Da Wikipedia:
La cosmologia scientifica di Poe
Poe era convinto di aver scritto l'opera più importante della sua vita ed intendeva proporre seriamente una teoria cosmologica su basi metafisiche e scientifiche, anche se descritta in un'opera letteraria, un "poema in prosa"."Eureka" non ebbe il successo che Poe si attendeva, nonostante fin dall'inizio la critica letteraria ne abbia dato un giudizio generalmente positivo: addirittura vi è una tradizione letteraria, che risale a Paul Valéry, la quale attribuisce a Poe intuizioni relativistiche.
Analisi
Un'attenta analisi mostra che in realtà Poe non ha anticipato la relatività, ma ha posto e trattato diverse problematiche che sono al cuore della cosmologia moderna.Il motivo alla base di questo apparente anacronismo è che Poe ha concepito un universo newtoniano non statico ma in evoluzione dinamica.
Convinto che l'universo abbia avuto origine da una condizione di unità e che a questa condizione di unità esso tenda a tornare (come si manifesta dall'universalità della gravitazione), Poe attribuisce la nascita dell'universo dalla frammentazione di una particella primitiva in un "flash" per l'azione di una forza repulsiva; una volta esauritasi l'azione di questa forza, gli atomi diffusi nello spazio hanno cominciato ad attrarsi e a formare le stelle e i sistemi stellari (Poe riprende esplicitamente e generalizza l'ipotesi della nebulosa primordiale di Laplace).
L'insieme di questi sistemi stellari ("the Universe of Stars"), ciascuno dei quali ha un rango paragonabile alla Via Lattea (ovvero, in termini moderni, è una galassia), ha una distribuzione sferica di raggio grande ma non infinito, ed è destinato a causa della gravità a collassare in futuro e a tornare all'unità primordiale.
L'intuizione di Poe che l'universo ha un'origine nel passato e che è in evoluzione spiega perché diversi temi discussi da Poe si ritrovano nella moderna cosmologia scientifica, pur riproposti in un contesto relativistico: l'omogeneità dell'universo in espansione, l'atomo primordiale di Lemaître, il paradosso di Olbers, il principio antropico applicato all'età e alle dimensioni dell'universo, l'epoca di formazione delle stelle, la presenza di una forza repulsiva per generare l'universo, la possibilità di altri universi, ecc.
Vedere anche:
"http://www.bo.astro.it/~cappi/itapoe.html"
e molto bello
"http://unastellaperamica.wordpress.com/2011/01/16/eureka-ovvero-la-cosmologia-di-edgar-allan-poe/"
Da "http://www.torinoscienza.it" :
Primo Dossier
http://www.torinoscienza.it/dossier/eureka_la_cosmologia_letteraria_di_edgar_allan_poe_3316
Secondo Dossier
http://www.torinoscienza.it/dossier/l_infinito_di_edgar_allan_poe_3497
Terzo ed ultimo Dossier
http://www.torinoscienza.it/dossier/l_universo_in_evoluzione_di_edgar_allan_poe_3541
Dato che sono molti lunghi ne riporto soltanto delle parti.
Sono dei Dossier fantastici come del resto tutto il sito.
LexMat
Eureka: la cosmologia letteraria di Edgar Allan Poe
Una teoria scientifica sotto forma di narrativa.L'analisi di un esempio ottocentesco di unione fra letteratura e scienza che esce dai canoni contemporanei a cui siamo abituati: Eureka: a Prose Poem, di Edgar Allan Poe.
Alle
prese con un'opera di narrativa o con un lungo poema, il lettore di
oggi non si aspetta certo di imbattersi in una vera e propria teoria
scientifica.
Il genere contemporaneo più popolare nel quale ritroviamo elementi di scienza insieme ad elementi di letteratura è la fantascienza, che però trae spunto ed ispirazione dalle conoscenze scientifiche contemporanee per creare nuovi mondi e civiltà immaginarie, non certo per leggere ed interpretare il libro della Natura.
Altro genere moderno d'incontro tra letteratura e scienza è la divulgazione scientifica, che si propone come strumento a disposizione dei non esperti per avvicinarsi alle scoperte della scienza moderna.
Nella maggior parte dei casi, però, la divulgazione sacrifica alla chiarezza l'originalità e le ambizioni letterarie.
Storicamente, però, non è sempre stato così.
Eureka è un'opera affascinante e peculiare, in cui l'autore presenta un'ambiziosa teoria che vuole essere al tempo stesso fisica e metafisica, in grado di descrivere in modo unitario "l'Universo Materiale e Spirituale".
La lettura dell'opera di Poe richiede un approccio interdisciplinare e un inquadramento corretto nel contesto delle conoscenze fisiche e astronomiche nella prima metà del XIX secolo, come è messo in evidenza da Giulio Giorello che, nella sua introduzione ad una edizione italiana di Eureka del 1982, scrive: "(...) una lettura di Eureka che, alla luce delle attuali conoscenze astronomiche, fisiche, ecc., si mettesse a discriminare tra quel che Poe ha ereditato da un passato che sentiamo come sempre più remoto e quel che ha anticipato di un futuro per lui ancora troppo lontano, ne disperderebbe tutto il fascino."
In effetti l'interpretazione di Eureka costituisce un esercizio delicato.
Non pochi lettori entusiasti (e anche illustri, come il poeta francese Paul Valéry), hanno visto in Poe un profeta della relatività o, più recentemente, addirittura delle Teorie di Grande Unificazione: queste analogie sono del tutto fuorvianti e controproducenti.
