Huizinga nacque il 7 dicembre 1872. A partire dal 1905 diventò professore all'Università di Groningen e, dopo il 1915, in quella di Leiden. Deportato dai nazisti, morì in un piccolo villaggio olandese il 1° gennaio 1945.
Il largo ventaglio dei suoi interessi culturali è semplicemente straordinario. Non senza fatica si riescono a suddividere le sue ricerche in tre grandi settori: anzitutto la storiografia propriamente detta (cfr gli studi fatti su epoche e situazioni assai drammatiche, come p.es. il basso Medioevo, la riforma protestante, i Paesi Bassi al tempo della guerra di liberazione contro la Spagna).
In secondo luogo, un ruolo molto importante viene da lui attribuito alle ipotesi interpretative sulla formazione e sullo sviluppo della cultura mondiale (p.es. sul ruolo del "gioco" quale fattore che crea cultura). Più in generale lo ha interessato l'analisi delle illusioni e utopie "eterne", le "idee iperboliche della vita" - come le chiamava - che ricorrono periodicamente nella storia della civiltà (si pensi al sogno dell'età dell'oro, all'ideale bucolico di ritorno alla natura, all'ideale evangelico di povertà, agli ideali della cavalleria, al revival dell'antichità classica...). Egli cercò appunto di dimostrare come in ogni cultura tutta la vita della società s'articola intorno a queste idee.
Infine, un posto considerevole occorre assegnare alla sua critica dell'epoca, specie la diagnosi della cultura occidentale contemporanea, l'analisi delle cause del declino della vita sociale (in particolare il rapporto tra le nozioni di "cultura" e di "civiltà", i problemi della storia universale, quelli della pace, dello Stato e del diritto). Qui i riferimenti a J. Ortega y Gasset, M. Heidegger, K. Jaspers e G. Marcel, che nella sua stessa epoca hanno cercato di comprendere le cause della profonda crisi della cultura occidentale, sono inevitabili.
Huizinga è anzitutto uno storiografo, cioè uno storico che combina i fatti con la narrazione e la teoria. I grandi affreschi come Il declino del Medioevo, Erasmo e La cultura olandese del XVII secolo danno un'idea sufficientemente chiara del suo modo di comprendere il problema della ricostruzione di una storia della cultura; problema peraltro che ha coinvolto, appassionatamente, la storiografia europea durante i primi 30 anni del Novecento.
Ora, se riguardo allo Huizinga storico la critica è unanime nel considerarlo "il Burckhardt del XX secolo", riguardo invece allo Huizinga ideologo i pareri sono molto discordi, anche in ragione del fatto che Huizinga è sempre stato allergico a formule categoriche. Al punto che è impossibile far rientrare i suoi lavori all'interno di una precisa corrente storiografica occidentale.
Alcuni lo considerano appartenente alla logora storia evenemenziale, individualizzante; altri lo accusano di antistoricismo e di "degrado sociologico". Forse gli storici che gli hanno riservato un'attenzione non superficiale sono stati gli italiani: D. Cantimori, O. Capitani, C. Morandi.... i quali però non si nascondono i limiti metodologici della sua storiografia. Da segnalare anche il biografo svizzero di Huizinga, K. Koster.
L'idealismo di Huizinga su molte questioni essenziali relative all'interpretazione delle leggi dei processi storici, lo avvicina alla storiografia individualizzante e soprattutto alla scuola tedesca di Baden. Nel conflitto che ha visto opposti, a partire dalla fine dell'Ottocento, lo storicismo della scuola di Ranke e il positivismo, la storia e la sociologia, Huizinga non ha certo parteggiato per i secondi.
Tuttavia, la sua attività va al di là di questo quadro schematico. Basta infatti osservare come egli esamina le epoche di crisi, quelle che in un certo senso più lo affascinano; vi sono senza dubbio nella sua analisi elementi propri alla tradizione dello storicismo idealista (ad esempio l'esagerazione del ruolo giocato nelle svolte storiche dai grandi personaggi, l'appassionato attaccamento al concreto, all'empirismo storico, l'importanza attribuita al caso, e altro ancora).
