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Marco Vignolo Gargini
“All’inizio era la favola”,
il mito negli scritti di Paul Valery e Edgar Allan Poe
il mito negli scritti di Paul Valery e Edgar Allan Poe
saggi di Paul Valery (1871-1945), che sono stati riuniti sotto il titolo All’inizio era la favola [1],
hanno tutti come denominatore comune l’idea del Mito, dell’origine che
si pone all’inizio di un processo, forse della nostra stessa storia,
dell’origine che non ha basi razionali, dell’arché prototipo fantastico.
Il Mito è un fondamento
su cui è lecito domandarsi se sia vero o falso, una costruzione, un
artificio destinato a colmare le lacune e, nello stesso tempo, il
rischio di una ricerca vana delle radici del nostro essere.
Il culto dell’origine da
sempre ha prodotto effetti contrastanti: tentando una spiegazione di
ciò che ci ha preceduti si è giunti, per curiosità intellettuale, a
ridiscutere il nostro ambito, ma pure ci siamo allontanati troppo dal
punto di partenza, brancolando nel buio e perdendo le tracce di noi
stessi.
Il rischio è fortissimo,
ognuno è libero di scegliere, senza dimenticare che gli inconvenienti
sono davvero numerosi, soprattutto là dove la pretesa principale sia
quella di rinvenire la Verità.
Paul Valery nella sua indagine sul Mito ricorda i versi di Charles Baudelaire (1821-1867), “Enfer ou Ciel, qu’importe?/ Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!”, e ancora, “Mais le vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent/ pour partir”[2]:
non importa dove si vada a parare, il nostro viaggio ha per meta
l’Ignoto, la novità di ciò che ci è recondito, in fondo gli infiniti
scarti che ci separano dalla nostra origine e pertanto un viaggio senza
ritorno.
In un saggio di Walter Benjamin (1892-1940) su Paul Valery [3]
v’è l’immagine del mare unita alle matematiche, di una carta nautica su
cui Valery ha seguito la rotta della propria costruzione poetica in
mezzo ai flutti, per approdare a un porto, alla riva. L’immagine è
quanto di più calzante ci possa essere, infatti, Benjamin lo ricorda
all’inizio del saggio, Valery voleva diventare ufficiale di marina,
prima di avventurarsi nella poesia.
M’è sembrato opportuno
citare Baudelaire e poi Benjamin proprio per cogliere l’aspetto
fondamentale di Valery: il viaggio, la ricerca che si sposta da un punto
verso un altro, lo studio scientifico, razionale di un ambito
irrazionale: il Mito è questo viaggio di cui non si conosce l’esatta
direzione, ma dispone di mezzi matematici, di metri, di misurazioni.
Da qui in avanti cercherò di mostrare come il Mito sia in Valery il tentativo filosofico par excellence di portare l’al di là, l’Essere, la Verità nell’al di qua, con la conseguente sconfitta.
In Così parlò Zarathustra Friedrich Nietzsche (1844-1900) fa dire al suo protagonista:
“ In verità ogni
‘essere’ è difficile da dimostrare e con difficoltà lo si può indurre a
parlare. Ditemi, fratelli, forse che la più stravagante delle cose non è
anche la meglio dimostrata? ” [4]
Ebbene, che cos’è l’Essere se non l’incubo di tutta la nostra civiltà, l’affanno nel dover dimostrare che esiste un Ur cui tutta la realtà fa riferimento?
Paul Valery, nel primo saggio della raccolta suddetta [5],
inizia con il ricordo dei suoi vent’anni, quando la filosofia lo
irritava perché mancava di fornirgli le risposte ai suoi dubbi,
lasciandolo con la sensazione che non vi fossero verifiche.
Si sa che a vent’anni
queste pretese “sistematiche” sono frequenti, che la sete di conoscere
viene spesso delusa dalle vane chiacchiere di un Parmenide o di un
Hegel, ma se, passata l’adolescenza, si continua a cercare questo “punto
fermo” allora viene il sospetto che Paul Valery abbia cresciuto la
buccia del proprio frutto e non la polpa.
Il saggio è dedicato ad un altro saggio, per la precisione Eureka – A prose Poem di Edgar Allan Poe (1809-1849).
La fantasia del giovane Valery venne colpita nella lettura di Eureka dalla “coerenza” o, per usare il termine di Poe, dalla consistency, ossia una catena di implicazioni non ben definite legate fra loro per mezzo di
“un’adesione
immediata a un’intuizione tale che possa rendere presente, e come
sensibile allo spirito, la dipendenza reciproca delle parti e delle
proprietà del sistema considerato.” [6].