Tendono infatti a generare scetticismo negli storici e nei critici, che finiscono col gettare su Eureka solo un'occhiata distratta e a relegare il poema nel campo del fantastico, o del "mito''; cosa che, come vedremo, non corrisponde affatto né alle intenzioni di Poe né alle caratteristiche fondamentali dell'opera.
Non bisogna dunque cadere nell'errore opposto a quello della critica "entusiasta": in Eureka si ritrovano numerose analogie con la cosmologia moderna, che sono pienamente giustificabili da un punto vista storicamente rigoroso.
Al di là degli aspetti più tecnici, Eureka offre comunque molti spunti interessanti che riguardano antichi pregiudizi sulla natura del cosmo, come per esempio l'uniformità e l’immutabilità dell'universo, o l'infinità dello spazio, che rimangono temi di estrema modernità nella ricerca scientifica.
Infine si deve tenere presente che, anche se non potremo approfondire questo aspetto, in Eureka Poe descrive anche la natura spirituale dell'universo, da intendersi come simmetrica e complementare alla sua natura fisica.
L'universo in evoluzione di Edgar Allan Poe
Poe ha immaginato un universo in espansione simile a quello della cosmologia moderna.
Ma come se la cava con il Big Bang?
Il genere contemporaneo più popolare nel quale ritroviamo elementi di scienza insieme ad elementi di letteratura è la fantascienza, che però trae spunto ed ispirazione dalle conoscenze scientifiche contemporanee per creare nuovi mondi e civiltà immaginarie, non certo per leggere ed interpretare il libro della Natura.
Altro genere moderno d'incontro tra letteratura e scienza è la divulgazione scientifica, che si propone come strumento a disposizione dei non esperti per avvicinarsi alle scoperte della scienza moderna.
Nella maggior parte dei casi, però, la divulgazione sacrifica alla chiarezza l'originalità e le ambizioni letterarie.
Storicamente, però, non è sempre stato così.
Eureka è un'opera affascinante e peculiare, in cui l'autore presenta un'ambiziosa teoria che vuole essere al tempo stesso fisica e metafisica, in grado di descrivere in modo unitario "l'Universo Materiale e Spirituale".
La lettura dell'opera di Poe richiede un approccio interdisciplinare e un inquadramento corretto nel contesto delle conoscenze fisiche e astronomiche nella prima metà del XIX secolo, come è messo in evidenza da Giulio Giorello che, nella sua introduzione ad una edizione italiana di Eureka del 1982, scrive: "(...) una lettura di Eureka che, alla luce delle attuali conoscenze astronomiche, fisiche, ecc., si mettesse a discriminare tra quel che Poe ha ereditato da un passato che sentiamo come sempre più remoto e quel che ha anticipato di un futuro per lui ancora troppo lontano, ne disperderebbe tutto il fascino."
In effetti l'interpretazione di Eureka costituisce un esercizio delicato.
Non pochi lettori entusiasti (e anche illustri, come il poeta francese Paul Valéry), hanno visto in Poe un profeta della relatività o, più recentemente, addirittura delle Teorie di Grande Unificazione: queste analogie sono del tutto fuorvianti e controproducenti.
Tendono infatti a generare scetticismo negli storici e nei critici, che finiscono col gettare su Eureka solo un'occhiata distratta e a relegare il poema nel campo del fantastico, o del "mito''; cosa che, come vedremo, non corrisponde affatto né alle intenzioni di Poe né alle caratteristiche fondamentali dell'opera.
Non bisogna dunque cadere nell'errore opposto a quello della critica "entusiasta": in Eureka si ritrovano numerose analogie con la cosmologia moderna, che sono pienamente giustificabili da un punto vista storicamente rigoroso.
Al di là degli aspetti più tecnici, Eureka offre comunque molti spunti interessanti che riguardano antichi pregiudizi sulla natura del cosmo, come per esempio l'uniformità e l’immutabilità dell'universo, o l'infinità dello spazio, che rimangono temi di estrema modernità nella ricerca scientifica.
Infine si deve tenere presente che, anche se non potremo approfondire questo aspetto, in Eureka Poe descrive anche la natura spirituale dell'universo, da intendersi come simmetrica e complementare alla sua natura fisica.
L'universo in evoluzione di Edgar Allan Poe
Poe ha immaginato un universo in espansione simile a quello della cosmologia moderna.
Ma come se la cava con il Big Bang?
La visione dell'universo che Edgar Allan Poe delinea nel 1848 con il suo poema in prosa Eureka
presenta numerose analogie con la cosmologia contemporanea.
Questo può apparire sorprendente, dato che lo scritto di Poe anticipa di circa 70 anni la teoria della relatività generale (1916), ma certo non casuale.
Alla base delle speculazioni del grande scrittore americano, infatti, risiede la cosmologia newtoniana, che è una valida approssimazione della cosmologia relativistica anche quando le distanze in gioco sono di centinaia di milioni di anni-luce.
Inoltre l’universo che descrive è un universo in evoluzione, che ciclicamente attraversa una fase di espansione seguita da una fase di collasso (di questo si parla nel dossier L'infinito di Edgar Allan Poe).
A questo proposito, è illuminante leggere come Poe spiega la reticenza degli astronomi dell'epoca ad accettare l'idea di un collasso gravitazionale delle nebulose: “Semplicemente per un pregiudizio, solo perché quest'ipotesi cozza contro un'opinione preconcetta e del tutto infondata, quella cioè della infinità e dell'eterna stabilità dell'Universo”.
