Da "http://www.carmillaonline.com/2014/02/11/jack-london-yours-for-the-revolution/" :
di Walter Catalano
La
vita di Jack London è forse il più riuscito dei suoi romanzi: nato
illegittimo, figlio di un astrologo ambulante irlandese: William Henry
Chaney, adottato da un vecchio reduce della Guerra Civile, John London,
che sposa la madre Flora Wellman e gli dà il suo nome, è costretto dai
dissesti familiari a confrontarsi subito con gli orrori della fabbrica e
della condizione operaia: a 13 anni già si rompe la schiena dalle 12
alle 18 ore il giorno. Si ribella: conosce i bassifondi della Costa dei
Barbari californiana, prima come contrabbandiere poi come guardiacoste;
percorre l’America con gli hobos e i vagabondi; viene arrestato; si
imbarca come marinaio verso il Mar del Giappone a caccia di foche;
partecipa senza fortuna alla corsa all’oro nel Klondike; diventa
socialista e rivoluzionario – membro dal 1896 del Socialist Labor Party
che lascerà nel 1901 per il Socialist Party of America – e
contemporaneamente si iscrive all’Università cercando il suo riscatto
attraverso la cultura borghese. Legge Marx, Spencer, Darwin, Nietzsche
che restano i riferimenti costanti della sua filosofia talvolta
contraddittoria ma affascinante. Scrive senza requie, quasi con
disperazione, attingendo alle sue numerose esperienze di vita. Nel giro
di pochi anni realizza i suoi sogni: il ragazzo inquieto dal fisico
atletico e dai modi proletari diventa l’autore più pagato e invidiato
d’America. Continua a scrivere smodatamente – “per soldi” dice –
capolavori indimenticabili insieme a testi meno ispirati o troppo
affrettati. Sposa una donna che non ama, Elizabeth “Bessie” Maddern, che
gli dà due figlie, poi la lascia per un’altra che ama, Charmian
Kittredge, creando
uno scandalo mai più perdonato dai suoi lettori bempensanti e puritani.
Sperpera centinaia di migliaia di dollari: generosamente finanzia tutti
i postulanti che chiedono il suo aiuto, scrittori emergenti, vedove,
barboni, rivoluzionari; si costruisce uno yacht milionario – lo Snark –
che va in avaria durante una fallimentare crociera nei mari del Sud,
mettendo in grave pericolo la vita della ciurma di improvvisati
navigatori raccolta fra i proletari e i compagni di San Francisco, ed
una villa di sogno – la Wolf House a Sonoma, California - che va in
fiamme la notte stessa della sua ultimazione. La visione del mondo di
London concilia un sincero appello alla lotta di classe con un ambiguo
superomismo afflitto secondo alcuni – ma vedremo più avanti come tali
accuse si rivelino del tutto ingiuste – da sgradevoli aspetti razzisti:
presunte contraddizioni che gli alienano le simpatie dei socialisti;
abbandonerà il partito nel 1916 accusando i suoi ex compagni di
moderatismo riformista (se il destino gli avesse concesso solo un anno
di più, c’è da chiedersi che posizione avrebbe assunto nei riguardi di
Lenin e dei Bolscevichi…) . A quarant’anni è già un uomo vecchio: le
débauches alcoliche e alimentari gli hanno rovinato i reni, soffre di
uremia e di nefrite, lenisce i dolori con l’uso frequente di morfina.
Una overdose, forse volontaria, lo uccide nel 1916. Da anni ormai l’idea
del suicidio era stata per lui un pensiero sempre ricorrente: per sua
stessa ammissione aveva avuto tutto eccetto la felicità. Come il suo
Martin Eden aveva cercato l’avventura e l’aveva trovata: ebbe il potere
di inventare la propria vita e dare corpo ai propri sogni, volle sapere :
“…e quando seppe, cessò di saperlo”.