L’entusiasmo non più giovanile di Valery arriva a definire la consistency un
disegno formidabile, e per disegno intende l’universo, un universo
simmetrico che alberga nel nostro spirito, un universo che il poeta sa
istintivamente dipanare conducendoci “ciecamente alla verità” [7]. Ma quale verità?
Nella prefazione a Eureka Edgar
Allan Poe offre questo suo libro “pieno di verità non perché espone
verità, ma per la bellezza che abbonda nella sua verità, e che lo rende
vero”, e prosegue affermando che ciò che viene esposto nel suo poema “è
vero, e dunque non può morire”[8].
Evidentemente ancora non sappiamo bene cosa sia questa verità, tutto Eureka abbonda
di termini che non hanno una spiegazione sufficientemente chiara,
Valery stesso avverte delle zone d’ombra e dei vuoti, passaggi poco
chiari, in cui la forza del linguaggio riposa sull’evocazione mistica,
su fantasmi metafisici che farebbero inorridire qualsiasi scienziato mal
disposto ad accettare una prosa che mischia leggi di fisica a
considerazioni puramente letterarie.
Da tutto questo si può
ricavare un insieme di riflessioni non sempre ordinate, dove ha maggior
spazio la fantasmagoria rispetto alla disposizione logica. Poe prende in
esame tre grandi scoperte scientifiche che assumono i toni di una
invenzione colossale destinata a mutare definitivamente la concezione
dell’universo: l’attrazione universale di Isaac Newton, le leggi di
Johannes Kepler sul moto dei pianeti e l’ipotesi nebulare di
Pierre-Simon de Laplace.
In Eureka le tre
scoperte scientifiche formano insieme il punto di partenza per
raggiungere, in un secondo tempo, quella che, a tutta prima, può
apparire come una cosmogonia dell’universo, una forma di spiegazione
mista, tra mito e scienza, tra favola e verità.
Il tentativo è
affascinante, soprattutto perché siamo in presenza di uno scrittore che
si occupa di fisica, con i mezzi che solitamente usa nella creazione
delle sue opere letterarie; di questo Valery tiene conto nella propria
recensione, si serve del “poema” di Poe per affrontare il tema della
mitologia, l’Universo come mito, come concezione di un’unità
totalizzante che possiamo rappresentarci, ma difficilmente definire, in
un caos talvolta ostile per la nostra conoscenza tesa a dirigere i
movimenti del pensiero verso un punto fermo.
In sintesi, la
cosmogonia di Poe prende l’avvio da un’idea generale, l’unità originaria
che si è frammentata dando l’inizio a tutti gli enti, enti che recano
in sé una sorta di nostalgia, un desiderio di tornare ad essere uno.
Nello stesso tempo all’interno dell’unità originaria di questo ente
primo, che ha dato inizio al mondo, risiede il germe
dell’annichilimento.
La cosmogonia di Poe non fornisce spiegazioni esaurienti, l’arché è
vista ancora una volta come una specie di misterioso e lontanissimo
punto primigenio, possiamo fingerci che sia stato reale e in questa
finzione fondare tutta una catena di esiti, più o meno probabili.
“All’inizio era la
favola”: l’universo non è solo un’espressione mitologica che sfugge
all’intuizione e trascende la logica, ma pure l’avvertire, lo
sfioramento per contatto fortuito di una dimensione in cui l’infinità è
tensione.
Le nostre attuali
conoscenze non dispongono di elementi atti a spiegarci che cos’è e dov’è
l’origine, accettiamo l’ipotesi che l’universo sia in continua
espansione o, al massimo, in contrazione, seguendo di conseguenza la
teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955) esposta nel 1916;
come Poe, ammiriamo l’ipotesi di Laplace, limitata al sistema solare, e
ne amplifichiamo il significato: G. Gamow nel 1940 ha calcolato che, in
via teorica, che la materia costituente l’universo sia di 10¹² gradi e,
una volta espansasi, si sia raffreddata fino alla temperatura di circa 5
gradi sopra lo zero assoluto; A. Penzias e R. Wilson nel 1965 sono
giunti quasi alla stessa conclusione, determinando sperimentalmente che
lo spazio cosmico sia pervaso in maniera omogenea da una radiazione
termica di 3 gradi di temperatura, scala Kelvin; gli stessi Penzias e
Wilson hanno rilevato l’eco del probabile Big Bang, sotto forma di rumore di fondo della microonda della radiazione cosmica.
