Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 27 agosto 2013

Ralph Waldo Emerson 2

Da "http://www.filosofico.net/emerson.htm" :

RALPH WALDO EMERSON
A cura di Alessandro Sangalli

"Odio le citazioni, dimmi quello che sai".

Introduzione

Saggista, poeta e filosofo molto popolare, Ralph Waldo Emerson (Boston 25/05/1803 - 1882) iniziò la sua carriera come pastore della Chiesa unitariana (l’unitarianismo è quella dottrina teologica che afferma l’unicità assoluta di Dio, negando quindi il dogma trinitario, l’incarnazione e la divinità di Cristo), ma ottenne lustro internazionale in quanto apprezzato lecturer e autore di saggi quali "La fiducia in sé stessi", "Storia", "L’oltreanima" e "Destino".
Personalità poliedrica, attinse da svariate correnti di pensiero: il romanticismo inglese e tedesco, il neoplatonismo, il kantismo e addirittura l’induismo.
Intere generazioni di scrittori e intellettuali americani risentirono della sua influenza, a partire dall’amico Henry David Thoreau fino a John Dewey, senza tralasciare il fatto che anche un pensatore del calibro di Friedrich Nietzsche ne apprezzò esplicitamente gli scritti e dedicò gran parte della sua riflessione ai temi del nostro, in particolare alla potenza, al fato, alla poesia, alla storia e alla critica del cristianesimo.

Che cosa vuol dire lecture? Il dizionario suggerisce "lezione" e "conferenza".
Occorre tener presente, tuttavia, ciò che con questo termine si intende quando ci si riferisce all’America del 1800.
Le lectures tenute da Emerson non erano delle lezioni universitarie.
Egli parlava nei Lyceums, qualcosa di simile agli odierni circoli culturali, ad un pubblico costituito da persone in carriera, da self-made men.
Una lecture durava solitamente un’ora, massimo un’ora e mezza: Emerson poteva tenere fino a ottanta conferenze l’anno, conseguendo un reddito vicino a quello di un normale professore di college.
Emerson è generalmente considerato il massimo esponente di quella corrente filosofica fiorita specialmente a Boston e definita "trascendentalismo americano".
Il nostro autore, al pari degli altri "trascendentalismi", si ritiene erede legittimo della tradizione kantiano-fichtiano-schellinghiana, ma legge poi la filosofia trascendentale attraverso le lenti interpretative del Romanticismo, finendo in tal maniera per riconoscere la superiorità assoluta del sentimento sulle altre facoltà conoscitive.
Il suo pensiero, dunque, non deve essere qualificato come "filosofia trascendentale", bensì come "trascendentalismo".

Temi principali del suo pensiero

L’educazione

Ne "Lo studioso americano", un discorso tenuto il 31 agosto 1837 per la "Phi Beta Kappa Society" di Cambridge, Emerson afferma che l’intellettuale è educato dalla natura, dai libri e dall’azione.
La natura è la prima sia in ordine cronologico (è presente da sempre) sia in ordine di importanza.
Dietro la varietà delle forme naturali, si celano infatti le stesse leggi fondanti che governano la mente umana: la disciplina dalla quale la natura è regolata è una preziosa fonte d’insegnamento per l’uomo.
L’antico precetto "conosci te stesso" e il moderno comandamento "conosci il mondo" diventano in ultima analisi una cosa sola.
I libri, la seconda componente dell’educazione dello studioso, ci offrono l’opportunità di dialogare col passato: tuttavia, a detta del nostro, molto di ciò che passa ancora per insegnamento ed istruzione è in realtà semplice sacralizzazione del sapere scritto.
Il corretto rapporto con i libri non è quello del "topo da biblioteca" o del bibliomane, ma quello del lettore creativo che usa i libri come stimoli per cogliere principi propri.
Se usati bene, i libri ispirano l’anima attiva.
La terza componente fondamentale dell’educazione è l’azione: senza di essa infatti, il pensiero non matura mai in verità.
L’antenato di ogni azione è un pensiero.
L’azione è anche il dizionario di uno studioso, la fonte di ciò che egli ha da dire: il vero intellettuale parla per esperienza propria, non per imitazione degli altri; le sue parole sono cariche di vita: "insisti su te stesso, non imitare mai", afferma Emerson.