Ciononostante Huizinga ha inaugurato un modo nuovo di concepire la storia. Nel suo Declino del Medioevo i grandi tratti espressivi della cultura dell'epoca vengono delineati nel corso di un'analisi della vita quotidiana della società, un'analisi assai minuziosa e fedele alla cronaca del tempo, che ha per oggetto tutto quanto precede le manifestazioni dell'arte: i costumi, le istituzioni etiche e giuridiche, gli ideali sociali, la dottrina religiosa e le teorie dei mistici, il quadro sociale dei vari ordini (specie della popolazione urbana) e le funzioni della produzione artistica.
L'attenzione dello storico è centrata meno sulle azioni politiche propriamente dette e più sulla coscienza collettiva, cioè sulla correlazione fra la vita della società e la scala di valori da essa accettati. I problemi della coscienza sociale vengono esaminati nel quadro d'un lavoro globale di tipologizzazione della cultura storica. Huizinga non appartiene, in questo senso, alla storia psicologizzante.
Qui si può ricordare che un po' più tardi una strada analoga verrà percorsa dal grande riformatore della storiografia occidentale, M. Bloch, che nei suoi studi sul Medioevo farà appello alla psicologia sociale.
L'esigenza che ha mosso questi storici è stata quella di valorizzare aspetti che fossero più autentici degli avvenimenti politici o delle azioni individuali.
Huizinga considera la cultura come un sistema in cui tutti gli elementi interagiscono tra loro: economia, politica, diritto, usi, costumi e arte. Non solo, ma per lui la storia è immediatamente una storia universale, anche quando si parla di fenomeni locali. Il metodo comparativo gli pare sufficiente per dimostrarlo.
Tuttavia, la concezione secondo cui per comprendere il significato di ogni moderno fenomeno storico bisogna conoscere tutte le culture precedenti, lo obbliga a lavorare su periodi di grande durata, e questo lo stimola a progettare strutture su vasta scala. La più globale di queste è senz'altro Homo Ludens: un'enorme costruzione dì antropologia culturale fondata sull'etnografia, la psicologia storica, la sociologia, la linguistica, lo studio del folklore, ecc., ovvero un'analisi globale del ruolo dei miti e dell'immaginazione nella civiltà mondiale, del gioco come principio universale del divenire della cultura umana.
Non a caso il nome di Huizinga è stato accostato a quello di M. Mauss e di C. Lévi Strauss; anche il padre dell'antropologia culturale, E. Tylor, deve aver esercitato su di lui un profondo influsso. Huizinga - come vuole Capitani - ha anticipato di molto il metodo di ricerca interdisciplinare, lo studio dei processi, dei rapporti e delle strutture sociostoriche, nonché l'orientamento non eurocentrico.
Tuttavia, se Huizinga è vicino alle "Annales" per quanto riguarda i nuovi concetti di tipologizzazione e generalizzazione, e anche per l'analisi sistemica e strutturale, ecc., sul piano della storia delle culture egli si avvicina all'idea dell'analisi morfologica delle entità storico-culturali, elaborata da Spengler; mentre in relazione al metodo lo stesso Huizinga s'è sempre pronunciato a favore della tradizionale storiografia événementielle della scuola tedesca. Egli fu rigorosamente fedele al "mestiere di storico", quale lo concepiva J. Michelet e L. Ranke.
In particolare, quando si è sentito in dovere di definire in un saggio il concetto di storia (1929), Huizinga si è limitato a un'espressione di carattere generale: "La storia è la forma spirituale in cui la cultura si rende conto del suo passato", con la quale voleva evitare qualunque definizione scolastica. A suo parere, la definizione generale dell'oggetto della storia non solo attesta una profonda dipendenza della storia nei confronti di altre forme del sapere e della cultura, non solo bandisce dalla scienza storica lo spirito di dogmatismo e di sufficienza, riaffermando un rapporto vivente con la realtà; ma permette anche di considerare e valorizzare i motivi che spingono l'umanità a interessarsi della storia.