Dopo questa parentesi, tornando al nostro, in Eureka Edgar
Allan Poe fa della nascita dell’Universo un mito, una serie di
supposizioni che derivano da calcoli geometrici, da ipotesi scaturite
mediante il calcolo delle probabilità, da esattezze che sono il frutto
di un intreccio la cui soluzione può essere vagheggiata, mai decisa
sotto la categoria fissa di causa.
Fondamentalmente la cosmogonia di Poe è un’opera già compiuta, una Schicksal cui
niente può sfuggire, una serie di ombre spirituali eppure materiali, un
disegno incontrovertibile che tende ad un nuovo Caos. Ogni mito di
necessità ne sostituisce un altro, e il vecchio modello tolemaico viene
cancellato dal nuovo copernicano del De revolutionibus orbium coelestium del
1543, così come Keplero andrà oltre Copernico: ogni sistema causa la
cessazione dell’antico e il principio di uno successivo, le cosmogonie
si susseguiranno, ma nessuna di esse sarà perfetta, ma soltanto una
tendere verso, un viaggio “pour trouver du nouveau”!
Ricordo Fulgenzio, il monacello della Vita di Galileo di
Bertolt Brecht (1898-1956), che in un dialogo accorato con lo
scienziato pisano parla dei propri genitori, contadini che lavorano la
terra “al centro di tutte le cose”[9] sotto gli occhi di Dio e convinti della verità delle Sacre Scritture:
“Come la prenderebbero ora, se
andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola
ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro,
uno fra i tanti, e neppure molto importante?”[10]
Ebbene, l’angoscia di
Fulgenzio di fronte alle nuove scoperte di Galileo fa da contraltare
all’atteggiamento entusiastico di Poe: l’uno pecca di nostalgia, l’altro
pecca di ottimismo, come ammette Giulio Giorello nell’introduzione di Eureka [11]; Poe concentra la sua attenzione non sull’esattezza delle teorie ma sulla bellezza che esse sanno suscitare.
Sia che si citi una
legge fisica, un’ipotesi scientifica, con dovizia di calcoli matematici,
sia che si ricorra al mito dell’origine di tutte le cose, il pericolo
che corriamo è di mescolare il tutto con il nulla. A ciò
si aggiunga che da quando la scienza è frammista al mito disturba quello
e se stessa: l’idea che l’origine sia intuibile attraverso un atto
entusiastico e non razionale è presente in numerosissimi poeti, la
poesia medesima è definita da alcuni l’arte della parola e il linguaggio
“la casa dell’essere”[12], sebbene questo linguaggio non attesti sempre il Dasein, come Martin Heidegger (1889-1976) espose, ma solo alcune sue manifestazioni.
Se il Mito è tutto ciò
che esiste avendo per causa la parola, l’uomo, che possiede il
linguaggio, è esso stesso creatore di Mito, di Essere, e non
fruitore di qualcosa che si dà, che esiste indipendentemente dalla
parola: Valery a questo punto avrebbe dovuto parlarci del Mito dei Miti,
l’origine della parola, se avesse voluto rovinare in un terreno
pericolosissimo.
Il poeta francese nel suo saggio su Eureka ammette
che l’Universo è mera espressione mitologica, quindi un prodotto del
linguaggio, non solo, un soggetto cui tutti gli attributi gli si
addicono, una rappresentazione dai contorni non ben delineati, una
totalità che esiste esclusivamente quando non la si specifica, non la si
mette a confronto con qualcosa che non sia universale. Così
Valery carica d’essere il suo Universo, un essere che sia unico, tutto,
finito, come l’Essere di Parmenide, la cui matrice è favola, mito,
eternità, sospensione del tempo.
La consapevolezza di non
poter fare a meno del Mito è attestata da Valery, sempre nello stesso
saggio, quando s’accorge che il primo nucleo della forma dell’universo è
fornito dalla capacità di vedere ciò che ci circonda, e la varietà
della vista reca con sé non solo la possibilità di scorgere quello che
effettivamente osserviamo, ma pure il contrario, la limitatezza della
nostra sfera visiva, la comunicazione di un modello, “il germe
dell’universo totale che credo esista intorno alla mia sensazione, da
essa mascherato e rivelato” [13], l’idea (non per niente idea ha la radice id del
verbo greco ὁράω, quasi a indicare la nostra possibilità di conoscere
per mezzo della vista, o figuratamente imitando l’atto visivo).
