Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

giovedì 19 settembre 2013

Nietzsche e Grecità


Nietzsche e Grecità
Marco Vignolo Gargini

Friedrich Nietzsche (1844-1900) nella sua formazione intellettuale risente moltissimo dell’impronta filologica ricevuta dai suoi studi giovanili, eppure non si considera filologo in senso accademico, anzi rifiuta questa qualifica per lui limitante. In un frammento postumo, dell’autunno del 1887, il filosofo afferma: “Intorno allo stesso tempo1 mi sembrò di essere inestricabilmente incarcerato nella mia filologia e nella mia attività d’insegnante – in qualcosa di casuale, in un espediente pratico della mia vita -; non sapevo più come uscirne, ed ero stanco, logoro, stremato.”2
Come è possibile vedere gli anni trascorsi a Basilea ad insegnare il greco all’Università (1869-79) si trasformano in una tortura psichica per Nietzsche, tortura che impedisce al filosofo di svolgere il proprio compito di educatore nel modo migliore e di proseguire lo studio di testi scientifici, che in un primo tempo aveva progettato di analizzare insieme a Edwin Rohde.
La delusione di Nietzsche per la filologia accademica nasce dal fatto che gli studiosi universitari hanno dell’antichità, e del mondo greco in particolare, una visione statica, priva di dinamismo e del tutto autonoma dalla speculazione filosofica. Per questi motivi Nietzsche avverte la necessità di una rifondazione dello studio storico:
“In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione.
A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie antiquaria e una specie critica.”3
Con storia critica Nietzsche intende definire uno studio che miri alla rottura con il passato per un rinnovamento.
La storia antiquaria recupera ciò che è avvenuto nel passato per basare su di essa la mediocrità del presente.
Ma Nietzsche osteggia queste due concezioni della storia, affronta il mondo greco e disprezza chi è fermamente convinto del proprio lavoro archeologico di riesumazione delle radici della Grecità. Egli stesso ci assicura che:
“Col cercare le origini, si diventa gamberi. Lo storico guarda a ritroso, e finisce anche per credere a ritroso.”4
Con questa affermazione Nietzsche anticipa di cinquanta anni uno storico come Marc Bloch (1886-1944), che nell’ossessione delle origini vedrà la forma più caratteristica di idolum tribus dello storico di professione (Apologia della Storia o Mestiere di storico, postumo 1946).
È invece la storia monumentale che interessa Nietzsche, intendendo con essa uno studio dei grandi eventi del passato, il mondo greco in particolare, i quali rappresentano una dimensione che, come dice nella II Inattuale, fu possibile, e perciò sarà anche possibile di nuovo.
Nietzsche inizia la propria produzione filosofica nel primo anno d’insegnamento a Basilea, con la prolusione accademica su Omero e la filologia classica, primo esempio di filologia applicata alla filosofia; prosegue con alcune importanti conferenze tenute nel 1870: il 18 gennaio sul Dramma musicale greco; il 1 febbraio su Socrate e la tragedia. Ma l’opera più rivoluzionaria, nonché la prima vera pubblicazione, è La nascita della tragedia del 1872, destinata a sconvolgere le teorie classiche del tempo.

La nascita della tragedia

La nascita della tragedia non può essere interpretata da sola senza l’analisi del sottotitolo che lo stesso Nietzsche mette a bella posta subito dopo il Titel.
Grecità e pessimismo, infatti, definisce il rapporto che i Greci hanno avuto con il pessimismo ed il conseguente superamento di esso:
“ Proprio la tragedia è la prova che i Greci non erano pessimisti: su questo punto, come su tutto il resto, Schopenhauer si è sbagliato. ”5
La nascita della tragedia può essere considerata la chiave di una nuova interpretazione della Grecità, una rivoluzione filosofica ed estetica, che si fonda su di una « idea », “l’opposizione di apollineo e dionisiaco – tradotta in metafisica; la storia stessa vista come lo sviluppo di questa « idea »”6.
Questa idea di base nietzschiana viene presa da altri pensatori precedenti a Nietzsche, ma con argomentazioni diverse.
Friedrich W. J. Schelling (1775-1854), in Filosofia della rivelazione (una lezione tenuta a Berlino e pubblicata postuma nel 1854), esprime l’antitesi tra apollineo e dionisiaco come tra la forma e l’ordine da una parte e l’oscuro impulso creativo dall’altra. I due aspetti citati si debbono riconoscere in qualsiasi momento poetico.
Georg W. F. Hegel (1770-1831) a sua volta interpreta diversamente questa antitesi nella Fenomenologia dello Spirito:
“ …il vero è il delirio bacchico in cui non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ciascun momento, mentre tende a separarsi dal Tutto, altrettanto immediatamente si dissolve, questo delirio è anche la quiete trasparente e semplice. ”7
Ripresa da Richard Wagner (1813-1883) in Arte e Rivoluzione del 1849, l’antitesi è però resa famosa da Nietzsche nello scritto che stiamo ora analizzando.
Nietzsche riconosce nella dualità dell’apollineo e del dionisiaco il fondamento dello sviluppo dell’arte greca, che si esprime nel contrasto tra l’arte plastica, l’apollineo, e l’arte non figurativa della musica, il dionisiaco.
L’apollineo nella sua armonia delle forme è:
“La bella parvenza dei mondi di sogno, nella cui produzione ogni uomo è un perfetto artista, è il presupposto di tutta l’arte figurativa, e anzi, come vedremo, di una essenziale metà della poesia.”8
Tutto questo è l’espressione immediata del godimento supremo delle forme, così come Lucrezio in De rerum natura rappresenta la visione che hanno gli uomini degli dei durante il sogno, ma a partire da questa realtà armonizzante ed onirica l’uomo ben presto si accorge del carattere di Schein dell’apollineo stesso:
“ E non sono solo le immagini piacevoli e amiche quelle che egli sperimenta in sé con onnicomprensiva intelligenza: davanti a lui passa anche ciò che è serio, cupo, triste, tetro, gli ostacoli improvvisi, gli scherzi del caso, le attese trepidanti. ”9
Compito fondamentale dell’arte greca è la sopportazione e superamento di tutto ciò che è orribile ed assurdo per la vista degli uomini.
Il dionisiaco assume la funzione salvatrice, di soccorso, trasfigurando l’orrore della vita in immagini ideali, in virtù delle quali l’esistenza è resa accettabile.
“ Il dire sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più aspri, la volontà di vivere rallegrantesi, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, della propria inesauribilità, – questo io ho chiamato dionisiaco, questo io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragico. ”10
Finché l’arte è la maga che salva e risana, l’esistenza è rappresentata dal sublime, come addomesticamento artistico dell’orrore, e dal comico, come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo.
Questi sono i primi elementi che Nietzsche ci presenta per determinare quella che, in La filosofia nell’età tragica dei Greci, viene mostrata come la sanità greca, una sanità in antitesi al concetto che di essa avevano i classici umanisti.
Troviamo in Johann J. Winckelmann (1717-1768) e Johann C. F. Schiller (1759-1805), così pure in Karl W. von Humboldt (1767-1835) e nel giovane Friedrich von Schlegel (1772-1829), la nozione di una ellenicità caratterizzata da una nobile compostezza morale, dall’equilibrio armonico di semplicità, forma e grandezza.
