Da "Pedagogica" :
La vita e il pensiero
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull'ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all'esterno ; infatti - dice Seneca - se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchè non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l'interno si conformerà all'esterno: exemplum di questo atteggiamento è Socrate, il quale, quando era adirato, era solito "submittere vocem".
Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur.Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III).
Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perché lui stesso l’avrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sull’ira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo all’ira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell'autodominio, che é garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia é la forma naturale di costituzione: come il cosmo é tenuto insieme - secondo una tesi tipicamente stoica - da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell'impero é tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchè vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere ... Quel che importa non é morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male" (Epistole a Lucilio, 70 ).
Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur" (vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sè, della parte migliore di sè, cioè della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce l’intero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all' indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri.
Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa: "siamo tutti schiavi del destino: qualcuno é legato con una lunga catena d'oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri ... Tutta la vita é una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire" (De tranquillitate animi). Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare è accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è da Seneca compendiata -Epistulae ad Lucilium, 107 - nella sententia "il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone" ("ducunt fata volentem, nolentem trahunt"). Il dominio dei valori si trova così spostato dall'esterno all'interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L' interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed è per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata.
La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: "così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura". Tanto più che la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: "considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo". Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quand’erano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poiché "della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino". Del resto – nota acutamente Seneca – chi non è schiavo? "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria.
Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis - un’opera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto – egli scrive: "nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est" (De beneficiis, III, 18, 4). Se è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca, Epistola 42 – da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l'etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell'autosufficienza del sapiente. La costruzione e l'affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all'anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell'aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente: questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell'antichità: Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio.
La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), "soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator" ("sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore"), giacchè anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacchè "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, è quella dell’ape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta". Per questo motivo è di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi è dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda.
Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita è lunga, se sai farne uso") Il guaio è che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa (nelDe brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa":"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1).
E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica è impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica, che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.
FILOSOFIA
Dialogi (10) in 12 libri:
De providentia (a Paolino)
De constantia sapientis (ad Anneo Sereno)
De ira (3 libri)
Consolatio ad Marciam
De vita beata
De otio (ad Anneo Sereno)
De tranquillitate animi (ad Anneo Sereno)
De brevitate vitae (a Paolino)
Consolatio ad Polybium
Consolatio ad Helviam Matrem
De clementia in 3 libri.
De beneficiis in 7 libri.
Epistulae morales ad Lucilium: 124 lettere in 20 libri.
SCIENTIFICO-NATURALISTICHE
Naturales quaestiones in 7 libri.
MISTE DI PROSA E POESIA
Apokolokyntòsis divi Claudii o Ludus de morte Claudii: una satira menippea
TEATRALI
9 cothurnatae (tragedie di ambientazione greca):
Hercules furens
Troades
Phoenissae
Medea
Phaedra
Oedipus
Agamemnon
Thyestes
Hercules Aetaeus
ed una Praetexta (tragedia di ambientazione latina), sicuramente spuria, l'Octavia.
ANALISI DELLE SINGOLE OPERE
I DIALOGI
Così nominati in Quintiliano, non sono dialoghi di stampo platonico o ciceroniano (eccezion fatta per il De tranquillitate animi), ma seguono piuttosto la linea della diatriba cinico-stoica (l’autore che parla in prima persona ha come interlocutore il dedicatario dell’opera o un personaggio fittizio); quello operato da Seneca è dunque un vero e proprio spostamento semantico del termine dialogus.
Consolatio ad Marciam (39): è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, lo storico morto suicida, per consolarla della morte del figlio; Seneca ne fa un'occasione per affrontare il delicato tema del suicidio, che, coerentemente con i princìpi della dottrina stoica, è visto come positivo se motivato da una scelta compiuta razionalmente: la vita non è un bene in assoluto, ma è utile e positiva solo se vissuta in modo decoroso; il suicidio dunque può essere strumento di affermazione della libertà individuale. Modello di questo dialogus è la Consolatio ad se ipsum di Cicerone.
De ira in 3 libri (41): in base ai princìpi stoici, sommo bene è il lògos, e quindi tutto ciò che non è razionale è male e va evitato. L'ira è scelta di proposito fra le emozioni da evitare, in contrapposizione alla tesi aristotelico-peripatetica che ne fa uno strumento di stimolo all'azione. Per Seneca essa è semplicemente desiderio di punizione che si esprime in modo sbagliato; la giusta volontà punitiva è invece una lucida decisione maturata "a freddo", razionalmente. Seneca dunque mette in guardia sulle circostanze che provocano l'ira, onde prevenirla.