In definitiva, la
favola, il mito sono degli anelli mancanti, i primi che ci vengono a
mancare, e sui quali vagheggiamo e intessiamo una trama per percorrere
la strada che giunge a noi, quindi non un’arché qualsiasi, bensì l’arché che
ci ha causati, prodotti, l’Io nelle sue tappe che discese per dare
sostanza a tutta la nostra storia, la millantata verità della certezza
di sé.
La cognizione che il
nostro tendere verso l’infinito sia costellato da entusiasmi e
frustrazioni non distrugge l’ambizione: Valery non rinuncia a questi
voli di Icaro, è poeta e come tale attinge da diverse fonti per creare
un metodo, è il signor Teste che cerca di definire le leggi che
governano lo spirito.
Dunque mi sembra inevitabile parlare della Piccola lettera sui miti,
che Valery scrive intorno al 1928, in cui, sotto forma di epistola, lo
scrittore tenta di dare una definizione del mito ad una signora
sconosciuta e, direi, a se stesso.
“Mito è il nome di tutto quel che esiste e sussiste avendo solo la parola per causa” [14],
così si esprime ad un certo punto della lettera Valery, però la parola
non attesta la verità, è uno strumento neutro che affabula, che compone
sogni tanto più mitici quanto più lontani e crea artificiosamente la
menzogna come il vero.
L’origine è la favola,
la immaginifica descrizione di un tempo perduto che non possiamo
registrare compiutamente, un atto disturbato dai millenni che sono
trascorsi: “Ogni antichità, ogni principio delle cose è solo un’invenzione favolosa che obbedisce a leggi semplici” [15],
e l’invenzione è quel vuoto colmato, la lacuna rimossa che ci fa
dormire sonni tranquilli, il falso che sia di sostegno al vero e il vero
che acquisisce il falso come antenato, causa, autore, origine e fine
senza rimedio.
In questo guazzabuglio, tra verità e menzogna, tra invenzione e realtà, torno a parlare di Nietzsche e del passo di Così parlò Zarathustra
citato all’inizio, di come il filosofo di Röcken sia stato una vera
rottura con la tradizione precedente, sapendo scovare nell’essere tutta
la sua indicibilità, l’assenza di dimostrazione, “la più stravagante
delle cose” meglio dimostrata.
Fin qui siamo discesi da
un’origine falsa, da una cosmogonia che è opera del nostro sogno e un
“agire solo in direzione di fantasmi” [16], una fantasmagoria che possiede “una precisione, una consistenza e perfino un rigore” [17] artefatti!
All’interno di un’altra opera di Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli,
v’è un capitolo intitolato “Come il « mondo vero » finì per diventare
una favola” in cui si fa la genealogia di questo errore, ossia il «
mondo vero »:
“Il mondo vero,
inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato
una consolazione, un obbligo, un imperativo. (…)
Il mondo vero –
inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche
sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante
(…)
Il mondo vero –
un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea
divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! ” [18]
Sappiamo che il filosofo
tedesco non ha mai provato molta simpatia per i miti confezionati ad
uso e consumo di quel che necessita la circostanza: dietro il mito
riposa spesso la mistificazione, l’assenza di sincerità, quindi il
pericolo per chi mitizza.
Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche fa piazza pulita delle false causalità, dimostrando come il perché non
dia la causa per se stessa, quanto una causa acquietante, liberatrice,
consolatoria, fantastica. L’aspetto più interessante, a mio avviso, è la
critica del linguaggio, della parola che è prodotto della ragione e, in
ultimo, la critica della stessa ragione come prodotto dell’essere.
Anche in Valery, nella Piccola lettera sui miti, c’è coscienza che Mito sia tutto quello che creiamo, un fantasma, un’invenzione, un non essere:
“Che cosa saremmo
dunque senza il soccorso di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e le
nostre menti, senza occupazione, languirebbero se le favole, gli
equivoci, le astrazioni, le credenze, i mostri, le ipotesi e i presunti
problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza
oggetto le nostre profondità e le nostre tenebre naturali. ”[19]
Mito come legge assoluta
che governa i nostri rapporti, una legge che non ammette altro che la
fede in essa, una cieca obbedienza, la cui peculiarità consiste nel non
voler accettare l’indagine, la precisazione pena il decesso dello stesso
Mito.
Ma qual è il punto di vista filosofico sul Mito?
La parola μύθος viene usata da Aristotele (384-322 a.C.) nella Poetica l’accezione di favola (5.