Il sospetto di razzismo in
London è stato probabilmente sollevato soprattutto a causa di un saggio
sul “pericolo giallo” scritto nel 1904, in cui ci si preoccupava per
l’immigrazione asiatica in California ma si ammetteva in modo molto
chiaro : “bisogna considerare che i postulati premessi sono essi stessi
il prodotto dell’egotismo razziale occidentale fomentato dalla nostra
convinzione di essere nel giusto e nutrito da una fede in noi stessi che
può essere tanto errata quanto le più accreditate fantasie razziste”.
Il presunto pregiudizio contro l’Estremo Oriente emerge soprattutto
nella novelette fantapolitica “The Umparalleled Invasion” scritta
nel 1910 e ambientata fra il 1976 e il 1987, in essa si immaginava una
Cina sovrappopolata che tentava di conquistare il mondo e veniva
faticosamente sconfitta con il ricorso da parte delle potenze
occidentali a un micidiale bombardamento batteriologico. Certo non si
tratta di una delle opere più significative di London e indubbiamente si
uniforma agli stereotipi dell’epoca, oltre a risultare assolutamente
ripugnante per l’idea del genocidio programmato: esigenze puramente
narrative , si direbbe, dal momento che le corrispondenze svolte per i
giornali di Hearst durante il conflitto russo -giapponese del 1905,
vedevano London su posizioni decisamente filonipponiche e del tutto
prive di qualsiasi considerazione irriguardosa nei confronti dei “musi
gialli”. Un altro elemento a sua discolpa è il racconto “Kulau, il lebbroso”,
in cui un lebbroso hawaiano – un “magnifico ribelle”, scrive London,
ispirato al Kaluaikulau, che guidò la rivolta contro il Governo
provvisorio delle Hawaii nel 1893: un avversario dell’espansione
imperialistica statunitense, quindi – mette in rotta un’intera
guarnigione di cavalleria ed elude la cattura. Ma è negli splendidi
racconti di ambientazione pugilistica che forse meglio possiamo
ritrovare il vero senso del pensiero internazionalista dell’autore. Jack
London praticava personalmente la boxe e frequentava i ring come
cronista sportivo: scritti soprattutto fra il 1905 e il 1911, i suoi
racconti sono fra i più interessanti e profondi che affrontino questo
controverso sport, soprattutto i due classici: “The Mexican” e “A Piece of Steak”.
Il primo ritrae un giovane messicano che intraprende la carriera del
boxeur solo per guadagnare rapidamente denaro da devolvere ai
rivoluzionari suoi compatrioti: in realtà odia i gringos e i loro sport,
disprezza il suo avversario che combatte solo per i soldi e per la
gloria; è un rivoluzionario coi i guantoni: la boxe per lui è solo un
mezzo, il fine sono i dollari per l’acquisto di fucili contro la
dittatura di Diaz. Il secondo ci mostra come la vittoria o la sconfitta
possano dipendere anche dall’aver consumato o meno una banale bistecca e
come la sconfitta sia più amara quando si lotta non per la gloria e il
successo ma per la sopravvivenza della propria famiglia. Infine il
famoso reportage giornalistico dello storico match fra il bianco
Jeffries e il nero Johnson, disputato nel luglio del 1910 e vinto da
Johnson: il testo (insieme al racconto Il Messicano) basta da
solo a demolire qualsiasi sospetto di razzismo in London. La simpatia e
il rispetto dello scrittore per il pugile di colore sono indubitabili.
Già nella cronaca di un precedente incontro del 1908, London aveva
confrontato l’aspetto fisico e la strategia freddi e intellettuali di
Johnson alle fattezze scimmiesche e allo stile di combattimento rozzo
dell’opponente bianco, Tommy Burns: “Che un bianco – scrive London –
auguri a un altro bianco di vincere non lo esime dal tributare credito
assoluto all’uomo migliore, anche se è nero. Sia lode a Johnson…
inaccessibile come il Monte Bianco “ .
