Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

mercoledì 18 settembre 2013

Solitario o Solidale?

Solitario o Solidale?
di Erica Della Valle

Questa riflessione prende spunto da alcuni argomenti trattati durante le giornate di studio a Gargnano e, in particolar modo, riprende i temi legati al ruolo della filosofia e del filosofo in relazione alla comunità.
Credo che sia utile partire ricordando il significato letterale della parola filosofia che tradizionalmente viene tradotta con l’espressione "amore per il sapere".
Il termine filosofia si compone di due parti: la prima delle quali (dal verbo phileo) indica un’aspirazione, un tendere verso qualcosa che non si possiede ancora compiutamente; mentre la seconda indica ciò a cui tale aspirazione si dirige, la sophia o sapienza.
Il filosofo quindi è colui che aspira alla sapienza, che tende a quest’ultima dedicandosi ad una ricerca costante e continua.
Quello che mi preme sottolineare è però il fatto che quando si parla di filosofia, quindi della continua ricerca, non si può non mettere in evidenza che il problema della conoscenza sia inevitabilmente legato alla questione della philia.
Mi sembra necessario soffermarci sulla nozione di philia perché ci permette di considerare il ruolo del filosofo che, a mio parere, soprattutto nel nostro tempo non può essere semplicemente ricondotto
ad un pensatore solitario ai confini del mondo.
Comprendere bene il ruolo della philia nell’attività filosofica ci permette di rispondere ad alcune domande quali: che rapporto sussiste tra il filosofo e la comunità? Cosa si intende per comunità?
E, soprattutto, è ancora possibile per il filosofo avere un ruolo nelle comunità attuali?
Per comprendere meglio il termine philia metterò in evidenza tre differenti interpretazioni di questa nozione, partendo da Aristotele, passando per Nietzsche e giungendo sino a Camus.
Queste esperienze mi permettono di evidenziare quale sia, io credo, il compito della filosofia e quali siano le sue caratteristiche principali.
Dal mio punto di vista la filosofia deve essere intesa come un’attività di ricerca caratterizzata da una reciprocità fondamentale e ineliminabile tra colui che ricerca, il filosofo, e la sua comunità.
Per comunità non intendo solo la ristretta cerchia dei filosofi, ma l’intera società nella quale il filosofo è immerso.
La filosofia nasce proprio da questa compartecipazione del filosofo con gli altri; si tratta di un sapere che è sempre dialogico, relazionale e compartecipato.
Aristotele, non a caso, dedica gli interi libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea alla trattazione dell’amicizia, che è dunque intesa come un’esperienza di importanza fondamentale per quell’animale ragionevole che è l’uomo.
Infatti per Aristotele, potendo scegliere, avere degli amici è preferibile al possedere tutti gli altri beni senza avere amici.
La philia viene dunque definita come la relazione umana per eccellenza; essa è anzi una cosa necessarissima per la vita.
Philia nel contesto greco suona dapprima come ospitalità e allude originariamente alla creazione di rapporti di reciproca sicurezza.
Philia non indica quindi un’emozione, un sentimento affettivo e anche in Aristotele l’aspetto puramente affettivo non sembra essere il più rilevante nell’articolazione del concetto.
Aristotele si sofferma, invece, ad analizzare due caratteristiche del concetto di philia: la prima delle
quali consiste nel dichiarare l’amicizia necessaria.
Necessità che va intesa innanzitutto come necessità pratica, necessità secondo la quale non si può sopravvivere né essere davvero umani al di fuori di una sia pur minima rete di reciproco riconoscimento che è sostanzialmente amicale.
Ma Aristotele pone l’amicizia come necessaria anche in un secondo senso, ossia come una necessità funzionale alla piena realizzazione psichica del sé.
Quello che a mio avviso già le riflessioni aristoteliche sottolineano è il fatto che solo nella compartecipazione, nello scambio e nella reciprocità sia possibile non solo l’attività di ricerca, ma la vita stessa e la realizzazione di ogni singolo individuo.
Quello che mi preme evidenziare, e per far questo riprenderò alcune analisi di Nietzsche, è però il fatto che Aristotele non si soffermi e non chiarisca come l’atteggiamento della philia non debba essere riservato solo ai simili e a chi condivide le stesse posizioni e le medesime idee.