In questo senso la definizione non si pone il problema di render conto di tutti i dettagli, supera l'apparente opposizione fra gli aspetti narrativi, didattici e scientifici della storia, non obbliga a scegliere fra il particolare e il generale, in quanto accetta i piccoli lavori della storiografia locale come le concezioni globali della storia mondiale e, soprattutto, lascia il campo libero a ogni sorta di sistemi interpretativi, ove è dal libero confronto dialettico che può emergere la verità delle cose.
Huizinga rifiuta le definizioni dell'oggetto della storia formulate da Bernheim, Bauer e altri, per la semplice ragione ch'essi rifiutano come fonti non scientifiche i miti, la tradizione orale presso le tribù primitive, le cronache, le canzoni dei trovatori, ecc.
Huizinga invece ha cercato di dare una definizione della storia che permettesse di abbracciare tutta la pratica della cultura consapevole di se stessa, che si racconta nelle forme più varie. Non solo, ma egli ha anticipato uno dei principi teorici fondamentali della ricerca storica del XX secolo: l'idea del condizionamento della conoscenza storica da parte della cultura cui lo storico appartiene. La conoscenza. cioè non è mai neutrale, ma sempre storicamente (perché culturalmente) situata. Lo storico non può fare la storia se non ha coscienza dei suoi limiti, soggettivi e oggettivi.
Tuttavia Huizinga paga un certo tributo al relativismo, in quanto per lui la forma scientifica della storia moderna non costituisce sempre un vantaggio incontestabile in rapporto alle culture precedenti. L'odierna interpretazione scientifica della storia -soleva dire- può alterare il senso del passato. Il che può anche essere vero, ma solo in assenza dei criteri del progresso del sapere storico, che in assoluto permettono un'approssimazione alla verità storica sempre maggiore.
Huizinga si pronunciava contro "la storia integrale con le sue proprie leggi", benché disprezzasse l'idea delle "culture chiuse" e considerasse l'epoca contemporanea come quella d'una storia realmente universale.
Il valore morale della conoscenza storica Huizinga lo vede nel fatto che tale conoscenza, come altre forme di conoscenza, esprime l'orientamento dell'uomo e della civiltà umana verso la verità. In questo senso egli non è un relativista. A suo giudizio la storia, come la filosofia o le scienze naturali, porta l'uomo alla verità, ovvero a liberarlo dai pregiudizi, che sono peraltro inevitabili, a causa del contesto culturale limitato in cui questa o quella società vive e si esprime.
Ovviamente la verità, per Huizinga, non è solo un obiettivo intellettuale, ma anche morale, in quanto lo storico applica costantemente al passato le nozioni di "bene" e "male" a sua disposizione. In questo sta la sua serietà.
La storia, per Huizinga, è una scienza sociale rigorosa. Essa è sempre stata scritta là dove un dato periodo storico aveva il suo centro spirituale: l'agorà, i monasteri, la corte reale, lo studio di un professionista, la redazione di un giornale, ecc. Compito della storia - a suo giudizio - è quello di rimanere a contatto con la vita culturale, nazionale e mondiale, non quello di trasformarsi in una disciplina accademica. D'altra parte la storia non è autosufficiente come le scienze naturali e filologiche: essa ha bisogno di moltissime branche del sapere e della cultura.
Le idee di Huizinga riguardanti la natura e gli obiettivi della storiografia si distinguono per la loro democraticità e per il misconoscimento assoluto di un qualsiasi carattere élitario o esoterico del sapere storico. Poiché il sapere storico è, secondo lui, la coscienza di sé culturale, cioè la forma per mezzo della quale la società si rende conto del suo passato, questo sapere, se smette d'essere accessibile a vasti strati sociali e a tutto il pubblico istruito, perde inevitabilmente il suo significato. Huizinga però condanna anche la cultura di massa borghese, che giudica volgare, basata sugli istinti e sul profitto.
