli di un altro.
- È buona cosa apparire brutti in uno specchio deformato.
- Amare, ammirare, adorare hanno come indice della loro verità i segni negativi del potere di esprimersi.
- Chi non ha le nostre stesse ripugnanze ci ripugna.
- È meglio non essere nulla che essere inferiore.
- Quel che ci colpisce nei giudizi espressi su di noi è l'inevitabile
semplificazione che ogni giudizio comporta per poter essere formulato.
- Non affrontate i vostri nemici. Non fatene degli avversari -ovvero, degli eguali.
- Il domani è forse per noi come la fascinazione della fiamma per l'insetto.
- Che il presente invece lo sia per me. (LexMat)
- La morte è scrutata solo da occhi viventi.
- Un uomo serio ha poche idee. Un uomo con molte idee non è mai serio.
- Il vero coraggio è la quantità di simulazione disponibile.
- Se il Bene, invece che estraneo, incomprensibile, un altrui
capriccio, ci apparisse nostro, espressione di ciò che vogliamo
profondamente, non ci sarebbe alcun merito ad obbedirgli, poiché non vi
sarebbe alcuna amarezza.
- Quando arriviamo allo scopo, crediamo che la strada sia stata quella giusta.
- Essere umani vuol dire sentire vagamente che c'è in ognuno qualcosa di tutti e in tutti qualcosa di ognuno.
- La verità è nuda, ma sotto il nudo c'è lo scorticato.
- Il semplice è sempre falso. Ciò che non lo è, è inutilizzabile.
- Quale gioiello della vita, quale adamantino momento varrà mai il dolore che può causare la sua perdita?
- La speranza vede il punto debole delle cose.
- Ogni emozione, ogni sentimento mette in rilievo un difetto di adattamento.
- Le qualità eminenti dell'intelligenza si esercitano a spese del reale.
- Il reale è solo un caso particolare.
- Ci sono cose che si possono esprimere solo in una ganga di sciocchezze, con delle assurdità, delle contraddizioni. Sventura vuole che siano le più preziose.
- L'uomo può creare solo a spese della Creazione.
- Chi vuole imporre le proprie idee non crede abbastanza nel loro valore.
- Ciò che ci manca, ciò che ci ferisce ci individua.
- I pensieri che uno serba per sé si perdono.
- Non sei forse l'avvenire di tutti i ricordi che sono in te?
- Una persona non è altro che risposte ad una quantità di avvenimenti impersonali.
- Di "universale" c'è soltanto ciò che è abbastanza grossolano per esserlo.
- Ciò che è sempre nella mente quasi mai è nelle labbra.
- Un'opinione è una scelta che facciamo conoscendo solo una parte delle cose e supponendo di vederne la totalità e tutte le conseguenze.
- L'"individuo" è un errore sulle condizioni della vita. Per la vita non ci sono individui.
- La brava gente augura, senza saperlo, tutto il male possibile al "cattivo soggetto".
- L'umanità è una somma di inumani [...] senza altri un uomo non è un uomo.
- Gli autori si pongono molto raramente la domanda: che interesse può avere per un lettore la frase che ho appena scritto?
- L'opinione media non conta.
- Un capo è un uomo che ha bisogno degli altri.
- La "civilizzazione" è prospettiva.
- La vita perde in velocità ciò che guadagna in varietà, in complessità, in conservazione.
- Se vuoi vivere, vuoi anche morire; oppure non capisci che cos'è la vita.
- Proverbio per i potenti: se qualcuno ti lecca le scarpe, mettigli il piede addosso prima che incominci a morderti.
- Una donna intelligente è una donna con la quale uno può essere stupido quanto vuole.
Il sorriso della Gioconda
- Il pittore dispone su una superficie piana determinati impasti, le
cui linee di separazione, gli spessori, le fusioni e contrasti, gli
servono per esprimersi. Lo spettatore vi scorge soltanto un'immagine più
o meno fedele di carni, gesti e paesaggi, come attraverso la finestra
del muro d'un museo. Il quadro è giudicato in base allo stesso spirito
con cui si giudica la realtà.
- Credo che il metodo più sicuro per giudicare un quadro, sia quello
di non riconoscervi, in principio, nulla, e di fare successivamente
tutta la serie d'induzioni imposta da una presenza simultanea di macchie
di colore in metafora, di supposizione in supposizione, la comprensione
del soggetto, e talvolta solo la consapevolezza del piacere,
consapevolezza che non sempre si ha inizialmente.
- Quel sorriso [della Gioconda] è sepolto sotto una massa di vocaboli, e scompare fra innumerevoli paragrafi che cominciano col dichiararlo inquietante finendo poi in una descrizione d'animo generalmente vaga. Esso meriterebbe tuttavia studi meno inebrianti. Leonardo
non si serviva affatto di osservazioni inesatte e di segni arbitrari:
se così fosse, la Gioconda non sarebbe mai stata eseguita. Egli era
guidato da un'indefessa capacità di discernimento.
- Una teoria non vale che per i suoi sviluppi, logici e sperimentali.
[Paul Valéry, Varietà, a cura di Stefano Agosti; citato in La Fiera Letteraria, n. 40, 14 novembre 1971]
L'idea fissa
Incipit
Ero in preda a grandi tormenti; certi pensieri acutissimi e attivissimi mi guastavano tutto il resto della mente e del mondo.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
Citazioni
- Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia.
- Un'idea è un cambiamento.
- Come si fa a pretendere che il Tutto sia rappresentato da
un'immagine o da un'idea qualunque? Il Tutto non può avere figure
consimili.
- Ogni concetto è un espediente.
- Altri così facendo, immaginano di avvicinarsi a... ciò che essi sono, a costo di una concentrazione e di una sorta di... negazione esteriore assai penosa.
- La nostra speranza è che il nuovo assomigli a ciò che già conosciamo almeno quel tanto da poterlo comprendere.
- Il cinema è falso tramite il vero.
- valori Il problema principale del sistema che pensa è la valutazione.
- "Perché non vuole accettare ciò che esiste?" "Perché significherebbe non accettare più di esistere".
- "Morti di che?" "D'essere nati..."
- Se noi capissimo gli altri, non potremmo più capire noi stessi.
- La vita oggi somiglia a un accidente... che si è dato delle leggi.
- Un uomo non è nulla finché non qualcosa non trae da lui degli effetti o delle produzioni che lo sorprendono.
- In ogni istante coincido con ciò che tendo a percepire. Ognuno di
noi, insomma, a un dato momento della sua vita è un sistema... virtuale
di attrazioni e repulsioni, nonché di... presentimenti di potenza e di
resistenza. Ma questa distribuzione varia col tempo.
- Non c'è alcun motivo per cui un essere vivente possa arrivare a rappresentarsi la vita.
- "Il fatto è che la nostra previsione di noi stessi è estremamente incerta..." "Probabilmente perché non esiste un Noi stessi al di fuori... dell'istante..."
- Se il valore di una cosa viene fatto dipendere dall'effetto di
sorpresa che è in grado di produrre, si arriverà a definire quella cosa
solo attraverso il suo valore di choc...
- Il misticismo è presente ogni volta che facciamo qualcosa di diverso dal... ripeterci!
- Il nostro mondo è circoscritto dall'insiemo combinato delle nostre percezioni e dei nostri atti.
Tel Quel
- La politica è l'arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda.
- Fra due parole bisogna scegliere la minore.
- Un uomo tirava a sorte tutte le sue decisioni. Non gli capitò maggior male che a quelli che riflettono.
Variété
- Definire il Bello è facile: è ciò che fa disperare.
- L'Europa diventerà quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?
- La storia è la scienza delle cose che non si ripetono. (IV)
Incipit di alcune opere
Il cimitero marino
Questo tetto tranquillo, passeggio di colombe,
palpita tra i pinastri, tra le tombe.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
Monsieur Teste
La stupidità non è il mio forte.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
Citazioni su Paul Valéry
- Come teorico Valéry è andato troppo avanti per poter essere seguito; è andato avanti per conto suo, e questo non è progresso. (Mario Picchi)
- Esponente di una cultura raffinata, attraverso Gide e Claudel aveva le sue radici in Mallarmé,
Valéry portò la parola alle estreme possibilità espressive con un
rigore che trova pochi esempi nelle poetiche del secolo. Il giudizio di Emilio Cecchi, "il maggior lirico francese dopo Baudelaire", non trova più riscontro nella realtà. (Mario Picchi)
- Fa a volte bei versi, ma li fabbrica con la macchina
dell'intelletto... Ma anche l'intelletto suo è disorganico,
frammentario. È un dilettante dell'intelligenza. (Benedetto Croce)
- Il maggior lirico francese dopo Baudelaire. (Emilio Cecchi)
- Valéry è stato oggetto di ammirazione per molti; è stato per molti
un faro che, in una zona di frontiera, al limite del noto e dello
ignoto, si sforzava di mandare la sua luce anche laddove non c'era nulla
da illuminare. (Mario Picchi)
Da "
http://rebstein.wordpress.com/2009/05/16/elogio-della-lentezza-paul-valery-e-la-forma-della-poesia-di-giuseppe-panella/" :
Elogio della lentezza. Paul Valéry e la forma della poesia
di Giuseppe Panella
«La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più
lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma
di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima
dell’azione.»