Consolatio ad Helviam Matrem (42-43): è dedicata a sua madre per la "perdita" del figlio, costretto in esilio in Corsica. Segue la topica consueta della consolatio ed espone le argomentazioni di consolazione tipiche del saggio stoico (autàrkeia = autosufficienza).
Consolatio ad Polybium (42-43): dedicata a Polibio, potente liberto e consigliere di Claudio, per la morte di un fratello. L'intento è evidentemente adulatorio nei confronti del princeps, nel tentativo di convincerlo a richiamarlo in Roma dall'esilio forzato.
De vita beata (58): la felicità, considerata come il sommo bene dalle filosofie ellenistiche, si ottiene, secondo gli epicurei, attraverso la hedonè, il piacere, ed il rifiuto della sofferenza, identificata con il male; secondo gli stoici, invece, il dolore non è un male, è anzi necessario all'uomo per migliorarsi. Seneca identifica il sommo bene con la virtus, ossia l'autodisciplina che l'uomo deve imporre alla propria componente emotiva. In questo Seneca, esponente del Terzo Stoicismo, è perfettamente coerente con i princìpi della dottrina stoica; egli è però conscio che le sue azioni non sono sempre coerenti con il suo pensiero: ma, si giustifica il filosofo, il saggio stoico non deve incarnare la verità, bensì solo indicarla agli altri ("fate quel che dico, non fate quel che faccio").
De otio (62): in quest’opera tarda, posteriore al ritiro a vita privata, Seneca, per quanto riguarda la problematica relativa all’otium (ossia alla vita contemplativa), prende le distanze dalla rigorosa etica stoica: quando l'impegno politico diviene impossibile o richiede compromessi troppo squallidi, meglio ripiegare su altre attività, quali letteratura e filosofia (posizione, questa, già di Sallustio). Il saggio stoico deve essere utile alla collettività; se ciò gli è impedito, lo sia almeno a se stesso e alla cerchia dei suoi amici.
De providentia (?): Seneca non intende in questa sede dimostrare l'esistenza di Dio e della Provvidenza, di cui è convinto; l'interrogativo che si pone, e a cui cerca di dare risposta, è piuttosto come possa un Dio provvidenziale ammettere l'esistenza del male. Seneca riprende qui la tematica della sofferenza, che non è male, ma è una sorta di banco di prova su cui la divinità saggia la tempra umana; male è per Seneca contrastare la volontà divina (il che è peraltro impossibile: aporìa concettuale).
De constantia sapientis (42? 62?): Seneca vi espone nuovamente la tesi stoica dell'imperturbabilità del saggio; il sapiente non può subire offesa perché è in possesso dell’unico vero bene: la serenità interiore.
De tranquillitate animi (?): sappiamo per certo che questo dialogo è posteriore al De constantia sapientis; è l'unico in forma effettivamente dialogica. Tratta della serenità dell'anima. Il destinatario, Anneo Sereno, è introdotto a parlare per chiedere aiuto in un momento di turbamento psicologico: come si può raggiungere la serenità? Non certo cambiando luogo o viaggiando di continuo ("ovunque tu vada ti porti dietro te stesso"), bensì facendo il bene, vivendo in modo frugale, frequentando buone compagnie, accettando la necessità della sofferenza e della morte.
De brevitate vitae (42? 62?): la vita dell'uomo non è mai troppo breve se vissuta intensamente. Non in quantità, ma in qualità si misura il valore della vita umana: "longa est vita si plena".
LE ALTRE OPERE FILOSOFICHE: I TRATTATI
De clementia: non è un vero e proprio trattato di politica: risale ai primi anni del regno di Nerone, ed il suo scopo è l'educazione del giovane principe. La posizione di Seneca nei confronti della monarchia denota una lucida coscienza politica: non hanno ormai più senso le nostalgie repubblicane (e con esse l'opposizione stoica al principato): Seneca accetta dunque la forma istituzionale del principato (che peraltro è specchio dell’ordinamento cosmico: un unico Dio, un unico princeps); ciò che contesta è la sua degenerazione e l'abuso di essa; per essere una figura positiva, il princeps dev’essere come un padre per i suoi sudditi (paternalismo illuminato).