Egli prende anche le distanze dalla sociologia, poiché mentre quest'ultima - a suo giudizio - considera i fenomeni sociali come meri paradigmi, la storia della cultura - questa la sua opinione - non cerca di dedurre da tali fenomeni delle regole generali per la conoscenza della società.
Sotto accusa sono anche i metodi strutturalisti, ritenuti troppo schematici e arbitrari, poco rispettosi del lato concreto, empirico, della cultura storica. Lo strutturalismo non è in grado di cogliere - secondo lui - la dinamica della storia, il lato drammatico o epico delle forme e dei modi dell'esistenza umana.
Anche la diffusione dei metodi di ricerca quantitativi, fondati sulla matematizzazione del metodo della conoscenza storica, viene respinta, in quanto essa tende - a suo giudizio - a spersonalizzare gli avvenimenti e le azioni degli uomini. La storia diviene cioè informe, perde la sua dinamica, il suo processo e tutto è ridotto a singoli atti: la lotta per il potere, ecc. Il lato epico drammatico della storia sembra che venga percepito oggi - dice Huizinga - solo dalle arti plastiche.
Tuttavia l'apporto concettuale di Huizinga sembra inadatto a render conto dell'epoca contemporanea. Le categorie essenziali dello sviluppo, come il progresso sociale e la rivoluzione, gli sono completamente estranee: al massimo le considera come il sogno della felicità che si vorrebbe ottenere "qui e ora": il "tutto e subito" che si rinnova costantemente nella storia della civiltà.
Troppo immerso nel passato, Huizinga considera l'esperienza del XX secolo come quella dell'assurdo e degli errori, dell'irrazionalità del pensiero e della politica. Le uniche vere realizzazioni sono state, secondo lui, quelle tecniche.
Questo è anche uno dei motivi per cui egli, nonostante i periodi oscuri degli anni '30 e '40 del Novecento, rimase rigorosamente fedele ai criteri e ai valori della filosofia e della storiografia razionaliste. Correnti, queste, che allora venivano messe a dura prova dagli attacchi del positivismo e della sociologia, nonché di tutte quelle che, negando qualsiasi valore scientifico allo storicismo (vitalismo, esistenzialismo, ecc.), preludevano in un certo senso alla nascita dell'ideologia fascista.
Le dure filippiche contro la scienza storica, lanciate da Husserl, Valéry, Peguy e Marcel, indussero Huizinga a compiere un'analisi della sua epoca nel libro La crisi della civiltà (1935), nel quale le cause della crisi vengono attribuite non al razionalismo - come vuole la maggioranza degli ideologi occidentali contemporanei - bensì all'irrazionalismo: lo stesso irrazionalismo che in politica e nelle relazioni internazionali aumentò costantemente la minaccia della guerra.
Erede delle tradizioni di Ugo Grozio, Huizinga sottopose a critica severa le concezioni del diritto internazionale e dello Stato amorale di H. Freyer, K. Schmidt, ecc., denunciando la natura pseudoscientifica delle dottrine giuspolitiche del fascismo. Il XX secolo - dice Huizinga - ha fatto della storia uno strumento di falsificazione al livello di politica statale. Nessun dispotismo orientale era arrivato a tanto.
Sulle questioni politiche più acute della nostra epoca, Huizinga assunse posizioni completamente estranee alla ristrettezza borghese, al "neutralismo", al conservatorismo o al conformismo. Ad esempio nei confronti del problema della guerra, il suo giudizio è sempre stato di netto rifiuto. La fiducia nelle armi per lui equivaleva alla superstizione dei primitivi nei feticci e negli idoli.
Con acume aveva sottolineato che già la guerra dei Cento anni, le guerre di Luigi XIV o di Napoleone non avevano procurato benefici a nessuna nazione. Il perfezionamento delle armi offensive e il servizio militare obbligatorio li giudicava dei fardelli inconcepibili per gli Stati moderni, non essendo il mondo più capace di sopportare alcuna guerra distruttiva.