(
Fredrich Nietzsche,
Umano, troppo umano, I)
1. La soluzione etica della poesia
Fedele ammiratore della snella levigatezza della danza, Valéry teme
la fretta e la concitazione della corsa, ha timore della frenesia
concatenata alla perdita di sensibilità del moto senza tregua.
Più che dal vuoto (
1), appare atterrito dal
movimento infinito e senza senso che incontra ad ogni pie’ sospinto: il
rifiuto di “ogni prodigioso incremento di fatti e di ipotesi” (
2) compare in quasi tutte le sue opere. Basteranno alcuni
specimina a dimostrarlo:
« – Vuole dire che più si trova, più si cerca; e che più si cerca, più si trova?
- Esatto. Certe volte mi sembra che fra la ricerca e la scoperta si
sia formata una relazione paragonabile a quella che i stabilisce fra la
droga e l’intossicato.
– Molto curioso. E allora tutta la trasformazione moderna del mondo…
– Ne è il risultato; e ne rappresenta, del resto, un altro aspetto …
Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza.
Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più
“avanzato”, che si manifesta in politica, in arte, e … nei costumi» (3).
L’idea fissa, dialogo tra il Narratore ed un medico, è del 1931 (
4) mentre in quella raccolta di
études de circonstance che è il volume
Regards sur le monde actuel
(1945) spicca proprio un articolo, “Propos sur le progres”, che insiste
sul carattere “terroristico” della velocità e della fretta.
Consapevole del fatto che la nozione di progresso come evento
positivo e la sua negazione come “nuova barbarie” siano entrambi luoghi
comuni, Valéry ritiene il progresso e la morte inestricabilmente
connessi. In un passo che sembra anticipare Theodor Wiesengrund-Adorno
nei
Minima Moralia (
5), l’atteggiamento
astorico della velocità del cambiamento viene coniugato con la
consapevolezza (che ad esso è collegata) della sicura caducità del
mondo:
«L’un des effets les plus sûrs et les plus cruels du
progrès est donc d’ajouter à la mort une peine accessoire, qui va
s’aggravant d’elle-même à mesure que s’accuse et se précipite la
révolution des coutumes et des idées. Ce n’était pas assez que de périr;
il faut devenir inintelligibles, presque ridicules; et que l’on ait été
Racine ou Bossuet, prendre place auprès des bizarres figures bariolées,
tatouées, exposées aux sourires et quelque peu effrayantes, qui
s’alignent dans les galeries et se raccordent insensiblement aux
représentants naturalisés de la série animale» (6).
Se il progresso come tale implica la sempre più veloce erosione del
passato, se la capacità di consumo della bellezza diventa sempre più
elevata e l’illeggibilità del mondo una consuetudine, è anche vero che
la sintesi che l’impetuoso sviluppo produttivo delle risorse disponibili
impone serve ad unificare ciò che apparentemente sembrerebbero quantità
inconciliabili :
potenza e
precisione (
7).
Il discorso finora abbozzato non deve servire soltanto a mostrare un
aspetto del Valéry polemista, analizzatore delle vicende a lui
contemporanee e partecipe in misura critica di modificazioni che non
sempre arriva ad accettare (anche se si tratta pur sempre di una
sfaccettatura della produzione valéryana che non sempre è stata tenuta
nel giusto conto (
8), sacrificandola alla retorica del “puro canto dell’ Io” e del “linguaggio più puro della tribù” (
9)).
L’azione poetica consiste sempre per il poeta autentico in lente
progressioni, in circonvoluzioni avvolgenti, in avvicinamenti
circospetti e, tuttavia, ambiziosi:
Valéry vuole sempre giungere alla totalità e alla totalità sacrifica la possibilità, permettendo ad essa di rifluire in quella, coinvolgendole entrambe nella stessa dinamicità.
La verità si coglie attraverso la linea serpentina della bellezza (
10), la “lunga impazienza” (
11) durante la quale si tessono “i leggerissimi sistemi” della creazione artistica (
12), non certo mediante la malia ansiosa della
facilité. Artefici sono ragni e serpenti, platani e palme, filatrici e ballerine (
13).
I poeti sono rigorosi costruttori di improbabilità, coloro che sanno procedere per paragoni e analogie (
14), coloro la cui intelligenza si rivela
dans un ordre insensé (
15), coloro che sanno improvvisare senza smettere di pianificare o di pensare.
Il fare poetico coincide con il pensiero e l’intelletto si palesa
come poesia. Per questo motivo, le immagini della poesia coincidono con
quelle della mente e le parole non possono che essere subordinate ad
esse.
Ha scritto Chateaubriand che “si dipinge bene il proprio cuore soltanto attribuendolo a un altro” (
Memorie d’oltretomba). Il proposito di Valéry, tuttavia, pur essendo simile a quello dello scrittore romantico, sembra quello di sostituire
coeur con
cerveau (
16) e, soprattutto, di attribuire al proprio tutti i cervelli altrui possibili.
Il suo punto di partenza è sempre quello con cui si chiude la narrazione della vita intellettuale di Monsieur Teste:
«Si tratta di passare da zero a zero. – E’ la vita –
Dall’incosciente e dall’insensibile all’incoscienza ed
all’insensibilità. Passaggio impossibile a vedersi, poiché esso passa
dal vedere al non vedere dopo esser passato dal non vedere al vedere. Il
vedere non è l’essere, il vedere implica l’essere» (17).
Da ciò si può intravedere, allora, l’importanza del progresso
étonnant [...]
que a fait la lumière (
18),
la fondamentale necessità della visione netta e precisa per la
composizione ed il tratto, l’amore mai sopito per “la precisione” e “la
certezza” che emanano dalle figure delle ballerine (
19).
Il passaggio dallo zero allo zero non è la fine o la cancellazione
totale della visione, come, a prima vista, si potrebbe intendere (oppure
mera eco del Descartes della
Diottrica (
20)
), ma una sua estensione, la sicurezza che il vuoto del visibile aiuti o
annunzi il di più che viene colto e conosciuto mediante l’atto della
visione:
«Étrange pouvoir de l’absence! – Plus je te forme et te
ressens, plus je souffre – Plus je suis maître de ton image, plus
esclave de celle-ci; et plus elle est vrai, plus est vaine» (21).
L’assenza, il vuoto, la mancanza non sono gli aspetti negativi della
visione, ciò che la rendono impossibile; sono, invece, ciò che la
sostanza visibile mostra di sé insieme a quello che viene veduto. Così
l’apparente mancanza di sforzo delle ballerine dei quadri di Degas
mostra ciò che nasconde mentre rivela la fatica aerea del rimanere
sempre in movimento e mai poter riposare – ciò che per Socrate accomuna
lo spirito alla danza.
Allo stesso modo, “il male dell’attività ” che coglie il dottore in
L’idea fissa è reso per simulazione:
«Riassumendo, appena mi sento assegnare un’ora, un luogo,
un atteggiamento del corpo o dello spirito ai fini dello svago, tutto
il mio essere protesta: sbadiglia, fugge… Mi metto a pensare agli affari
miei, ai miei malati, al mio mestiere, a una cosa qualsiasi…» (22).
Il dottore “simula” di perdere tempo per non doverlo fare per davvero
(ha detto precedentemente di dormire a teatro, di essere esasperato al
cinema, di stancarsi viaggiando, di trovare insopportabili i romanzi) (
23);
in questa modo, si stanca artificialmente quando non può farlo sul
serio. Lo stesso avviene per l’attività artistica dove lo sforzo della
creazione non può essere rivelato se non nel momento in cui è già in
atto. La costruzione compiuta, solo apparentemente ricoperta dal fascino
della facilità dell’invenzione, si rivela alla visione come assenza e,
contemporaneamente, come affermazione di ciò che comporta in termini di
sforzo e fatica.
La danza, come la poesia, emerge attraverso il suo prevalere
sull’assenza e per la prepotenza della sua tensione ideale rispetto al
vuoto che caratterizza la massima tra le mancanze: la vita. La danza
(ancora come la poesia) costruisce su un vuoto (che è quello della vita
ordinaria) la sua piramide di esaltazione e di ebbrezza:
«Fedro. Ma da parte mia, Socrate, la
contemplazione della ballerina quante cose mi rende concepibili, e
quanti legami di cose che sul momento si mutano nel mio proprio pensiero
e in qualche modo pensano in luogo di Fedro. Sorprendo in me bagliori
che non avrei per nulla ottenuto dall’unica e sola presenza della mia
anima» (24).
Ma la poesia (come la danza) non è soltanto esaltazione; è, al fondo dell’azione creativa, riflessione, consolidamento, destino.
In una parola, produzione consapevole a partire dalla capacità di
costruzione del nesso (o di nessi plurimi, possibili) tra parola e
sensazione, tra idea e sua trasformazione in opera. Valéry sintetizza
questo procedimento, arricchendolo delle sue valenze
deduttivo-epistemologiche, in un neologismo: l’
implexe (
25).
« [...] l’ Implesso non è attività. Tutto il contrario. E’ capacità.