Due interessanti esempi di questa corrispondenza sono:
1) la formulazione del problema di un universo omogeneo in espansione;
2) il rapporto fra la Particella Primordiale di Poe e la concezione attuale del Big Bang.
Infine esamineremo le caratteristiche dell'universo di Poe, descritte in quella parte di Eureka che può essere considerata un raro e prezioso esempio di divulgazione scientifica da parte di un grande scrittore.
L'universo in evoluzione di Edgar Allan Poe è il terzo di tre dossier dedicati a questo affascinante esempio di intersezione tra scienza e arte. Gli altri sono Eureka, la cosmologia letteraria di Edgar Allan Poe e L'infinito di Edgar Allan Poe.
Questo può apparire sorprendente, dato che lo scritto di Poe anticipa di circa 70 anni la teoria della relatività generale (1916), ma certo non casuale.
Alla base delle speculazioni del grande scrittore americano, infatti, risiede la cosmologia newtoniana, che è una valida approssimazione della cosmologia relativistica anche quando le distanze in gioco sono di centinaia di milioni di anni-luce.
Inoltre l’universo che descrive è un universo in evoluzione, che ciclicamente attraversa una fase di espansione seguita da una fase di collasso (di questo si parla nel dossier L'infinito di Edgar Allan Poe).
A questo proposito, è illuminante leggere come Poe spiega la reticenza degli astronomi dell'epoca ad accettare l'idea di un collasso gravitazionale delle nebulose: “Semplicemente per un pregiudizio, solo perché quest'ipotesi cozza contro un'opinione preconcetta e del tutto infondata, quella cioè della infinità e dell'eterna stabilità dell'Universo”.
Due interessanti esempi di questa corrispondenza sono:
1) la formulazione del problema di un universo omogeneo in espansione;
2) il rapporto fra la Particella Primordiale di Poe e la concezione attuale del Big Bang.
Infine esamineremo le caratteristiche dell'universo di Poe, descritte in quella parte di Eureka che può essere considerata un raro e prezioso esempio di divulgazione scientifica da parte di un grande scrittore.
L'universo in evoluzione di Edgar Allan Poe è il terzo di tre dossier dedicati a questo affascinante esempio di intersezione tra scienza e arte. Gli altri sono Eureka, la cosmologia letteraria di Edgar Allan Poe e L'infinito di Edgar Allan Poe.
La cosmologia scientifica di Poe
Alla stessa corrente che accomuna Lemaître e Poe, appartiene anche l’ipotesi di Kant-Laplace per spiegare la formazione delle galassie, alla quale entrambi si ispirano.
Poe applica l'ipotesi di Laplace su scala cosmologica, in un quadro grandioso.
È durante il collasso dell'universo che si formano, a partire dallo stato di nebulose, le stelle con i loro sistemi planetari: Poe qui veste i panni di un eloquente ed efficace divulgatore e descrive a grandi linee i meccanismi proposti da Laplace, la formazione e separazione successiva di vari anelli che portano alla formazione dei pianeti, prima i più esterni e successivamente i più interni, mentre il Sole nasce dalla condensazione centrale.
Egli deride l'idea che la rotazione originaria sia stata impartita da Dio (un'idea che certamente non avevano più gli scienziati dell'epoca, ma che doveva avere una qualche diffusione a livello popolare, un po' come l'identificazione fra Big Bang e Genesi ai giorni nostri...).
E a proposito dell'ipotesi di Laplace, Poe afferma: “È invero di gran lunga troppo bella per non cogliere la Verità nella sua essenzialità -e sono qui assai profondamente serio in ciò che dico”.
In effetti, nonostante i dettagli dell'idea di Laplace non siano oggi più validi, l'idea di fondo è stata confermata: oggi si possono osservare addirittura i dischi protoplanetari.
Durante il processo di contrazione della nebulosa, il Sole si accende: “Così il Sole, nel processo della sua aggregazione, deve presto, nello sviluppare la sua repulsione, essere diventato eccessivamente caldo -forse incandescente”.
Ma non è detto che tutte le stelle siano luminose: “Di nuovo: -sappiamo che esistono soli non luminosi- ovvero, soli la cui esistenza viene determinata attraverso i moti di altri [soli], ma la cui luminosità non è sufficiente a svelarceli”.
È una frase che ci appare a posteriori quasi profetica, ma certo Poe non allude a corpi talmente massicci che la luce non può sfuggire, ovvero a buchi neri, ma a corpi che non sono abbastanza luminosi.
Egli sapeva evidentemente che nel 1838, in seguito alla scoperta di un compagno piccolo e massiccio ma invisibile attorno alla stella Sirio (si trattava di una nana bianca), l'astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel aveva preso in seria considerazione la possibilità che esistessero stelle non luminose.
Bessel scrisse: “Non c'è ragione di supporre che la luminosità sia una qualità essenziale dei corpi cosmici.
La visibilità di innumerevoli stelle non è un argomento contro l'invisibilità di innumerevoli altre”.
Poe, da coerente evoluzionista, estende la sua trattazione alla vita sulla Terra: egli lega il processo di formazione del sistema solare, e le successive scariche del Sole, all'evoluzione di nuove specie sulla Terra: “Ora ciò è in preciso accordo con quello che sappiamo della successione di animali sulla Terra. Mentre [la Terra] ha proceduto nella sua condensazione, razze via via superiori sono apparse”.