De beneficiis (62-64): ci mostra un Seneca ormai disincantato e deluso, che ha visto fallire in pieno il suo programma pedagogico e politico. Seneca si rivolge perciò ora, con gli stessi ideali di fondo, ad un nuovo pubblico: la classe abbiente, la sola che possa opporre un rimedio alla povertà e alla miseria delle masse, se educata alla generosità e alla benevolenza. E' la stessa ottica paternalistica in cui si inquadrava il suo programma politico, e possiede già in nuce gli elementi della non lontana dottrina cristiana. È incentrato sul significato del beneficio (che cosa significa "fare del bene"?) e soprattutto sulla disposizione d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve.
Epistulae morales ad Lucilium: sono le 124 lettere, divise in 20 libri, che Seneca scrisse all’amico Lucilio, per lo più dopo il 62. Seneca non è più un personaggio pubblico, e si esprime in questa sede con un linguaggio più discorsivo e colloquiale di quello a cui ci aveva abituati; nonostante la forma privata dell'epistolario, avvertiamo comunque che Seneca teneva in considerazione la futura pubblicazione delle sue lettere. I temi trattati sono molteplici e vari e già presenti in alcuni Dialogi, ma due sono i motivi ricorrenti: la figura del saggio stoico e la morte. La filosofia senecana trova nell'epistolario un'esposizione pressoché completa, anche se non sistematica. E' questo un "difetto" riconosciuto al pensiero senecano da alcuni critici: facilmente contestabile, però, se si considera che una filosofia focalizzata sull'etica, come tipico della Terza Stoà, non necessita di sistematicità in senso classico.
Naturales quaestiones, in 7 l.: per la datazione si fa riferimento ad una cometa apparsa nel 60 d. C. e ad un terremoto che danneggiò Pompei nel 62. Rispondono anch'esse alla necessità di ripiegare su attività alternative all'impegno politico diretto. Sono di fatto un tentativo di collegare scienza e morale, evidente già dalla struttura delle singole quaestiones, ciascuna introdotta da un problema di carattere etico e conclusa in una specie di "morale" o comunque dalle conseguenze etiche della quaestio trattata. L’opera ha come argomento la scienza della terra, la fisica e i fenomeni atmosferici. Solo con lo studio dei fenomeni fisici si può vincere la paura e l’ignoranza: quindi la fisica è pertinente alla morale. Ha carattere dossografico (vengono cioè riportate le opinioni di filosofi greci e latini). Si deplora il comportamento di chi mette le scoperte scientifiche al servizio dei propri vizi. Seneca conclude l’opera con la certezza che le scoperte scientifiche continueranno e che le generazioni future conosceranno cose che ora non si conoscono.
LE TRAGEDIE
Delle molte tragedie del repertorio senecano che possediamo, la praetexta spuria (l'Octavia) è forse la più celebre: essa riguarda la morte della giovanissima Ottavia, sposa di Nerone, sacrificata per permettere le nozze del princeps con Poppea. Sicuramente falsa, in quanto troppo... "profetica" riguardo alla morte di Nerone, avvenuta dopo quella di Seneca, e poi per la comparsa dello stesso Seneca fra i personaggi, è tuttavia un'opera interessante, il cui vero autore potrebbe essere Anneo Cornuto, liberto di Seneca e maestro di filosofia.
Le 9 cothurnatae in nostro possesso sono tratte da opere dei tragici greci a noi note, eccezion fatta per il Thyestes.
Le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata ad un quesito di base: sono state composte per fini puramente artistici o con obiettivi politici? Se infatti rientrano nel progetto pedagogico di educazione del princeps, sono databili ai primi anni del principato di Nerone; se invece si tratta di un ripiego artistico del Seneca deluso dalla politica, sono databili agli ultimi anni della sua vita.
E ancora: erano destinate alla rappresentazione o alla lettura nelle sale di recitazione (recitatio)? L'uccisione dei figli di Medea in scena (quando sappiamo che, per questioni educative, sin dai primi tragici greci gli omicidi non potevano avvenire in scena) e lo stile tipico della recitatio inducono buona parte della critica a propendere per la seconda ipotesi.
Infine è da sottolineare che il tragico in Seneca non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico: la realtà esistenziale è assolutamente negativa, e nell'opera compaiono come personaggi positivi solo e sempre i minori, i subalterni, destinati comunque a rimanere inascoltati. L'aspetto che più colpisce dei personaggi di Seneca è che non dialogano fra loro: parlano, ma non si ascoltano.
Lo stile della tragedia senecana è fortemente influenzato dalla retorica asiana (stile gonfio, barocco, gusto per il macabro).