La nostra capacità di sentire, reagire, fare, comprendere –
individuale, variabile, più o meno percepita da noi –, e sempre in
maniera imperfetta, e sotto forme indirette (come la sensazione di
fatica), spesso ingannevoli. A ciò bisogna aggiungere la nostra capacità
di resistenza … [...] Riassumendo, intendo per Implesso ciò in cui e per cui siamo eventuali … Noi, in generale; e Noi, in particolare …» (26).
Eventualità coincide con possibilità e, inevitabilmente, con opportunità. L’
Implesso non solo individua ciò che è necessario nel momento in cui lo è (
tropismo dell’
Implesso),
ma prova a trasformarlo in qualcosa che possa sempre essere attirato ed
utilizzato al momento giusto. La sua funzione produttiva, dunque,
diventa sostanzialmente gnoseologica portandosi al limite estremo della
conoscenza per afferrare quel “residuo nascosto” che è il margine delle
possibili verifiche alla sua operatività. L’
Implesso valéryano rende possibili conoscenze che altrimenti, in quello stesso momento, tenderebbero a rendersi a loro volta
méconnaissables.
La ragion d’essere dell’
implexe è, dunque, tutta nella sua capacità di sviluppare le potenzialità (espresse o inespresse che siano).
«L’Implesso, infatti, è definito come una memoria
potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica,
legata cioè ai ricordi personali [...]. Poiché il passato ha valore solo
come elemento d’avvenire, le reliquie della vita vissuta sono del tutto
prive d’interesse: per Valéry, ciò che conta davvero è l’eventuale,
l’implicito. Ed è per questo che il rifiuto della sensibilità, avviato
nel 1892 e realizzato sia in Teste sia in Gladiator con la sostituzione
di un essere puro ad un essere storico, si attuerà pienamente in
Napoleone, l’individuo sovrastorico padrone del futuro» (27).
Per la sua capacità di “secernere il domani” (
28),
nel suo abbandono pieno ed incondizionato al “male dell’attività”,
Napoleone viene rappresentato da Valéry come il modello dell’uomo
moderno, che non vive se non nell’anticipazione del futuro, attraverso
il presente, non ponendosi il problema del passato. La sua figura
attraversa continuamente la ragnatela dei rapporti che produce e, pur
essendo sempre presente nell’insieme delle relazioni che senza di lui
non potrebbero essere, non si risolve completamente in essi. In ciò è
singolarmente vicino all’esperienza (spirituale e corporea insieme – di
fusione totale, quindi) che la danza trasmette e produce. Come continua
Valéry :
«– [...] Dottore, sa che Napoleone ne ha dato una definizione splendida?
– Ancora Napoleone?
– Ogni tanto. D’altronde è il modello dell’uomo moderno, dell’uomo
che ha perduto il tempo, visto che non sapeva perdere il proprio.
- E cosa ha detto Napoleone?
- Un giorno, in una lettera, ha scritto: “Io vivo sempre due anni in anticipo”. Per quest’uomo il presente non esisteva.
[...]
- [...] si tratta di sapere cosa dia la sensazione di vivere di più, se la presenza estrema …dell’istante, o la presenza estrema … del possibile» (29).
La danza, in misura maggiore delle altre attività artistiche
dell’uomo, concede questa sensazione “estrema del possibile”. In nome
della vita che sempre vuole rinnovarsi per poter ritrovare se stessa,
“misterioso moto che col giro d’ogni evento mi trasforma senza tregua in
me stesso” (
30), la danza partecipa della realtà e,
nello stesso tempo, se ne distacca serenamente ed aerodinamicamente per
ritornarvi poi ed essere restituita alla terra.
Tra danza e vita esiste un rapporto lieve, fatto di una rassomiglianza impalpabile, eppure immediatamente riconoscibile:
«La vita è una donna che danza – dice Socrate ad Erissimaco, nel dialogo L’anima e la danza
– e che finirebbe divinamente d’esser donna se lo slancio che la
solleva, potesse lei obbedirvi sino alle nuvole. Ma come noi non
possiamo andare all’infinito, né in sogno né in veglia, egualmente lei
torna sempre se stessa: termina d’esser piuma, uccello, idea, e insomma
ogni cosa in cui al flauto piacque di tramutarla, in quanto la terra
medesima che la respinse ora la richiama e la restituisce anelante
all’indole sua di donna e all’amato» (31).
La
figura di questa esperienza al limite può essere
individuata in quel geniale repertorio della danza e delle sue artefici
mirabili che costituisce l’opera pittorica di Degas (
32) e la sua
ratio sistematica nel volumetto che Valéry dedicò al grande pittore parigino (
33).
Ma prima di passare ad esaminare le ragioni estetiche dell’
implexe
e della loro comunicabilità attraverso un’esperienza artistica che
sembra raggiungere la propria acme in una sorta di velocissima
immobilità figurale, sarà opportuno interrogare le ragioni etiche che
spingono Valéry a subordinare la fretta ed il parossismo della velocità
contemporanea alla lentezza delle “secrezioni” delle possibilità.
E’ indubbio che, per Valéry, esista una specie di “imperativo
categorico” dell’estetica e del fare poetico senza del quale non sarebbe
possibile creare o, per lo meno, aspirare a pro-durre arte e
letteratura. Tale necessità “imperativa” impedisce di negare, da un
punto di vista esclusivamente estetico, la fatica e la pesantezza della
costruzione di ogni opera d’arte ed esperimenta l’esistenza di un
ostacolo di natura etica, il quale, come avviene spesso nella sfera
delle opzioni morali, nasce da una scelta opposta a quella del
simpatetico aderire alle flessuose curvature dell’esistenza.
La bellezza della ballerina (sempre in movimento, apparentemente
senza fatica, nella sospensione dell’attimo della felicità estatica) si
contrappone alla volontà e alla scelta della vita come rottura
dell’equilibrio creato da quell’attimo, come mossa volontaria che
rimette in volo la freccia ferma della conoscenza.
La
scoperta della lentezza annulla l’
idea fissa
della continua attività come auto-realizzazione così come la
comprensione della suprema armonia dell’accordatura del mondo annulla la
necessità di un continuo moto atto e ostinato nell’intento di poterla
raggiungere.
Lentezza e perfezione si sposano in una ininterrotta attesa
dell’opportunità del possibile, nella paziente ricerca della zona di
confine e del margine adeguato a far transitare il noto nell’ignoro, la
vita nell’arte, la scelta di essere sempre e comunque al posto di quella
di sprofondare nel suo oblio naturale.
2. Rimanere pur sempre in gioco : nonostante Zenone
Maria Teresa Giaveri traduce il celebre secondo emistichio del primo verso della strofa XXIV del
Cimetière marin con
bisogna tentare di vivere!; Manlio Dazzi, invece, volge lo stesso verso in
Tentiamo di vivere!; Beniamino Dal Fabbro, ancora, spezza l’emistichio in due ulteriori tronconi con
Bisogna tentare di vivere!. Infine, Mario Tutino, nella sua traduzione del 1963, scrive:
E di nuovo, la vita! (
34).
Non si tratta qui di dare torto o ragione o compilare le pagelle di
merito per alcuno degli interpreti di un testo stilisticamente e
linguisticamente così arduo : tutti coloro che si sono cimentati con Il
cimitero marino (comunque si siano prodigati a risolvere gli enormi
problemi di resa testuale che gli si ponevano dinnanzi) hanno dato di
questo verso cruciale per tutta la poesia del Novecento
un’interpretazione apparentemente simile, sicuramente corretta
sintatticamente, ma pur sempre diversa da un punto di vista grammaticale
(
35).
Dall’enunciato imperativo della traduzione Dal Fabbro (
Bisogna tentare…) all’esortazione morale di Dazzi (
Tentiamo di vivere) all’enigma gnoseologico proposto da Tutino (
E di nuovo, la vita!)
alla costruzione di un programma esistenziale nel bel calco, sobrio e
liricamente più efficace, della Giaveri (e non è poi il caso di
proseguire con l’esame di tutti gli altri traduttori del
Cimetière marin, perché sono ancora legione), tutti i dettati delle traduzioni lette concordano su un punto.
L’appello alla vita intesa come slancio e come rifiuto delle “pagine
del libro” non è proponibile in termini di programma etico, ma va
ridotto a “tentazione” della soggettività, di quell‘ Io che rifiuta
l’esatto in nome del confuso e variegato mondo mortale.
La proposta etica di Valéry è diversa, anche se parrebbe confondersi
con l’empito vitalistico dell’ufficiale di marina che trascorre,
insaziato, il mare aperto alla ricerca consapevole di ciò di cui ancora
non ha consapevolezza.
Il
Vivere dobbiamo del
Cimetière non ha nulla a che vedere con il
navigare necesse est, non vivere
della tradizione di Ulisse e non comporta neppure l’ossequio a quella
tradizione umanistica della ricerca che si fa un merito di aver portato
il proprio cervello al di là dell’ostacolo.
Per Valéry, non si tratta tanto di scoprire, quanto di trovare. E
ogni invenzione si può paragonare ad una produzione, è, in realtà, una
forma di produzione. Si trova, solitamente, ciò che si sa già come
cercare e si cerca quello che è consueto, prevedibile e previsto, già
atteso.