Nietzsche invece nella sanità dei Greci rinviene l’accoglienza della visione dell’orrore e assurdità dell’esistenza, e l’inclusione dell’oscura ed abissale sapienza tragica nascosta nel mito della volontà di potenza titanico-barbarica; la Sanität implica tutto questo e si fa carico d’una proprietà guaritrice, che le deriva dal binomio artistico (apollineo-dionisiaco), pura espressione di quella gioia metafisica del tragico, di quella teodicea dell’arte “ nella quale tutto l’esistente è reso divino, non importa se sia buono o cattivo ”11.
Il rappresentante ideale di questa manifestazione artistica, che solo il Greco poteva creare, è il Satiro, un finto essere naturale inserito in un finto stato di natura, la tragedia, dove l’Olimpo degli dei ha trovato verosimilmente dimora.
“Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta, sotto la sanzione del mito e del culto. Che con lui cominci la tragedia, che in lui parli la saggezza dionisiaca della tragedia, è per noi qui un fenomeno tanto sorprendente quanto lo è generalmente la nascita della tragedia dal coro. Forse acquisiamo un punto di partenza per la nostra considerazione se pongo l’affermazione che il Satiro, il
finto essere naturale, rispetto all’uomo civile sta nello stesso rapporto che la musica dionisiaca alla civiltà. ”12
Nell’anno di La nascita della tragedia, 1872, in una lettera a Edwin Rohde, datata 1 luglio, Nietzsche riafferma il proprio punto di vista, chiaramente in polemica con gli umanisti-classicisti, ed insieme affronta l’argomento del mondo omerico, croce e delizia dei grecisti:
“ La tesi rammollita del mondo omerico come mondo giovanile, come primavera del popolo, et coetera, mi è venuta a noia! Nel senso in cui è enunciata, essa è falsa. Che
preceda una lotta enorme, selvaggia, di cupa rozzezza e crudeltà; che Omero stia come vincitore alla conclusione di questo lungo e desolato periodo: questa è per me una delle mie convinzioni più salde. I Greci sono molto più antichi di quanto si pensi.
Si può parlare di primavera, a patto che si presupponga prima della primavera l’autunno: ma tutto questo mondo della purezza e della bellezza non è certo caduto dal cielo. ”13
A questo dibattito si giunge soprattutto se si analizza il capitolo V di La nascita della tragedia, dove Nietzsche illustra come il dualismo apollineo-dionisiaco, alla base dello spirito tragico, sia già presente in Omero (sec. IX a.C.) ed Archiloco (sec. VII a.C.).
Omero è il primo poeta che trascrive in versi “la bella parvenza dei mondi di sogno” ed accoglie e rivela nell’Iliade ed Odissea l’ambito apollineo, immanente nella tradizione rapsodica a lui anteriore. Omero è il primo poeta ispirato dalle Muse, ovvero dalla divinità che si manifesta attraverso il processo onirico.
Questo aspetto apollineo, sia detto per inciso, influenzò moltissimo la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939), il quale, in L’interpretazione dei sogni (1900), giunge a citare per intero una frase dello stesso Nietzsche:
“ … nel sogno ‘sopravvive un antichissimo brano di umanità, che non si può quasi più raggiungere per via diretta’. ”14
Ma se Omero rappresenta l’apollineo nella poesia greca, tornando al nostro argomento, Archiloco è il primo lirico dionisiaco, invasato, ebbro, infiammato dalle passioni. A conferma di ciò va detto che Archiloco viene nell’antichità ritenuto il primo inventore del giambo, il metro recitativo usato nella tragedia, ed insieme è il primo a documentarci del ditirambo, il canto dionisiaco, in un frammento:
ὡς Διωνύσοι᾿ ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι μέλος
οἶδα διθύραμβον οἴνῳ συγκεραυνωθεὶς φρένας.
“ Come, folgorato dal vino nella mente, al bel canto di Dioniso signore, al ditirambo, so dare avvio. ”15
Anche qui, dopo ulteriori ricerche, sappiamo che Archiloco ha trascritto in versi e ha dato una sistemazione letteraria ad un metro, il giambo, molto più antico di lui. È possibile vedere che Nietzsche ha ragione ad affermare che i Greci sono molto più antichi di quanto si pensi.
Nonostante ciò, già prima di Nietzsche, anche i romantici da Heinrich von Kleist (1777-1811) allo stesso Friedrich von Schlegel, da Friedrich Hölderlin (1770-1843) a Georg F. Creuzer (1771-1858), hanno intravisto contrapposto all’armonia mitica dei Greci, all’estraneità da conflitti e barbarie, l’aspetto oscuro, ambiguo di una Grecia orgiastico-dionisiaca.
A tal punto è bene considerare che il tragico non rappresenta semplicemente un rapporto che si instaura con quella particolare forma d’arte in che consiste la tragedia, ma pure una Weltanschauung che si trasfigura a teatro e codifica, per così dire, una determinata fruizione della realtà.
Il dibattito sulla spirito tragico, e relativi addentellati, si apre, com’è evidente, con la definizione che della tragedia dà Aristotele (384-322 a.C.):
“Tragedia dunque è mimèsi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni. ”16
Pietà e terrore sono sentimenti suscitati dalla “intrinseca composizione dei fatti”17 là dove un personaggio nobile, mitico ed esemplare compie un’azione colpevole inconsapevolmente, che costituisce il nodo, ossia gli eventi che si prendono come principio della tragedia sino alla mutazione da uno stato di infelicità ad uno di felicità e viceversa. Lo scioglimento, invece, è la parte della tragedia che intercorre dall’inizio della mutazione citata sopra fin verso la fine, o catarsi, intesa come reazione emotiva di coloro che, scossi da pietà e terrore, all’ascolto dei canti sacri del coro tragico “si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato e purificato”18.
Aggiungiamo al primo commento sulla tragicità alcune note di Werner Jaeger (1888-1961):
“ Nella tragedia greca la felicità, come ogni possesso, non può restare a lungo presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è insita nella sua natura stessa. Il convincimento di Solone che esista un ordinamento divino del mondo aveva trovato appunto in questa nozione, pur tanto dolorosa per l’uomo, il suo appoggio più saldo. Anche Eschilo è inconcepibile senza tale convincimento, che può dirsi piuttosto una nozione che non una credenza. ”19
Giunti a questo punto occorre sottolineare le interpretazioni che sono state date nel pensiero moderno della natura dello spirito tragico.
Per Hegel il tragico è il conflitto risolto continuamente e superato in un ordinamento perfetto e totale. Il conflitto è la sostanza ed il vero reale, sennonché esso non si limita a questa equazione, ma si giustifica in quanto è superato come contraddizione.
“ Intanto lo scopo e il carattere tragico è legittimo in quanto è necessaria la soluzione del conflitto in cui esso consiste. Attraverso tale soluzione, l’eterna giustizia si afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in modo che la sostanza morale e la sua unità si ristabiliscono col tramonto delle individualità che disturbano il suo riposo.”20
La tragicità è quindi armonia ristabilita e distruzione della “particolarità unilaterale”21 che non è riuscita a fondersi con l’armonia stessa.
L’interpretazione hegeliana s’inserisce in una concezione ottimista e provvidenzialista di stampo romantico, in cui la tragedia è mera parvenza di una commedia reale, dove tutto ha lieto fine e ciò che si perde non ha alcun valore (particolarità unilaterale).
D’altro avviso è Arthur Schopenhauer (1788-1860): il tragico è il conflitto irrisolto e irrisolubile.
