Peccato per l'ex-direzione del mensile internazionale...
Comunque l'articolo vuole far rispecchiare in Camus una sorta, secondo me, di religiosità cristiana.
Egli invece intendeva, sempre secondo me, che sì, indubbiamente nel Cristo vi è una giusta verità ma che non serve quanto il bisogno primario a monte che è quello dell'etica.
Non c'è bisogno di un Dio buono, ma c'è bisogno dell'Uomo vero, doverosamente buono, doverosamente solidale, anche se pur sempre solo, solitario.
LexMat
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La tesi di laurea del ventiduenne Albert Camus, Métaphysique chrétienne et néoplatonisme, discussa nel 1936 all’Università
di Algeri, è stata tradotta per la prima volta in italiano
di Massimo Borghesi
Albert Camus in una foto del 1945 di Henri Cartier-Bresson
Come è possibile che il mondo antico, pagano, sia divenuto cristiano? L’antica domanda del neoclassicismo tedesco, da Goethe a Nietzsche, sta dietro alla tesi di laurea del ventiduenne Albert Camus, Métaphysique chrétienne et néoplatonisme. Plotin et saint Augustin, discussa all’Università di Algeri e ora tradotta per la prima volta in italiano1. Per lo più trascurata dagli studi camusiani, appena accennata nelle biografie, la tesi, pur non mostrando novità di rilievo, riveste però un indubbio interesse se posta a confronto con l’insieme della produzione camusiana, con la figura di Agostino in particolare2.
Come, dunque, l’antichità è divenuta cristiana? Per Camus questo processo si spiega se, seguendo Nietzsche, si tiene presente il duplice volto dell’Ellade, quello luminoso, razionale, socratico, apollineo, e quello oscuro, misterico, orientaleggiante, dionisiaco. V’è «accanto alla Grecia della luce, una Grecia dell’ombra, meno classica e altrettanto reale»3. A questo Oriente greco si ricollega il cristianesimo: «Qualcosa nel pensiero greco prefigura il cristianesimo nello stesso tempo in cui qualcos’altro lo respinge in anticipo»4. Per la Grecia luminosa l’uomo è misura a sé stesso, autosufficiente. «In un certo senso i Greci accettavano una giustificazione agonistica ed estetica dell’esistenza. Il profilo delle loro colline o la corsa di un giovane uomo su una spiaggia svelava loro tutti i segreti del mondo. Il loro Vangelo diceva: il nostro Regno è di questo mondo»5. Come nel racconto contemporaneo Nozze a Tipasa, il Vangelo risiede qui in un «giorno di nozze con il mondo»6, nella beata innocenza del divenire, nel panico immedesimarsi con le forze della natura. Di contro a questa innocenza sta la Grecia oscura cui idealmente si ricollega il cristianesimo. Riflesso di un’era tormentata la fede cristiana è letta da Camus con gli occhi di Pascal: senso della morte, del peccato, trascendenza del Regno, fuga dalla natura in direzione della storia, salvezza operata da una grazia proveniente da fuori. L’ultimo punto, l’idea di una salvezza operata dall’incarnazione di Dio, appare come il vero nodo di contrasto tra cristianesimo ed Ellade. La stessa gnosi, cui è dedicato il capitolo più originale del lavoro, pur dipendendo dal pessimismo cristiano, rappresenta, secondo Camus, un tentativo di ellenizzare la fede cristiana. Nei sistemi gnostici «la fede s’impara. È dunque un’iniziazione. […] L’iniziazione colloca l’uomo nel regno divino. […] Il fatto è che l’Ellenismo non può separarsi dalla tenace speranza che vede l’uomo tenere il destino nelle proprie mani»7.
È la fedeltà a questo principio che segna la distanza che, pur nella convergenza ideale, separa due giganti del pensiero antico: Plotino e Agostino. Di contro alla tesi, allora molto diffusa, sul sostanziale neoplatonismo agostiniano, Camus afferma che «troppe cose separano sant’Agostino da Plotino»8. Agostino dipende da Plotino su più punti ma nell’essenziale – il Verbo fatto carne, la dottrina del male morale non risolubile né attraverso i misteri né attraverso l’ascesi filosofica – egli è cristiano, non greco. Prendendo posizione contro la tesi di von Harnack sulla “ellenizzazione del cristianesimo”, Camus scrive che «al contrario, secondo il nostro lavoro, bisogna parlare soprattutto della cristianizzazione dell’ellenismo decadente»9. La Grecia è stata portata su un altro terreno: l’orgogliosa autonomia dell’uomo ellenico cede ora alla via “orientale”, al pessimismo “decadente”. Un’antropologia della forza è sostituita da un’altra segnata dall’inquietudine e dall’impotenza, e tutto ciò senza abbandonare, sul piano formale, il terreno delle categorie elleniche. Un vero miracolo, secondo Camus, il cui merito è opera essenzialmente di Agostino.
