Una recensione di Elisa Radaelli
2 Settembre 2012
Suo compito sarebbe stato quello di
esaminare e selezionare i documenti provenienti dalla Francia occupata,
però la sua attività si spinge oltre; le annotazioni e i commenti si
trasformano, infatti, in veri e propri trattati nei quali, pur
affrontando tematiche differenti, mostra di tener sempre presente, in
modo più o meno esplicito a seconda dei casi, l’essere umano e le
irrinunciabili esigenze che lo caratterizzano. Il titolo originario
assegnato allo scritto consente di cogliere un primo aspetto importante:
parlare di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano ha il preciso significato di porsi all’interno di una prospettiva che privilegia i doveri anziché i diritti. Non è un caso, dunque, che venga problematizzata proprio la nozione posta a fondamento della celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino,
elaborata nel 1789. Gli uomini di quel tempo hanno considerato i
diritti come princìpi assoluti, commettendo un duplice errore.
Innanzitutto, argomenta Simone Weil, «un
diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso
corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi
lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi
confronti, obbligati a qualcosa. Il diritto è efficace allorché viene
riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non
perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è
riconosciuto da nessuno non vale molto». Il secondo sbaglio,
strettamente connesso al primo, è stato quello di non aver capito che, a
differenza dei diritti, gli obblighi non si fondano «su nessuna
situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla
struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del
passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna
situazione di fatto può suscitare un obbligo». Per comprendere
pienamente queste parole, è opportuno ricordare che, nella prospettiva
weiliana, la superiorità degli obblighi si basa e richiede, in ultima
analisi, il riferimento ad una realtà altra che si trova al di
sopra di questo mondo e di cui, peraltro, nello scritto in esame non
viene fornita alcuna specifica trattazione. La filosofa francese ne
parla in modo più esplicito nel saggio composto tra il 1942 e il 1943,
pubblicato poi in Francia sette anni più tardi con il titolo La personnalité humaine, le juste et l’injuste (2): «C’è
una realtà collocata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e
del tempo, fuori dall’universo mentale dell’uomo, fuori da tutto
l’ambito che le facoltà mentali possono cogliere. A questa realtà
corrisponde al centro del cuore dell’uomo l’esigenza di un bene assoluto
che sempre vi risiede e che non trova mai alcun oggetto in questo mondo».
A partire da simile
consapevolezza, Weil afferma che ciò che contraddistingue davvero l’uomo
non dipende dal possesso di particolari diritti da esercitare per far
valere la sua individualità. Piuttosto, l’elemento essenziale è
costituito dall’apertura a qualcosa che è estraneo,
nella misura in cui è inafferrabile nella sua totalità, ma che trova
origine nel bisogno di bene e giustizia racchiuso nel cuore di tutti.
Quindi, il rifiuto di servirsi della nozione di diritto nasce da una
chiara convinzione del nostro autore: sono gli obblighi, che si trovano
in stretta relazione con l’essere umano, e in particolare con quella che
viene definita la parte più segreta della sua anima, i soli ad aprire
il campo all’incondizionato, all’assoluto. Più precisamente, il punto di
contatto tra obbligo ed essere umano risiede nel fatto che quest’ultimo
sia oggetto del primo: «C’è obbligo verso ogni essere umano, per il
solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione
abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno». Tale obbligo, benché ‘avvertito’ da tutti, non dispone di uno specifico fondamento; ciò non significa che sia privo di valore, al contrario: evidenziando come esso abbia «una verifica nell’accordo della coscienza universale»,
Weil sembra alludere ad un’innata attitudine o predisposizione che, a
suo avviso, si manifesta nell’attenzione verso gli altri.
Infatti, se il riconoscimento del
rispetto dovuto ad ogni individuo non è sempre suscettibile di una
chiara formulazione a parole, può comunque trovare concreta
realizzazione attraverso i bisogni terrestri dell’uomo,
la cui soddisfazione è indispensabile e che vengono divisi in due
gruppi fondamentali: fisici e morali. I primi, più facili da
individuare, includono la fame, la protezione contro la violenza, il
vestiario, l’igiene, il caldo, l’abitazione e le cure in caso di
malattia. Diverso è il caso dei bisogni morali che, pur non essendo in
rapporto con la vita fisica dell’uomo, sono però ritenuti ugualmente
irrinunciabili: «Se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco
in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita
puramente vegetativa». Nel saggio La prima radice, ne
sono elencati quattordici, riconducibili a coppie di contrari: libertà e
ubbidienza, onore e punizione, ordine e responsabilità, uguaglianza e
gerarchia, verità e libertà di opinione, proprietà privata e proprietà
collettiva, sicurezza e rischio.