Eccone il contenuto in estrema sintesi:
Hercules Furens: Ercole impazzito uccide moglie e figli, poi, rinsavito, va ad Atene (modello è l' "Eracle" di Euripide).
Troades: descrive il dramma delle donne troiane destinate alla schiavitù presso i capi greci (modello sono le "Troiane" di Euripide).
Phoenissae: tratta il mito di Edipo e la rivalità dei figli Eteocle e Polinice per succedere al trono (modello sono le "Fenicie" di Euripide).
Medea: Medea, per vendicarsi dell’abbandono da parte di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui (modello è la "Medea" di Euripide).
Phaedra: tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito. La tragedia è di estremo interesse documentario perché non rispecchia affatto la trama dell’ "Ippolito coronato" di Euripide, che dovrebbe esserne il modello; la critica suppone pertanto che il prototipo di questa tragedia fosse il perduto "Ippolito velato", dramma giudicato troppo scandaloso dal pubblico ateniese e pertanto "rifatto" da Euripide l’anno successivo (428 a.C.) con il titolo di "Ippolito coronato";
Oedipus: Edipo scopre di essere l’uccisore del padre Laio e di avere sposato la madre Giocasta (modello è l' "Edipo re" di Sofocle).
Agamemnon: vi è rappresentato l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra (modello è l' "Agamennone" di Eschilo).
Thyestes: è la più celebre (e truculenta) fra le tragedie senecane: riprende l’atroce misfatto di Atreo, che imbandisce a Tieste le carni dei suoi figli.
Hercules Oetaeus: Ercole è ucciso dalla tunica intrisa del sangue velenoso del centauro Nesso, inviatagli dalla moglie Deianira con l’intenzione di riportarlo al suo amore (modello sono le "Trachinie" di Sofocle).
SATIRA MENIPPEA
L’ultima opera del corpus senecano, prosimetrica (= mista di prosa e versi), com’è tipico della satira menippea, è la Apokolokyntòsis divi Claudii (già nel titolo parodistica: Apokolokyntòsis sta per Apotheòsis).
Il significato del titolo (Apokolokyntòsis = "inzuccatura", "trasformazione in zucca"?) è controverso: secondo una diffusa ipotesi, esso significherebbe che alla sua morte Claudio, invece di essere assunto fra gli dèi, è stato assunto... fra le zucche (o gli zucchini); nulla di simile accade però nell’opera. Altri traducono "Infinocchiatura del divino Claudio", essendo per lui l'apoteosi una vera fregatura (egli non sarà affatto divinizzato)!
La critica riconosce piuttosto uniformemente che, per essere una satira, manca alla Apokolokyntòsis la vis polemica: più che un'invettiva sembra un (pesante) scherzo, un ludus. E forse, a giudicare dal sottotitolo (Ludus de morte Claudii), proprio questo voleva essere.
Contenuto:
Dopo che Mercurio riesce ad ottenere che Claudio esali finalmente l’anima, cessando così di sembrare vivo, si presenta a Giove un essere mostruoso, zoppo e che parla in modo incoerente. Viene creduto un mostro e sottoposto all’attenzione di Ercole, convinto di dover affrontare la sua tredicesima fatica. Dopo aver interrogato Claudio, Ercole si esprime negativamente, ma Giove, nonostante tutto, sarebbe dell’idea di divinizzarlo. Si avanza allora Augusto, che elenca tutte le malefatte di Claudio, per cui si decide di inviarlo agli Inferi. Accompagnato da Mercurio, passando per la via Sacra, Claudio assiste al suo funerale e si rende finalmente conto di essere morto. Nell’Ade viene accolto da tutte le sue vittime e viene condannato a giocare ai dadi con un bossolo senza fondo. Caligola lo vorrebbe come suo schiavo, ma Claudio viene assegnato al suo liberto Menandro.
Il tono è evidentemente, e pesantemente, parodistico: vengono messe alla berlina le fissazioni maniacali di Claudio, la sua infermità fisica (era probabilmente spastico) e la sua presunta stupidità.
LO STILE
Il filosofo deve badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale. La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa ma in particolare nei dialoghi l'autore si serve di un linguaggio colloquiale, caratterizzata dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che, nella sua disposizione ipotattica, organizza anche la gerarchia logica interna, e sviluppa uno stile eminentemente paratattico, che, nell'intento di riprodurre la lingua parlata, frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi penetranti e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla ripetizione.