Non si attende ciò che non si saprebbe definire, ciò cui non si saprebbe dare forma.
Nel verso di Valéry, esortazione e descrizione si giustappongono
nell’emissione della massima, nella serena mancanza di difficoltà
dell’apodissi (
36).
Non solo traduzione, tuttavia, quanto conclusione, cercata con
l’aiuto della tradizione, proposta sulla base di una necessità : quella
di rimettere in moto il meccanismo della vita stratificato, congelato,
irretito dalla dinamica stagnante del paradosso insoluto che si
trasforma in rompicapo e via senza uscita.
La “necessità” del vivere non nasce dall’elogio della dimensione
ludica dell’esistere né dallo sfogo vitalistico di anti-intellettualismo
quanto da una forma superiore di sapere, da una capacità più alta di
conciliare il paradosso dell’essere e del pensare, del sapersi destinato
ad una sapienza imprecisa ed inseguirla costantemente.
L’infedeltà del sapere è quello che costringe Monsieur Teste alla sua continua ricerca di verità concettuali. Negli
Estratti del giornale di bordo del signor Teste, infatti, si può leggere:
«Quel che io vedo mi accieca. Quel che odo mi assorda.
Ciò che io so mi rende ignorante. Io ignoro in quanto e per quanto io
so. Questa illuminazione davanti a me è una benda e copre una notte o
una luce più … Più che cosa? Qui si chiude il cerchio d’uno strano
capovolgimento: la conoscenza come nebbia sull’essere; il mondo
illuminato quale macchia della vista ed opacità. Togliete tutto affinché
ci possa vedere» (37).
E ancora, più avanti, con accenti socratici, ma senza lo stesso
pathos platonico della Ricerca della Verità:
«Quel che io porto d’ignoto a me mi rende me stesso. Quel
che io ho di inabile, d’incerto è pure me stesso. La mia debolezza, la
mia fragilità… Le lacune sono la mia base di partenza. La mia impotenza è
la mia origine. La mia forza viene da voi. Il mio moto va dalla mia
debolezza verso la mia forza. [...] Se io ne sapessi di più, forse,
invece di questo caso, vedrei una necessità. Ma vedere tale necessità è
già cosa distinta … Ciò che mi spinge non è me» (38).
La percentuale d’impossibilità del signor Teste è la prova della sua
esistenza. Teste è un paradosso e, come tale, non può essere superato se
non a livello superiore, attraverso uno scatto metafisico. Per
scavalcare Teste e andare otre d lui,
occorre vivere.
Il cimitero marino è la risposta necessaria ai dubbi del signor Teste. Risposta oltremodo problematica, d’altronde. Il problema
fondamentale di Teste, infatti, è:
«Che cosa può l’uomo? Io combatto tutto – tranne le
sofferenze del mio corpo, oltre una certa dimensione. Proprio di lì
tuttavia dovrei cominciare ad affondare in me stesso. Perché soffrire
significa dare a qualcosa un’attenzione suprema, ed io sono un po’
l’uomo dell’attenzione [...] Chi mi parla, se non mi prova qualcosa, è
un nemico. Preferisco il rilievo del più piccolo fatto accaduto. Io sto
esistendo e sto vedendomi; sto vedendomi vedere e così di seguito …
Pensiamo con precisione. Ci si addormenta su qualsiasi argomento… Il
sonno continua qualsiasi idea …» (39).
La risposta di Valéry al suo
self fittizio arriverà molti
anni dopo e solo per contrasto con la fuggente e nostalgica malia del
serpente che avvolge con le sue spire il mondo incontaminato della
Jeune Parque.
Il cimitero marino nasce dall’attrazione mai repressa in
Valéry per una poesia di immagini e di azioni (non di parole o di
atteggiamenti psicologicamente astratti o stereotipati), per una lirica
che non sia pura espansione di uno stato d’animo, ma riflessione e
risposta al
suo problema.
Nonostante l’accusa di
cliché (
40) (e
nonostante la conferma un po’ ironica dello stesso poeta già nelle
lettere degli anni Quaranta), continuo a credere che l’ultima strofa
dell’ode sia
effettivamente la conclusione di una ricerca non solo poetica.
Il “bisogna pur vivere” della poesia di Sète non serve soltanto a
chiudere definitivamente il “libro” (con tutte le suggestioni che l’idea
del Libro potrebbe suscitare nel lettore dell’ultimo Mallarmé), ma a
chiudere il conto con “il vero tarlo, il verme inconfutabile”, il quale
“vive di vita, e mai non mi lascia!” (
41); serve soprattutto a tacitare quel “dente segreto” (
42) che “vede, vuole, sogna, tocca!” (
43).
E’ qui che Valéry, non casualmente, esige di dare un nome possibile alla sua “assenza pregna” (
44), alla futura e “magra immortalità nera e dorata” (
45).
Il tarlo (o dente) segreto è quello del paradosso: Zenone prima,
Achille e la tartaruga poi compaiono come elementi di una serie cui non
si può mettere fine, se non troncandola.
Il principio di contraddizione che è alla base dei paradossi
temporali degli stoici (e che Valéry evoca poeticamente) non può essere
tolto perché i paradossi che lo esibiscono non ne partecipano
compiutamente. Nelle parole di Gilles Deleuze:
«La forza dei paradossi risiede in questo: non sono
contraddittori, ma ci fanno assistere alla genesi della contraddizione.
Il principio di contraddizione si applica al reale e al possibile, ma
non all’impossibile da cui deriva, cioè ai paradossi o, piuttosto, a ciò
che rappresentano i paradossi» (46).
I paradossi, solitamente, non possono essere risolti e ricondotti alla
doxa; possono essere superati solo in nome del buon senso o della
reductio ad absurdum.
Valéry evita il paradosso dello “spietato Zenone” (
47)
sulla base del buon senso e della dimostrazione pratica della sua
impossibilità (”Il suono mi dà vita e la freccia mi uccide” (
48)), ma non può che far ricorso ad una logica superiore per superare le insidie (”l’ombra di tartaruga per l’anima” (
49)) del secondo paradosso.
Il ricorso è all’ “era successiva” (
50), al superamento della “forma pensosa” (
51)
e l’approdo ad una conoscenza piena, che eviti la domanda di Monsieur
Teste sulla potenzialità e la trasformi in descrizione: la teoria dell’
Implesso, appunto, o la vasta, tenace, fittissima, incontrovertibile,
incorruttibile ragnatela dei
Cahiers (
52) o dei saggi raccolti nei diversi volumi di
Varieté.
Il paradosso scatta quando urge una forma superiore di conoscenza (è,
peraltro, questo uno degli insegnamenti maggiori di “maestri in
paradossi” quali Pascal o Kierkegaard che se ne sono costruiti
un’affilatissima arma dialettica).
Di fronte all’impossibilità di tener fede alla promessa di Monsieur
Teste o di seguire dettagliatamente il metodo appreso studiando l’opera
di Leonardo da Vinci (”mi propongo di immaginare un uomo di cui
sarebbero apparse azioni così distinte che se mi soffermo a supporre
dietro di esse un pensiero, non riesco a vederne di più estesi. E
impongo a lui un sentimento della differenza delle cose così vivo, che
le avventure di tale sentimento potrebbero benissimo denominarsi
analisi. Mi accorgo che ogni cosa lo orienta: è all’universo cui egli
costantemente pensa, e al rigore” (
53)), Valéry sceglie la strada della
composizione.
Anch’essa è un’altra vita da vivere, dopo quella dell’astrazione e
del paradosso. Ma non credo neppure che l’inserzione (seppure essa sia
stata animata da un sentimento di assoluta libertà) dei paradossi del
moto sia stato evento casuale o frutto di un movimento intellettuale
repentino (il caso dell’onda marina che scuote lo scafo della nave,
richiamato da Valéry stesso, è emblematico di un simile modo di pensare
comune): i due “falsi” modelli di moto sono il simbolo di ciò che
blocca, ferma, impedisce la vita e il pensiero in maniera definitiva e,
come tali, sono proprio “quello che l’uomo
non può” in quanto ne negano ogni potenzialità ed ogni opportunità costitutivamente.
“Tentare di vivere” significa, forse, ritornare a pensare la
totalità: con lentezza, con pazienza, con la convinzione che non si
raggiunge definitivamente l’obiettivo
se non costruendolo.
Anche di questo, tuttavia, consiste l’avventura estetica.
3. La scelta estetica : la poiesis
Valéry ha dedicato molte pagine in quasi tutti i suoi libri all’elogio della danza.
Lo ha fatto sia descrivendola direttamente, sia dedicandosi
all’analisi del pittore che ha legato il suo periodo migliore alla
rappresentazione delle sue forme plastiche, Edgar Degas (
54).
In
L’idea fissa, ad esempio, la danza è chiamata in causa
per giustificare la natura “funzionale” dell’idea e la sua necessità
“organizzativa”: la danza come simbolo dell’istantaneità della durata.
«E’ infinitamente più difficile sostenere qualcosa che
non affaticarsi spostandosi. La durata costa cara. Si direbbe che la
specializzazione prolungata ripugni al nostro sistema vivente. Ci
richiama energicamente allo stato di libera disponibilità… Per esempio,
Dottore, io soffro realmente nel vedere una ballerina che si alza
sull’alluce…» (55).