“ Per il complesso di tutta la nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che scopo di quest’altissima creazione poetica è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degl’innocenti vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un significante segno intorno alla natura del mondo e dell’essere. ”22
Per Schopenhauer la vita, in quanto opposizione tra inevitabilità e certezza d’un destino malvagio, di ingiustizia e di giustizia ed armonia, nega questa tragicità. L’unico atteggiamento da tenersi di fronte all’esistenza è la rassegnazione e la disperazione, le quali, opposte alla loro negazione, annullano il conflitto costitutivo del tragico.
La terza via interpretativa, che si aggiunge alle precedenti, è quella formulata da Friedrich Schiller nell’opera Sulla poesia ingenua e sentimentale (1800). In questo scritto lo spirito tragico è delineato come una manifestazione della poesia sentimentale, ossia di quel genere poetico che esprime il conflitto tra ideale e reale.
La poesia sentimentale è divisa in due generi: la satira e l’elegia.
La satira è quel genere poetico in cui viene affrontato l’aspetto reale, insufficiente rispetto all’ideale. Qualora l’insufficienza fosse espressa dal conflitto tra il reale stesso e le nostre istanze morali, allora avremmo, secondo Schiller, la satira seria, ossia il tragico.
A questi principi si ispirò il poeta Friedrich Hebbel (1813-1863) coniando il famoso termine pantragismo, seppur nelle sue opere, a detta dei critici, più che di tragicità si debba parlare di deformazione dei personaggi in un gioco intricato ed arbitrario di psicologia.
Per concludere, Nietzsche esprime definitivamente la sua interpretazione dello spirito tragico, con un’esposizione sinottica ed esaustiva; in un frammento dell’ottobre 1888:
“ La psicologia dell’orgiasmo, concepito come un sentimento straripante della vita, entro il quale persino il dolore opera da mero stimolante, mi fornì la chiave del sentimento tragico, che è stato frainteso tanto da Aristotele, quanto in particolare dai pessimisti. La tragedia è così lungi dal dimostrare qualcosa del pessimismo dell’Elleno nel senso di Schopenhauer, da rappresentare anzi proprio l’estremo opposto. Il dire sì
alla vita persino nei problemi più duri e stranianti, la volontà di vita che gode, nel sacrificio dei suoi tipi più alti, della propria inesauribilità: ciò io chiamai dionisiaco, ciò intesi come il vero ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per liberarsi dalla paura e dalla pietà, e per purificarsi da una passione pericolosa attraverso uno sfogo veemente – fu questa la via di Aristotele; bensì per godere l’eterno piacere del creare al di sopra del terrore e della compassione, per avere sotto di sé la propria paura e pietà… ”23
Di fondamentale importanza, all’interno di La nascita della tragedia, è la trattazione del tema dell’ingenuità dei Greci (cap. 3), anch’essa in contrasto con le fonti classico-umaniste.
Filosoficamente il termine ingenuità viene adoperato per la prima volta nel XVIII secolo per indicare un certo tipo di espressione artistica.
In Critica del Giudizio, al paragrafo 54, Immanuel Kant (1724-1804) afferma:
“Qualcosa di questi due sentimenti, il sentimento morale e quello del gusto, si trova nell’ingenuità, che è lo sfogo dell’originaria sincerità naturale dell’umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda natura. ”24
Per Kant l’ingenuità sta a rappresentare una qualità, una natura che si specchiano o si svelano nell’arte. Ma, com’è noto, Kant in tutta la Critica del Giudizio tende a stabilire l’identità tra l’artistico ed il bello, eliminando deliberatamente qualsiasi aspetto orribile, terribile nel campo estetico. Questo è il punto di maggior contrasto con la concezione nietzschiana che plaude l’arte ancor più se manifestazione oscura, aspra tesa a far superare il pessimismo di chi è spettatore.
Alla definizione kantiana dell’ingenuità si ispira Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96):
“ L’ingenuo è la rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per noi ciò che c’è di più caro e perciò riempie di una certa tristezza ed è insieme quella della suprema perfezione dell’ideale che perciò ci eccita in una sublime emozione. ” 25
La differenza tra poesia ingenua e sentimentale, in Schiller, consiste nel fatto che la prima è naturale, mentre la seconda ricerca la natura.
Il Naive di cui parla Nietzsche non è l’originaria sincerità naturale, o l’unità armonica tra Glückseligkeit e Vollkommenheit, ma la vittoria su di una orribile profondità della contemplazione del mondo, una capacità sovrasensibile di sofferenza.
“ Qui si deve ora pur dire che questa armonia contemplata così nostalgicamente dagli uomini moderni, anzi quest’unità dell’uomo con la natura, per cui Schiller ha fatto valere il termine «ingenuo», non è in nessuna maniera uno stato così semplice da risultare in sé evidente, per così dire inevitabile, e in cui noi dobbiamo per forza imbatterci sulla soglia di ogni civiltà, come in un paradiso dell’umanità: ciò poté essere creduto solo da un’epoca che cercò di figurarsi l’Emilio di Rousseau anche come artista, e si illuse di aver trovato in Omero un tale Emilio artista, educato nel cuore della natura. Dove nell’arte incontriamo l’«ingenuo», dobbiamo riconoscervi l’effetto più elevato della cultura apollinea: quest’ultima avrà innanzitutto dovuto abbattere un regno di Titani e uccidere mostri e, mediante potenti raffigurazioni chimeriche e ardenti illusioni, esser riuscita vittoriosa su una tremenda profondità della considerazione del mondo e una eccitabilissima capacità di dolore. ”26
La critica di Nietzsche si rivolge direttamente alle interpretazioni artistiche che aveva effettuato il XVIII secolo, secolo dominato, come lo stesso Nietzsche dice più volte, dal romanticismo, dalla passione e dalla naturalezza.
L’attacco più evidente è riservato alla figura di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), in quanto rappresentante esemplare del femminismo del XVIII secolo, un aspetto rinvenibile in tutta la produzione artistica e filosofica del ’700, improntata sul sentimento e sulla sovranità dei sensi.
L’ingenuo è l’illusione apollinea che nasconde il vero scopo il quale, a sua volta, è raggiunto dalla natura attraverso il nostro inganno.
Oltre alle differenze v’è un punto di contatto tra Schiller e Nietzsche, che si può trovare sempre all’interno di Sulla poesia ingenua e sentimentale:
“ Dobbiamo infine confessare, infatti, che né il carattere ingenuo, né quello sentimentale, considerato unicamente per sé, esauriscono del tutto l’ideale di bella umanità, che soltanto può scaturire dall’intima connessione di entrambi. ”27
Nonostante che scontata in Nietzsche la coesistenza armonica tra Naive e Sentimentalische, nella Schöne Menschlichkeit, questo non implica automaticamente una correlazione delle categorie schilleriane con il dionisiaco e l’apollineo nella tragedia; è la tensione dialettica tra queste due potenze artistiche a determinare nuove generazioni e definire la natura greca come genio, non tanto come Schöne Menschlichkeit.
Solo da una volontà d’illusione tragica ed artistica insieme nasce il Naive, inteso come penetrazione dello Schein nella bellezza.
Dopo aver affrontato i capisaldi della tematica principale, con il confronto doveroso con altri filosofi che hanno disquisito sulla “estetica” greca, possiamo analizzare quella che è la seconda parte di La nascita della tragedia, dedicata allo studio della fine della visione tragica presso i Greci.
Osservato il carattere di non antiteticità del binomio apollineo-dionisiaco, in quanto passaggio e superamento di due stadi psichici, ci troviamo di fronte il problema del perché l’era tragica dei Greci debba necessariamente declinare.