Parlare di bisogni contrari non significa doverne poi ricercare una giusta via intermedia
che, in realtà, renderebbe impossibile la soddisfazione di entrambi.
Piuttosto, si tratta di combinarli in un equilibrio all’interno del
quale figurino come irrinunciabili esigenze umane e non come capricci
individuali: «Il primo criterio di distinzione dei bisogni dai
desideri, dalle fantasie e dai vizi, dei cibi dalle ghiottonerie e dai
veleni è che i bisogni sono limitati quanto i cibi corrispondenti. Un
avaro non ha mai abbastanza oro, ma per ogni uomo, cui venga dato pane a
volontà, verrà il momento della sazietà. Il nutrimento porta alla
sazietà. Avviene lo stesso col nutrimento dell’anima. Il secondo
criterio, legato al primo, è che i bisogni si dispongono per coppie di
contrari e devono combinarsi in un equilibrio. L’uomo ha bisogno di
nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti […] ciò che si chiama
la giusta via di mezzo consiste in realtà nel non soddisfare né l’uno né
l’altro dei bisogni contrari. È una caricatura del vero equilibrio, nel
quale invece i bisogni contrari sono, l’uno e l’altro, pienamente
soddisfatti». Ai bisogni sopra individuati, se ne aggiunge un altro alla cui analisi è dedicata gran parte del saggio in esame: il radicamento.
L’importanza di questo concetto, a cui peraltro non corrisponde alcun
bisogno contrario, è testimoniata dal fatto che ella si soffermi a lungo
sulle pericolose conseguenze che si verificano qualora esso venga a
mancare, generando lo s-radicamento, considerato una vera e propria
malattia.
Il termine indica, letteralmente, ‘la mancanza di radici’
e, nella prospettiva weiliana, la perdita della capacità di sentirsi
parte della società in cui si vive, il venir meno di ogni punto di
riferimento. La filosofa francese è convinta che questa malattia possa
assumere forme differenti, a seconda dei contesti e delle circostanze,
ma che si manifesti nel modo più allarmante attraverso lo sradicamento
della cultura. La perdita di contatto col contesto di tradizioni da cui
si proviene, e in cui pertanto si è inevitabilmente inseriti, non può
che generare individui sradicati, incapaci di pensare e di agire. La
posizione di Simone Weil è ben lontana sia da un vuoto attaccamento al
passato sia da un orientamento politico di tipo reazionario; ciò a cui
davvero si riferisce emerge con chiarezza quando scrive: «Per dare
bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa che i
tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi.
Fra tutte le esigenze dell’anima nessuna è più vitale di quella del
passato». Soltanto la profonda e reale conoscenza dei tesori del
pensiero umano consente la possibilità sia di accettarli facendoli
propri sia di rifiutarli prendendone le distanze ma, in entrambi i casi,
in modo del tutto consapevole. Un atteggiamento critico di questo tipo
andrebbe diffuso attraverso l’insegnamento scolastico: «Si
parlerebbe del dogma come di qualcosa che nel nostro paese ha avuto una
funzione di primaria importanza e al quale uomini di altissimo valore
hanno sempre creduto con tutta l’anima loro; non si dovrebbe nemmeno
dissimulare che quei dogmi sono stati pretesto di innumerevoli crudeltà;
[…] se gli scolari domandano: “È vero?”, bisogna rispondere: “Ѐ
così bello che certo deve contenere molta parte di verità. In quanto al
sapere se sia assolutamente vero o no, cercate di diventare capaci di
rendervene conto quando sarete grandi”».
Il compito assegnato al sistema
scolastico, ossia quello di assicurare un legame tra passato e futuro
attraverso il presente, viene poi idealmente trasferito alla nazione.