Lo scarto di sensibilità prodotto dal patire è reso necessario per
poter reggere appieno il peso della sofferenza: la ballerina con il suo
“dito che sorregge tutto il suo corpo” (
56) è simbolo
dell’instabilità dell‘”Implesso” e della sua capacità potenzialmente
restauratrice dell’equilibrio alterato dalla sofferenza o dallo sforzo.
La figura della ballerina che si spinge verso l’alto con la sola
forza della sua muscolatura e, nello stesso tempo, conserva la sua
eleganza e la sua flessuosità affascina Valéry sino a farne il segno
della poesia “autentica”.
La danza, secondo un celebre paragone di Malherbe, è simile alla
poesia mentre la marcia, invece, ricorda la prosa. La differenza più
marcata tra marcia e danza è data dall’apparente mancanza di scopo che
contraddistinguerebbe quest’ultima: marciare significa andare dritti
verso una meta, danzare significa cercare il proprio obiettivo in se
stessi.
Proprio questo sembra che facciano le ballerine avvitate intorno al
proprio corpo quando campeggiano al centro dei quadri di Degas.
Valéry ha scritto a proposito di Mallarmé e dell’attrazione che
provava per la sua poesia che uno degli aspetti che sempre lo avevano
affascinato maggiormente nel poeta parigino era il carattere di sfida
della sua scrittura poetica. L’esigenza intellettuale che la lettura dei
suoi poemi comportava era tale da renderne la “risoluzione istantanea”
pressoché impossibile, pur essendo consegnata ad uno stile cristallino.
«Chi non rifiutava i testi complessi di Mallarmé, si trovava costretto, inavvertitamente, a imparare di nuovo a leggere» (57).
Il rifiuto della facilità si sposava alla certezza di star componendo
qualcosa che sarebbe cresciuto come “una figura nel tempo” (
58) ed invitava alla sfida ed allo sforzo.
«Lo sforzo più splendido – scrive sempre Valéry – degli
umani è di mutare il loro disordine in ordine, e le probabilità in
potere ; questo è il vero prodigio. Mi piace chi è duro verso il proprio
genio» (59).
E conclude:
«Quanto a me, confesso che non afferro quasi nulla d’un libro che non mi opponga resistenza» (60).
Lo stesso avviene al poeta di Sète quando contempla le figure dipinte da Degas. Anch’egli, come Mallarmè,
«rifiutava la facilità, come rifiutava tutto quello che
non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri. Non sapeva augurarsi che
d’approvare se stesso, ossia d’accontentare il più difficile, il più
duro e incorruttibile dei giudici. [...] M’ero fatto di Degas l’idea di
un personaggio ridotto al rigore di un duro disegno: uno spartano, uno
stoico, un giansenista artista. Avevo scritto poco tempo prima la Serata col signor Teste,
e quel piccolo studio d’un ritratto immaginario, sebbene fatto di
notazioni e relazioni verificabili, precise quanto potei, non è escluso
che più o meno sia stato influenzato, come si dice, da un certo Degas
che mi figuravo» (61).
Degas è un altro dei personaggi “mitici” che fondano l’universo
poetico e teorico di Valéry, popolandolo con le loro aspirazioni alla
perfezione, con la loro ricerca incessante, con la loro volontà di
essere precisi fino all’annullamento del dubbio, con la loro capacità di
annullare l’ Io a favore dell’opera.
Il signor Teste racchiude molti di questi tratti eponimi, ma la
descrizione di Degas è forse quella che si avvicina di più all’ideale.
Proprio perché realizzata sulla figura di un uomo realmente esistito,
la trasformazione in sagoma mitica riesce più facilmente. Leonardo da
Vinci era troppo lontano nel tempo e troppo regolarmente e metodicamente
interpretato, smitizzato, anatomizzato, per non risultare l’insieme dei
diversi frammenti in cui la critica specializzata lo ha ridotto. L’
Introduzione al metodo non investe che di sfuggita il suo oggetto-Leonardo;
Degas Danza Disegno illumina pienamente l’ambito di lavoro e la ragion d’essere dell’opera di Degas.
Nessun compiacimento biografico, nessun bozzettismo, nessuna
tentazione al “ritratto in miniatura”: Degas si identifica con il tratto
ed il disegno e questi ultimi fanno quadrato insieme alla danza. La
danza rappresentata nei quadri di Degas, infatti, non è simbolo o
allegorica prefigurazione dell’essenza della vita; ne è, invece,
l’anima.
Per Valéry, infatti, la danza coincide con la forma più “nobile” di
entropia. La gioia, la collera, l’ansia, l’angoscia, lo stesso sforzo
del pensiero producono un dispendio di energia che non viene indirizzata
da nessuna parte, che si disperde nello spazio e non viene concentrata
nel tempo.
«Ma esiste una forma degna di nota d’un tale dispendio
delle nostre forze: consiste nell’ordinare o nell’organizzare i nostri
movimenti di dissipazione. Abbiamo detto che in questa sorta di
movimenti lo spazio non era che il luogo degli atti: esso non contiene
il loro oggetto. Adesso, è il tempo ad aver la parte maggiore. E’ il
tempo organico quale lo si ritrova nel regime di tutte le alterne
funzioni fondamentali della vita. Ciascuna d’esse s’effettua con un
ciclo d’atti muscolari che si riproduce, come se la conclusione o il
perfezionamento di ciascuno generasse l’impulso del seguente. Su tale
modello le nostre membra possono eseguire una serie di figure
che si concatenano le une alle altre, e la cui frequenza produce una
sorta d’ebbrezza che va dal languore al delirio, da una sorta
d’abbandono ipnotico a una sorta di furore. Lo stato di danza è creato» (62).
Non diversamente Socrate aveva descritto la forza del legame tra
danza ed oblio della condizione umana, tra divina esaltazione del gesto e
rifiuto della pesante staticità dei mortali.
Degas coglie la danza nel momento del distacco, quando tra
consapevolezza tecnica basata sulla conoscenza dei gesti e slancio verso
l’abbandono totale non c’è che un minimo diaframma.
Il disegno accurato e teso fino a cogliere il minimo particolare gli
permette di rappresentare nel “volo” delle ballerine, nei loro movimenti
aggraziati e spontaneamente costruiti, nel loro essere sempre
consapevoli della bellezza del loro gesto e contemporaneamente nel loro
essere sempre del tutto insoddisfatte di esso, il miracolo della
durata.
Lo sforzo, la fatica, il peso del corpo da sostenere durante l’azione
vengono annullate dai tratti del suo pennello e del suo carboncino in
nome di una simmetrica ripetizione di movimenti che partecipano
dell’incomprensibilità e del fascino della musica.
Degas è il grande pittore della musicalità: riesce a rendere con
tocchi pittorici ciò che gli strumenti permettono di ascoltare durante
la
performance del concerto.
Degas è il poeta della danza proprio perché è in grado di
rappresentarla senza scomporla, di mostrarla senza falsarne l’armonia,
di metterne in luce le potenzialità senza paralizzarla.
Per questo motivo, “il disegno non è la forma, ma la maniera di vedere la forma” (
63).
Questo assioma tanto caro a Degas (il quale lo considerava una sorta
di definizione generale del suo lavoro) potrebbe, nonostante le
differenze strutturali nell’attività artistica da descrivere, essere
utilizzato per mostrare la dimensione
poietica della poesia in Valéry.
L’arte nasce, infatti, dalla “produzione artificiale di uno stato
poetico”; ciò che la caratterizza e, in primo luogo, caratterizza la
poesia è la compresenza di
fare poetico e
farsi della poesia che procedono di pari passo realizzandosi attraverso quella strategia di caso e ferrea volontà che ne sono la sostanza.
«Che l’artista sia un giocatore che tenta la fortuna è
stato felicemente detto da Valéry, il quale proprio perché accentua il
“calcolo” può concedere tanto posto al “caso”; e che l’artista sia in
fondo soltanto spettatore della propria opera è sostanzialmente idea,
certo meno felice, di Alain» (64).
Ma proprio nel caso dell’opera poetica di Valéry non si può fare a
meno di rilevare come il poeta sia tanto più “spettatore” di se stesso
che produce quanto più questa sua produzione sia stata propiziata dal
carattere di evento che essa vuole assumere. Ogni opera d’arte, di
conseguenza, in quanto evento, ha il suo destino, che è il frutto della
pratica lenta e creativa del
poièin di cui è portatrice.
Se del farsi dell’opera d’arte gli artisti conoscono compiutamente il
prezzo, non altrettanto può dirsi della genesi che ha permesso loro di
realizzarla.
Come Sergio Givone sintetizza efficacemente, individuando il
dire cela, sans savoir quoi che informa la pratica poetica di Valéry:
«Si tratta dunque di scoprire qual è l’organo e quale l’origine
del processo di formazione e di esecuzione dell’opera; per riconoscere,
poi, sia la funzione dell’organo [...] sia la collocazione dell’
origine [...] e per determinare di entrambi, conseguentemente,
l’intrinseca storicità [...]. Egli distingue l’ “emozione poetica” dall’
“emozione comune”, contrapponendo all’universalità di quella la
particolarità di questa e caratterizzando la prima come dotata di una sensation d’univers, cioè di una forma di percezione originaria (perception naissante),
essenzialmente musicale, in quanto capace di cogliere l’accordo tra il
soggetto e l’oggetto (tra le sensazioni e le rappresentazioni) e tra gli
elementi dell’oggetto (esseri, cose, eventi e atti, che si compongono
in un sistema completo di rapporti)» (65).