1449 b 8; 9. 1451 b 24), cioè di un fatto che potrebbe accadere,
seguendo le leggi della verosimiglianza e della necessità, contrapposta
alla ἀληθέια come registrazione di ciò che effettivamente è accaduto. Il
μύθος attesta in Aristotele una approssimazione della verità, là dove
il pensiero razionale non possa inoltrarsi nell’esplorazione, un
prodotto secondario, inferiore o distorto dell’intelletto.
Platone (427-347 a.C.)
ha lo stesso punto di vista, il μύθος si contrappone all’ἀληθέια e
possiede un valore di ricerca del verosimile: molti dialoghi platonici
fanno ricorso al Mito, spesso in punti topici (Mito della caverna, Mito
di Er Armenio, Mito di Eros etc.), quando le virtù dianoetiche non
riescono ad esplicare discorsivamente, partendo da premesse, la
consistenza di un assunto.
Nell’antichità il Mito
aveva una funzione secondaria rispetto alla conoscenza razionale, una
funzione religiosa tuttalpiù, sebbene vi siano esempi di autori di
cosmogonie e teogonie che vedevano nella forma mitica una criptica
verità: Ferecide di Siro (584/1-499/7 a.C.) forse viene influenzato da
Talete (ca. 640 a.C.) e la sua opera Eptàmychos o Pentemychos
ne è una prova; Acusilao, Epimenide, Museo, Omomacrito sono tutti
autori di genealogie, teogonie in cui il mito è verità rivelata. Non
parlo di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) perché sarebbe pleonastico, cito
invece dalla sua Teogonia le parole che le Muse Olimpie rivolsero
al poeta, a conferma di un rapporto stretto tra mito e verità, tra il
falso che “sia di sostegno al vero e il vero si dia il falso per
antenato” [20], come dice Valery, tra verosimiglianza e verità:
“ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,
ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι”[21].
ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι”[21].
David Hume (1711-1776) in Storia naturale della religione
(1757), al capitolo primo, osserva la stessa differenza tra le opinioni
speculative, basate su prove chiare e ovvie, e i fatti storici in cui
il meraviglioso presiede al passato e la storia si trasforma in miti o
favole; il mito nasce per rimpiazzare la debolezza della memoria umana, è
pure l’indice della tendenza antropologica verso il fantastico, e
l’esagerazione e una deformazione nei confronti degli eventi storici. Il
Mito, secondo Hume, è tipico presso i popoli primitivi, che nel
politeismo forgiarono la loro prima forma di religione.
A questa interpretazione
del mito, quale forza inferiore del pensiero razionale, se ne aggiunge
un’altra, dove il mito ha tutta una sua validità: Giambattista Vico
(1668-1744) nella Scienza Nuova sottolinea invece:
“Che le favole che nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio)
le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero
improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure,
di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della
difficoltà delle favole. ” [22]
A differenza di Hume,
Vico considera il mito, la favola una forma autentica di verità, una
verità estranea al pensiero razionale, dove la tradizione orale assume
un’importanza decisiva, tanto che “i poeti dovetter esser i primi
storici delle nazioni” [23].
Il concetto vichiano
ebbe successo presso i romantici, seppur impregnate di risonanze
irrazionalistiche: Friedrich Schelling (1775-1854) nella Filosofia della Mitologia considera il Mito, nuovamente con la emme maiuscola, una Offenbarung dell’Assoluto, una manifestazione sovrannaturale di Dio quale coscienza della natura.
In Filosofia delle forme simboliche (1925) Ernst Cassirer (1874-1945) indica nel mito l’imperfetta distinzione tra il simbolo e il suo oggetto:
“Il Mito sorge
spiritualmente al disopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle
immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che
un’altra forma di materialità e di legame con le cose.”[24]
In seguito lo stesso Cassirer, e più precisamente in Saggio sull’uomo (1944),
vede nel Mito un sostrato di sentimento e la coerenza che c’è tra
religione e Mito nasce da un legame sentimentale più che logico.
Sembra quindi che il
filosofo neokantiano torni alle concezioni humiane sull’origine della
religione presso i primitivi, come formazione prelogica, la stessa
concezione che troviamo in Emile Durckheim (1858-1917), Le forme elementari della vita religiosa (1912), in cui le caratteristiche fondamentali sono riflesse attraverso la mitologia.