A suo avviso, questo modello educativo basato sull’esperienza e sull’espressione del sé non è indicato solamente a una ristretta classe di persone, ma è adatto a ogni uomo, essendo il suo obiettivo finale la creazione di una nazione democratica.
Solo quando tutti impareremo a camminare con le nostre gambe e a pensare con le nostra testa esisterà per la prima volta una nazione.

Il segreto dell’educazione è, per il nostro, il rispetto dell’allievo: l’insegnante non deve decidere cosa l’allievo deve sapere e deve fare, ma lasciare che questi lo scopra da sé.
Il maestro non deve far altro che "aspettare ed osservare il nuovo prodotto della Natura", guidando le azioni dell’allievo in modo da incoraggiare quelle positive e da evitare quelle non appropriate ad una corretta educazione.
Il modello di Emerson ricorda molto quello che Rousseau delinea nel suo "Emilio": all’educazione tradizionale che opprime e distrugge con una sovrastruttura artificiale la natura originaria, bisogna sostituire un’educazione negativa che si proponga come unico fine la conservazione e il rafforzamento di tale natura.
Nell’educazione di massa questo fine è sacrificato.
Invece di educare masse, sostiene Emerson, bisognerebbe educare persone.

Il divenire

Emerson è per molti versi un filosofo del divenire, per il quale l’universo è essenzialmente un flusso continuo.
Perfino quando parla dell’essere, egli non ha in mente una roccia inamovibile ma una serie di “oceani infiniti”.
Il divenire è la base della successione dei modi che il nostro descrive in "L’esperienza" e dell’importanza che egli dà al tempo presente nella sua riflessione filosofica.

Alcune delle sue idee più originali circa la moralità e la verità discendono direttamente da questa metafisica del divenire: nessuna virtù è ultima o eterna; la verità è un insieme di occhiate fugaci, non una visione limpida.
Noi possiamo scegliere tra la verità e la calma, ma non possiamo averle entrambe.

Ovviamente, anche le sue idee sulla religione si inseriscono in questa cornice metafisica.
Si può trovare Dio solo nel presente: "Dio è, non era".
Al contrario, il cristianesimo storico procede "come se Dio fosse morto".
Anche la Storia, che sembra avere totalmente a che fare con il passato, ha per Emerson il suo vero valore in quanto serva del presente.

La morale

Le opinioni etiche del nostro si intrecciano naturalmente con la sua metafisica del divenire e con il suo perfezionismo, ovvero l’idea che il fine della vita sia quello di passare a forme sempre più alte e perfette.
Emerson concepisce la morale in un continuo sviluppo storico, ma in alcuni passi sembra addirittura esprimere una posizione più scettica e radicale: che le nostre virtù debbano più spesso essere abbandonate che coltivate.
"Il terrore che accompagna una riforma è rappresentato dallo scoprire che dobbiamo gettare via le nostre virtù, o ciò che abbiamo sempre considerato essere virtù, nella stessa fossa in cui abbiamo gettato i nostri vizi più grandi".
In questa frase, notiamo un significativo inciso che ci fa capire come Emerson non abbracci un facile relativismo secondo il quale è de facto virtù ciò che in ogni tempo è assunto come tale.
Ciononostante egli getta un’ombra di sospetto su tutti modi di pensare ed agire stabiliti dal conformismo.
"Sii libero da tutte le influenze", scrive il nostro autore.
Il male è, quindi, la cieca ubbidienza, la volontà di imitazione, di omologazione.
Le virtù sopravvivono nel nuovo momento, il momento della verità, dell’originalità, della creazione; il momento in cui ciò che una volta sembrava importante può ora apparire come ridicolo o vano.
In questa prospettiva, quindi, le virtù non scompaiono del tutto, ma devono essere significativamente alterate e riadattate.

Sebbene Emerson non sia intenzionato ad esporre un compiuto sistema etico, attraverso le sue opere non rinuncia a delineare vizi e virtù, eroi e furfanti.
Nel "Discorso alla Facoltà di Teologia", i furfanti sono gli "spettrali predicatori" i cui sermoni non offrono nessun suggerimento derivante da un’effettiva esperienza di vita; "La fiducia in sé stessi" condanna quelle virtù che sono in realtà "penitenze", insieme alla filantropia di quegli abolizionisti che ostentano un amore idealizzato verso persone lontane, ma sono pieni di odio verso quelle che hanno a fianco.