E’ alla base di questa ripartizione estetica la celebre descrizione
del modo tenuto da Valéry nel comporre il testo definitivo del
Cimitière marin (
66).
Ma tutto questo non basterebbe egualmente se non si tenesse conto del
carattere di attività continua che attraversa sempre l’emozione poetica
e la spinge a diventare fatto poetico, rimettendosi in gioco come
sensazione per trasformarsi in costruzione.
E’ il carattere di
poiesis quale gli è stato riconosciuto da
Hans Robert Jauss, ma è anche qualcosa di più, dato che la lunga fatica
dell’artefice non si esaurisce (o, comunque, non
può esaurirsi soltanto) nell’esperienza estetica “produttiva” e in quella “ricettiva”.
Scrive Jauss:
«Ciò che del “metodo” di Leonardo affascinava Valéry e che egli cercava di chiarire come radice comune tra le entreprises de la connaissance et les opérations de l’art, era la “logica immaginativa” della costruzione, vale a dire di quella forma di prassi che ubbidisce al principio del faire dépendre le savoir du pouvoir» (67).
Credo, tuttavia, che il tentativo valéryano vada oltre la logica
della costruzione e che, insieme ad una “poietica”, comporti l’esistenza
di una “pragmatica”.
Il grande matematico (e teorico delle catastrofi) René Thom ha
“ridotto” il piano di lavoro di Valéry trasportandolo nello spazio e
disponendolo su tre dimensioni. In questo modo :
«
Philosophie
↕ ↕
Science ↔ Art
[...]
L’originalité du projet de Valéry consiste à réaliser la fléche
horizontale, court-circuitant ainsi la philosophie ; par là se manifeste
sa profonde méfiance à l’égard de tout ontologie. Il croit trouver dans
la pragmatique – les “actes” – la possibilité de réaliser une synthèse
entre la science, collection de recettes efficaces, et l’art, qui est
essentiellent une “poiétique”» (68).
L’importanza della modellizzazione di Thom è data proprio dal fatto
che la filosofia viene “cortocircuitata” nella pratica artistica e,
quindi, le ragioni dell’arte sono coassiali a quelle della spiegazione
del perché sono tali, del perché avvengono.
Ragione dell’evento e ragione del fatto non sono subordinate l’una all’altra, ma sono conseguenti.
La possibilità di analisi espressa dalla proposta di Valéry è, allora, quella che nasce dalla capacità di
spiegare invece di
descrivere, di mostrare i meccanismi in atto piuttosto che limitarsi ad analizzarli
post factum. E’ questa, come si è visto, la ragione dell’
implexe; sarà questa, in conclusione, la ragione della scelta di una critica della ragione poietica in nome dell’attività artistica.
Thom poi continua:
«Comment Valéry a-t-il pu concilier la nécessité de la
continuité avec sa philosophie opérationnnaliste ? Je pense – ce fu là
son grande drame – qu’il n’a pas pris conscience du caractère
contradictoire qu’il y avait entre son mathématisme [...] et sa
philosophie opérationnaliste, philosophie qu’il ne cesse de proclamer
tout au long des Cahiers, par example: “La science n’est que des actes. Il n’y a de science que des actes. Tout le rest est Littérature» (69).
Nella consapevolezza pragmatica dell’attività poietica (nella
coscienza sempre viva, cioè, della necessità della costruzione
appoggiata alla sicurezza dell’aleatorietà di quella costruzione stessa)
riposa il concetto valéryano di destino. Ed è in quest’ultimo che
l’arte trova la sua ragione d’essere, la conferma della sua esistenza.
Non si tratta, tuttavia, di una opzione ontologica quanto della
scelta (ancora una volta) della potenzialità dell’essere, potenzialità
che esclude, infatti e di conseguenza, la pura presenza sull’orizzonte
artistico.
La dinamicità dell’opera nasce dall’intrecciarsi delle sue variabili e
queste variabili sono “actes”, azioni e non soltanto fatti, dato che a
ciascuna di esse è concessa una potenzialità infinita. Non solo:
«Nessuno può dire – scrive Valéry – che cosa domani sarà
morto o sarà vivo in letteratura, in filosofia, in estetica. Nessuno sa
quali idee saranno perdute e quali proclamate. L’impossibilità nasce dal
fatto che il futuro si genera dal presente in cui coesistono opposti
contraddittori, sicché il presente “è nulla, per quanto un nulla
infinitamente ricco”» (70).
La possibilità concessa dall’
Implesso si fa, allora, costruzione lenta e laboriosa di azioni dai risvolti multipli, in un
continuum
mentale (quale è quello prospettato da René Thom) che conosce
l’indeterminazione della conoscenza e l’assolutezza del destino. Che è
poi quella di produrre in nome dell’
hostinato rigore di leonardesca ascendenza la leggerezza della danza e “l’orgoglio del labirinto” (
71).
Quanto di più solido e di meno resistente compaia: «come colui che
pensa, // la cui anima intende // a crescere se stessa dei suoi doni» (
72).
Le immagini della poesia si fanno nel suo straordinario progetto
di poetica atti del pensiero e vanno oltre le parole: nel rifiuto della
poesia come puro momento verbale risiede la geometrica proposta
valéryana della scrittura come capacità di rastremare il concetto e
affilarlo in vista della sua realizzazione lirica.
Pensatore del labirinto, l’infinita possibilità dedalica non
atterrisce se non il suo lettore, a sua volta costretto alla lenta
fatica di un percorso comune.
______________________________
Note
(
1) Il rimando è alla splendida analisi condotta da
Valéry sulla base del frammento di B. PASCAL che consiste in “Le silence
éternel de ces espace infinis m’effraie” (lo si trova in
Pensées, III, 206 dell’edizione a cura di Léon Brunschvig).
Cfr. P. VALÉRY, “Variazioni su una
pensée“, in
Varietà, a cura di S. Agosti, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 101-108.
(
2) P. VALÉRY,
L’idea fissa o due uomini al mare,
trad. it. e cura di V. Magrelli, Roma-Napoli, Theoria, 1985, p. 45. Sui
temi contenuti in questo straordinario dialogo filosofico di Valéry,
cfr. quanto ne dice lo stesso Magrelli nel suo
Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002.
(
3) P. VALÉRY,
ibidem.
(
4) La prima edizione del dialogo è del 1932 (per le
edizioni dei Laboratoires Martinet di Parigi); la seconda edizione, che
reca la celebre frase d’esordio: “Questo libro è figlio della fretta”, è
del 1933 (per Gallimard di Parigi).
(
5) L ‘allusione non è tanto al saggio “L’artista come vicario” (in T. WIESENGRUND-ADORNO,
Note per la letteratura I, trad. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 1979) quanto ad alcuni “cammei” presenti nei
Minima Moralia (in particolare, cfr. T. WIESENGRUND-ADORNO,
Minima Moralia, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 19742, pp. 153-154). Sul rapporto Adorno-Valéry, cfr. A. TRIONE,
Valéry. Metodo e critica del fare poetico, Napoli, Guida, 1983, pp. 19-20 e
passim.
(
6) P. VALÉRY,
Regards sur le monde actuel, Paris, Gallimard, 1945 e sgg. , p. 147.
(
7) P. VALÉRY,
Regards sur le monde actuel
cit. , p. 148. Pur apprezzando molto gli sforzi titanici dei traduttori
di Valéry, mi guardo bene dal provare a tradurlo in proprio. La prosa di
Valéry è troppo chiara per poter essere resa facilmente comprensibile a
tutti.
(
8) Interessanti eccezioni a questo destino, oltre ai volumi di Magrelli e di Trione già citati, mi sembrano E. DI RIENZO,
Il sogno della ragione,
Roma, Bulzoni, 1982 ; R. VIRTANEN, “The Egocentric Predicament. Valéry
and Some Contemporaries”, in “Dalhousie French Sudies”, (III), 1981, pp.
99-117; M. E. BLANCHARD, “Paul Valéry, Walter Benjamin, André Malraux.
La littérature et le discours de la crise”, in “L’Esprit Créateur”,
(XXIII), 4, 1983, pp. 38-50. Ma tutto il problema del Valéry “ politico”
mi sembra ben lungi dall’essere esaurito.
(
9) Nonostante la miriade di scritti sui rapporti Valéry-Mallarmè (cfr., ad esempio, il bel libro di E. NOULET,
Suites. Mallarmé, Rimbaud, Valéry,
Paris, Nizet, 1964), il miglior saggio su Mallarmé mi sembra pur sempre
il ”Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” dello stesso Valéry (cfr. P.
VALÉRY,
Varietà cit. , pp. 241-257). Sull’argomento cfr. la recente raccolta di scritti di Valéry,
Mallarmé et moi, a cura di E. Durante, Pisa, ETS, 1999. Di notevole interesse il contributo di Y. BONNEFOY su “Valéry et Mallarmé” in Aa. Vv.
