Da "http://www.uniurb.it/Filosofia/bibliografie/zen/index.htm" :
A cura di Oriella Orazi
Zen è un termine
giapponese: esso è la lettura giapponese dell'ideogramma cinese ch'an,
che è l'equivalente della parola sanscrita dhyana, che significa
meditazione ed è una delle sei "perfezioni" (paramita) che rendono
possibile il conseguimento dell'"illuminazione" (bodhi), zen significa
dunque meditazione.
Essa si compie "stando seduti" (za): donde la parola
zazen che significa "sedere in meditazione" in una apposita stanza che
si trova in ogni monastero zen e che si chiama sendo, stanza (do) della
meditazione.
Definire lo zen in termini di sistema o struttura
religiosa equivale a distruggerlo, o meglio a fraintenderlo
completamente, perché ciò che non si può "costruire" non si può nemmeno
distruggere.
Non si può comprendere lo zen collocandolo entro precisi
limiti o conferendogli una fisionomia caratteristica o lineamenti
facilmente riconoscibili in modo che, quando vediamo queste forme
definite e peculiari, diciamo: "Eccolo!".
Non si comprende lo zen
collocandolo in una particolare categoria, separato da ogni altra cosa: "È questo e non quello".
Come dice Suzuki, lo zen è "al di là del mondo
degli opposti, un mondo fatto di distinzioni intellettuali... un mondo
spirituale di non-distinzione che comporta il raggiungimento di un punto
di vista assoluto".
Il primo, e il più difficile,
problema che si pone è quello di capire che cos'è lo zen.
È facile
conoscere l'origine e tracciare le linee del suo sviluppo storico; ma è
difficilissimo capirne la natura, perché, quando si crede di averla
afferrata, essa sfugge, come un'anguilla sfugge di mano al pescatore.
Intanto
per tentare di dare corpo a chi corpo non ha e non vuole avere, si
potrebbe affermare che lo "Zen è guardare con in propri occhi, ascoltare
le proprie orecchie, senza mediazioni, senza compromessi, senza
giustificazioni per l’incomprensibilità degli atti di chi fa lo strano
perché pretende di collocarsi al di là del bene e del male".
Occhi
che guardano senza mediazioni o categorie da applicare come con tanta
efficacia ci riporta il monaco cristiano, T. Merton, attento
conoscitore cristiano del Buddismo e dello zen, nell’opera "Lo Zen e gli
uccelli rapaci", ricorrendo alla metafora dello specchio:
"La
coscienza zen è paragonata a uno specchio. Un moderno scrittore zen
dice: Lo specchio è senza io e senza mente. Se arriva un fiore riflette
un fiore, se arriva un uccello riflette un uccello. Mostra bello un
oggetto bello, brutto un oggetto brutto. Rivela ogni cosa com’è. Non ha
una mente discriminante, né coscienza di sé. Se arriva qualcosa lo
specchio lo riflette; se scompare, lo specchio lo lascia scomparire… e
non rimane alcuna traccia."
"Tale non, attaccamento, lo stato di
assenza mentale, o la funzione veramente libera di uno specchio, è qui
paragonato alla pura e lucida saggezza del Budda."
(Zenkei Shibayama, "On
Zazen Wasan", 1967)
Il buddismo zen non è un tipo di
pensiero, e neppure un modo di pensare.
Anzi, è lo stabilizzarsi nel
non pensiero, nell’assenza di pensiero articolato, nello spazio vuoto
tra un pensiero e l’altro.
Lo zen inizia quando ogni
parola, anche il termine buddista, vista la sua inadeguatezza viene meno
ed inizia il presente, la vita, il tempo vivente.
La realtà viva non abbisogna di alcuna definizione, è il nostro intelletto il portatore di tale bisogno.
Nell’illuminazione
zen non è di rilevante importanza vedere Budda ma di essere Budda, e
che Budda non è quello che le immagini del tempio ci avevano fatto
credere: perché non c’è più nessuna immagine, e di conseguenza nulla da
vedere, nessuno che vede, e un vuoto nel quale nessuna immagine è
concepibile.
Se è lecito pensare di poter concludere
una analisi su quanto più di indefinibile possa esservi quale è lo zen,
si potrebbe dire insieme a Shan Hui che "Il vero vedere è quando non c’è
più nulla da vedere".
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