Il conformismo è, per il nostro, il vizio principale, l’esatto opposto della virtù della fiducia in sé stessi: "chi vuol essere un uomo deve essere un anticonformista".
Ci lasciamo irretire dal conformismo quando prestiamo immotivata stima alla moda, all’abbigliamento o ad altri status-symbol, quando indossiamo una falsa maschera di adulazione, quando ci sforziamo di sorridere pur non sentendoci a nostro agio, quando fingiamo coinvolgimento per una conversazione che non ci interessa minimamente.
Se il precetto fondamentale dell’etica è quello di non consentire a ciò che gli altri pensano, fanno, dicono, allora quel che Emerson impone è che, paradossalmente, non si debba seguire/consentire nemmeno alle nostre azioni passate, al "morto" altro che è in noi e che esige coerenza.
Come ben scrive Beniamino Soressi: "solo chi si è allontanato da sé (dal sé passato) può confidare in sé (nel prossimo sé). Confidare nel sé passato (per una stupida coerenza) o nel sé conformista (per sentimenti di timore e vergogna) significa diffidare del prossimo, possibile, sé: significa negarlo".
Ma "chi rimuove il sé possibile rimuove anche la possibilità di esprimere una parola e un pensiero viventi anziché il pensiero di qualche morta istituzione" (B. Soressi, R.W. Emerson, "Il pensiero e la solitudine").

La virtù cardine, come abbiamo appena visto, è quella della fiducia in se stessi o, come la chiama Emerson, della self-reliance: una locuzione in cui egli intende condensare originalità e spontaneità.
Il concetto di self-reliance è efficacemente espresso dal nostro autore tramite l’immagine di un gruppo di ragazzi disinvolti che, sicuri di se stessi, fanno e dicono ciò che pensano, non curandosi di assecondare gli altri.
Questi ragazzi giudicano liberamente il mondo e le persone che vivono in esso, condannando ciò che trovano sciocco o seccante ed elogiando ciò che ai loro occhi appare interessante e significativo.
Quest’immagine illustra chiaramente la tipica combinazione emersoniana di classico (l’idea di una gerarchia in cui i ragazzi occupano un posto d’onore) e romantico (l’esaltazione dell’infanzia e della giovinezza).
L’essenza della giustizia e della felicità è che ognuno segua la sua strada: "la fiducia in se stessi è l’essenza dell'eroismo".

A prima vista, potrebbe sembrare che Emerson, parlando di self-reliance, entri in contraddizione con quanto sosteneva in precedenza: l’idea di un self già formato in cui noi dobbiamo avere fiducia cozza con il concetto del continuo divenire e con la "stupida coerenza" che esige il nostro sé passato.
In realtà, il self cui si riferisce l’autore è il sé sempre nuovo e diverso nel processo di creazione nel quale siamo in ogni momento coinvolti.
Un processo nel quale, per usare un’espressione di Nietzsche, si diventa ciò che si è.

I rapporti umani più riusciti e duraturi richiedono la confidenza e l’indipendenza che solo la virtù della fiducia in sé stessi può conferire: la società ideale di Emerson è quella formata da "divinità potenti e indipendenti, che conversano da un picco all’altro dell’Olimpo".
Sebbene il nostro accentui l’importanza dell’indipendenza interindividuale nella società, per evitare che la loro vicinanza si tramuti in omologazione e imitazione, pone il fine della self-reliance nella sfera pubblica e sociale: in altre parole, egli è ben consapevole che dall’influenza degli altri è possibile uscire solo attraverso l’influenza degli altri.
È quindi necessario distinguere un’influenza cattiva da una buona.
Quella cattiva separa il soggetto dal principio della creazione e dell’originalità, pietrificando il sé nella morta ripetizione del pensiero e dell’agire degli altri.
Quella buona permette invece al soggetto di attingere possibilità di vita, di pensiero e di azione sconosciute o ancora non realizzate.
Ed è proprio questo tipo di influenza che hanno sul mondo gli uomini rappresentativi: i loro nomi, Platone, Mosè, Gesù, Lutero, Copernico, Napoleone, "sono scolpiti nella storia del mondo".
In "Uomini rappresentativi", Emerson contrappone all’intelletto, finalizzato alla scienza e alla prassi quotidiana, un’intuizione razionale preposta alla comprensione del Tutto, della totalità, in definitiva dell’essenza ultima del reale.
L’intera storia del pensiero è divisa tra "uomini parziali", che utilizzarono soltanto l’intelletto senza riuscire a cogliere il reale senso delle cose, e "uomini rappresentativi" (o "uomini totali"), i quali, grazie alla ragione, afferrano la potenza infinita che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica e naturale.