Valéry: le partage de midi. “Midi le juste”,
Atti del Convegno internazionale (Collège de France, 18 novembre 1995),
a cura di J. Hainaut, Paris, Champion, 1998, pp. 59-72.
(
10) L’allusione alla linea sinuosa quale simbolo della bellezza compiuta è nel trattato settecentesco di W. HOGARTH,
L’analisi della bellezza,
pubblicato nel 1753 (la linea serpentinata compare sul frontespizio
dell’opera). Sul pensiero estetico di Hogarth, cfr. l’ ancora ottimo
saggio di Filiberto Menna,
William Hogarth. L’analisi della bellezza, Salerno, Edizioni 10/17, 1988 (su cui rimando alla mia recensione pubblicata in “Belfagor”, (XLIV), 3, 1989, pp. 356-358).
(
11) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in
Poesie, trad. it. e cura di B. Dal Fabbro, Milano, Feltrinelli, 19692, p. 128.
(
12) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in
Poesie
cit., p. 126. Sul tema del serpente in Valéry come simbolo del potere
della natura e della sua potenza dispiegata quale forma della bellezza,
la letteratura secondaria è numerosa. Cfr. A. R. CHRISHOLM, “Valéry’s
Ébauche d’un serpent“, in “Journal of Australasian Universities Language and Literature Association”, 1961, 15, pp. 19-29; J. M. COCKING, “Towards
Ébauche d’un serpent.
Valéry and Ouroboros”, in “Australasian Journal of French Studies”,
1969, 6, pp. 187-215; H. LAURENTI, “Le monstre valéryen”, in “Bulletin
des études valéryennes”, 1974, 2, pp. 23-48; J. R. LAWLER, “The Serpent,
the Tree and the Crystal”, in “L’Esprit créateur”, (IV), primavera
1964, 4, pp. 34-40 e M. SCOTTI,
Ces vipères de lueurs. Il mito ofidico nell’immaginario valéryano, Roma, Bulzoni, 1996.
(
13) ” Toute araignée m’attire ” (scrisse una volta Valéry a Gide – cfr. André Gide – Paul Valéry,
Corrispondance 1890-1942,
Paris, Gallimard, 1955, p. 390). Gli altri personaggi dello “scenario
mentale ” di Valéry sono tratti dal “Disegno di un Serpente”, da “Al
Platano”, da “Palma” (nel volume di versi
Charmes del 1922), da “La filatrice” e “Le vane ballerine” (nel volume
Album de vers anciens 1890-1900,
stampato nel 1920) e, naturalmente, dall’opera pittorica di Edgar
Degas. Sul “primo periodo” dell’opera di Valéry, senpre utili i volumi
di M. T. GIAVERI,
L’ “Album des vers anciens” de Paul Valéry. Studio sulle correzioni d’autore edite e inedite, Padiva, Liviana, 1969 e G. A. BRUNELLI,
Paul Valéry “giovane poeta”, Roma, Bonacci, 1987.
(
14) “
Signorina de l’Espinasse. No,
sentite, dottore; mi spiegherò con un paragone, che è forse l’unica
forma di ragionamento delle donne e dei poeti… “(D. DIDEROT,
Sogno di D’Alembert,
trad. it. di P. Campioli, Milano, Rizzoli, 1967, p. 41).
L’interlocutore della signorina de l’Espinasse (il cui vero nome era,
però, Julie de Lespinasse), per tutta la vita compagna di letto e di
attività culturale di D’Alembert, è il dottor Théophile Bordeu che sarà
una delle autorità mediche dell’illuminismo francese prima e dell’
idéologie poi propugnando fino in fondo, insieme a Paul-Joseph Barthez, la teoria del “vitalismo” organico in medicina.
(
15) ”Une se lève d’elle-même, et se met à la place
d’une autre; nulle d’entre elles ne peut être plus importante que son
heure. Elles montent, originales; dans un ordre insensé; mystérieusement
mues jusque vers le midi admirable de ma présence, où brûle, telle
qu’elle est, la seule chose qui existe; l’une quelconque” – è la
conclusione del frammento ooetico-narrativo
Agathe del 1898 (un testo mai terminato da Valéry e che, con il titolo
Manuscrit trouvé dans une cervelle, doveva costituire la continuazione di
Monsieur Teste). Sulla fondamentale importanza di questo breve scritto per l’evoluzione del pensiero del poeta francese, cfr. P. VALÉRY,
Oeuvres, I, Paris, Gallimard (Bibliothéque de la Pléiade), 19772, pp. 1388-1393; S. AGOSTI, “Pensiero e linguaggio in Paul Valéry”,
Introduzione a P. VALÉRY,
Varietà cit., in particolare alle pp. 14-15; M. BLANCO, “Ninfe su fondo nero. Note su
Agathe e
Cantate de Narcisse di Valéry” in Aa. Vv.
Valéry: la philosophie, les arts, le langage,
a cura di R. Pietra, in “Cahiers du groupe de recherche sur la
philosophie et le langage”, 11, Grenoble, Université de Grenoble, 1989,
pp. 239-248; N. CELEYRETTE-PETRI,
“Agathe” ou “Le manuscrit trouvé dans une cervelle” de Valéry. Genèse et exegèse d’un conte de l’entendement, Paris, Minard, 1981; M. TSUKAMOTO, “L’écriture et la simulation dans
Agathe“, in
Paul Valéry. L’Avenir d’une écriture,
Atti del Convegno internazionale di Montpellier (2-4 novembre 1994), in
“Rémanances”, 1995, 4/5 (numero speciale su Valéry), pp. 131-140 e,
infine, M. HONTEBEYRIE,
Paul Valéry. Deux projets de prose poetique: “Alphabet” et “Le manuscrit trouvé dans une cervelle”, Paris, Minard, 1999.
(
16) Cfr. S. S. NIGRO, “Tra Montaigne, Valéry e
Freud: la biografia per paradossi”, in “Sigma”, (XVII), 1-2, 1984, pp.
112-115, che affronta il problema attraverso coordinate generali di
indubbia importanza. Sempre su Valéry, cfr. il bel saggio di A.
MAZZARELLA,
La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria
(Roma, Donzelli, 2004) che contiene notevoli pagine proprio sul tema
della soggettività e del sogno nel poeta francese (su di esso, mi
permetto di rimandare alla mia nota di recensione apparsa su
“Comparatistica. Annuario italiano”, (XIV), 2005, pp. 203-208.
(
17) P. VALÉRY,
Monsieur Teste, trad. it.
di L. Solaroli, a cura di G. Agamben, Milano, Il Saggiatore, 1980, p.
101. Sulla figura di Monsieur Teste appare rilevante il saggio di J.
STAROBINSKI, “Monsieur Teste face à la douleur”, in Aa. Vv.
Valéry, pour quoi? , Paris, Les Impressions Nouvelles, 1987, pp. 93-120.
(
18) P. VALÉRY,
Regards sur le mond actuel
cit. , p. 149. Significativamente Walter Benjamin aveva già posto
l’accento su questo testo di Valéry nel suo “Paul Valéry. Per il suo
sessantesimo compleanno”, ora in W. BENJAMIN,
Avanguardia e rivoluzione, trad. di A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 19732, p. 46.
(
19) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in
Poesie cit. , p. 173.
(
20) Non a caso, Giorgio Agamben nella sua
Introduzione (” L’Io, l’occhio, la voce”) all’ed. it. di
Monsieur Teste già citata pone l’accento sull’importanza della
Dioptrique
cartesiana per i futuri sviluppi teorici dell’impresa intellettuale di
Valéry. E, d’altronde, anche ne “L’anima e la danza” si legge: “Gli
inganni, le apparenze, i giochi della diottrica intellettuale scavano e
animano la misera sostanza del mondo” (p. 193). Visione ed essere,
immagine e sostanza si inseguono continuamente nella ricerca valéryana
della totalità.
(
21) P. VALÉRY,
Cahiers, II, Paris,
Gallimard, 1974, p. 253. Sono debitore di questa citazione in relazione
alla lettura dell’ottimo saggio del compianto G. GABETTA, “La
costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry “, in “Nuova Corrente”,
(XXXII), 1985, pp. 485-510. Di Gabetta va tenuto presente, inoltre, “La
scepsi verso la storia. Sul
Valéry di Löwith”, in “aut-aut “,
222 (1987), pp. 39-50, significativamente dedicato alla rilettura del
miglior libro finora dedicato a Valéry “filosofo” (cfr. K. LÖWITH,
Paul Valéry, trad. it. di G. Carchia, Milano, Celuc Libri, 1986).
(
22) P. VALÉRY,
L’idea fissa cit. , pp. 63-64.
(
23) Sul medico come “maschera” in Valéry, cfr. V.
MAGRELLI, “La figura del medico nell’opera di Paul Valéry”, in “Saggi e
ricerche di letteratura francese”, (XXIX), 1990, pp. 203-214.
Interessanti anche gli spunti di riflessione contenuti in A. PIZZORUSSO,
“Valéry e l’idea di soggetto”, in Aa. Vv.
Figure del soggetto, Pisa, Pacini, 1996, pp. 93-121.
