Da "http://www.uniurb.it/Filosofia/bibliografie/zen/index.htm" :
A cura di Oriella Orazi
Thomas Merton e lo Zen
Commento del Prof. Mauricio Y. Marassi sull’opera di Thomas Merton:
"Lo zen e gli uccelli rapaci" tratto dalle dispense usate per l’insegnamento di "Buddismo e religioni dell’estremo oriente" nel corso di Laurea specialistica in Antropologia ed Epistemologia delle Religioni, presso l’Università "Carlo Bo" di Urbino.
A mio parere uno dei migliori libri scritti da un occidentale a proposito dello zen è "Lo zen e gli uccelli rapaci" di Thomas Merton.
Esaminiamo allora alcuni passi da quell’opera, anche perché trattandosi delle parole di un monaco cristiano e avendo il libro di cui parlo ben tre imprimatur, può essere ascoltato con fiducia anche da chi appartiene alla religione cristiana, senza prevenzione o timore.
In senso più ampio e, apparentemente più banale, si tratta delle parole di uno di noi, non di un enigmatico sino-giapponese portatore di una cultura estranea.
Si legge nella prima pagina di quel libro: "Dov’è una carogna in putrefazione gli uccelli da preda volteggiano e calano al suolo. […] Questo librarsi, questo volteggiare, questo calare, questa celebrazione di vittoria, non sono ciò che si intende per studio dello zen, anche se possono costituire un esercizio utilissimo.
Non c’è alcun cadavere da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uccelli vengono per un po’ a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il "nulla", il "nessun corpo" che era lì, tutt’a un tratto appare. È lo zen. Era sempre stato lì, ma gli insetti non l’avevano toccato perché non era il loro genere di preda".
È un modo di esprimersi che ricorda quello di Zhuangzi e non è escluso che Merton si sia ispirato a quell’autore.
A pagina 30 troviamo: "La coscienza moderna tende allora a creare questa bolla solipsistica di consapevolezza, un io-sé imprigionato nella propria coscienza, isolato e fuori da ogni contatto con gli altri "sé" in quanto sono tutte cose più che persone.
E’ questo il tipo di coscienza esacerbata fino all’estremo, che ha reso inevitabile la cosiddetta "morte di Dio".
Il pensiero cartesiano cominciò col tentativo di raggiungere Dio come oggetto partendo dall’io pensante.
Ma quando Dio diventa oggetto, presto o tardi "muore", […] salvo che venga cristallizzato in un idolo mantenuto in vita da un semplice atto di volontà.
Per molto tempo l’uomo ha persistito in questa ostinazione; ma ora lo sforzo è diventato stremante e molti cristiani hanno capito che è vano.
Allentando la stretta, hanno lasciato perdere il Dio-oggetto che ancora i loro padri e i loro nonni avevano sperato volgere ai propri fini".
Poi a pagina 32 troviamo: "Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in sé stessa.
Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso "gli altri" in "incontri", "aperture", "solidarietà" e "comunione".
Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche "l’altro" è oggetto.
È veramente possibile una relazione io-tu a un soggetto puramente cartesiano?
Frattanto ricordiamo che l’uomo moderno dispone ancora di un’altra coscienza, quella metafisica.
Essa ha origine non dal soggetto pensante e consapevole di sé, ma dall’Essere, considerato ontologicamente anteriore alla divisione soggetto-oggetto (in questo caso quel “Essere” di cui parla Merton comprende anche il "non essere").
Alla base dell’esperienza soggettiva dell’io individuale c’è un’esperienza immediata dell’Essere che è totalmente diversa dall’esperienza di autocoscienza.
[…] Non è "coscienza di" ma pura coscienza, nella quale il soggetto come tale "scompare".
[…] In breve questa forma di coscienza assume un tipo di autoconsapevolezza diversa da quella dell’io pensante cartesiano.
[…] Qui l’individuo è consapevole di sé come un io-da-dissolvere nel donarsi, nell’amore, nell’abbandonarsi, nell’estasi di Dio.