Oltre alla virtù cardine della fiducia in sé stessi, Emerson riconosce valore anche ad altre qualità umane, in particolare un tipo di fede e la pratica di un "saggio scetticismo".
Ci sono occasioni, egli afferma, nelle quali dobbiamo lasciare andare il mondo come va ed avere fede nella natura dell’universo: "come il viandante che ha perso la strada lascia andare le redini del cavallo e ripone la sua fede nell’istinto dell’animale per ritrovare la via, allo stesso modo dobbiamo comportarci noi con l’animale divino che ci porta attraverso questo mondo".
Tuttavia, il mondo del processo e del divenire richiede una sorta di flessibilità epistemologica e pratica, che Emerson chiama "saggio scetticismo".
L’emblema di questo tipo di scettico è Michel de Montaigne, ritratto in "Uomini rappresentativi" non come un pirronista, ma come un uomo con un grande senso del sé, radicato nella terra e nella vita comune, la cui ricerca è rivolta verso la conoscenza.
Montaigne sa che la vita è pericolosa e incerta, una tempesta di diversi elementi la navigazione attraverso la quale richiede un’imbarcazione flessibile, adatta alla forma dell’uomo.

Il cristianesimo

Benché figlio di un pastore della Chiesa unitariana, studente della Facoltà di Teologia e pastore egli stesso per circa tre anni, Emerson riserva nel Discorso alla Facoltà di Teologia del 1838 una profonda e sentita critica alla religione cristiana, insistendo sulla stessa linea argomentativa già tracciata ne "Lo studioso americano".
Il nostro autore si accorge di come il moderno cristianesimo, con le sue istituzioni educative, soffochi e mortifichi lo spirito creativo dell’uomo: il cristianesimo è diventato "una monarchia orientale", nella quale Gesù è stato reso l’oppressore dell’umanità.

Sebbene Emerson consideri una vera e propria calamità la perdita della fede e del culto da parte di una nazione, trova strano il fatto che, vista la crisi e "la carestia delle nostre chiese", la gente sia ancora obbligata frequentarle.
Egli invita perciò i membri della Facoltà a procurare nuova linfa per le vecchie forme della loro religione, ad essere amici ed esempi per i loro parrocchiani, a ricordarsi che "tutti gli uomini hanno pensieri sublimi; tutti gli uomini meritano qualche ora per essere ascoltati: essi desiderano essere ascoltati".

La potenza

Il tema della potenza si ritrova in molti degli scritti di Emerson: ne "Lo studioso americano", questo concetto è strettamente correlato all’azione, in particolare là dove l’autore sostiene che il vero intellettuale ripensa con rimorso ad ogni opportunità di azione che ha sprecato, considerandola una diminuzione della propria potenza.
Ne "La fiducia in sé stessi", il nostro afferma che la potenza che risiede in ognuno di noi è novità e creazione per la natura; "L’esperienza" contiene un passo nel quale Emerson esalta una vita che definisce "forte" e "vigorosa".
Infine, nel saggio "La potenza", egli esalta la figura del rude, del "duro" che vive seguendo le proprie regole.
Il power cui si riferisce Emerson conserva tuttavia più un carattere artistico-intellettuale che politico-militare. Un passaggio de "La potenza" recita infatti: "Il momento più alto della storia umana fu quello in cui l’uomo aveva da poco abbandonato il suo stato selvaggio, il momento in cui la sua rude forza pelasgica era tutta diretta verso il nascente senso della bellezza, e qui abbiamo Pericle e Fidia, prima del trapasso nella civiltà corinzia".

La potenza si trova tutt’intorno a noi, ma non è sempre possibile controllarla.
È come "un uccello che si libra nell’aria senza meta", passando incessantemente di ramo in ramo.