Métaphysique chrétienne et néoplatonisme riconosce pertanto al cristianesimo una capacità di sintesi senza eguali – in ciò vicino alle tesi di Gilson e Guitton e in aperto contrasto con quella di Emile Brehier –, senza che il punto di vista da cui parte la sua valutazione sia però minimamente vicino a quello degli autori cattolici. Questo, celato nel testo, emerge nel finale dietro una valutazione in sé positiva. «A maggior ragione se si crede a Nietzsche, se si riconosce che la Grecia dell’ombra […], la Grecia pessimista, sorda e tragica era il sigillo di una civiltà forte, bisogna convenire che il cristianesimo a questo proposito rappresenta un rinascimento in rapporto al socratismo e alla sua serenità. “Gli uomini” dice Pascal, “non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”. Lo sforzo del cristianesimo è di opporsi a questa torpidezza del cuore»10.
Il cristianesimo appare qui come una risposta vigorosa al problema della morte, una risposta però – anche se Camus non lo scrive – pagata con il rinnegamento del “vangelo” greco, dell’innocenza edenica, dell’immedesimazione panica con la natura. Il panteismo naturalistico del giovane Camus ammira, da fuori, la serietà cristiana – l’eroismo di Pascal – ma lo avverte come “estraneo”, un superamento ingiusto dell’inesorabile splendore del mondo.
Vivere senza la grazia: l’antiagostinismo di Camus
Quando Camus scrive la sua tesi, è pienamente immerso nell’orizzonte ideale dell’antica Ellade. Dietro le suggestioni del suo maestro Jean Grenier, del Gide di Nourritures terrestres, di Malraux, e, attraverso di essi, di Nietzsche, egli si concepisce come un pagano in un mondo estraneo. «La verità» affermerà nel 1951 «è che è un destino pesante quello di nascere su una terra pagana in tempi cristiani. È il caso mio. Mi sento più prossimo ai valori del mondo antico che a quelli cristiani. Purtroppo non posso andare a Delfi a farmi iniziare!»11. Ripetendo i giudizi di Nietzsche anche Camus parla di «secoli di perversione cristiana»12, dacché «da duemila anni l’uomo si vede offrire un’immagine umiliata di sé stesso»13. Da «duemila anni si assiste alla calunnia costante e insistente contro i valori greci»14. Il risultato è «la follia moderna. È il cristianesimo che ha distolto l’uomo dal mondo»15, lo ha allontanato dalla natura e dalla corporeità. Camus non si sente «moderno»16 – «Il mondo in cui sono più a mio agio: il mito greco»17 –; crede nella «natura»18, desidera «superare il cristianesimo nell’ellenismo»19. Questa adesione al mondo ha un significato religioso. Camus, come Olivier Todd ha documentato nella sua biografia, non esita a confessare la sua «anima troppo mistica»20, il suo «senso religioso profondamente radicato»21. Non diviene comunista a causa del materialismo marxista. L’opposizione ideale autentica è con il cristianesimo dacché il suo è un altro modo di opporsi all’infelicità: l’accettazione del tragico non tramite il postulato, insopportabile, del peccato originale ma «attraverso la bellezza»22 del mondo. Diversamente da Nietzsche, però, l’accettazione neostoica della morte non elimina, in Camus, il senso di assurdo, di irrazionale, che la morte provoca, a partire dal desiderio di felicità e di vita connaturali all’uomo. Più vicino a Leopardi, o a Pavese, che a Nietzsche, Camus ritrova qui, lungo la sua strada, l’esperienza esistenziale di Agostino (e dietro di lui di Pascal). Lo stesso esistenzialismo, la corrente in cui egli si colloca, ha le «sue origini»23 in sant’Agostino. Nella conferenza del 1948 tenuta presso il convento dei domenicani di Latour-Maubourg dirà: «Ci troviamo di fronte al male; ed è vero, per quanto mi riguarda, che mi sento un po’ come dice Agostino a proposito di sé stesso prima della conversione: “Cercavo l’origine del male e non ne venivo a capo”»24. Camus come Agostino prima della conversione. Dopo non può seguirlo. «Il solo grande spirito cristiano che abbia guardato in faccia il problema del male è stato sant’Agostino. Ne ha ricavato il terribile “nemo bonus”. […] Il