Eppure, proprio nel momento in cui tale funzione è stata interamente
rimessa allo stato, Weil evidenzia come esso si stia decomponendo; e,
poiché all’idea di nazione è associata la memoria di un passato storico
che in qualche modo si conserva nella coscienza di ciascun essere umano,
lo sradicamento comporta ad un tempo una perdita di identità
individuale e collettiva. La riflessione del nostro autore si concentra
su entrambi gli aspetti, sviluppandosi a partire dall’analisi della
condizione di alcune categorie di lavoratori (3). In particolare, lo sradicamento raggiunge la massima gravità presso la classe operaia: questi lavoratori, infatti, «non
si sentono in casa propria né in fabbrica, né nelle loro abitazioni, né
nei partiti e sindacati che si dicono fatti per loro, né nei luoghi di
divertimento, né nella cultura intellettuale, qualora tentino di
assimilarla». Weil, che sperimenta su se stessa la condizione di operaia (4),
affronta il problema ‘dall’interno’, ossia a partire dalla
constatazione diretta dell’infelicità e del disagio che affliggono
questi lavoratori. La necessità di prestar loro attenzione non come
astratta e generica categoria sociale, ma come creature profondamente
sradicate, le permette sia di elaborare una riflessione profonda e
originale sia di acquisire consapevolezza che nessun tipo di
provvedimento, né rivoluzionario né riformista, è di per sé sufficiente a
garantire un miglioramento finché non è accompagnato da un tentativo
reale di comprendere le cause della loro sofferenza.
Sulla base di questa convinzione, Simone
Weil traccia poi le linee guida di un piano completo che possa
consentire un’effettiva trasformazione; un piano che, a suo avviso,
richiede necessariamente un intervento su più fronti. Osserva infatti: «Che
cosa giova agli operai ottenere con le loro lotte un aumento dei salari
ed una disciplina meno dura se contemporaneamente, in qualche ufficio
studi, gli ingegneri, senza alcuna intenzione malvagia, inventano
macchine destinate ad esaurirli corpo ed anima o ad aggravare le
difficoltà economiche? Che cosa servirebbe loro la nazionalizzazione
parziale o totale dell’economia, se lo spirito di quegli uffici studi
non mutasse?». Dunque, il cambiamento richiede non solo un nuovo
modo di concepire la produzione industriale, ma anche e soprattutto la
formulazione di una cultura spirituale che i lavoratori possano
avvertire come propria e nella quale si sentano a proprio agio. La
filosofa francese, convinta che un ruolo di primo piano spetti alla
cultura, cerca di mettere a fuoco le difficoltà che tale questione
solleva: «Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo
l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze […]
Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non
ne avrebbe se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità
illumina l’anima in proporzione della sua purezza e non già in
proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità di metallo che
conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ d’oro puro
vale molto oro puro […] l’altro ostacolo ad una cultura operaia consiste
nel fatto che alla condizione operaia […] corrisponde una particolare
disposizione della sensibilità. E quindi v’è qualcosa di estraneo in
quel che è stato elaborato da altri e per altri».
Occorre allora ricercare modalità adatte a trasmettere la cultura al popolo in modo che diventi effettivamente anche cultura del popolo,
una forma di sapere che sia il frutto di un’elaborazione personale e il
risultato di un’altrettanto personale disposizione della sensibilità,
non certo un prodotto da offrire alle masse di lavoratori dopo aver
operato una serie di semplificazioni. Del resto, proprio la ricerca
incessante di un movente, di un’ispirazione, costituisce un tratto
distintivo della filosofia weiliana che emerge in modo molto chiaro
attraverso una similitudine presente nell’opera La prima radice: «Una
giovane donna felice, incinta per la prima volta, che sta cucendo un
corredino, pensa a cucire bene. Ma non dimentica nemmeno un momento il
bambino che porta dentro di sé. Nello stesso momento, in qualche
laboratorio carcerario, una condannata cuce pensando anch’essa a cucire
bene perché teme altrimenti di venir punita. Potremmo immaginare che le
due donne facciano nello stesso momento lo stesso lavoro e che siano
attente alla stessa difficoltà tecnica. E nondimeno esiste un abisso di
differenza fra l’uno e l’altro lavoro. Tutto il problema sociale
consiste nel far passare i lavoratori dall’una all’altra di queste due
situazioni». Ciò è possibile solo attraverso il radicamento, concetto fondamentale sul quale Weil si esprime in questi termini: «Il
radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto
dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua
partecipazione reale, attiva e naturale, all’esistenza di una
collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi
presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione
naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla
professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple.
Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale,
spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».