Proprio per questo riprendo l’aforisma in cui Nietzsche ci propone le amicizie stellari:
“Eravamo amici e ci siamo diventati estranei.
Ma è giusto così e non vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene.
Noi siamo due navi ognuna delle quali ha la sua meta e la sua rotta; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra noi, come abbiamo fatto, allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’àncora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due.
Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai, forse potrà darsi che ci si veda,
ma senza riconoscersi: i diversi mari e i soli ci hanno mutati!
Che ci dovessimo diventare estranei è la legge incombente su di noi: ma appunto per questo dobbiamo ispirarci una maggiore venerazione!
Appunto per questo il pensiero della nostra trascorsa amicizia deve diventarci più sacro!”

Questo aforisma ci permette di sottolineare come la philia si instauri e persista anche nell’unità degli opposti per cui anche ogni distanza e ogni conflittualità è, in senso profondo, possibilità di legame e relazione, eraclitea “nascosta armonia”.
Nietzsche ci ricorda non solo che ogni identità è sempre provvisoria e instabile, ma soprattutto che la possibilità dell’amicizia, della philia, risiede non solo nella ristretta cerchia di simili, ma anche e soprattutto nella diversità e nella differenza.
Questo passaggio, a mio modo di vedere, è fondamentale perché ci permette di aggiungere un elemento indispensabile: la philia non è solo un atteggiamento necessario per la realizzazione dell’uomo e della sua attività di ricerca, come per altro già Aristotele ci aveva chiarito, ma la philia si annida proprio nella distanza e nella diversità.
Questo mi spinge ad affermare che il filosofo non deve e non può ridursi ad un pensatore solitario ed
eremita, ma non è nemmeno sufficiente che si faccia partecipe solo della vita dei suoi simili e della sua stretta cerchia di amici.
È invece inevitabile che il filosofo faccia corpo soprattutto con l’intera esperienza umana, anche e principalmente con quella più distante e differente.
Proprio nella distanza e nella differenza, infatti, si annida la nostra ricchezza e la possibilità della ricerca e della conoscenza di cui è costituita la filosofia.

Finora dunque ho cercato di mettere in evidenza che:

1) l’attività di ricerca (e dunque la filosofia in quanto ricerca incessante) è possibile solo nella philia cioè nel dialogo e nella relazione;

2) la possibilità della philia è situata non tanto nell’uguaglianza e nella somiglianza, ma soprattutto nella differenza.