Durante tutta la sua vita, Huizinga ha denunciato i prodotti dell'imperialismo, come il razzismo l'ipernazionalismo, il fascismo e il militarismo. Pur avendo numerosi tratti del "libero conservatore" - come affermano Garin e Cantimori - Huizinga seppe rimanere fedele, anche con coraggio, ai suoi principi umanistici.
Per ridurlo al silenzio, i nazisti lo deportarono, già anziano, in un lager per ostaggi; più tardi lo trasferirono in un piccolo villaggio olandese, ove morì di sfinimenti qualche mese prima della vittoria. Ma i nazisti non erano riusciti a farlo tacere. Proprio nel lager e in esilio egli scrisse due opere: Lo scempio del mondo e La civiltà olandese del Seicento, continuando a mostrare la stretta correlazione fra "cultura" e "civiltà umana".
Bibliografia
J. Huizinga, Homo ludens, 2002, Einaudi; L'autunno del Medioevo. Ediz. integrale, 2007, Newton Compton; Erasmo, 2002, Einaudi; Civiltà e storia, Guanda, 1946; L'uomo e la cultura, Firenze, 1948; Lo scempio del mondo, 2004, Mondadori Bruno; La mia via alla storia, Laterza, 1967; La civiltà olandese del Seicento, 2008, Einaudi; La scienza storica, Laterza, 1974; D. Cantimori, Storici e storia, Einaudi, 1971; Immagini della storia. Scritti 1905-1941, 1993, Einaudi; La crisi della civiltà, Einaudi
Fabretti Piero, Nietzsche, Pirandello, Huizinga. Dimensione ludica e umorismo tragico, 1990, Gangemi
Da "http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaH/HUIZINGA_%20L%20ECLISSE%20DELLA%20RAGION.htm" :
Huizinga, L’eclisse della ragione
Siamo
negli anni Trenta e allo storico olandese sembra che la società europea
manifesti in modo evidente l’eclissi della ragione.
Bisogna quindi studiare
questa demenza e cercare i mezzi di guarigione.
J. Huizinga, La crisi della civiltà,
Einaudi, Torino, 1978, pagg. 40-42
La nostra
società è piena di sintomi inquietanti, che si possono adeguatamente
raccogliere sotto la denominazione di “indebolimento del raziocinio”.
È
umiliante davvero. Si vive in un mondo in ogni senso molto meglio informato
intorno a se stesso, alla sua natura, alle sue possibilità di quanto accadesse
in qualsiasi precedente epoca della storia.
Oggettivamente e positivamente, si
sa meglio di prima come sia e si comporti il sistema cosmico, come lavori
l’organismo vitale, come si regolino le cose dello spirito, come le conseguenze
siano derivate dalle premesse.
Il soggetto uomo conosce sé e il suo mondo
meglio di quanto non si sia mai conosciuto.
L’uomo, in un senso molto positivo,
è diventato piú capace di giudicare.
Piú capace in senso intensivo, in quanto
lo spirito penetra piú addentro nella concatenazione e nella struttura, piú
capace in senso estensivo, in quanto la sua conoscenza si estende uniformemente
su un molto maggior numero di campi, e soprattutto in quanto un numero di
persone molto maggiore di prima partecipa a un certo grado di cultura.
La
società, presa come soggetto astratto, conosce se stessa.
Il “conosci te
stesso” è sempre passato per il compendio della saggezza.
La deduzione finale
pare inevitabile: il mondo è divenuto piú saggio. – “Risum teneatis...”
Sappiamo bene
come stanno le cose. La follia in tutti i suoi aspetti, quelli burleschi e
comici, quelli maligni e dannosi, non mai come oggi ha celebrato le sue orge
pel mondo.
Ora essa non sarebbe piú l’argomento di un’operetta arguta e
scherzosa di un umanista di nobile mente e seriamente preoccupato come Erasmo.
Come malattia
sociale bisogna studiare in tutta serietà l’immane demenza dell’ora nostra,
freddamente e oggettivamente mettere a nudo i suoi sintomi, fissare l’indole
del male, e cercare i mezzi di guarigione.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. V, pagg. 75-76
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