risultato lo vediamo. Perché di risultato si tratta. Gli uomini ci hanno messo del tempo, ma sono oggi avvelenati da un’intossicazione vecchia di duemila anni. Sono stanchi del male»25. Ciò che non può accettare è la “creazione imperfetta” – «Non io ho pronunciato quel nemo bonus, o la dannazione dei fanciulli non battezzati»26 –, il peccato originale come chiave della condizione umana. «Io» scriverà nei Taccuini «sono di quelli che Pascal sconvolge e non converte. Pascal, il più grande di tutti, ieri e oggi»27. Al pari di Nietzsche anche Camus è colpito dalla lucida analisi della condizione umana dell’agostiniano Pascal, ma le “ragioni” del male umano non lo persuadono, non inducono alla sottomissione della fede ma alla rivolta. Come afferma ne L’homme révolté: «Sarebbe possibile mostrare così come non vi possono essere per uno spirito umano che due soli universi possibili, l’universo religioso (o per parlare il linguaggio cristiano, della grazia), e quello della rivolta»28. Lungo questa traiettoria Camus ritrova, in parte, il manicheismo del primo Agostino, ritrova l’opposizione al cattivo Demiurgo responsabile del male del mondo. L’esistenzialismo, come Hans Jonas ha chiarito a proposito dello Heidegger di Essere e tempo, si colora di venature gnostiche29.
Gli stessi titoli dei capolavori camusiani, Lo straniero, La peste, L’uomo in rivolta, rivelano una terminologia e una problematica gnostiche che Camus, a partire dalla sua tesi, conosceva bene. È una gnosi nuova, tuttavia, che, diversamente dall’antica, non rinnega lo splendore del mondo e non conduce l’anima a nessun regno celeste. Il no a Dio sorge qui dal dolore innocente, dalla creazione imperfetta, dove l’eden che si perde è quello presente, non quello adamitico. «Credere in Dio è accettare la morte. Quando avrai accettato la morte, il problema di Dio sarà risolto – e non viceversa»30.
Ponendo lo stoicismo prima della grazia, Camus ambiva a una signoria sulla morte, a «saper morire, a viso aperto, senza amarezza»31. Si trattava di evitare il risentimento poiché solo così si poteva accedere alla “misura”, al senso di un limite accolto, il cui tema, dopo il ciclo dell’Assurdo e della Rivolta, doveva essere al centro del ciclo dedicato a “Nemesi”32.
Se la creazione deve essere “corretta”, la creatura deve essere più giusta del Creatore: «Dobbiamo servire la giustizia perché la nostra condizione è ingiusta, accrescere la gioia e la felicità perché questo universo è infelice»33. Per questo il dottor Rieux che, ne La peste, lotta contro la morte, è il nemico di Dio. La salute contro la salvezza, la felicità contro la redenzione: in ciò risiede la “correzione” della creazione, la “religione” del mondo praticata da una razza di uomini migliori del Demiurgo divino. «Che cosa medito di più grande di me, e sento di poterlo definire? Una specie di difficile marcia verso una santità della negazione, un eroismo senza Dio, l’uomo puro insomma. Tutte le virtù umane, compresa la solitudine di fronte a Dio. In che cosa consiste la superiorità di esempio (la sola) del cristianesimo? In Cristo e nei suoi santi, nella ricerca di uno stile di vita. La mia opera avrà tante forme quante sono le tappe sulla strada di una perfezione senza ricompensa. Lo Straniero è il punto zero. Idem il Mito. La Peste è un progresso […]. Il punto d’arrivo sarà il santo»34.
Una perfezione senza ricompensa: la via camusiana costituiva, in perfetta antitesi ad Agostino, la direttiva di un pelagianesimo precluso ad ogni possibilità della grazia. «Senso della mia opera: tanti uomini sono privi della grazia. Come vivere senza la grazia?»35. Domanda fondamentale, questa, nella misura in cui l’abbandono di Dio portava con sé un nichilismo rivoluzionario capace di devastare la terra. Ad esso Camus opponeva, ne L’uomo in rivolta, un “pensiero meridiano”, nemico della dismisura, amante del presente del mondo e avverso ad ogni Regno futuro, cristiano o marxista. Una rivolta senza risentimento, che non poteva fare a meno di uno “strano amore”.