Dietro l’ebbrezza e la catarsi si cela infatti il pericolo della disgregazione greca, ossia razionalità, socratismo e potenza che negano la vita e i valori “estetici”.
Secondo Nietzsche i prodromi di una prossima fine della tragedia sono da identificare nell’opera di Euripide (485 ca.-406 a.C.), tragediografo considerato, non a caso, esponente del socratismo “estetico”, dal momento che la leggenda ateniese tramanda l’opinione secondo cui Socrate (470/469-399 a.C.) avrebbe aiutato Euripide a poetare.
La tragedia greca nella sua forma più antica ha come eroe Dioniso: Nietzsche giustifica la sua idea rappresentandoci Prometeo ed Edipo come maschere dell’eroe originario Dioniso.
Analizzando la tragedia paradigmatica par excellence di Euripide, Baccanti, Nietzsche dimostra il passaggio dal dionisiaco al socratismo all’interno della tragedia.
L’eroe delle Baccanti, Penteo, colpevole di essersi opposto al trionfo del culto orgiastico di Dioniso in Tebe, imbastisce una teomachia in piena coscienza e volontà, e per questo motivo viene attirato dal dio in una trappola mortale, nella quale finirà scerpato dalle donne invasate dal dio stesso.
Con questa tragedia Euripide vuol dimostrare che il dionisiaco deve essere estirpato dalla terra ellenica, se fosse possibile:
“ … ma il dio Dioniso è troppo potente: l’avversario più assennato – come Penteo nelle Baccanti – viene improvvisamente incantato da lui e corre con questo incantesimo al suo destino. Il giudizio dei due anziani Cadmo e Tiresia sembra anche essere il giudizio dell’anziano poeta: la riflessione degli individui più intelligenti non rovescia quelle antiche tradizioni popolari, quella venerazione di Dioniso che eternamente si riproduce, anzi di fronte a tali portentose forze conviene almeno mostrare una prudente adesione diplomatica. »28
Il tentativo di Euripide di svuotare definitivamente la tragedia greca dei contenuti dionisiaci che la caratterizzavano in Eschilo (525-456 a.C.) e Sofocle (496-406 a.C.) sembra tramontato nelle Baccanti, interpretata da Nietzsche come ritrattazione del razionalismo precedente.
Un altro elemento che comproverebbe questa tesi sta nella constatazione del fatto che Euripide allenta progressivamente il nesso del coro con l’azione sino quasi a farlo scomparire, tenendo presente che per Nietzsche il coro nella tragedia costituisce il nucleo centrale del dionisiaco in scena. Contrariamente a quanto previsto il coro delle Baccanti è tra i più riusciti nelle tragedie euripidee, insieme a quello dell’Ifigenia in Tauride.
Ma la ritrattazione di un poeta, che aveva sempre inibito nelle proprie opere la figura di Dioniso, avviene nel momento in cui la tendenza espressa dallo stesso Euripide aveva già vinto: né Apollo, né Dioniso parlano in Euripide, bensì la sofistica, la retorica, Anassagora, e soprattutto Socrate.
Ed il contrasto tra dionisiaco e socratismo sarebbe la vera causa della fine della tragedia.
“ Ciò che Sofocle ha detto di Eschilo, cioè che egli faceva il giusto benché inconsciamente, non fu certo detto nel senso di Euripide, che avrebbe fatto valere solo questo: Eschilo poiché creava inconsciamente non creava il giusto. ”29
Psicanaliticamente, il dramma del protagonista delle Baccanti è il rifiuto d’una dimensione troppo interiore per essere rinnegata: Penteo, metaforicamente, è sbranato dagli stessi impulsi, Dioniso, contro i quali sta combattendo, quegli impulsi repressi che sorgono repentinamente quando meno ce li aspettiamo.
Effettivamente dopo Euripide non vi sono tragediografi all’altezza della tradizione, come ricorda Aristofane (445 ca.-388 a.C.) in Rane, quando Dioniso si lamenta dell’assenza dei poeti citando proprio un verso di un frammento d’una tragedia di Euripide andata perduta:
“ Ho bisogno di un buon poeta: ‘Quei non più sono, e i vivi son cattivi’. ”30
Con tali argomentazioni Nietzsche delinea la scomparsa della tragedia, espressione pura del dionisiaco, dell’orgiastico come straripante senso di vita e di forza, dove il dolore agisce da stimolante.
È dunque Socrate l’incarnazione della razionalità, della potenza pericolosa che inferisce il colpo decisivo all’arte greca, alla tragedia, all’impulso alla vita in generale.
Nietzsche ci offre un’altra testimonianza di ciò che i Greci stavano perdendo con la morte della tragedia, nel quarto aforisma della prefazione alla seconda edizione di La gaia scienza:
“ Oh questi Greci! Loro sapevano vivere: per questo è necessario fermarsi coraggiosamente alla superficie, alle sue pieghe, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, a suoni, a parole, a tutto l’Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità! ”31
Ma in virtù di quale motivo Socrate ha ucciso la tragedia?
Friedrich Nietzsche affronta la figura di Socrate per vari motivi:
1) Con l’avvento di Socrate la filosofia greca adopera lo strumento della dialettica come scienza dimostrativa.
2) Socrate vive e muore in una Atene ormai declinante.
3) Socrate è il primo filosofo greco a porre sullo stesso piano posizioni epistemiche ed etiche.
“ Per esempio l’opera e la rivoluzione… Due sono le innovazioni decisive del libro: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci – il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca. L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca,
riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. ”32
Nel terzo paragrafo del “Problema Socrate”, in Crepuscolo degli idoli, viene spiegata l’accusa di décadent a Socrate, dapprima con una notazione fisionomica da non sottovalutare: Socrate è un monstrum in fronte et in animo, ossia la bruttezza contrapposta all’armonia delle forme, alla tipica bellezza greca; per tale ragione, riprendendo gli studi degli antropologi sulla criminologia, Socrate incarnerebbe la figura del delinquente e, per implicazione, del décadent.
In secondo luogo, il fondatore della dialettica, Socrate, confesserebbe con il proprio comportamento sregolatezza ed anarchia di istinti, qualità che sarebbero alla base di una visione logica razionale.
In terzo luogo, il “demone socratico” non sarebbe altro che allucinazioni acustiche, interpretate in senso religioso.
Ma Socrate, innanzi tutto, rappresenta la plebaglia e la sconfitta del gusto aristocratico soppiantato dalla dialettica, gusto aristocratico che si appella ai principi della Wille zur Macht, della sublimazione degli impulsi.
Socrate sarebbe lo spettatore determinato le cui esigenze sono rispettate e soddisfatte dalla trasformazione in senso realistico e razionale della tragedia operata da Euripide.
L’ottimismo teoretico fonda l’estetismo socratico ed una nuova concezione dell’arte in lotta con il dionisiaco.
Euripide rinnova la tragedia secondo i nuovi canoni realisti ponendo il prologo prima dell’esposizione, ponendolo in bocca ad un personaggio fidato, una divinità che informa gli spettatori della veridicità del mito.
Così il principio socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono”, avrebbe il suo analogo nel principio estetico euripideo “tutto deve essere cosciente per essere bello”.
Con tutto ciò s’inizia a comprendere l’importanza della funzione del deus ex machina come unico garante di quel pathos che la visione razionale non può offrire.
Il socratismo che insegna la struttura razionale dell’universo rende nulla o priva di senso la tragedia quale regno dell’incertezza, dell’imponderabile, dell’ebbrezza, giacché l’apollineo e il dionisiaco della tragedia attica creano un ambito metafisico di giustificazione nella caoticità dell’esistenza, mai nelle essenze, nell’ordinamento razionale dell’universo.