Poe arriva addirittura a suggerire che l'eventuale formazione di un nuovo pianeta interno a Mercurio potrebbe portare all'apparizione di una specie più evoluta dell'uomo.
In realtà l'ipotesi nebulare di Laplace, molto popolare in America, cominciava già ad essere sottoposta a serie critiche.
Sembrava infatti essere contraddetta dalle osservazioni di Lord Rosse, che parevano mostrare che tutte le presunte nebulose fossero in realtà ammassi di stelle lontani.
A questo punto, non sembrava esserci più alcuna evidenza a favore dell'esistenza di una materia nebulare (gas) nello spazio, condizione necessaria per l'ipotesi di Laplace.
La replica di Poe a questa obiezione appare quanto mai ingegnosa: egli sottolinea che la formazione delle stelle è avvenuta nel passato, pertanto noi possiamo osservare oggi solo sistemi di stelle paragonabili alla Via Lattea.
Come gli astronomi della sua epoca, Poe ignorava che la classe delle nebulose comprende oggetti molto diversi fra loro; ma il suo ragionamento appare logico, e lo porta a concepire quella che noi oggi chiamiamo epoca di formazione delle galassie.
Nella terminologia di Poe, le nebulose sono in effetti ammassi (clusters) di stelle, ovvero sistemi paragonabili alla Via Lattea: le galassie.
Poe segue in questo l'opinione di Wright, di Kant, e del primo Herschel.
La Via Lattea, che noi vediamo dall'interno come una fascia proiettata sul cielo, ha una forma molto vagamente simile al pianeta Saturno.
Le altre nebulose si trovano a distanze enormi, di milioni di anni-luce (le stime sono quelle di William Herschel, e sono corrette come ordine di grandezza se ci riferiamo alle galassie più vicine).
L'Universo delle Stelle è allora un ammasso di ammassi [cluster of clusters] ovvero, in termini moderni, un ammasso di galassie situato in uno spazio vuoto e in(de)finitamente esteso.
Poe applica l'ipotesi di Laplace su scala cosmologica, in un quadro grandioso.
È durante il collasso dell'universo che si formano, a partire dallo stato di nebulose, le stelle con i loro sistemi planetari: Poe qui veste i panni di un eloquente ed efficace divulgatore e descrive a grandi linee i meccanismi proposti da Laplace, la formazione e separazione successiva di vari anelli che portano alla formazione dei pianeti, prima i più esterni e successivamente i più interni, mentre il Sole nasce dalla condensazione centrale.
Egli deride l'idea che la rotazione originaria sia stata impartita da Dio (un'idea che certamente non avevano più gli scienziati dell'epoca, ma che doveva avere una qualche diffusione a livello popolare, un po' come l'identificazione fra Big Bang e Genesi ai giorni nostri...).
E a proposito dell'ipotesi di Laplace, Poe afferma: “È invero di gran lunga troppo bella per non cogliere la Verità nella sua essenzialità -e sono qui assai profondamente serio in ciò che dico”.
In effetti, nonostante i dettagli dell'idea di Laplace non siano oggi più validi, l'idea di fondo è stata confermata: oggi si possono osservare addirittura i dischi protoplanetari.
Durante il processo di contrazione della nebulosa, il Sole si accende: “Così il Sole, nel processo della sua aggregazione, deve presto, nello sviluppare la sua repulsione, essere diventato eccessivamente caldo -forse incandescente”.
Ma non è detto che tutte le stelle siano luminose: “Di nuovo: -sappiamo che esistono soli non luminosi- ovvero, soli la cui esistenza viene determinata attraverso i moti di altri [soli], ma la cui luminosità non è sufficiente a svelarceli”.
È una frase che ci appare a posteriori quasi profetica, ma certo Poe non allude a corpi talmente massicci che la luce non può sfuggire, ovvero a buchi neri, ma a corpi che non sono abbastanza luminosi.
Egli sapeva evidentemente che nel 1838, in seguito alla scoperta di un compagno piccolo e massiccio ma invisibile attorno alla stella Sirio (si trattava di una nana bianca), l'astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel aveva preso in seria considerazione la possibilità che esistessero stelle non luminose.
Bessel scrisse: “Non c'è ragione di supporre che la luminosità sia una qualità essenziale dei corpi cosmici.
La visibilità di innumerevoli stelle non è un argomento contro l'invisibilità di innumerevoli altre”.
Poe, da coerente evoluzionista, estende la sua trattazione alla vita sulla Terra: egli lega il processo di formazione del sistema solare, e le successive scariche del Sole, all'evoluzione di nuove specie sulla Terra: “Ora ciò è in preciso accordo con quello che sappiamo della successione di animali sulla Terra. Mentre [la Terra] ha proceduto nella sua condensazione, razze via via superiori sono apparse”.
Poe arriva addirittura a suggerire che l'eventuale formazione di un nuovo pianeta interno a Mercurio potrebbe portare all'apparizione di una specie più evoluta dell'uomo.
In realtà l'ipotesi nebulare di Laplace, molto popolare in America, cominciava già ad essere sottoposta a serie critiche.
Sembrava infatti essere contraddetta dalle osservazioni di Lord Rosse, che parevano mostrare che tutte le presunte nebulose fossero in realtà ammassi di stelle lontani.
A questo punto, non sembrava esserci più alcuna evidenza a favore dell'esistenza di una materia nebulare (gas) nello spazio, condizione necessaria per l'ipotesi di Laplace.