Non è sufficiente dunque condividere solo le esperienze a noi familiari, ma è necessario far corpo con l’altro proprio quando quest’ultimo è nettamente distante e diverso da noi.
Come ci ricorda Nietzsche nel passo della Gaia Scienza più aumenta la differenza più cresce la possibilità di amicizia e di confronto.
Possiamo ridiventare estranei proprio perché siamo stati veri amici.
I diversi soli e i diversi mari ci mutano, ci trasformano e ci attribuiscono un’alterità insanabile che però non muta il senso profondo dell’amicizia trascorsa.
La necessità aristotelica dell’amicizia si traduce in una possibilità dialettica e intersoggettiva tra differenze inconciliabili.
Le differenze implicano il confronto e spesso anche il conflitto.
Questa dinamica è tipica del nostro tempo, mentre era del tutto estranea ad Aristotele e al mondo antico, che certo non ignorava il polemos ma lo concepiva sempre all’interno di un kosmos unitario e ordinato.
Questa possibilità di dialogo e confronto proprio nella differenza è, a mio modo di vedere, riassunto in modo emblematico in un passo molto importante del romanzo "La peste di Camus".
Per cercare di inquadrare meglio la situazione devo innanzitutto precisare che si tratta del passo relativo al bagno dell’amicizia; protagonisti della scena sono il dottor Rieux che trova nell’esercizio della sua professione la giustificazione del suo esistere e Tarroux un giovane che si trova casualmente coivolto
nell’epidemia e che annotta costantemente tutto ciò che accade.
In questo clima di difficoltà e ostacoli i due uomini riescono però a ritagliarsi un momento particolare:
“Si spogliarono e Rieux si tuffò per primo. Dopo alcune bracciate seppe che il mare, quella sera, era tiepido del tepore dei mari autunnali, che tolgono alla terra il calore accumulato per lunghi mesi.
A un greve tonfo capì che anche Tarrou si era tuffato. Rieux si voltò, sul dorso rimanendo immobile davanti al cielo rovesciato, pieno di luna e di stelle; respirò a lungo. Poi percepì sempre più distintamente un rumore di acqua battuta, stranamente chiaro nel silenzio e nella solitudine del mare.
Tarrou si avvicinava, presto si sentì il suo respiro. Rieux si voltò, si mise al fianco dell’amico e nuotò con lo stesso ritmo. Tarrou procedeva con maggiore forza di lui, e Rieux dovette affrettare l’andatura.
Durante alcuni minuti procedettero con la stessa cadenza e con lo stesso vigore, solitari, lontani dal mondo…”.
In questo breve estratto viene rappresentata in modo simbolico la possibilità dell’incontro e del dialogo nonostante tutto intorno sia complicato e complesso, nonostante – potremmo dire – tutte le diversità.
Oltre a mettere in evidenza che la possibilità dell’incontro si annida nel conflitto, Camus sottolinea
che, come già avevamo visto nell’aforisma di Nietzsche, l’incontro è momentaneo e soggetto a continue modifiche.
Camus poi, mi permette di aggiungere anche una riflessione importante: l’incontro e il confronto non portano ad una annientamento delle singolarità, ma ad una loro piena realizzazione.
Tarrou e Rieux, dopo aver nuotato a lungo insieme, si separano e continuano la loro strada solitaria senza però aver dimenticato il momento di massima condivisione e d’unione.
Impossibile non rivedere in questo l’immagine delle due navi di cui parlava Nietzsche.
Ritornando quindi alla nostra domanda iniziale relativa al ruolo del filosofo potremmo ora chiederci, riprendendo proprio un’espressione utilizzata da Camus: solitario o solidale?
A questo punto dobbiamo anzitutto affermare che la risposta non risiede nell’alternativa, ma nel rapporto dialettico tra queste due posizioni.
Il filosofo, dunque, deve far corpo con il proprio tempo, che circoscrive i termini del suo impegno, come direbbe Camus, non deve però asservirsi al suo tempo.
La necessità quindi di essere solidale con il proprio tempo è la condizione necessaria per permettere una vera comunicazione tra gli uomini e per mantenere vivo lo spazio essenziale che permetta all’uomo il proprio sviluppo creativo.
Il filosofo dunque non può esulare dal proprio tempo, non può fuggire e per poter svolgere il suo compito deve far corpo con gli altri, deve oltrepassare l’individualità.
Questo oltrepassamento non va inteso come una regressione verso l’anonimato, ma come la condizione necessaria per la realizzazione della comunicazione con gli altri e della propria singolarità.
Quest’ultima, infatti, giunge alla sua piena realizzazione proprio e solo nel momento in cui si pratica il far corpo con gli altri.
Diventando altro, realizzo me stesso.
Che altro deve fare il filosofo se non esercitare continuamente questa postura che accoglie le differenze e fa corpo con esse? Che si lascia trapassare dalle differenze in quanto comprende che proprio in esse risiede la possibilità della piena realizzazione di sé?
Questo, forse, altro non è che l’esercizio consapevole della prospettiva, come direbbe Nietzsche.
Dalla distanza e per la distanza, come afferma Sini, esercitiamo il nostro influsso.
La filosofia è compartecipazione, il filosofo è un soggetto in cammino con altri, un soggetto che continuamente e costantemente influenza gli altri e a sua volta ne subisce l’influenza.
In fondo come la mano dello scultore che modella e quindi influenza il blocco di marmo, ma che a sua volta è influenzata da quest’ultimo nel tracciare linee e disegni.
È qui inevitabile il collegamento alla riflessione siniana riguardante l’elogio del relativo.
Il nucleo centrale afferma che ogni relativo è costituito da una forma di relazione reciprocamente coinvolgente: conservando e ribadendo la sua distanza ogni relativo diviene di fatto uno specchio nel quale tutti gli altri si possono specchiare per differenza.
A mio parere, se il compito del filosofo è quello di indicare una postura dell’anima, allora forse questo si traduce nell’insegnamento di una norma etica, come la definisce Sini, e non semplicemente teoretica, per la quale ognuno, filosofo compreso, deve perseverare nella sua figura di verità in cammino fino a prova contraria, cioè sino a quando le conseguenze pratiche che ne derivano rendono tollerabile il suo errore.
Forse, nella nostra attuale situazione, è auspicabile che in prima battuta il filosofo abbandoni la tenacia insensata che consiste nel sottrarsi ad ogni relazione e ad ogni confronto, sforzandosi di sottrarsi all’esperienza che gli mostra come il mondo comprenda numerosi punti di vista e differenti prospettive.

Mi sembra quindi di poter affermare che il filosofo è solitario proprio perché è solidale.
Infatti solo in quanto compartecipe con gli altri (solidale) è anche (solitario): giunge cioè ad una piena realizzazione del suo compito e quindi del suo sé.

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