Adesso entra in ballo un altro argomento, che mi sono deciso d’affrontare in un secondo tempo, ovvero il concetto di religiosità.
La scoperta del mondo greco in Nietzsche è essenzialmente la critica dell’uomo moderno in quanto morale, religioso, cristiano.
Il contrasto osservato da Nietzsche: la religione greca nega nella vita quotidiana ciò che è affermato in seguito dalla religione cristiana.
“ Ciò che nella religiosità degli antichi Greci fa stupire, è la smisurata pienezza di gratitudine che da essa prorompe – è una nobilissima specie di uomo quella che si pone in questo modo dinanzi alla natura ed alla vita! – più tardi, quando in Grecia la plebe divenne preponderante, la paura allignò a dismisura anche nella religione; si andava preparando il cristianesimo. ”33
Socrate con la dialettica preparerebbe un campo dove è possibile la fondazione di un nuovo stile di vita, di una nuova morale e, infine, di una nuova religione. Possiamo quindi riformulare l’accusa di Melèto e Anito seguendo lo stesso Nietzsche: Socrate è sì colpevole di mancata venerazione degli dei di Atene, ma pure della religione del sì alla vita, dell’istinto per introdurre invece un nuovo culto, una nuova morale. In modo parallelo è significativo ricordare cosa dice Callicle in un passo del Gorgia di Platone, dove l’intera attività di Socrate è criticata:
“ Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci appare cosa ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo gusto a vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che nono coltiva la
filosofia, e penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che costui abbia bisogno di essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro della città e le piazze, dove, come dice il
poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto della vita rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro, senza mai fare un discorso degno di uomo libero, elevato e valido. ”34
Ma nel 399 a.C. Atene è già in crisi e, come succede per la tragedia con l’avvento di Euripide, così avviene nella filosofia per merito di Socrate: la valutazione dialettica per fini morali secondo la nuova equazione ragione = virtù = felicità, che soppianta la vecchia virtù = istinto = istinto radicale.
Nietzsche così avverte che la filosofia incontrando con la morale si depotenzia nel suo primordiale slancio istintuale verso la conoscenza, per far posto alla razionalità e ad un culto della vita chiara, prudente, cosciente, senza istinti,
Il cristianesimo di comune con il socratismo avrebbe proprio la morale del perfezionamento, nel suo desiderio di eliminare l’istinto e l’inconscio radicale in quanto elementi propri della concezione aristocratica del mondo, concezione invisa alla plebe relegata in una posizione subalterna nel sentire, nel comprendere e, per questo, animata dal ressentiment, dalla vendetta.
Secondo Gianni Vattimo35 la decadenza implicata dal razionalismo socratico, dalla morale e dalla cultura cristiana elimina la visione tragica dell’esistenza (in quanto presenza del mito e del mistero e giustificazione estetica dell’esistenza) e necessariamente conclude il proprio corso con la sua insufficienza, palesata dalla crisi finale della metafisica, in Kant e Schopenhauer:
“ Ricordiamo inoltre come lo spirito, che sgorga da uguali sorgenti, della filosofia tedesca, riuscì con Kant e Schopenhauer a distruggere il soddisfatto piacere per l’esistenza del socratismo scientifico mediante la dimostrazione dei suoi limiti, e come da questa dimostrazione fu introdotta una considerazione delle questioni etiche e dell’arte infinitamente più profonda e seria, tale da poter addirittura esser definita come sapienza dionisiaca espressa in concetti. ”36
La crisi della metafisica è segno, secondo Nietzsche, di un possibile ritorno dell’età tragica e questa è incarnata, almeno nei primi anni a Basilea di Nietzsche, dalla musica di Wagner.
Il ritorno della cultura tragica, seguendo sempre l’interpretazione di Vattimo, non rappresenta il puro e semplice ritorno del mito, bensì il risultato dello stesso bisogno di razionalità della mentalità scientifica, la quale proprio per il suo dogmatismo si capovolge nello scetticismo kantiano e, più oltre, schopenhaueriano, secondo la logica che precede la morte di Dio, di cui Nietzsche parlerà nell’aforisma 125 di La gaia scienza.
La nascita della tragedia, nella sua predicazione del ritorno tragico, dà l’impressione che Nietzsche aspiri ad una rinascenza mitica della sapienza dionisiaca attraverso la lezione wagneriana.
Pur mantenendo intatte alcune tesi fondamentali, Nietzsche cercherà una diversa soluzione alla disgregazione dell’era moderna a partire da Umano troppo umano (1878), opera che segna definitivamente il distacco da Schopenhauer e Wagner.

La filosofia nell’età tragica dei Greci

Accanto alla produzione artistica, Friedrich Nietzsche considera gli sviluppi del pensiero greco in un’opera che ci giunge come un abbozzo, ma non per questo da considerare incompleta.
La filosofia nell’età tragica dei Greci pur presentando delle lacune ha un carattere unitario nella sua stesura: Nietzsche pone mano più di una volta ad essa fino al 1873 (dopo la pubblicazione di La nascita della tragedia), e in seguito ritorna sullo stesso scritto tra il 1875 e il 1876, abbandonandolo definitivamente così com’è conservato adesso.
Questa storia del pensiero greco nei suoi progetti intende percorrere le tappe filosofiche che da Talete conducono a Socrate, quest’ultimo escluso per le ben note ragioni. L’opera invece si ferma ad Anassagora (496-428 a.C.) ed esclude Empedocle (V sec. a.C.), il filosofo tragico par excellence coevo di Eschilo, gli atomisti ed i sofisti.
Distaccandosi dalla storiografia filosofica corrente Nietzsche prende in esame un periodo di non più di due secoli, tra il VI e il V sec. a.C., in cui si svolgerebbe la vera produzione filosofica dei Greci.
È pressoché superfluo aggiungere che per Nietzsche la filosofia greca è quella presocratica, da Talete a Democrito, e per questa convinzione il filosofo di Röcken entra in contrasto con le opinioni tradizionali, che inseriscono il pensiero ante Socratem in un contesto di preparazione e gestazione di ciò che sarà la speculazione filosofica expressis verbis di Platone (427-347 a.C.) ed Aristotele.
Altro elemento di rottura con le posizioni classiche del tempo è la definizione del periodo di massima fioritura intellettuale, ed ovviamente artistica come ho già fatto rilevare, che inizia con Talete (ca. 640 a.C.) e vive il necessario declino nella fase che va dalla fine delle guerre persiane (ca. 470/60 a.C.) fino al 456 a.C., anno della morte di Eschilo.
La differenza con la tradizione sta nell’anticipare l’akmé culturale greca, universalmente riconosciuta nell’età di Pericle, ed il crepuscolo ellenico, ritenuto coincidente con la fine del V sec. a.C. ed il crollo dell’impero ateniese.
La Grecità, tornando a Nietzsche, verrebbe espressa totalmente solo nell’età tragica, nel momento in cui il Greco sperimenta, vivendo, ciò che impara e fa filosofia, impegnandosi subito a verificare, potenziare, innalzare e purificare gli elementi acquisiti. Tutto questo è possibile perché il Greco sarebbe l’unico, nel suo tempo, a vivere di conoscenza.