La replica di Poe a questa obiezione appare quanto mai ingegnosa: egli sottolinea che la formazione delle stelle è avvenuta nel passato, pertanto noi possiamo osservare oggi solo sistemi di stelle paragonabili alla Via Lattea.
Come gli astronomi della sua epoca, Poe ignorava che la classe delle nebulose comprende oggetti molto diversi fra loro; ma il suo ragionamento appare logico, e lo porta a concepire quella che noi oggi chiamiamo epoca di formazione delle galassie.
Nella terminologia di Poe, le nebulose sono in effetti ammassi (clusters) di stelle, ovvero sistemi paragonabili alla Via Lattea: le galassie.
Poe segue in questo l'opinione di Wright, di Kant, e del primo Herschel.
La Via Lattea, che noi vediamo dall'interno come una fascia proiettata sul cielo, ha una forma molto vagamente simile al pianeta Saturno.
Le altre nebulose si trovano a distanze enormi, di milioni di anni-luce (le stime sono quelle di William Herschel, e sono corrette come ordine di grandezza se ci riferiamo alle galassie più vicine).
L'Universo delle Stelle è allora un ammasso di ammassi [cluster of clusters] ovvero, in termini moderni, un ammasso di galassie situato in uno spazio vuoto e in(de)finitamente esteso.
Il paradosso di Olbers
Per
giustificare ulteriormente la sua convinzione che l'Universo delle
Stelle sia limitato, Poe osserva che, se le stelle fossero distribuite
all'infinito nello spazio, il cielo sarebbe uniformemente luminoso: si
tratta di quello che è oggi noto come paradosso di Olbers, dal nome
dell'astronomo tedesco che vi dedicò un celebre articolo nel 1823, anche
se non fu lui il primo a porre il problema.
In effetti, se le stelle sono distribuite all'infinito, osservando in qualunque direzione del cielo dovremmo incrociare la luce di una stella, per quanto lontana possa essere.
È vero che il flusso luminoso di una stella diminuisce con l'inverso del quadrato della distanza, ma il numero di stelle intorno a noi aumenta con il quadrato della distanza, e i due effetti si compensano.
In conclusione, il cielo, di giorno come di notte, dovrebbe essere caldo e luminoso come la superficie del Sole. La predizione è evidentemente sbagliata: ma dov’è l’errore?
Alla base del nostro ragionamento vi sono varie ipotesi implicite, fra le quali il fatto che l'universo esista da sempre.
Se invece lasciamo cadere questa ipotesi possiamo evitare il paradosso e Poe, come notato dal cosmologo americano Edward Harrison, è stato il primo a proporre un ragionamento qualitativo soddisfacente: se l'universo ha avuto un'origine nel passato, poiché la velocità della luce non è infinita, è evidente che noi non possiamo osservare la luce di quelle stelle che si trovano ad una distanza per percorrere la quale la luce deve impiegare un tempo superiore all'età dell'universo.
Ciò significa ad esempio che, se l'universo ha un'età di 15 miliardi di anni, noi non possiamo osservare stelle più lontane di 15 miliardi di anni-luce.
E il paradosso, che era basato sulla distribuzione infinita di stelle osservabili cade in modo automatico.
Anche se Poe ha intuito la soluzione corretta del paradosso, non si rese conto della sua importanza e non dette rilievo: per lui l'Universo delle Stelle era finito e questo elimina il paradosso alla base.
In effetti, se le stelle sono distribuite all'infinito, osservando in qualunque direzione del cielo dovremmo incrociare la luce di una stella, per quanto lontana possa essere.
È vero che il flusso luminoso di una stella diminuisce con l'inverso del quadrato della distanza, ma il numero di stelle intorno a noi aumenta con il quadrato della distanza, e i due effetti si compensano.
In conclusione, il cielo, di giorno come di notte, dovrebbe essere caldo e luminoso come la superficie del Sole. La predizione è evidentemente sbagliata: ma dov’è l’errore?
Alla base del nostro ragionamento vi sono varie ipotesi implicite, fra le quali il fatto che l'universo esista da sempre.
Se invece lasciamo cadere questa ipotesi possiamo evitare il paradosso e Poe, come notato dal cosmologo americano Edward Harrison, è stato il primo a proporre un ragionamento qualitativo soddisfacente: se l'universo ha avuto un'origine nel passato, poiché la velocità della luce non è infinita, è evidente che noi non possiamo osservare la luce di quelle stelle che si trovano ad una distanza per percorrere la quale la luce deve impiegare un tempo superiore all'età dell'universo.
Ciò significa ad esempio che, se l'universo ha un'età di 15 miliardi di anni, noi non possiamo osservare stelle più lontane di 15 miliardi di anni-luce.
E il paradosso, che era basato sulla distribuzione infinita di stelle osservabili cade in modo automatico.
Anche se Poe ha intuito la soluzione corretta del paradosso, non si rese conto della sua importanza e non dette rilievo: per lui l'Universo delle Stelle era finito e questo elimina il paradosso alla base.
Materia finita nello spazio infinito
Uno dei più antichi dilemmi della cosmologia è se lo spazio sia finito
o infinito.
Nel IV a.C. Aristotele riteneva che l'universo fosse finito, limitato dalla sfera delle stelle fisse, mentre gli atomisti greci, poco meno di un secolo prima, avevano sostenuto che lo spazio non ha limiti e che i mondi sono infiniti.