Lucien Levy-Bruhl (1857-1939) in La mentalità primitiva (1922) e L’anima primitiva (1927) insiste sulla prelogicità del
pensiero primitivo creatore di miti, dove la natura è concepita come un
intreccio di partecipazioni ed esclusioni “mistiche”, inconciliabile
con le leggi della logica.
Gli autori che abbiamo
citato ultimamente, Cassirer, Levj-Bruhl, oggi sembrano non avere più
seguito: il Mito è un fenomeno troppo complesso per essere succintamente
catalogato come primitivo o prelogico, d’altra parte la moderna
sociologia ha un approccio diverso sulla questione suddetta, lo stesso
vocabolo “primitivo” non è più usato con un significato di disprezzo,
giustamente, e il Mito assume un valore universale, quasi una tavola di
valori in cui una società intera si rispecchia.
Un’opera importante l’ha
svolta Bronislaw Malinowski (1884-1942) attraverso i suoi studi sulle
società primordiali: secondo le sue tesi, il Mito verrebbe a staccarsi
dal semplice racconto orale, così come da una prima rudimentale forma di
scienza, dall’arte, dalla storia, è un trait d’union per la
tradizione di un popolo, il coibente per la tenuta culturale di una
società, qualsiasi società, non solo quella primitiva:
“Ogni mutamento
storico crea la sua mitologia, che è tuttavia solo indirettamente
relativa al fatto storico. Il Mito è un costante accompagnamento della
fede vivente che ha bisogno di miracoli, dello status sociologico che
domanda precedenti, della norma morale che esige sanzione. ”[25]
C’è quindi un’indagine
antropologica delle origini del Mito che cerca di comporre una
dettagliata analisi sulle forme, sulle rappresentazioni umane, sebbene
Malinowski da un canto critichi il concetto di Mito, considerato in
quanto parte di una mentalità “selvaggia”, da un altro tenda a
rivalutare la mitologia, come espressione di una cultura, di una
tradizione.
In questo caso la
parola, che Valery ritiene causa primaria d’ogni Mito, non è solo la
creatrice di un mondo artificiale supposto vissuto prima di noi, ma pure
la garante di un contesto sociale, l’acquietatrice di un sistema che
non può vivere unicamente in ambiti razionali.
Aggiungo che non riconosco nell’analisi di Paul Valery in Piccola lettera sui miti un
intento di spiegazione sociologica o antropologica del Mito, e forse
questo costituisce un limite, tale quale l’assoluta pretesa d’aver
dipanato l’Universo che rinveniamo in Eureka di Edgar Allan Poe,
quantunque a parziale giustificazione occorra sottolineare che i punti
di vista non possono che non essere divergenti: Valery e Poe hanno un
occhio poetico, gli altri scientifico.
Il punto di vista di
Edgar Allan Poe sull’Universo vuole sostituire la dogmaticità degli
scienziati, ma inserisce il Mito su di un cammino che non accetta
solitamente intrusioni favolistiche: che il lavoro sperimentale dei
fisici, dei matematici, degli astronomi sia stato spesso costellato
dalla pretesa dell’insindacabilità è vero, però nonostante tutto bisogna
cautelarsi qualora si pretenda di introdurre considerazioni sulla base
del sentimento, o ammettere come causa prima la volontà divina, e di
conseguenza parlare di principi. Poe fa questo, tenta di spiegare ciò
che non è stato dimostrato con un’operazione la più semplice possibile.
L’intervento di Dio, l’agente primo, l’atto puro
generatore del mondo. La cosmogonia dello scrittore americano è quanto
di più mitologico possa essere stato rappresentato, e, seppure si faccia
scudo delle scoperte scientifiche, mira ad ottenere un risultato
sconfinante nel misticismo, asserendo cioè che Dio creerebbe la materia a
partire dalla propria immaterialità e lo spazio dalla sua assenza.
Il tentativo, o se
vogliamo, l’ossessione di Poe nel saper individuare l’origine, di
rivoluzionare il mondo delle scienze fisiche è un antico refrain,
tanto più se la volontà di far storia si scontra con i fantasmi, con i
sogni di un tempo che non ha testimoni, oppure li ha ma non sono
attendibili o scomparsi addirittura.
L’uomo quando non può
ricordare un avvenimento si mette a inventarlo ed assume un’aria
convinta, deciso ad argomentare che le cose sono andate veramente così
poiché crede in esse e desidera crederci; non gli interessa il presente,
essendo troppo ambiguo, ma fugge al momento in cui esso compare; ama
l’archeologia perché gli comunica l’idea di un passato reale, causa
della sua esistenza: ebbene, se quest’uomo perdesse il senso
dell’origine andrebbe a tentoni, si sentirebbe privo di paternità,
orfano di una storia che possiede dei principi.