Per meglio comprendere
l’assunto ideologico della narrativa speculativa e fantascientifica di
London bisogna partire da due opere non di carattere fantastico ma
assolutamente centrali nella carriera letteraria dello scrittore. Il
primo di questi è uno dei testi più militanti del Jack London
socialista. Nel 1902 il giovane scrittore, già famoso per i racconti del
Grande Nord, si lancia in una nuova e diversa avventura: sbarcato a
Londra in incognito, in abiti dimessi da marinaio, vive per sette
settimane nell’East End, il quartiere londinese più degradato,
condividendo le bettole, gli ospizi dei poveri, le mense dell’Esercito
della Salvezza, le notti all’addiaccio, le manganellate della polizia
con disoccupati e barboni, derelitti e disgraziati. Riprendendo il
titolo da un testo di Herbert George Wells – scrittore socialista come
lui – comporrà di corsa, in quelle stesse concitate settimane, “The People of the Abyss”:
“Di tutti i miei libri – dirà – è quello che amo di più, nessun altro
mi è costato così tanto cuore e lacrime come questo studio sulla
degradazione economica dei poveri”. Un atto d’accusa contro l’Impero
Britannico al massimo del suo potere, un’inchiesta che svela quali
sacche di miseria e di desolazione si nascondessero dietro l’apparenza
rutilante della maggiore potenza mondiale e come l’abbondanza dei pochi
rappresentasse l’abbrutimento dei più. Un London al massimo delle sue
capacità di polemista ci consegna non un trattato di fredda sociologia
ma un’accorata testimonianza in prima persona. Una delle sue opere più
significative, ancora tragicamente attuale oggi nel nostro preteso
“migliore dei mondi possibili” del turbo-capitalismo globalizzato. Il
secondo è un libro del 1907, “The Road”, che ripercorre il
periodo giovanile in cui il futuro scrittore era un hobo, un vagabondo
che percorreva in lungo e in largo USA e Canada a bordo di treni merci
pericolosamente abbordati in corsa sfuggendo alla sorveglianza di
poliziotti e guardie ferroviarie assai poco inclini a simpatizzare con
clandestini dediti all’accattonaggio e al piccolo furto. “The Road “ è naturalmente il predecessore di “On The Road”
e Jack Kerouac sta a Jack London come la gazzosa sta al bourbon.
Kerouac è solo un turista, un povero ragazzo smarrito, un Narciso
avvinazzato troppo pieno di sensi di colpa cattolici per non farsi
andare di traverso la libertà; London, che rischia davvero la pelle
sulla strada, non si vergogna invece di essere – se necessario – un
tipaccio che ruba, mente, inganna e sopravvive senza mai perdere
tuttavia la dignità umana, la solidarietà verso i suoi simili, la
disponibilità alla generosità e alla compassione. Questi due libri (ce
ne sarebbe un terzo: l’autobiografia alcolica “John Barleycorn”
del 1913, un capolavoro che però ci allontanerebbe troppo dal nostro
argomento) sono probabilmente i più importanti e i più sinceri che
l’autore abbia scritto, fondamentali per svelare l’anima, l’essenza
dell’uomo London: il rigoroso impegno classista da un lato; la sfrenata e
vitalistica ricerca di libertà individuale dall’altro. Le premesse
necessarie per approfondire ogni altro suo testo.