Una posizione che ritroviamo in epoche più recenti nel poema di Lucrezio De Rerum Natura. Nel I a.C., Lucrezio ripropone l'esperimento ideale che il pitagorico Archita aveva proposto circa cinquecento anni primi: se una freccia scagliata in cielo raggiunge il limite dello spazio, che cosa le succede? Che cosa ci può essere oltre il limite dello spazio, se non altro spazio?
Per tutto il Medioevo, tuttavia, prevalse l’idea di un cosmo finito e antropocentrico, e fu solo dopo la pubblicazione del De Revolutionibus di Copernico nel 1543 e la progressiva affermazione del sistema eliocentrico, che ci si rese conto che la sfera delle stelle fisse era un’illusione e si riconobbe che le stelle sono in realtà altri soli distribuiti forse in uno spazio infinito.
Questa era anche la concezione di Isaac Newton, e questo è il punto di partenza di Poe.
Poe ritiene in realtà che il problema dell'infinito sia razionalmente insolubile, ma gli appare inevitabile considerare lo spazio “indefinitamente” esteso, data l’assurdità di un limite dello spazio: in pratica, ne accetta l'infinità.
Pochi anni dopo la pubblicazione di Eureka, il matematico tedesco Bernhard Riemann si rese conto che la geometria da lui sviluppata, una geometria non euclidea che viene detta geometria sferica, offriva una nuova soluzione al dilemma finito/infinito: lo spazio può essere finito ma illimitato.
Che significa? Si pensi, per esempio, alla superficie di una sfera: ha un'area finita, cioè esprimibile con un determinato numero, ma non ha limiti geometrici, non ha confini definiti.
È appunto finita, ma illimitata (su questo argomento, puoi leggere il dossier Cinque tappe nella quarta dimensione: agli abitanti dello spazio tridimensionale).
Ma questa è solo un’analogia bidimensionale. Come è possibile visualizzare uno spazio tridimensionali con proprietà simili? Anche se quella di Riemann era un’ipotesi rivoluzionaria, impossibile da concepire prima della nascita delle geometrie non euclidee, una tale eventualità sembra aver sfiorato la mente del nostro Giacomo Leopardi, il quale nel 1827, nel suo celebre Zibaldone, scrive: "Il credere l'universo infinito, è un'illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l'analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell'universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di qué corpi ch'io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all'ignorante, che guarda intorno da un'alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v'è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito."
In realtà, Poe accenna alla possibilità che due rette parallele possano incontrarsi (si veda il primo dossier di questa serie Eureka, la cosmologia letteraria di Edgar Allan Poe), ma nella sua cosmologia la geometria euclidea non è mai posta in discussione, e lo scrittore americano aderisce pienamente alla visione newtoniana che lo spazio e il tempo sono assoluti.
A differenza di Newton, però, Poe si convince che, se lo spazio è infinito, la materia in esso contenuta non può a sua volta estendersi all’infinito: le stelle che noi vediamo devono essere contenute entro un volume sferico finito. Si tratta di una possibilità che Newton aveva scartato, perché la reciproca attrazione gravitazionale fra le stelle avrebbe fatto crollare il sistema su se stesso, con la conseguenza che l’universo non sarebbe né statico né eterno.
D'altronde, Poe sa anche che la legge di gravitazione di Newton non è in grado di descrivere una distribuzione uniforme e infinita di materia; pertanto, sulla base di questa giustificazione fisica e data la sua ripugnanza filosofica nei confronti dell’infinito, conclude che la materia debba avere una distribuzione sferica, uniforme e limitata.
Riferendosi alla distribuzione della materia, egli la chiama Universe of Stars, l'Universo delle Stelle, per distinguerla dall'universo che nella sua totalità deve includere anche lo spazio vuoto infinito.
Come vedremo, questa scelta di Poe ha importanti conseguenze, dato che implica un universo in evoluzione.
Nel IV a.C. Aristotele riteneva che l'universo fosse finito, limitato dalla sfera delle stelle fisse, mentre gli atomisti greci, poco meno di un secolo prima, avevano sostenuto che lo spazio non ha limiti e che i mondi sono infiniti.
Una posizione che ritroviamo in epoche più recenti nel poema di Lucrezio De Rerum Natura. Nel I a.C., Lucrezio ripropone l'esperimento ideale che il pitagorico Archita aveva proposto circa cinquecento anni primi: se una freccia scagliata in cielo raggiunge il limite dello spazio, che cosa le succede? Che cosa ci può essere oltre il limite dello spazio, se non altro spazio?
Per tutto il Medioevo, tuttavia, prevalse l’idea di un cosmo finito e antropocentrico, e fu solo dopo la pubblicazione del De Revolutionibus di Copernico nel 1543 e la progressiva affermazione del sistema eliocentrico, che ci si rese conto che la sfera delle stelle fisse era un’illusione e si riconobbe che le stelle sono in realtà altri soli distribuiti forse in uno spazio infinito.
Questa era anche la concezione di Isaac Newton, e questo è il punto di partenza di Poe.
Poe ritiene in realtà che il problema dell'infinito sia razionalmente insolubile, ma gli appare inevitabile considerare lo spazio “indefinitamente” esteso, data l’assurdità di un limite dello spazio: in pratica, ne accetta l'infinità.
Pochi anni dopo la pubblicazione di Eureka, il matematico tedesco Bernhard Riemann si rese conto che la geometria da lui sviluppata, una geometria non euclidea che viene detta geometria sferica, offriva una nuova soluzione al dilemma finito/infinito: lo spazio può essere finito ma illimitato.