La caduta e la grazia
«Tempi moderni. Ammettono il peccato e rifiutano la grazia. Sete di martirio»36. L’annotazione dei primi anni Cinquanta puntualizza, con efficacia, l’ultima parte della riflessione camusiana, quella contrassegnata dalla tematica del racconto La chute (“La caduta”), del 1956. L’uomo in rivolta, lo si è detto, può giudicare il divino Demiurgo solo se più giusto di Lui, «ma ciò» scrive Camus «esige un’innocenza che io non ho più»37. Un pessimismo nuovo, più radicale, avvicina ora l’autore ad Agostino senza che con ciò si sciolgano le obiezioni verso Dio: «Chi potrà dire la pena dell’uomo che ha preso le parti della creatura contro il creatore e che, persa l’idea della propria innocenza e di quella degli altri, giudica la creatura, e se stesso, criminali quanto il creatore?»38.
Camus non crede più alla beata innocenza del divenire. L’esistenza appare ora come l’esigenza di una grazia, attesa e violentata a un tempo. «Quando si è visto una volta sola lo splendore della felicità sul viso di una persona che si ama, si sa che per l’uomo non ci può essere altra vocazione che suscitare questa luce sui visi che lo circondano… e ci si strazia al pensiero dell’infelicità e della notte che gettiamo, per il solo fatto di vivere, nei cuori che incontriamo»39. Per superare questa naturale violenza il cuore dovrebbe essere «trasfigurato»40. Ma questo non è semplice. «C’è sempre nell’uomo una parte che vuole morire. È quella che domanda di essere perdonata»41. Il perdono, che è una forma di amore, è difficile perché, a rigore, «nessuno merita di essere amato – nessuno è all’altezza di questo dono supremo»42. Per questo «l’amore di Dio è, a quanto pare, il solo che riusciamo a sopportare, perché vogliamo sempre essere amati malgrado noi stessi»43. Camus avverte ora «il peso insopportabile di questo mondo, di cui peraltro, all’inizio, ero tanto soddisfatto»44. È in questo contesto che si inserisce La caduta, il racconto del 1956 in cui una parte significativa della critica ha colto toni nuovi nella produzione camusiana. Qui il grido di Clamence, il protagonista, è netto: «D’altronde non possiamo affermare l’innocenza di nessuno, mentre possiamo affermare con sicurezza che tutti sono colpevoli»45. Di fronte a ciò «la sola utilità di Dio consisterebbe nel garantire l’innocenza, e io la religione la vedrei piuttosto come una grande impresa di lavatura, cosa che del resto è stata, ma per breve tempo, esattamente tre anni, e non si chiamava religione. Da allora manca il sapone»46. Lo stesso Gesù, d’altra parte, in una singolare ripresa della gnosi di Basilide evidenziata nella tesi del ’36, non è completamente incolpevole. Porta indirettamente la responsabilità della strage degli innocenti. Per questo in una sorta di morte espiatoria si consegna, nella morte, a Dio che però rimane muto. Per Clamence la condivisione della colpa, estesa fino a Gesù, diviene una sorta di autoassoluzione generalizzata, la possibilità di continuare a peccare senza, per questo, dover cambiare vita. «Ma quando la nostra vita non ci piace, e si sa di dover cambiare, non c’è scelta, vero? Come si fa ad essere un altro? Impossibile. Bisognerebbe non esser più nessuno, abbandonarsi completamente in qualcuno, almeno una volta. Ma come? […] Sì, abbiamo perduto il lume, la santa innocenza di chi sa perdonare a sé stesso»47.