Tale prosa antitetica all'armonioso periodare ciceroniano, rivoluzionaria sul piano del gusto e destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d'arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana procedendo con un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi di brevi frasi nervose e staccate, realizzando uno stile penetrante, drammatico, ma che non sa evitare una certa teatralità.
IL CONCETTO DEL TEMPO
Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli: il tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve affrancarsi e che l'uomo comune impiega in occupazioni dispersive, e, viceversa, il tempo come unico bene in possesso dell'uomo, strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla "quantità" ma sulla "qualità" del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di raggiungere la saggezza, è l'unica nostra vera ricchezza. Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione attraverso la quFugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 " in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").
Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C. ; il dialogo sviluppa come tema centrale l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che "scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un'immortalità che "supera" il tempo, nel dialogo questa conquista si circoscrive ad una dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni").
Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/aetas; carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito.
Nel concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito.
Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi , non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell'esistenza.
CITAZIONI
· C'è una grande differenza tra il non volere e il non saper peccare. (dalle Epistole, 90)
· Che cosa misera è l'umanità se non si sa elevare oltre l'umano! (da Naturales quaestiones)
O quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit.
· Chi domanda timorosamente, insegna a rifiutare. (da Fedra, v. 593)
· Dove ci porta la morte? Ci porta in quella pace dove noi fummo prima di nascere. La morte è il non-essere: è ciò che ha preceduto l'esistenza. Sarà dopo di me quello che era prima di me. Se la morte è uno stato di sofferenza, doveva essere così prima che noi venissimo alla luce: ma non sentimmo, allora, alcuna sofferenza. Tutto ciò che fu prima di noi è la morte. Nessuna differenza è tra il non-nascere e il morire, giacché l'effetto è uno solo: non essere. (da La dottrina morale)
· Innanzi tutto è più facile respingere il male che governarlo, non accoglierlo che moderarlo, una volta accolto, perché, quando si è insediato da padrone in un animo, diventa più forte di chi dovrebbe governarlo e non si lascia troncare ne rimpicciolire. (da I dialoghi)
· La vera felicità è non aver bisogno di felicità. (da La dottrina morale)
· L'assalto del male è di breve durata; simile ad un temporale, passa, di solito, dopo un'ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest'agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male "meditazione della morte": talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca la soffocazione. Pensi che ti scriva queste cose per la gioia di essere sfuggito al pericolo? Se mi rallegrassi di questa cessazione del male, come se avessi riacquistato la perfetta salute, sarei ridicolo come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo. (da Epistulae ad Lucilium, 54, 1-4)
· Le ricchezze sono al servizio del saggio, allo sciocco comandano. (da De vita beata)
· Nessuno è infelice se non per colpa sua. (da La dottrina morale)
· Non deviare dalla natura ed il formarci sulle sue leggi e sui suoi esempi, è sapienza. (citato in Claudio Malagoli, Etica dell'alimentazione: prodotti tipici e biologici, Ogm e nutraceutici, commercio equo e solidale, Aracne, 2006, p. 173)
· Sacra è la voce del popolo. (da Rhetorum controversiae I, 1, 10)
· Un tale ordine non può appartenere a una materia che si agiti casualmente. Un incontro di elementi senza piano e senza disegno non avrebbe questo equilibrio, né una così saggia disposizione. L'universo non può essere senza Dio. (da La dottrina morale)
· Ma se sei uomo, ammira chi tenta grandi imprese, anche se fallisce. (da De vita beata, XX, 2)
· "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. (da "epistulae ad lucilium 5,47)
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Per approfondimenti e reperimento dei testi nel web:
http://bcs.fltr.ucl.ac.be/Apo/apoco1.html
http://www.thelatinlibrary.com/sen.html
http://www.discipulus.it/includes/DeBrevitateVitae.pdf
http://www.riflessioni.it/enciclopedia/seneca.htm
http://www.intratext.com/Catalogo/Autori/AUT343.HTM
http://digilander.libero.it/Bukowski/Letteratura%20latina.htm#LetteraturaIImpero
http://rmcisadu.let.uniroma1.it/seneca/seneca.html
Per approfondimenti dedicati all'autore pubblicati dai principali quotidiani italiani:
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/seneca.htm
Seneca e San Paolo: per tracce di un probabile scambio di lettere tra due grandi del passato:
http://www.paginecattoliche.it/Articolo_Sordi.htm
Per approfondimenti sul contesto storico con particolare attenzione al pensiero politico dell'autore:
http://www.lastoria.org/seneca.htm
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