Nietzsche nel suo encomio, che copre tutto il primo capitolo di La filosofia nell’età tragica dei Greci, giunge a prendere in prestito dal Schopenhauer di Parerga e paralipomena (1851) l’espressione di repubblica di geniali per caratterizzare l’aristocratica civiltà greca, che nel mondo antico ha annoverato il numero più alto di geni:
“… un gigante chiama l’altro attraverso le desolate distanze dei tempi, e l’alto dialogo degli spiriti prosegue indisturbato dall’accozzaglia petulante e strepitante dei nani che vanno strisciando sotto di loro. ”37
Per Nietzsche il filosofo è reso possibile in Grecia, perché solo là le radici culturali vanno di pari passo con la speculazione del pensiero, perché non è accolta una richiesta artificiale, quale sarà la dialettica per Nietzsche, che miri alla spiegazione esauriente ed assoluta della realtà: lo stesso vivere è filosofia per i Greci.
La fonte della filosofia greca starebbe essenzialmente nell’evoluzione sociale, politica ed artistica, soprattutto quest’ultima, che coinvolge tutta la Grecità, pur con le dovute differenziazioni.
Dal momento in cui, secondo Nietzsche, la filosofia diventa dialettica, con Socrate e poi Platone, il Greco non può più ricercare nella realtà l’astrattezza, la perfezione, né è in grado di sperimentare lui stesso concetti che appartengono ad entità sovrasensibili, razionali e dunque prive di qualsiasi contenuto empirico.
“Dopo tali considerazioni si accetterà senza scandalo che io parli dei filosofi preplatonici come di una collettività omogenea e pensi di dedicare a loro questo scritto. Con Platone comincia qualcosa d’affatto nuovo; ovvero, come si può dire allo stesso buon diritto, da Platone in poi manca ai filosofi qualcosa di sostanziale in confronto a quella repubblica di geniali da Talete a Socrate. ”38
Il filosofo preplatonico è monocorde, a detta di Nietzsche, elabora teorie che solo lui scopre direttamente, mentre un Socrate, un Platone è un carattere ibrido, in quanto si avvale delle scoperte altrui e riordina il materiale precedente secondo una visione dialettica.
Ma, riprendendo la tematica fondamentale, da che cosa si origina una visione filosofica nella Grecia dell’età tragica?
“La filosofia greca sembra aver inizio con un’idea inconsistente, la proposizione che l’acqua è l’origine e il grembo materno di tutte le cose. È davvero necessario soffermarci su questo punto e prendere un serio atteggiamento? Sì, e per tre motivi: primo, perché la frase asserisce qualcosa sull’origine delle cose; secondo, perché lo fa in guisa non immaginosa e senza favoleggiamenti; terzo, perché in essa, benché unicamente allo stato di metamorfosi larvale, è racchiuso il pensiero: tutto è uno. Il motivo indicato per primo lascia Talete ancora in compagnia dei religiosi e dei superstiziosi, il secondo lo snida invece da questa compagnia e ci mostra in lui il naturalista, il terzo motivo, però, fa di Talete il primo filosofo greco. Se avesse detto: dall’acqua viene la terra, avremmo soltanto un’ipotesi scientifica, fallace sì, ma tuttavia difficilmente confutabile. Egli invece andò oltre lo scientifico.”39
I passaggi che Nietzsche esemplifica per giustificare il transito da una visione religiosa ad una filosofica possono benissimo essere confrontati con la legge dei tre stadi, di comtiana memoria: lo stadio religioso è l’atto di chi spiega i fenomeni facendo appello ad esseri fantastici, soprannaturali, alla fede nell’esistenza di potenze divine; lo stadio metafisico è la creazione di un’entità puramente concettuale che sia la causa dei fenomeni, ma pure una funzione critica che palesi l’insostenibilità del mito e della superstizione; lo stadio scientifico respinge sia le entità fantastiche sia quelle puramente concettuali e fonda la conoscenza basandola interamente sull’esperienza.
Nietzsche si distacca da Auguste Comte (1798-1857) quando intravede nella visione religiosa precisi elementi psichici, emotivi, ed anche anticipa lo stadio scientifico come secondo momento gnoseologico per giungere al superamento dello scientifico.
Se Comte non avesse parlato di stadio metafisico nell’analisi del singolo fenomeno, ma del tutto, la filosofia eleatica potrebbe essere vista non tanto come superamento della scientificità, dal momento che, dice Nietzsche stesso, non si hanno osservazioni di tipo empirico, piuttosto regressione e adesione ad un articolo di fede metafisico, ossia “tutto è uno”.
È noto il fatto che Nietzsche non amasse molto Comte, ma ci è sembrato utile fare un parallelo d’esplicazione per dare alla materia che stiamo trattando una visione d’insieme pluralistica e non unilaterale.
Come la tradizione unanimemente riconosce, così anche Nietzsche è d’accordo nel ritenere Talete il primo ad avere una visione “filosofica”, dato che il Milesio considera l’acqua, o per meglio dire l’elemento umido, l’origine di tutte le cose.
A questo punto si veda la corrispondenza con Werner Jaeger:
“Per la sua [di Talete] nozione che tutte le cose sono sorte dall’acqua il filosofo rinuncia a ogni espressione mitico-allegorica. La sua acqua è una parte visibile del mondo empirico; ma il suo studio delle origini lo porta d’altro canto nelle vicinanze dei teologemi mitici, e anzi lo mette in concorrenza con essi. La sua teoria che sembra puramente fisica ha per lui anche (diremmo noi) un carattere metafisico, come appare dall’unica frase che di lui ci è tramandata, sempre che risalga effettivamente a lui: πάντα πλήρη θεών ‘tutto è pieno di dei’.”40
Seppur ci sia una distinzione tra universalità sensibile, propria dell’acqua di Talete e universalità speculativa, dove la natura è determinata come pura essenza del pensiero, Nietzsche è avvicinato da Hegel in ciò che segue:
“ L’affermazione di Talete, essere l’acqua l’assoluto, o, come dicevano gli antichi, il principio, segna l’inizio della filosofia, perché in essa si manifesta la coscienza che l’essenza, la verità, ciò che solo è in sé e per sé, è una sola cosa. Si manifesta il distacco dal dato delle percezione sensibile; l’uomo si ritrae da ciò che è
immediatamente ‘e in seguito’, con l’affermazione che quest’essere è l’acqua, è messa a tacere la sbrigliata fantasia omerica infinitamente variopinta, vengono superate queste molteplicità infinite di principi frammentari, tutto questo modo di rappresentarsi il mondo come se l’oggetto particolare sia una verità per sé stante, una potenza esistente per sé e indipendente al di sopra delle altre; e si ammette quindi che vi è un universale, ciò che è universalmente in sé e per sé, l’intuizione semplice e senza più elementi fantastici, il pensiero, che soltanto l’uno è.”41
Venendo al naturalismo di Talete Nietzsche in un secondo tempo, frammento postumo dell’estate del 1875, coglie l’abbandono del mito in senso più generale, ossia di superamento dell’antico concetto mitico di polis:
“ Talete: che cosa lo spinse alla scienza e alla saggezza? – Prima di tutto per la lotta contro il mito. Contro la πόλις che su di esso è fondata. Unico mezzo di difendere la grecità; per evitare le guerre persiane. In tutti i filosofi uno scopo panellenico. ”42
Dopo Talete Nietzsche affronta Anassimandro di Mileto, il primo scrittore filosofico, contrariamente alla tesi di Schopenhauer, nei Parerga e paralipomena (II, 194), secondo cui Ferecide di Siro (584/1-499/7 a.C.) trascrisse in prosa le genealogie e teogonie poetiche avvalendosi di schemi cosmogonici suggeriti dalla filosofia.