L’Oversoul

In molte pagine dei suoi saggi e dei suoi discorsi, Emerson ci illustra una grande visione di unità: ne "Lo studioso americano", parla di una “unità originaria” o “sorgente di potenza” di cui ognuno di noi è parte; nel Discorso alla Facoltà di Teologia scrive che l’uomo è “un’insenatura nel mare della Ragione”.
In "La fiducia in sé stessi", il saggio che più di ogni altro celebra l’individualità e la soggettività, accenna a come il Tutto si risolva nell’Uno.
Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, il nostro autore ha una concezione del mondo come un processo in continuo divenire, un ininterrotto processo di creazione nel quale siamo in ogni momento coinvolti: come si possono conciliare queste due prospettive a prima vista fortemente in contraddizione fra loro? Come tenere insieme l’istanza individualistica e soggettivistica della self-reliance con la concezione dell’unità appena esposta?

Per ciò che riguarda la questione ora esposta, va segnalato che in nessun punto della sua opera Emerson si esprime in modo così chiaro da permettere di formulare una risposta definitiva.
Ciò detto, possiamo provare a riflettere sul concetto emersoniano del sé: esso non è e non può essere ridotto a quello dell’autoconsapevolezza di un individuo-monade, autonomo e separato dagli altri individui.
Il sé di cui parla il nostro autore deve essere concepito come una sorta di momento attraverso cui l’individuo si apre a una creatività impersonale e transindividuale che Emerson definisce oltreanima (over-soul).
L’oltreanima, commenta Soressi, "rappresenta una sfida al concetto tipicamente occidentale del sé come ego e alla logica che "vuole" concepire la mente umana come separata".
Il concetto di oltreanima infatti "rappresenta l’unità dell’intelligenza, degli istinti e dei sentimenti dell’umanità tutta, è come il tesoro già presente di tutte le possibilità di un soggetto umano".

Il tentativo più diretto che il nostro fece per cercare di riconciliare la successione temporale con l’unità, o, se si preferisce, i molti con l’Uno, lo si può leggere in "Nominalismo e Realismo", ultimo saggio della raccolta "Saggi", seconda serie: in un passo decisivo, Emerson parla dell’universo come "un vecchio bifronte… di cui si può dire tutto e il contrario di tutto".
È più che evidente l’esito scettico al quale approda lo scrittore americano.
Una venatura scettica è presente anche in quella visione che Stanley Cavell ha definito "epistemologia dei modi".
Secondo questo modello gnoseologico, rintracciabile soprattutto nel saggio "L’esperienza" ma presente in tutti gli scritti del nostro autore, noi non conosciamo nulla in modo diretto e immediato, non conosciamo ciò che una cosa è in sé, ma solo ciò che una cosa è sotto un determinato aspetto o modo.

Alcune questioni su Emerson

Il problema della coerenza              

Il pensiero di Emerson è stato a più riprese tacciato di incoerenza: da una parte, egli sostiene che il mondo è un processo e un divenire continuo; dall’altra, che è espressione di un’unità.
Dice che il mondo procede per la sua strada e che non si cura del nostro volere, ma ci invita ad avere fiducia nel potere creativo e innovativo della nostra immaginazione; esalta i benefici del viaggio, esperienza capace di arricchire la nostra interiorità, ma contemporaneamente ce ne mostra la futilità, e seguendo il classico tema della commutatio loci, sostiene che, pur svegliandoci in posti sempre nuovi, troviamo comunque ad aspettarci il vecchio self che pensavamo di lasciarci alle spalle: "per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo".

L’epistemologia dei modi, come abbiamo visto poco sopra, potrebbe essere vista come una struttura concettuale nella quale inserire e far convivere dottrine, teorie e punti di vista altrimenti inconciliabili.
Oppure basterebbe semplicemente considerare che il pensiero di Emerson ammette lo scontro degli opposti, "the clangor and jangle of contrary tendencies", facendogli affermare, con Eraclito, che è pòlemos il padre di tutte le cose.
Oltre a ciò, è da notare come, nonostante le critiche, l’insegnamento del nostro possa comunque definirsi complessivamente coerente.
Basti pensare all’idea dell’anima attiva e creatrice, nocciolo del concetto di self-reliance: su questo caposaldo Emerson fonda la discussione della maggior parte dei temi che tratta, dall’educazione alla religione, dalla morale fino al divenire del mondo.