Stretto tra desiderio di abbandono e ribellione – al punto che Sartre potrà scrivere che Camus «è un “antiteista” più che un ateo»48 – Camus non è in grado di sciogliere il nodo. «Io» affermerà «non credo in Dio e non sono ateo»49. Quella congiunzione significa che il problema per lui non è risolto, la ribellione ne è testimonianza eloquente. «Io non partirò mai dal principio che la verità cristiana è illusoria, ma soltanto dal fatto che personalmente non ho potuto entrarvi»50. È contro il cristianesimo e ha nostalgia della grazia. Antiagostiniano e agostiniano ad un tempo. «Chi testimonierà per noi? Le nostre opere. Ahimé! Chi allora? Nessuno, nessuno tranne quei nostri amici che ci hanno visto in quell’attimo del dono in cui il cuore si consacrava interamente ad un altro. Insomma, quelli che ci amano. Ma l’amore è silenzio: Ogni uomo muore sconosciuto»51. Manca Colui che può salvare l’amore segreto degli uomini. Nell’ultimo romanzo di Camus, lo splendido e incompiuto Le premier homme che portava con sé al momento dello schianto mortale della sua auto il 4 gennaio 1960, ciò che resta è l’amore di una madre, la madre povera e silenziosa dell’autore. A lei, vestigia terrena del divino, va la supplica del figliol prodigo: «O madre, o tenera, bambina adorata, più grande del mio tempo, più grande della storia che ti assoggettava a sé, più vera di tutto ciò che ho amato in questo mondo, o madre perdona a tuo figlio di essere fuggito dalla notte della tua verità»52. Figura estrema di una vita nascosta, di una dedizione senza ricompensa, la «madre è Cristo»53. È «come un Myshkin ignorante. Non sa nulla della vita di Cristo, eccetto che sulla croce. Eppure chi gli è più vicino?»54. Camus, che aveva letto lo studio di Romano Guardini L’univers religieux de Dostoïevski (Le Seuil 1947), associa la figura materna al protagonista de L’idiota. Lei è l’“idiota” il cui sacrificio d’amore è più forte della rivolta: «Cristianesimo della mamma al termine della vita. La donna povera, infelice, ignorante […]. Che la croce la sostenga»55.
Come Agostino verso Monica, Camus ritrova nella madre l’eco di Cristo, il riflesso di una dedizione immotivata più forte di ogni obiezione: «Che cosa avrebbe conservato valore? Il silenzio di una madre. Davanti a lei deponeva le armi»56. Da qui sorge l’ultima, la più autentica religione di Camus: «Quelli che suscitano amore, anche decaduti, regnano sul mondo e lo giustificano»57. Oltre la caduta e la rivolta si apre qui una possibiltà nuova: la “grazia” come “giustificazione” dell’esistenza. Una grazia che rifulge là dove il sacrificio è più grande. Donde l’affetto a Cristo, un Cristo totalmente terreno certo, che muove Clamence a confessare: «Ha gridato la propria agonia, e perciò l’amo, questo amico, morto senza sapere»58, in ciò seguita da Nancy Mannigoe, la protagonista di Requiem per una monaca di Faulkner che, nell’adattamento francese di Camus, esclama: «Ma io l’amo perché è stato ucciso»59. In questo amore a Cristo, Camus, che ammirava il Gesù risorto di Piero della Francesca, non va oltre il sacrificio del Golgota. In ciò rimane, fino alla fine, come Agostino prima della conversione. Celata rimane l’esigenza di una grazia che risplende, a tratti, nei rapporti umani, in una «compagnia senza parole», nei gesti nobili che «conservano interamente ai miei occhi un valore di miracolo: un effetto esclusivo della grazia»60.
È l’opulenza che risalta nella povertà. «Per i ricchi il cielo, essendo un dono in sovrappiù, sembra un dono naturale; sono solo i poveri che gli restituiscono il suo carattere di grazia infinita»61.
NOTE
1 A. Camus, Métaphysique chrétienne et néoplatonisme, Paris 1965, tr. it., Metafisica cristiana e neoplatonismo, a cura di L. Chiuchiù, Reggio Emilia 2004.
2 Sul confronto Camus-Agostino cfr. P. Archambault, Augustin et Camus, in Recherches Augustiniennes, 6 (1969), pp. 195-221; E. C. Rava, La ricerca di Dio: Albert Camus e Agostino a confronto, in Lateranum, 55 (1989), pp. 69-133; V. Pacioni, La presenza di sant’Agostino nell’opera letteraria e filosofica di Albert Camus, in Aa.Vv, Congresso internazionale su sant’Agostino nel XVI centenario della conversione, vol. III, Roma 1987, pp. 369-379; G. Ricciardi, La presenza di sant’Agostino in Albert Camus, in Aa.Vv, Agostino non è (il) male, a cura di G. Fidelibus, Chieti 1998, pp. 77-86; A. Pieretti, Albert Camus. Unde malum?, in Aa. Vv, Esistenza e libertà. Agostino nella filosofia del Novecento, vol. I, a cura di L.Alici-R.Piccolomini-A.Pieretti, Roma 2000, pp. 225-247.
3 A. Camus, Metafisica cristiana e neoplatonismo, cit. p.12.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 A. Camus, Nozze, tr. it., in Saggi letterari, Milano 1966, p. 69.