Il tema centrale della filosofia di Anassimandro è l’ἀρχή, come in Talete, nell’indeterminato, o, meglio ancora, nell’ἄπειρον inteso come Urmaterie che origina il divenire e lo sovrasta consentendo ad esso il proprio corso eterno. In quanto Urmaterie l’ἄπειρον non può essere predicato d’alcunché ricavato dal divenire e per tale motivo ha come logico corrispondente la cosa in sé di Kant.
Nietzsche scorge nel divenire non solo la molteplicità delle cose, ma soprattutto una somma di ingiustizie da espiare, e quindi una primitiva questione etica. Questa concezione mistica, che Nietzsche elabora insieme a Rhode, è oggetto della critica di Jaeger, il quale sostiene che l’espiazione non va intesa come effetto di una colpa, e che la Δίκη del frammento anassimandreo è un’immagine delle cose in contesa tra loro, come gli uomini in tribunale. Questo perché, sempre secondo Jaeger, ci troviamo di fronte a una polis ionica.
“Vediamo il mercato, dove si rende giustizia, e il giudice seduto sul suo seggio, che stabilisce il castigo (τάττει). Egli ha nome tempo [κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξειν]. ”43
Jaeger inoltre ricorda che la Δίκη di Anassimandro va intesa non soltanto come la intende Solone (compensazione imminente), bensì come ulteriore applicazione di essa nell’universo intero, così pareggiando le sorti umane a quelle universali.
Giunto fin qui Anassimandro, secondo l’interpretazione nietzschiana, s’arresta nella sua speculazione, non risolvendo il problema del perché, per l’espiazione, dall’indeterminato scaturisce il determinato, da ciò che è incorruttibile l’incorruttibile.
Solo Eraclito (550-480 a.C.), a quanto pare, riesce a superare le secche in cui Anassimandro s’era imbattuto, l’efesino infatti giustifica il divenire e nega non solo l’esistenza di due mondi diversi, il fisico ed il metafisico, ma anche l’essere in generale.
Con Eraclito troviamo il “tipo universale del filosofo”: spregiudicatezza, semplicità nella complessità e l’ampiezza di visione costituiscono gli elementi caratterizzanti di questo περιττός, superiore alla misura degli uomini e quindi oltreumano.
Nietzsche attribuisce all’impeto naturale, alla sfrenatezza (ὕβρις), in un contesto di contesa, di gara, di πόλεμος, dove il filosofo è vincitore culturalmente, questa spinta propulsiva sapienziale di Eraclito.
Eraclito è aristocratico, isolato, e vive in solitudine lontano dalla plebe, dagli Efesii che cacciarono il suo amico Ermodoro, mostrando talvolta quale sia la vera saggezza.
Molti sono i traites d’union tra Eraclito e Nietzsche: lo stile oscuro, criptico ed aforistico; l’anima aristocratica che disprezza la plebe; la concezione ciclica del mondo (Das Ewige Wiederkehr), secondo cui l’alternarsi del giorno e della notte, degli eventi suggerisce un movimento cosmico circolare in cui il mondo torna, dopo un certo tempo, al caos primordiale dal quale uscirà per ricominciare il proprio corso all’infinito.
Confrontiamo le immagini eraclitee che rinveniamo nella poetica nietzschiana: “αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων˙ παιδὸς ἡ βασιληίη” ( l’eterno è un fanciullo che gioca alle scacchiere: del fanciullo è il regno), il frammento 52 Diels-Kranz, viene ripreso nel primo dei “discorsi” di Così parlò Zarathustra (« Delle tre Metamorfosi»):
“ Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. ”44
Il fanciullo rappresenta in Nietzsche, nella visione dionisiaca della Überwindung, l’autosuperamento del nichilismo che coincide con il “sì che il mondo dice a se stesso”, dell’eterno ritorno del sempre uguale, o meglio, la conquista dell’innocente giuoco dionisiaco.
D’altro canto il πεσσός eracliteo, la tessera di una scacchiera, si trasforma, sempre in Così parlò Zarathustra, («I sette sigilli», 3) in un divino Wurfespiel, giuoco di dadi._
Nietzsche conclude il proprio giudizio su Eraclito con ciò che l’efesio avrebbe visto: “la dottrina della legge nel divenire e del giuoco nella necessità”, là dove il divenire non concepisce alcunché d’ingiusto da espiare, poiché il Logos, come trama unitaria del perenne fluire dei contrari, sostiene tutto questo assetto cosmico. Ma, come giustamente osserva Nietzsche, la verità, il Logos colto da Eraclito, è intuizione pura, non certo l’atto di una logica calcolata ed espressa.
Parmenide (520-440 a.C.) rappresenta quindi il vero antagonista di Eraclito, in quanto:
“… una figura antagonista, egualmente tipica nel senso di un profeta della verità, ma per così dire foggiata nel ghiaccio e non nel fuoco, dalla quale si effonde un cerchio di fredda luce pungente. ”45
Nietzsche identifica nel primo periodo speculativo di Parmenide un riallaccio soprattutto alle posizioni anassimandree, per quella vaghezza dei presupposti nel concetto di ἄπειρον come fermento della filosofia parmenidea dell’essere.
Invece nell’età più avanzata Parmenide viene assalito “ da quel gelido brivido d’astrazione e venne da lui stabilita la semplicissima proposizione che tratta dell’essere e del non-essere”46.
Parmenide, per Nietzsche, raffigura il confine tra la filosofia anassimandrea, tragica, legata all’intuizione e la nuova scepsi che si basa sull’essere, una dottrina in un momento “così poco greco come nessun altro”47.
Parmenide rifiuterebbe in Anassimandro, in Eraclito, la visione tragica, l’esperienza dionisiaca nella filosofia, perché assolutizza l’intelletto e scinde l’intuizione dalla conoscenza, la sensazione dall’astrazione.
“… ha polverizzato lo stesso intelletto e incoraggiato quella separazione, del tutto fallace, di «spirito» e «corpo», che particolarmente a partire da Platone pesa sulla filosofia come una maledizione. Tutte le percezioni sensibili, a giudizio di Parmenide, procurano soltanto illusioni; e l’illusione principale sta appunto nel creare la falsa apparenza che anche il non-essente esiste e che anche il divenire ha un essere.”48
Con Parmenide avrebbe avvio il processo di decadenza che porta necessariamente al socratismo: il filosofo eleatico si isola dalla realtà, rifiuta la vita e ricerca la “verità” nelle astrazioni, è irretito dalle sue stesse formula e diventa una mera “macchina pensante”.
Soltanto Anassagora (500-428 a.C.) saprebbe raccogliere l’“immobile, rigido, morto essere di Parmenide”49 trasformando l’astrattezza del concetto in qualcosa di reale, attivo ed operante, l’Intelletto (νοῦς) che regola il Werden nel proprio movimento perenne e regolare. Anassagora con il νοῦς riporta il divenire e la vita nell’immobile mondo parmenideo.
Irrisolto comunque, in Nietzsche, rimane il problema delle omeomerie, delle sostanze infinite, che si aggregano e si disgregano ad opera del νοῦς stesso. Il principio che regola quest’azione è rappresentato da una razionalità cosmica che vive in vista di un fine?
Per Nietzsche è da escludere qualsiasi finalità: il νοῦς non ha fini.
Con l’esposizione delle proprie interpretazioni su Anassagora si conclude l’opera nietzschiana sulla filosofia presocratica. Vorrei allora brevemente affrontare i motivi che hanno addotto lo stesso Nietzsche a scrivere questo libro, motivi che si presentano uguali a quelli che hanno dato vita a La nascita della tragedia.