Che significa? Si pensi, per esempio, alla superficie di una sfera: ha un'area finita, cioè esprimibile con un determinato numero, ma non ha limiti geometrici, non ha confini definiti.
È appunto finita, ma illimitata (su questo argomento, puoi leggere il dossier Cinque tappe nella quarta dimensione: agli abitanti dello spazio tridimensionale).
Ma questa è solo un’analogia bidimensionale. Come è possibile visualizzare uno spazio tridimensionali con proprietà simili? Anche se quella di Riemann era un’ipotesi rivoluzionaria, impossibile da concepire prima della nascita delle geometrie non euclidee, una tale eventualità sembra aver sfiorato la mente del nostro Giacomo Leopardi, il quale nel 1827, nel suo celebre Zibaldone, scrive: "Il credere l'universo infinito, è un'illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l'analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell'universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di qué corpi ch'io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all'ignorante, che guarda intorno da un'alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v'è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito."
In realtà, Poe accenna alla possibilità che due rette parallele possano incontrarsi (si veda il primo dossier di questa serie Eureka, la cosmologia letteraria di Edgar Allan Poe), ma nella sua cosmologia la geometria euclidea non è mai posta in discussione, e lo scrittore americano aderisce pienamente alla visione newtoniana che lo spazio e il tempo sono assoluti.
A differenza di Newton, però, Poe si convince che, se lo spazio è infinito, la materia in esso contenuta non può a sua volta estendersi all’infinito: le stelle che noi vediamo devono essere contenute entro un volume sferico finito. Si tratta di una possibilità che Newton aveva scartato, perché la reciproca attrazione gravitazionale fra le stelle avrebbe fatto crollare il sistema su se stesso, con la conseguenza che l’universo non sarebbe né statico né eterno.
D'altronde, Poe sa anche che la legge di gravitazione di Newton non è in grado di descrivere una distribuzione uniforme e infinita di materia; pertanto, sulla base di questa giustificazione fisica e data la sua ripugnanza filosofica nei confronti dell’infinito, conclude che la materia debba avere una distribuzione sferica, uniforme e limitata.
Riferendosi alla distribuzione della materia, egli la chiama Universe of Stars, l'Universo delle Stelle, per distinguerla dall'universo che nella sua totalità deve includere anche lo spazio vuoto infinito.
Come vedremo, questa scelta di Poe ha importanti conseguenze, dato che implica un universo in evoluzione.
Il Principio Antropico
In Eureka
vi è un'altra idea particolarmente originale.
Poe si chiede perché le distanze nell'Universo delle Stelle siano così immense, perché vi siano così grandi vuoti. Si tratta di un fatto apparentemente privo di una risposta scientifica, secondo Poe, ma che può avere una giustificazione.
Scrive infatti: "Lo Spazio e la Durata sono una cosa sola".
Spazio e tempo sono le fatidiche parole che troviamo associate nella relatività generale, e questa falsa analogia ha purtroppo generato interpretazioni erronee, che hanno indicato il nostro autore come precursore di Einstein.
Un’assurdità, visto che lo spazio e il tempo di cui parla Poe sono newtoniani.
Inoltre, qui Poe parla chiaramente di Spazio nel senso di dimensioni dell'universo, e di Durata nel senso di età dell'Universo, non di intervalli di tempo. Ma leggiamo con attenzione l'intero passo:
“Lo Spazio e la Durata sono una cosa sola. Perché l'Universo stellare potesse durare per un tempo del tutto proporzionato alla grandezza della materia che lo compone e all'alta maestà dei suoi fini spirituali, sarebbe stato necessario che la diffusione atomica originaria avesse avuto luogo entro un’estensione così inconcepibile da essere tale senza essere infinita. Sarebbe stato necessario, in sintesi, che le stelle si fossero riunite dalla nebulosità invisibile in un punto visibile, e poi fossero passate dalla visibilità al consolidamento, e fossero invecchiate dando vita e morte a variazioni di sviluppo vitale indicibilmente numerose e complesse; sarebbe stato necessario che le stelle avessero fatto tutto ciò, che avessero avuto tempo di compiere interamente tutti questi progetti divini, nel periodo in cui tutte le cose andavano compiendo la loro fase di ritorno all’Unità con una velocità accumulantesi in proporzione inversa al quadrato della distanza in cui si trova l’inevitabile Fine”.
Dunque Poe ci dice che dimensioni ed età dell'universo sono associati perché l'Universo non è statico!
Un universo che si è espanso e che successivamente crolla a causa della propria gravità deve lasciare il tempo alle stelle per formarsi, per evolvere, e per dare origine alla vita: perciò il tempo di collasso dell'Universo deve essere superiore al tempo evolutivo delle stelle, e per non collassare troppo in fretta l'universo deve essere abbastanza grande.
Quando ho letto per la prima volta questo passo di Poe, mi sono ricordato di un passo scritto dal cosmologo John Barrow nel suo libro The World within the World, pubblicato nel 1988 (140 anni esatti dopo la pubblicazione di Eureka):
“Lo stato di espansione significa che la dimensione dell'Universo è strettamente legata alla sua età. Attualmente l'Universo visibile è grande più di 13 miliardi di anni-luce perché è vecchio 13 miliardi di anni. Un universo che contenesse appena una galassia, come la nostra Via Lattea, con i suoi 100 miliardi di stelle, potrebbe sembrare un'impresa ragionevolmente economica se uno lavorasse in un'impresa di costruzioni cosmica. Ma un tale universo, più di 100 miliardi di volte più povero di galassie del nostro, non avrebbe potuto espandersi per più di pochi mesi. Non avrebbe prodotto né stelle né elementi biologici. Non conterrebbe astronomi”.