7 A. Camus, Metafisica cristiana e neoplatonismo, cit., p. 43.
8 Ibidem, p. 93.
9 Ibidem, p.111.
10 Ibidem, pp. 112-113.
11 “Nouv. lett.”, n. 1236, 10 maggio 1951.
12 A. Camus, Carnets, vol. II, Janvier 1942–Mars 1951, Paris 1964, tr. it., Taccuini, vol. II, Gennaio 1942-Marzo 1951, Milano 1992, p. 11.
13 Ibidem, p.13.
14 Ibidem, p. 285.
15 Ibidem, p.141.
16 Ibidem, p. 204.
17 Ibidem, p. 269.
18 Ibidem, p.150.
19 Ibidem, p.198.
20 Cit. in O. Todd, Albert Camus – Une vie, Paris 1996, tr. it., Albert Camus. Una vita, Milano 1997, p. 56.
21 Ibidem, p. 67.
22 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., p. 204.
23 Cit. in H.R. Lottman, Albert Camus, Paris 1978, tr. it., Albert Camus, Milano 1984, p. 418.
24 A. Camus, L’incroyant e les chrétiens, in Essais, Paris 1965, tr. it., Il non credente e i cristiani, in Esistenza e storia, a cura di R. Perini, Perugia 1981, p.117.
25 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., p.154.
26 A. Camus, Il non credente e i cristiani, cit., p. 116.
27 A. Camus, Carnets, vol. III, Mars 1951–Décembre 1959, Paris 1989, tr. it., Taccuini, vol. III, Marzo 1951 –Dicembre 1959, Milano 1992, p.182.
28 A. Camus, L’homme révolté, Paris 1951, tr. it., L’uomo in rivolta, Milano 1968, p. 31.
29 H. Jonas, Gnosticism and Modern Nihilism, in Social Research, XIX (1952), tr. it. in Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, in Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Torino 1999, pp. 263-284.
30 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., p. 165.
31 Ibidem, p. 109.
32 Cfr. ibidem, p. 278 e Taccuini, vol. III, cit., p. 76.
33 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., p. 110.
34 Ibidem, pp. 26-27.
35 Ibidem, p. 110.
36 A. Camus, Taccuini, vol. III, cit., p. 60. «Però credono solo al peccato, mai nella grazia» (A. Camus, La chute, Paris 1956, tr. it., La caduta, Milano 1974, p. 84). Les temps modernes era il titolo della rivista diretta da J. P. Sartre.
37 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., p. 172.
38 Ibidem, p. 240., cfr. Taccuini, vol. III, cit., p. 115.
39 A. Camus, Taccuini, vol. II, cit., pp. 234-235.
40 Ibidem, p. 269.
41 Ibidem, p. 270.
42 A. Camus, Taccuini, vol. III, cit., p. 116.
43 Ibidem, p. 42.
44 Ibidem, p. 58.
45 A. Camus, La caduta, cit., p. 68.
46 Ibidem, p. 69.
47 Ibidem, p.89.
48 J. P. Sartre, Risposta a Camus, in Situations, vol. IV, Paris 1964, tr. it., in Che cos’è la letteratura, Milano 1966, p. 469.
49 A. Camus, Taccuini, vol. III, cit., p. 128.
50 A. Camus, Il non credente e i cristiani, cit., p. 114.
51 A. Camus, Taccuini, vol. III, cit., p. 60.
52 A. Camus, Le premier homme, Paris 1994, tr. it., Il primo uomo, Milano 1994, p. 245.
53 Ibidem, p. 254.
54 Ibidem, p. 264.
55 Ibidem, p. 271.
56 Ibidem, p. 276.
57 Ibidem, p. 259.
58 A. Camus, La caduta, cit., p. 71.
59 Cit. in Ch. Moeller, Littérature du XXe siècle et christianisme, vol. I, Silence de Dieu, Paris 1964, tr. it., Letteratura moderna e cristianesimo, vol. I, Il silenzio di Dio, Milano 1973, p. 96, nota 24.
60 A. Camus, Il primo uomo, cit., p. 244. L’annotazione è ripresa dai Taccuini del 1935 (Cfr. A. Camus, Carnets, vol. I, Mai 1935–Février 1942, Paris 1963, tr. it., Taccuini, vol. I, Maggio 1935–Febbraio 1942, Milano 1992, p. 10).
61Ibidem, p. 7.
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