Quel che impressiona il giovane professore dell’Università di Basilea è come sia possibile equiparare, sotto certi aspetti, la produzione artistica e quella filosofica nell’età tragica, dal momento che entrambe vivono e si sviluppano in un contesto sociale-politico particolare.
Per Nietzsche la filosofia presocratica precorre una riforma greca e “la filosofia greca più antica è unicamente una filosofia di uomini di stato”50. Talete, Anassimandro, e gli altri a seguitare, con la loro speculazione tendono a superare il concetto mitico della πόλις e basano le proprie intuizioni naturalistiche e scientifiche osservando l’ordinamento interno della polis stessa.
La filosofia è una Wertsetzung, un collocamento di valori all’interno di una realtà indivisibile di cultura e di pensiero, dove la vita assume la parte primaria di ogni azione, dove la verità è data dall’esistenza e non dal ragionamento dialettico.
Che la filosofia sia tra il VI e il V secolo a.C. un tutt’uno con la visione artistica, o per meglio dire vi siano rapporti intensissimi tra i due generi, sembra essere una certezza per Nietzsche:
“La filosofia presocratica è apparentata con l’arte, le sue soluzioni degli enigmi del mondo si sono lasciate ispirare più volte dall’arte.”51
La filosofia rientra in un momento particolare della vita dei Greci, in un momento tragico in cui la tragedia incorpora l’unità d’armonie e d’ebbrezze nella totalità della già citata Wertsetzung, e la speculazione filosofica ha origine da questa posizione di valori vitali.
Lo stato, la πόλις si crea in Grecia perché là vi è una cultura statale, ordinata, ed il mondo intellettuale deve partecipare necessariamente a questo stato di cose.
In seguito Nietzsche vede uno scontro tra πόλις e mondo intellettuale:
“La polis greca era, come ogni forza politica organizzatrice, esclusiva e diffidente verso il fiorire della formazione intellettuale, la cui possente spinta fondamentale si rivelò per essa quasi solo come un impedimento e un ingombro. Non voleva ammettere nell’istruzione né storia né divenire, l’educazione stabilita nella legge statale doveva obbligare e tener ferme a uno stesso livello tutte le generazioni. Non altro volle più tardi anche Platone per il suo Stato ideale. Dunque la formazione intellettuale si sviluppò nonostante la polis: certo indirettamente e contro volontà anch’essa giovò, perché nella polis l’ambizione del singolo veniva eccitata al massimo, sicché quegli, una volta entrato nella strada della formazione intellettuale, proseguiva poi in essa fino all’estremo limite.”52
Nonostante che i Greci siano i “pazzi dello stato”, è abbastanza unica la situazione che allora il mondo ellenico doveva vedere: da una parte una πόλις che aveva in sé i germi della filosofia, da un’altra una diffidenza verso il ragionamento, e dappertutto l’accettazione della realtà così com’è.
Per osservare comunque il passaggio ad un’altra concezione dei Greci in Nietzsche, seppur non in totale disaccordo con le precedenti posizioni, consiglio di leggere gli aforismi 114, 154, 170, 195, 211, 214, 259, 261, 262, 354, 424, 442, 474 in Umano troppo umano I, e 218 fino a 221 in Umano troppo umano II.
Sull’argomento vi sono accenni in numerosi aforismi de La gaia scienza, Genealogia della morale, L’Anticristo, Crepuscolo degli idoli e numerosissimi frammenti postumi.

1 Nel frammento Nietzsche parla del 1876.
2 Friedrich Nietzsche, Frammento postumo dell’autunno 1887, 9 [42], in Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, l’Anticristo, Mondadori, Milano 1981, p. 218.
3 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali, II), Einaudi, Torino 1981, p. 92
4 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Sentenze e frecce, 24, in Il Caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Mondadori, Milano 1981, p. 84.
5 Friedrich Nietzsche, Ecce homo, “La nascita della tragedia”, I, in Ecce homo, Ditirambi di Dioniso, Nietzsche contra Wagner, Mondadori, Milano 1983, p. 48.
6 Ibidem
7 Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, II, 3, Rusconi, Milano 1995, pag.105.
8 Fiedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, 1, Newton Compton, Roma 1980, p. 36.
9 Ibidem
10 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Quel che devo agli antichi, 5, Mondadori, Milano 1981, p. 129.
11 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, 3, Newton Compton, Roma 1981, p. 42.
12 Op. cit., 7, p. 59.
13 Friedrich Nietzsche, Epistolario, vol. II, Adelphi, Milano 1974, p. 168.
14 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, 7, Psicologia dei processi onirici – B, Boringhieri,
Torino 1973, p. 498.
15 Archiloco, frammento 77 Diehl, in Scrittori di Grecia, 1 Il periodo ionico, Sansoni, Firenze 1979, p. 274.
16 Aristotele, Poetica, 6, 1449 b 23, Laterza, Bari 1984, p. 203.
17 Op. cit. 14, 1453 b 2, p. 221.
18 Aristotele, Politica, VIII, 7, 1342 a.
19 Werner Jaeger, Paideia, II, cap. I.
20 Georg W. F. Hegel, Lezioni di Estetica, ed. Glockner, III, pag. 530.
21 Ibidem
22 Arthur Scopenhauer, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, Libro III, § 51, Laterza, Bari 1984, p. 340.
23 Friedrich Nietzsche, Frammento postumo della primavera 1888, 24 [1] 9, in Ecce homo, Ditirambi di Dioniso, Nietzsche contra Wagner, Mondadori, Milano 1981, p. 411.
24 Immanuel Kant, Critica del Giudizio, § 54, Laterza, Bari 1984, p. 197.
25 Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, in Werke, Ed. Karpeles, XII, pag. 108.
26 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, 3, Newton Compton, Roma 1980, p. 44.
27 Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, Ed. Marbach, p. 1103.
28 Op. cit. 12, p. 80.
29 Ibidem
30 Aristofane, Rane, v. 70, Einaudi, Torino 1977, p. 8.
31 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Prefazione alla seconda edizione, 4, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 46, 47.
32 Friedrich Nietzsche, Ecce homo, “La nascita della tragedia”, I, in Ecce homo, Ditirambi di Dioniso, Nietzsche contra Wagner, Mondadori, Milano 1983, p. 49.
35 Gianni Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza 1982, p. 21.
36 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, 19, Newton Compton, Roma 1980, pp. 115, 116.
37 Friedrich Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, 1, Newton Compton, Roma 1980, p. 37.
38 Op. cit. 2, p. 40.
39 Op. cit. p. 44.
40 Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 32, 33.
41 Georg W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, I, La Nuova Italia, Firenze 1944.
42 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi Estate 1875, in Opere, IV, Adelphi, Milano 1973, p. 178.
43 Werner Jaeger, Paideia, I.
44 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, p. 25.
45 Friedrich Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, 9, Newton Compton, Roma 1980, p. 70.
46 Ibidem
47 Ibidem
45 Friedrich Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, 9, Newton Compton, Roma 1980, p. 70.
46 Ibidem
47 Ibidem
48 Op. cit. 10, p. 79.
49 Op. cit. 14, p. 90.
50 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi Estate 1875, in Opere, IV, 1, Adelphi, Milano 1973, p. 164.
51 Op. cit. p. 164.
52 Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, I, Uno sguardo allo Stato, 474, Adelphi, Milano 1979, p. 262.

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