(
24) P. VALÉRY, “L’anima e la danza” cit. , p. 188.
(
25) Sull‘
Implesso, cfr. G. GABETTA, “La
costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry” cit. e R. VIRTANEN,
“Valéry’s Reflections on Discovery and Invention”, in “Kentucky Romance
Quarterly “, (XXVII), 1980, pp. 105-119. Buoni spunti anche in H. KAAS,
“Der Dämon der Möglichkeit. Bemerkungen zui Methode Valérys”, in
“Akzente”, (XXVII), 1, 1980, pp. 47-56. Importante per l’insieme di
tutta questa tematizzazione nell’ambito della poesia di Valéry è il
volume di N. BASTET,
Valéry à l’extrême. Les au-de-là de la raison, Paris, L’Harmattan, 1999.
(
26) P. VALÉRY,
L’idea fissa cit. , pp. 78-79.
(
27) V. MAGRELLI,
Introduzione a P. VALÉRY,
L’idea fissa
cit. , p. 16. Lo scritto introduttivo di Magrelli, pur essendo molto
chiaro e spesso assai perspicuo nella ricostruzione storica e teorica,
manca, tuttavia, il confronto “filosofico” (e decisivo!) con
Il Cimitero marino.
(
28) P. VALÉRY,
L’idea fissa cit. , p. 64.
(
29)
Ibidem.
(
30) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in
Poesie cit. , pp. 172-173.
(
31)
Ibidem.
(
32) Per una buona introduzione all’opera di Degas, cfr. D. CATTON RICH,
Degas,
Milano, Garzanti, 1960 (con un’amplissima appendice iconografica). Per
aneddoti e notizie biografiche su Degas, cfr. M. SÉRULLAZ,
Degas. Donne, Milano, Mondadori, 1959 (che raccoglie tutti i ritratti di donna dipinti da Degas).
(
33) Cfr. P. VALÉRY,
Degas danza disegno, trad. it. e cura di B. Dal fabbro, Milano, Feltrinelli, 1980.
(
34) Le citazioni precedenti sono tratte rispettivamente da: P. VALÉRY,
Il cimitero marino, trad. it. e cura di M. T. Giaveri, Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 66;
Valéry tradotto da Manlio Dazzi, Firenze, Collana bilingue di poesia dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, 1968, p. 35; P. VALÉRY,
Poesie cit. , p. 139; P. VALÉRY,
Il cimitero marino, trad. it. e cura di M. Tutino, Torino, Einaudi, 1966, p. 23.
(
35) Sulla numerosa schiera dei traduttori del
Cimetière marin,
cfr. la pertnente analisi di Corrado Pavolini, autore – con il
foscoliano pseudonimo di Jacopo Darca – di una “Nota per sette
traduttori italiani del
Cimitero marino”: Folco Gloag, Corrado
Pavolini, Maria Algranati, Beniamino Dal Fabbro, Mario Praz, Renato
Poggioli, Oreste Macrì “, in “Poesia”, 7, 1947. Ma l’elenco è
sicuramente più folto: oltre quelli già citati, vanno aggiunti Diego
Valeri e Mario Luzi.
Particolarmente rilevante la trad. it. di Oreste Macrì, autore anche di un bel libro sul poema di Valéry (
Il “Cimitero marino” di Paul Valéry, Firenze, Sansoni, 1947, poi Firenze, Le Lettere, 1989).
(
36) Potrebbe trattarsi (come acutamente propone la Giaveri) della traduzione poetica di un verso di Pindaro:
ταν δ’ έμπρκτον αντλεί μαχανάν. Su questa proposta di lettura, cfr. P. VALÉRY,
Il Cimitero marino,
a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 132. Ma ciò non esaurisce certo la
riflessione sul significato della proposta contenuta nel verso di
Valéry.
(
37) P. VALÉRY,
Monsieur Teste cit. , p. 61.
(
38) P. VALÉRY,
Monsieur Teste cit. , p. 63.
(
39) VALÉRY,
Monsieur Teste cit. , p. 45.
(
40) Sulla trasformazione quasi immediata dell’emistichio in oggetto in un
cliché, cfr. le
Note al testo in P. VALÉRY,
Il cimitero marino, versione e commento di M. Tutino.cit., pp. 49-50. Gide utilizzò il verso come chiusura di una parte del suo
Journal;
Archambault lo riprese in un articolo su Gide, attribuendolo a Gide
stesso. Nella sua lettera di risposta a Gide che gli esponeva queste
vicende, Valéry affermò che il verso era stato ”une émission spontanée,
sans difficulté, donc … sans père”.
(
41) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64. Si tratta dei versi 112 e 114.
(
42) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 66, v. 116.
(
43) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 66, v. 118.
(
44) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 101 (
Ma présence est poreuse – scrive Valéry con una ellissi poderosa assai difficile a rendersi in italiano).
(
45) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 103.
(
46) G. DELEUZE,
Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli, 19792, p. 72.
(
47) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 67, v. 121.
(
48) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit., v. 124.
(
49) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , vv. 125-126.
(
50) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 127.
(
51) P. VALÉRY,
Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 128.
(
52) Sulla fitta tessitura di rimandi e di intuizioni dei
Cahiers di Valéry, cfr. almeno il saggio pioneristico di A. PASQUINO,
I “Cahiers” di Paul Valéry. Una scienza in forma di metafora, Roma, Bulzoni, 1979.
(
53) P. VALÉRY, “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci”, in
Varietà cit. , p. 32.
(
54) ” E se parlassi un po’ della danza, a proposito del pittore delle ballerine?” (P. VALÉRY,
Degas Danza Disegno cit. , p. 29).
(
55) P. VALÉRY,
L’Idea fissa cit. , p. 50.
(
56)
Ibidem.
(
57) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in
Varietà cit. , p. 243.
(
58) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in
Varietà cit. , p. 245.
(
59) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in
Varietà cit. , p. 251.
(
60) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in
Varietà cit. , p. 242.
(
61) P. VALÉRY,
Degas Danza Disegno cit. , p. 20 e p. 26.
(
62) P. VALÉRY,
Degas Danza Disegno cit. ,
p. 31. Sulla densità ipnotica della danza e dell’apparition (in
riferimento sostanzialmente alla Lulu di Frank Wedekind e alla sua
interpretazone teorica, anche se con accenti e punti di riferimento
assai diversi dai miei), rimando a R. GENOVESE,
Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva, Napoli, Liguori, 1983, pp. 48-49.
(
63) P. VALÉRY,
Degas Danza Disegno cit. , p. 110.
(
64) L. PAREYSON,
Estetica. Teoria della formatività,
Bologna, Zanichelli, 19602, p. 284. Cfr. anche e in vista di un più
ampio inquadramento teorico, p. 55 e sgg. Sullo stesso arco dinamico di
problemi, cfr. altrsì L. PAREYSON,
L’esperienza artistica, Milano, Mursia, 1974; E. PACI,
Relazioni e significati, III.
Critica e dialettica, Milano, Lampugnani Nigri, 1966; F. MASINI,
“Nota sulle poetiche di Paul Valéry”, in “Letterature moderne”, (X), 1, 1960; A. TRIONE,
Valéry. Metodo e critica del fare poetico cit. e ID. ” Oltre il simbolismo”, in A. TRIONE – M. T. GIAVERI – G. PANELLA – G. LOMBARDO,
Paul Valéry e l’estetica della poiesis, a cura di M. T. Giaveri, Palermo, Aesthetica Preprint 23, 1989, pp. 5-23.
(
65) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in
Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Milano, Mursia, 1974, p. 24.
(
66) Sulla genesi arbitraria e del tutto fortuita del
Cimetière marin,
cfr. le narrazioni (certo non del tutto attendibili) poi esibite da
Valéry stesso e riportate in “A proposito del Cimitero marino” in
Varietà cit., pp. 261-272 e le testimonianze raccolte nel prezioso commento di M. T. Giaveri alla sua edizione del poemetto (
Il Cimitero marino cit. , pp. 35-55).
Ne riporterò soltanto una: “Nel
Cimetière marin, ricordo di
aver formato delle strofe come si combinano masse, colori, o atomi (in
una molecola). Strofe suggerite, nella loro tonalità, dall’equilibrio
generale,
voluto tanto da me quanto dall’opera al momento T (che si componeva allora di quel che era già “fatto” e di quel che
poteva –
doveva –
sembrava di essere fatto, il DA FARSI ” (in P. VALÉRY,
Cahiers, tomo XXIII, Paris, Éditions du C. N. R. S. , 1961, p. 205).
(
67) H. R. JAUSS,
Apologia dell’esperienza estetica, trad. it. e cura di C. Gentili, Torino, Einaudi, 1985, p. 22.
(
68) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in Aa. Vv.
Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry, Paris, Hermann, 1983, p. 194.
(
69) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in Aa. Vv.
Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry cit., p. 203.
(
70) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in
Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento cit. , p. 33. La citazione da Valéry è in
Oeuvres, I, Paris, Gallimard, 19772, pp. 990-991.
(
71) P. VALÉRY, “La giovane Parca”, in
Poesie cit. , p. 71.
(
72) P. VALÉRY, “Palma”, in
Poesie cdit. , p. 146.