Poe, rintracciando il cadavere dell’origine di tutte le cose, è alla disperata ricerca del nouveau, si mette sullo stesso piano di un Baudelaire che, con un coup de foudre indotto, si autoprocura uno choc pur di assistere alle vicende recondite della nostra anima.
Concordo in pieno con Theodor W. Adorno (1903-1969):
“Il nuovo, cercato
per se stesso, prodotto – per così dire – in laboratorio, irrigidito a
schema concettuale, si trasforma – nella sua brusca apparizione – nel
ritorno ossessivo dell’antico, analogamente a quel che accade nelle
nevrosi traumatiche.”[26]
Il pericolo di una
creazione artificiale è l’illusione d’aver plasmato una novità, quando
si tratta solamente di una ripetizione di forme distorta; Paul Valery,
sempre nella Piccola lettera sui miti, comprende la lezione, vede nello spirito umano un ritrarsi in sé nell’emissione dello straordinario:
“… fa scaturire dai
minimi eventi creazioni sovrannaturali. In questo stato, si vale di
tutto quel che è, un quiproquo, un malinteso, un gioco di parole lo
fecondano. Chiama scienza e arti la potenza che possiede di dare alle
sue fantasmagorie una precisione, una durata, una consistenza, e perfino
un rigore di cui è lui stesso stupito, sfinito talvolta!” [27]
Sempre nella stessa raccolta, All’inizio era la favola, abbiamo un altro saggio di Valery, L’uomo e la conchiglia,
in cui s’esprime ancora lo stupore che nasce dalla visione di una
creazione inaccessibile alle domande, misteriosa da decifrare. La
conchiglia è un oggetto che si lascia cogliere dalla vista in tutta la
sua bellezza, compiutezza, perfezione, ma sfugge alla nostra sfera
riflessiva, ci impedisce di spiegare il movente, l’azione, l’intenzione
di chi l’ha prodotto.
La composizione
apparentemente geometrica della conchiglia svanisce di fronte alle
innumerevoli variazioni, le spirali, l’ellissi si sviluppano seguendo le
nostre costruzioni e poi improvvisamente assumono una forma del tutto
diversa, incomprensibile secondo i principi della geometria.
La domanda di Valery è :
« Chi ha fatto questa conchiglia? Se questa cosa che ho trovato sulla
sabbia possiede una coerenza nelle sue parti, un accordo nella forma,
vuol dire che v’è stato un agente che l’ha concepita, ideata e poi
finalmente realizzata! Chi è dunque questo agente? »
Rompendo la conchiglia essa non è più tale, non è più il tutto, e allora l’altro quesito del poeta francese riguarda il materiale che compone l’oggetto e lo scopo, il fine che l’ha causata.
Nell’impossibilità di
una risposta c’è la constatazione che i nostri dubbi nascono
dall’operato umano e ogni oggetto viene analizzato seguendo le leggi
dell’agire dell’uomo, andando spesso a sbattere il naso contro una
circostanza che non sappiamo analizzare perché esterna alla nostra
azione.
Allora l’uomo si
confronta con la Natura e per spiegarsele usa motivazioni teleologiche a
lei estranee, rapporta le sue leggi con quelle supposte del mondo
naturale, alla fine termina il suo lungo cammino fondando una serie di
valori a sua immagine e somiglianza.
Valery dunque intuisce l’opera d’arte come tentativo di riproduzione di significati e forme che la Natura nasconde:
“I nostri artisti
non traggono certo dalla loro sostanza la materia delle loro opere e
serbano la forma che perseguono solo attraverso una particolare
applicazione del loro spirito, separabile dal tutto del loro essere.
Forse, quel che chiamiamo la perfezione nell’arte ( e che non è
ricercata da tutti, e che più d’uno disdegna) non è che il sentimento di
desiderare o di trovare, in un’opera dell’uomo, questa certezza di
esecuzione, questa necessità d’origine interna e questo legame
indissolubile e reciproco della figura con la materia che la più piccola
conchiglia mi mostra? ”[28]
Lo scritto che analizzo,
del 1937, lascia tutto in sospeso riguardo all’origine delle cose non
prodotte dall’uomo, è ancora una volta proteso a riconoscere la validità
del Mito, come unica spiegazione, fantastica, artificiosa di un ambito
che non possiamo cogliere con i mezzi del pensiero razionale.