Pubblicato nel 1907 “The Iron Heel”-
definito dai più come “fantapolitica marxista” – rappresenta gli
aspetti più estremisti del socialismo massimalista di Jack London. Degno
di figurare a fianco dei grandi classici fantapolitici (“1984” di George Orwell o “Brave New World” di
Aldous Huxley) il testo – geniale mistura fra pamphlet e romanzo-
impressiona per l’esattezza delle anticipazioni: la guerra mondiale
(prevista per il 1913, ma ottimisticamente scongiurata da un
provvidenziale sciopero generale organizzato dall’Internazionale
Socialista); il sorgere del potere controrivoluzionario del fascismo (le
minacciose e inafferrabili Centurie Nere); soprattutto (e qui arriviamo
quasi all’attualità) l’insorgere dell’Oligarchia a difesa dei propri
privilegi minacciati – Il Tallone di Ferro, per l’appunto – sostenuta
dal tradimento dei sindacati privilegiati e dalle caste operaie. Una
visione allucinata e drammaticamente profetica. Come scrive dal suo
rifugio messicano Lev Trotsky alla figlia di London, Joan, in una
lettera del 1937 inserita come introduzione a quasi tutte le edizioni
del volume: ”Si può affermare con certezza che nel 1907 non esisteva un
marxista rivoluzionario, senza eccettuare Lenin e Rosa Luxemburg, che si
rappresentasse con tale ampiezza la prospettiva funesta dell’unione fra
il capitale finanziario e l’aristocrazia operaia. (…) Al di sopra delle
masse dei diseredati s’innalzano le caste dell’aristocrazia operaia,
dell’armata pretoriana, dell’apparato poliziesco onnipresente e
dell’oligarchia finanziaria che corona l’edificio. Leggendo queste righe
non si crede ai proprio occhi: è un quadro del fascismo, della sua
economia, della sua tecnica di governo e della sua psicologia politica.
Una cosa è indiscutibile: dal 1907 Jack London ha previsto e descritto
il regime fascista come il risultato ineluttabile della sconfitta della
rivoluzione proletaria”. Una riflessione ancora molto utile – e non
aggiungo altro – anche per interpretare la nostra contemporaneità. Il
protagonista Ernest Everhard – al cui nome, così vuole la leggenda, si
ispirarono i signori Guevara per battezzare Ernesto, il futuro Che – è
il prototipo delle avanguardie rivoluzionarie, il superuomo bello e
impavido, eroe e martire della rivoluzione, emblema, forse, delle
irrisolte contraddizioni di London stesso (enumerate in modo
eccessivamente severo da Goffredo Fofi in una sua vecchia prefazione al
romanzo): uomo del popolo ma che si staglia al di sopra del popolo, non
individuo-massa ma modello ideale di guida, di capo e di liberatore
delle masse, proiezione idealizzata del London che scrisse queste
parole: “Sono nato proletario. Ho scoperto presto l’entusiasmo,
l’ambizione e gli ideali e nel tentativo di soddisfarli, ho finito per
renderli il problema di tutta la mia infanzia. Vengo da un ambiente
rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi
piuttosto un confine. Il mio posto in questa società era negli abissi,
dove la vita offriva solo squallore e sventura: lì, sul fondo, carne e
spirito erano ugualmente affamati e tormentati. Sopra di me troneggiava
il colossale edificio della società (…)” (London, “Cos’è la vita per
me”, 1905). Il libro circolò solo in copie clandestine nell’Italia
fascista: Mussolini, che da ex socialista lo conosceva bene, ne vietò
sempre la distribuzione e la ristampa. Uno dei tanti buoni motivi per
rileggerlo oggi – anche se, probabilmente, non è fra le opere più
perfette di London – in un momento storico in cui, disgraziatamente, il
Tallone di Ferro trova l’ennesima e forse più pericolosa delle sue
incarnazioni.