Non vi è dubbio che, al di là delle differenze di stile, e del fatto che Poe pensava che l’universo stesse contraendosi e non espandendosi, Poe e Barrow esprimono lo stesso concetto!
Poe giustifica infatti le dimensioni dell'Universo col fatto che noi esistiamo, applicando quello che il fisico Brandon Carter ha chiamato Principio Antropico.
Questo principio si basa sulla constatazione che la nostra esistenza è il frutto di condizioni fisiche ben precise, e che l’osservazione di certe coincidenze apparentemente sorprendenti deriva dal fatto che esse sono necessarie per la nostra esistenza: se così non fosse, noi non esisteremmo.
Non è mia intenzione entrare nel merito della discussione sulla validità e sulle varianti di questo principio (si veda, per esempio, l'ampio e approfondito articolo on-line di Stefano Bettini).
È ad ogni modo evidente che Poe ha pienamente compreso le implicazioni di un universo non statico, implicazioni che sono qualitativamente le stesse, che si tratti di fisica newtoniana o relativistica.
Poe si chiede perché le distanze nell'Universo delle Stelle siano così immense, perché vi siano così grandi vuoti. Si tratta di un fatto apparentemente privo di una risposta scientifica, secondo Poe, ma che può avere una giustificazione.
Scrive infatti: "Lo Spazio e la Durata sono una cosa sola".
Spazio e tempo sono le fatidiche parole che troviamo associate nella relatività generale, e questa falsa analogia ha purtroppo generato interpretazioni erronee, che hanno indicato il nostro autore come precursore di Einstein.
Un’assurdità, visto che lo spazio e il tempo di cui parla Poe sono newtoniani.
Inoltre, qui Poe parla chiaramente di Spazio nel senso di dimensioni dell'universo, e di Durata nel senso di età dell'Universo, non di intervalli di tempo. Ma leggiamo con attenzione l'intero passo:
“Lo Spazio e la Durata sono una cosa sola. Perché l'Universo stellare potesse durare per un tempo del tutto proporzionato alla grandezza della materia che lo compone e all'alta maestà dei suoi fini spirituali, sarebbe stato necessario che la diffusione atomica originaria avesse avuto luogo entro un’estensione così inconcepibile da essere tale senza essere infinita. Sarebbe stato necessario, in sintesi, che le stelle si fossero riunite dalla nebulosità invisibile in un punto visibile, e poi fossero passate dalla visibilità al consolidamento, e fossero invecchiate dando vita e morte a variazioni di sviluppo vitale indicibilmente numerose e complesse; sarebbe stato necessario che le stelle avessero fatto tutto ciò, che avessero avuto tempo di compiere interamente tutti questi progetti divini, nel periodo in cui tutte le cose andavano compiendo la loro fase di ritorno all’Unità con una velocità accumulantesi in proporzione inversa al quadrato della distanza in cui si trova l’inevitabile Fine”.
Dunque Poe ci dice che dimensioni ed età dell'universo sono associati perché l'Universo non è statico!
Un universo che si è espanso e che successivamente crolla a causa della propria gravità deve lasciare il tempo alle stelle per formarsi, per evolvere, e per dare origine alla vita: perciò il tempo di collasso dell'Universo deve essere superiore al tempo evolutivo delle stelle, e per non collassare troppo in fretta l'universo deve essere abbastanza grande.
Quando ho letto per la prima volta questo passo di Poe, mi sono ricordato di un passo scritto dal cosmologo John Barrow nel suo libro The World within the World, pubblicato nel 1988 (140 anni esatti dopo la pubblicazione di Eureka):
“Lo stato di espansione significa che la dimensione dell'Universo è strettamente legata alla sua età. Attualmente l'Universo visibile è grande più di 13 miliardi di anni-luce perché è vecchio 13 miliardi di anni. Un universo che contenesse appena una galassia, come la nostra Via Lattea, con i suoi 100 miliardi di stelle, potrebbe sembrare un'impresa ragionevolmente economica se uno lavorasse in un'impresa di costruzioni cosmica. Ma un tale universo, più di 100 miliardi di volte più povero di galassie del nostro, non avrebbe potuto espandersi per più di pochi mesi. Non avrebbe prodotto né stelle né elementi biologici. Non conterrebbe astronomi”.
Non vi è dubbio che, al di là delle differenze di stile, e del fatto che Poe pensava che l’universo stesse contraendosi e non espandendosi, Poe e Barrow esprimono lo stesso concetto!
Poe giustifica infatti le dimensioni dell'Universo col fatto che noi esistiamo, applicando quello che il fisico Brandon Carter ha chiamato Principio Antropico.
Questo principio si basa sulla constatazione che la nostra esistenza è il frutto di condizioni fisiche ben precise, e che l’osservazione di certe coincidenze apparentemente sorprendenti deriva dal fatto che esse sono necessarie per la nostra esistenza: se così non fosse, noi non esisteremmo.
Non è mia intenzione entrare nel merito della discussione sulla validità e sulle varianti di questo principio (si veda, per esempio, l'ampio e approfondito articolo on-line di Stefano Bettini).
È ad ogni modo evidente che Poe ha pienamente compreso le implicazioni di un universo non statico, implicazioni che sono qualitativamente le stesse, che si tratti di fisica newtoniana o relativistica.
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