Valery qui propone la
sua tesi sulla produzione artistica, la poesia come “festa
dell’intelletto”, metodo critico all’interno della finzione, dove il
linguaggio ha un’importanza sovrana, sibillina nel saper guidare il
lettore attraverso l’ermetismo dei simboli fino a giungere alla “riva”.
Per questo Valery s’inscrive nella tradizione simbolista, dove tutti i
simboli fuoriescono dalla Nature temple nel mistero,
“Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté.”[29]
Vaste comme la nuit et comme la clarté.”[29]
L’operazione di Valery ha
pretese altissime, abbiamo già accennato all’inizio di un “punto fermo”,
ovvero di un luogo dove la scepsi possa trovare l’ubi consistam,
il posto adatto a in cui l’esistenza umana s’assesta; pure si è
nominato in parte il titolo di un’altra opera fondamentale del poeta
francese, Serata con il signor Teste (1896), che ha come
protagonista un personaggio che impersona l’astrattezza dell’intelletto,
soprattutto per il fine che si propone, la ricerca delle “leggi dello
spirito”.
Non v’è dubbio alcuno
sugli intenti elitari di Paul Valery e di Edgar Allan Poe, tutti e due
ricercano una dimensione perduta, forse perché non è mai esistita, e si
sforzano di centrare l’obiettivo avventurandosi nei meandri del
linguaggio, accettano e poi tutto ad un tratto sembrano rifiutare i
sussidi della ragione, in un caos dove il mistero, lo stupore e la
meraviglia la fanno da legislatori.
Il mito ha come causa la
parola, ma una parola influenzata, segregata, deliberatamente schiava
di se stessa, e l’esperimento di portare l’al di là qui fra di noi non
può avere successo, perciò le domande rimangono ancora domande.
Comunque voglio ammettere che Valery ha presente i limiti oltre i quali non c’è concesso andare, come il suo Angelo [30] che si vede uomo e non sa spiegarsi il perché delle cose, non smette di conoscere e di non comprendere.
Di qui la nostra
sofferenza che deriva non tanto dal pensiero della nostra origine, ma
dalla necessità di pensarci, dal condizionamento che riceviamo
continuamente giorno dopo giorno: senza Miti siamo romiti, ridotti a
mendicare una causa che ha dato inizio a tutto, ossessionati dall’idea
che se ci siamo v’è un motivo. Forse non lo sapremo mai.[1] Paul Valery, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988.
[2] Charles Baudelaire, « Le Voyage », in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 280.
[3] Walter Benjamin, « Paul Valery. Per il suo sessantesimo compleanno », in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1979, p. 42.
[4] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte I, Di coloro che abitano un mondo dietro il mondo, Adelphi, Milano 1976, p. 31.
[5] Paul Valery, « Su « Eureka » », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 33.
[6] Paul Valery, « Su « Eureka » », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 36.
[7] Ibidem
[8] Edgar Allan Poe, Eureka – Saggio sull’universo spirituale e materiale, Theoria, Roma 1982, p. 29.
[9] Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Scena VIII, Einaudi, Torino 1980, p. 72.
[10] Op. cit. p. 71.
[11] Edgar Allan Poe, Eureka, Theoria, Roma 1982, p. 20.
[12] Martin Heidegger, Über den Humanismus, 1946.
[13] Paul Valery, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 45.
[14] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Roma 1988, p. 52.
[15] Op. cit. p. 55.
[16] Ibidem
[17] Op. cit. p. 56.
[18] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Mondadori, Milano 1981, pp. 63, 64.
[19] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Roma 1988, p. 55.
[20] Op. cit. p. 55.
[21] Esiodo, Teogonia, in Scrittori di Grecia 1, Sansoni, Firenze 1979, p. 182.
[22] Giambattista Vico, Scienza Nuova, II, Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero, IV.
[23] Op. cit., X.
[24] Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925; trad. ingl., 1955, p. 24.
[25] Bronislaw Malinowski, « Myth in Primitive Psychology », 1926, in Science and religion, 1955, p. 146.
[26] Theodor W. Adorno, Minima moralia, Parte terza, 150, Einaudi, Torino 1979, p. 288.
[27] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 56.
[28] Paul Valery, « L’uomo e la conchiglia », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, pp. 76,77.
[29] Charles Baudelaire, « Correspondances », in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 1983, p. 16-18.
[30] Paul Valery, « L’Angelo », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, milano 1988, pp. 101-103.
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