In quello stesso 1907, lo scrittore pubblicava – guardando al passato oltre che al futuro – anche la novelette “Before Adam”
dove si raccontava – attraverso i sogni di un uomo del nostro tempo che
rivive in essi i ricordi ancestrali della preistoria – della tragica
esistenza dei pitecantropi, faticosamente passati dalla vita arboricola a
quella trogloditica e infine sterminati, con un vero e proprio
genocidio etnico, dai più evoluti esemplari dell’homo sapiens. Un altro
brillante esempio di narrativa speculativa londoniana in cui, dopo Marx e
Nietzsche, il riferimento filosofico tornava ad essere – come in “The Call of the Wild”, 1903, e “White Fang”,
1906 – l’evoluzionismo darwiniano. Anche in questo caso London si era
concesso di nuovo di attingere a H.G. Wells che aveva affrontato il tema
preistorico nel 1897 con “A Story of the Stone Age”; così aveva fatto anche con “The Invisible Man”, dello stesso 1897, che gli aveva ispirato il racconto “The Shadow and the Flash”
(1903) , in cui si descriveva la mortale rivalità di due diversi e
opposti tipi di uomini invisibili. Questi esempi ci dimostrano la
disinvolta facilità di London nell’utilizzare creativamente le idee di
altri autori che più volte gli valse l’ingiusta accusa di essere un
“plagiario”. Con analoga ispirazione nel 1912 London pubblicava “The Scarlet Plague”
– uno degli incubi catastrofici più cupi e opprimenti mai da lui
concepiti – anche stavolta seguiva, stravolgendoli, dei modelli: i
predecessori Mary Shelley, con il suo “The Last Man” del 1826, e Edgar Allan Poe con “The Masque of the Red Death” del
1842. Lo scrittore immaginava che nel 2072, un vecchio ex professore
di letteratura inglese narrasse ai suoi imbarbariti nipotini, raccolti
davanti all’incerto fuoco di un bivacco, della micidiale epidemia che
aveva sterminato nel 2013 la quasi totalità del genere umano riportando i
pochi sopravvissuti al livello primitivo. Un’altra fra le sue storie
più inquietanti è la breve “The Red One” – pubblicata solo dopo
la sua morte, nel 1918 su Cosmopolitan – in cui un’isolata tribù
melanesiana di Guadalcanal tributa un culto mortale ad una misteriosa
sfera rossastra di origine extraterrestre: ne sarà vittima lo scienziato
Bassett, testimone impotente di un orrore incomprensibile. Anche in
questo caso London prende spunto dalle sue letture: le teorie della
psicologia analitica di Carl Gustav Jung.
Uno degli ultimi romanzi di London (uscì nel 1915) “The Star Rover”
è sicuramente fra le sue cose più interessanti ed originali. Un inno
alla libertà – commovente, terribile, eccessivo, sublime – : la libertà
della mente che nessun ceppo può stringere, nessuna catena
immobilizzare, nessuna autorità opprimere. Darrell Standing, carcerato
“incorreggibile”, condannato alla pena capitale, passa anni rinchiuso
nella cella di isolamento, per la maggior parte del tempo immobilizzato
in una camicia di forza. Per non impazzire impara a indurre nel suo
corpo fiaccato dalle privazioni una sorta di coma che permette alla sua
mente di fuggire via e vagare libera attraverso il tempo e lo spazio,
rivivendo – così almeno egli crede – le sue esistenze precedenti. Salirà
sulla forca sereno perchè ha imparato che la morte non esiste. La
cronaca carceraria – dura e puntuale come mai – cede gradualmente il
passo all’avventura fantastica – cappa e spada, epopea western, racconto
marinaresco robinsoniano, saga nordica, testimonianza evangelica,
peripezia preistorica, seguendo le diverse incarnazioni del protagonista
– per diventare infine testo metafisico curiosamente affine alle Jataka
(la narrazione delle vite precedenti del Buddha), a metà strada – come
giustamente ha osservato un critico- fra Stephen King e Carlos
Castaneda. London si basò per scrivere il romanzo sulla testimonianza di
Ed Morrell, un ex ospite del braccio della morte di San Quentin, per la
cui scarcerazione lo scrittore si era battuto riuscendo ad ottenerla.
Morrell era divenuto un ospite fisso in casa London e raccontava di aver
sperimentato sotto tortura in prigione una dissociazione fra mente e
corpo. Questo libro così poeticamente liberatorio, questa
protofantascienza così eticamente e politicamente impegnata, giustifica e
chiude in bellezza l’esistenza letteraria e terrena di Jack London: il
suo ultimo messaggio è forse che la libertà da sempre cercata, non è
lontana ma si trova dentro ognuno di noi – anche nella prigione più
oscura – è nella nostra mente. E la rivoluzione, ogni rivoluzione,
comincia nella mente e viene dalla mente.
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
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