[…] Questo è un linguaggio più o meno metafisico ma c’è anche un modo non metafisico di esprimere questi concetti.
Non considera Dio né come immanente né come trascendente, bensì come grazia e presenza, quindi né "centro" immaginato "fuori di lì" né "dentro di noi".
Lo incontra come Libertà e Amore".
Merton è proprio bravo, in poche parole riesce a delineare il processo spirituale cristiano sviluppatosi nell’arco di alcuni secoli a diverse profondità.
Ma continuiamo a seguirlo ancora per un poco e a pagina 46 troviamo: "Nello studio del buddismo sarebbe un grave errore soffermarsi esclusivamente sulla dottrina, la filosofia formulata della vita, e trascurare l’esperienza che è assolutamente fondamentale, l’essenza del buddismo.
Questa è in un certo senso la situazione opposta a quella del cristianesimo.
Perché il cristianesimo comincia con la rivelazione. Pur essendo un errore classificare la rivelazione cristiana semplicemente come una "dottrina" o una "spiegazione" (è molto di più: la rivelazione di Dio nel mistero di Cristo), ci viene però comunicata in parole, in affermazioni, e tutto dipende dal fatto che il credente accetti la verità di queste affermazioni".
Torniamo indietro sino a pag. 43, e troviamo un punto che con eccezionale acume, e tempismo, poiché il libro è del 1968, padre Merton pone alla nostra attenzione:
"Il lettore con un fondo giudeo cristiano (e chi non ha ancora in Occidente un fondo simile?) sarà naturalmente predisposto a fraintendere lo zen perché si metterà istintivamente nella posizione di chi ha innanzi a sé un sistema di pensiero rivale, o un’ideologia concorrente o una visuale aliena del mondo o più semplicemente una falsa religione. Chi assume tale posizione si trova nell’impossibilità di capire lo zen [ecco: qui siamo proprio nel caso descritto nel Sutra del Loto quando in 5000 lasciarono l’assemblea…] perché parte dalla presunzione che sia qualche cosa che esso [lo zen] si rifiuta espressamente di essere.
Lo zen non è una spiegazione sistematica della vita, non è un’ideologia, non è un modo di vedere il mondo, non è una teologia della rivelazione e della salvezza, non è una mistica, non è una via di perfezione ascetica, non è misticismo come s‘intende in occidente; insomma non rientra in nessuna delle nostre categorie. Quindi ogni tentativo di “appioppargli” un etichetta come “panteismo”, “quietismo”, “illuminismo”, “pelagianesimo”, sarebbe assolutamente assurdo derivando dall’ingenua supposizione che lo zen pretenda di giustificare le vie di Dio verso l'uomo e [per di più] di farlo falsamente".
Ancora un passo, preso da pagina 52: "Nel cristianesimo la dottrina oggettiva mantiene la priorità sia di tempo sia di valore. Nello zen l’esperienza precede sempre, non nel tempo ma in importanza.
Ciò perché il cristianesimo è una religione della grazia e del dono divino, quindi di totale dipendenza da Dio. Lo zen non è classificabile come "religione" (è infatti separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddiste o di nessuna religione), e in ogni caso cerca, come ogni buddismo di rendere l’uomo completamente libero e indipendente, anche nei suoi sforzi per la salvazione e l’illuminazione".
L’affermazione che lo zen è indipendente anche dal buddismo al punto che potrebbe fiorire sul terreno di altre religioni come pure su quello di nessuna religione, contiene una verità scandalosa che di solito si preferisce annacquare o per lo meno rendere più relativa.
L’uomo è infatti composto anche di intelletto oltre che di corpo e spirito e così come un uovo pur avendo nel tuorlo la sua parte fondamentale non può fare a meno del guscio altrimenti anche il tuorlo andrebbe perduto, così pur lo zen rischierebbe l’estinzione se rinnegasse ogni legame con ogni sistema di edificazione spirituale.
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