Simone Weil si dedica all’analisi del
radicamento a partire da una considerazione di carattere generale: se
l’indagine critica condotta sulla società ha evidenziato la perdita di
qualunque riferimento in termini di valori, coerentemente si impegna nel
tentativo di individuare un criterio in grado di ispirare i popoli e
sottolinea come, affinché una scelta di questo tipo si riveli efficace, «non
basta aver intuito quella nozione, avervi rivolto la propria
attenzione, averla compresa; bisogna fissarla permanentemente nell’anima
in modo che sia presente persino quando l’attenzione si rivolge ad
altro». Infatti: «Voler condurre creature umane – si tratti di
altri o di se stessi – verso il bene indicando soltanto la direzione,
senza essersi assicurati della presenza dei moventi necessari, equivale a
voler mettere in moto un’automobile senza benzina, premendo
sull’accelerazione. O è come se si volesse accendere una lampada a olio
senza aver messo l’olio. Quest’errore è stato denunciato […] eppure si
continua a commetterlo». Il riferimento ad un modello di bene, che
dovrebbe costituire la molla delle azioni e delle intenzioni umane, non
equivale affatto alla definizione precisa di un presunto bene assoluto,
poiché la sua comprensione si colloca in una sfera che è inafferrabile
dal linguaggio degli uomini. L’esigenza di individuare criteri di questo
tipo nasce dal bisogno di ricostruire la società francese nel caso di
un’eventuale sconfitta tedesca. In Francia, la futura società dovrà
dunque assumere come riferimento un metodo nuovo, capace di tener conto
di piani operativi differenti (religioso, economico, sociale e politico)
ed intervenire sulla realtà mediante iniziative basate sull’idea di
bene, la sola in grado di tutelare la comunità umana dalla minaccia del totalitarismo, l’esempio più lampante di sradicamento della nazione. Impresa non facile, riconosce Weil, ma che vale la pena sperimentare: «Il
metodo di azione politica qui accennato supera le possibilità
dell’intelligenza umana, almeno per quanto se ne sa. Ma proprio questo
ne fonda il valore. Non bisogna chiedersi se si è capaci o no di
applicarlo. La risposta sarebbe sempre negativa. Bisogna concepirlo in
un modo assolutamente chiaro; affissarlo a lungo e spesso; affondarlo
per sempre in quella parte dell’anima dove i pensieri si radicano; e
tenerlo presente in ogni decisione. È forse possibile, in questo caso,
che le decisioni, benché imperfette, siano buone. Chi scrive versi
desiderando fare dei versi belli come quelli di Racine non farà mai un
bel verso. Ma ne farà ancor meno se non avrà neppure quella speranza».
Simone Weil, in sostanza, considera il bene come un’idea limite irrinunciabile,
di cui non ritiene necessario dimostrare l’esistenza; un tentativo del
genere appare ai suoi occhi del tutto irrilevante e ciò emerge con
chiarezza quando, nelle pagine del saggio La prima radice,
scrive: «Se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire
che essa ha, in questo mondo, una sua realtà». Il fatto che sia in
qualche modo percepibile costituisce una condizione di per sé
sufficiente, che non viene messa in discussione nemmeno di fronte alla
riconosciuta impossibilità di parlarne attraverso discorsi definiti. Il
linguaggio è sì limitato, ma questo non rappresenta necessariamente un
limite: infatti, il desiderio di bene radicato nel cuore degli uomini
che rivolgono all’ ‘altra realtà’ la propria attenzione resta tale anche
laddove non sia suscettibile di una precisa formulazione a parole
purché, tuttavia, sia realmente presente; e la presenza, nella
prospettiva weiliana, si manifesta indirettamente attraverso il rispetto
per l’essere umano, chiunque egli sia, e i suoi bisogni, fisici e
morali.
NOTE:
(1) Il titolo
assegnato da Simone al saggio è in realtà Preludio ad una dichiarazione
dei doveri verso l’essere umano; quello con cui venne pubblicato da
Gallimard, nel 1949, è editoriale.
(2) Trad.it. «La persona e il sacro», in Simone Weil. Pagine scelte, Marietti, 2009, pp. 177-204
(3) La filosofa francese, in particolare, analizza il caso dei contadini e degli operai.
(4) Nel dicembre
1934, dopo aver chiesto al ministero della Pubblica Istruzione un
congedo dall’insegnamento al fine di maturare un’esperienza diretta in
fabbrica, era entrata come operaia addetta alle presse in una società di
costruzioni elettriche e meccaniche, trascorrendo mesi intensi, segnati
dalla sofferenza e dalla fatica.
Un Commento a: “Simone Weil, La prima radice. Una recensione di Elisa Radaelli”
Inoltre un confronto con il mondo anglosassone avrebbe forse potuto mostrare come non sia tanto il bene l’antitesi del totalitarismo, quanto la società aperta, che riconosce uno spazio di autonomia all’individuo.