I "due" Emerson

È difficile per un lettore attento non percepire alcune importanti differenze tra il giovane e il vecchio Emerson: ad esempio tra l’ottimistico autore di "Natura" (1836) e quello disilluso che emerge leggendo il finale de "L’esperienza" (1844); tra il fresco scrittore di "La fiducia in sé stessi" (1841) e quello fiacco di "Destino" (1860).
Emerson stesso sembra rendersene conto quando, nel saggio appena citato, scrive:
"una volta pensavo che il potere creativo e positivo fosse tutto.
Ora ho imparato che il potere negativo, o le circostanze contingenti, sono la metà di questo tutto".
È la dimostrazione che Emerson col tempo ha imparato una lezione che ha modificato il suo modo di pensare e di scrivere? Una lezione concernente i molti modi in cui le circostanze su cui non possiamo esercitare il nostro controllo, malattie, catastrofi naturali, carattere, istinto, età, minano la fiducia in sé stessi e nella vita?

In questo senso, L’esperienza è un saggio chiave, uno scritto di transizione: sull’atmosfera dell’opera, pesa costantemente un terribile evento, la morte del figlio Waldo, avvenuta un paio d’anni prima.
I toni sono naturalmente tristi: Emerson ci parla di confusione, turbamento, sconvolgimento, oscurità.
Egli trova in questo episodio un esempio di quello sgradevole carattere dell’esistenza per cui essa sempre scivola e fugge via da noi, proprio come farebbe sabbia finissima tra le nostre dita.

Ciononostante, sebbene esista qualche significativa variazione nello stile e nel tono della prosa emersoniana, la visione che il nostro autore fa valere della condizione umana rimane sostanzialmente la medesima lungo tutta la sua opera.
In generale, possiamo constatare come i primi lavori, più freschi e solari, lascino trapelare una maggiore fiducia nelle potenzialità umane, dipingendo un uomo in qualche modo pronto per un grande passo avanti; sulle opere più tarde, invece, sembra quasi gravare un peso, un fardello che soffoca la fiducia dell’uomo in se stesso e ne opprime la volontà.

Fonti del suo pensiero e fortuna della sua opera

La gamma degli interessi e delle letture di Emerson fu molto ampia: nei suoi saggi, cita spesso gli scrittori dai quali ha tratto ispirazione per una particolare riflessione.
Nei suoi journals, troviamo vere e proprie liste di letterati, filosofi e pensatori religiosi a partire dalle idee dei quali egli ha sviluppato qualche nuova concezione.
Tra i più importanti vanno sicuramente citati Platone e i neoplatonici maggiori (Plotino, Proco, Giamblico); ugualmente significativi per la formazione del nostro furono gli autori di tradizione kantiana e romantica (che egli conobbe probabilmente tramite la Biographia Literaria di Coleridge).
Emerson si interessò anche della cultura orientale, in particolare della filosofia induista e del confucianesimo.
Per dare un’idea della vastità delle influenze del nostro, senza tuttavia avanzare alcuna pretesa di completezza, elencheremo qui di seguito, in ordine sparso, alcuni degli scrittori che più frequentemente vengono citati nei suoi lavori: Berkeley, Wordsworth, Newton, Anassagora, Schlegel, S. Agostino, Bacone, Jacob Behmen, Cicerone, Lucrezio, Goethe, Socrate, Eraclito, Pitagora, Schiller, Shakespeare, Madame de Staël, Emanuel Swedenborg (ma l’elenco potrebbe continuare).

Oggigiorno le opere di Emerson sono abbastanza ben conosciute sia negli USA sia in Europa.
Uno dei primi ad apprezzarlo nel vecchio continente fu Friedrich Nietzsche: a proposito dei Saggi di Emerson, il filosofo tedesco disse che mai in un libro si era sentito tanto a casa sua: non deve perciò stupire che molte idee e riflessioni del nostro, sulla storia, sull’educazione, sulla potenza, sul self, possano essere rintracciate anche negli scritti di Nietzsche.
Per quanto riguarda il panorama culturale americano, non è da sottovalutare la profonda influenza che Emerson esercitò su personalità del calibro di William James e John Dewey, pensatori che, insieme a C.S. Peirce, possono essere considerati i principali esponenti del pragmatismo americano.

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