Ottimi spunti di partenza per affrontare Michel Foucault collegato a Nietzsche e Spinoza.
LexMat
Da "http://lalanternadidiogene.wordpress.com/2013/08/22/verita-sapere-e-potere/" :
Verità, sapere e potere
Conoscenza e verità sono su due piani differenti: la seconda non è unica e non è il punto di arrivo della prima.
Come dice Nietzsche: La verità non è […] qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia "in sé" fisso e determinato. È una parola per la "volontà di potenza".
Verità non è dunque qualcosa da scoprire, ma è un prodotto che dona il proprio nome all’intero processo dei rapporti tra le volontà di sapere e di potenza.
Da questo deriva una considerazione importante: la verità è solamente un evento frutto della volontà e così pure il soggetto, a causa dell’ "artificialità" dello schema conoscitivo soggetto-oggetto.
Foucault non intende rinunciare all’idea di verità, ma proporre una concezione nuova del termine.
Questo lo si può constatare dall’impegno politico e sociale di cui il filosofo si era fatto carico, senza mai rinunciare a dire cosa, secondo la sua opinione, fosse vero.
E’ l’atteggiamento tipico di Socrate e Diogene che, con la loro parrhesia, sconvolgono la società in cui vivono mettendo in discussione i fondamenti (che non sono null’altro che effetti delle relazioni di potere) su cui poggia la stessa polis.
Dalle stesse parole di Foucault: Non è esattamente l’atteggiamento dell’εποχή, dello scetticismo, della sospensione di tutte le certezze o di tutte le posizioni tetiche della verità.
È un atteggiamento che consiste, in primo luogo, nel dirsi che nessun potere va da sé […], che nessun potere, per conseguenza, merita di essere accettato fin dall’inizio.
Come accennato prima, sapere e potere sono intimamente legati.
Essi sono strumento ed effetto del dominio sull’uomo, il cui sistema prevede al suo interno l’uomo come un oggetto in un campo epistemico.
Il sapere-potere non ha solamente una funzione repressiva.
Se fosse capace solamente di "dire no", perderebbe la forza che rappresenta il suo nome.
La caratteristica più importante del potere è che, disciplinando, oltre a creare obbedienza produce il reale, ovvero il sapere sul corpo e dunque l’identità dell’individuo.
Un esempio eclatante è quello ripreso da Foucault nei tre volumi sulla "Storia della sessualità"; è un tema da sempre al centro di molte discipline: religione, psicologia, pedagogia, medicina, psichiatria ne hanno parlato, hanno costruito un certo sapere intorno alla sessualità che contestualmente ha modellato le menti.
Il soggetto è dunque tale poiché assoggettato al potere.
Il potere non è localizzabile in un luogo unico e preciso, come potrebbe essere il potere istituzionalizzato.
Esso coincide invece con la molteplicità dei rapporti di forza che si intrecciano.
Il potere è relazione di forze tra individui e la società ne è l’insieme.
Questa nasce dalla continua situazione di scontro e assoggettamento tra volontà di potere poiché l’uomo è un essere polemico prodotto da queste stesse forze.
L’azione del potere non è confinata nelle alte sfere della politica, bensì è radicata nel corpo.
Qui, a livello della biopolitica si ha il vero controllo e dominio nella gestione e trasformazione della vita stessa in modo capillare.
Il potere è dappertutto perché viene da ogni dove.
Al polo opposto della relazione di potere sta la resistenza.
Il dominio esercitato sul corpo incontra il proprio limite in essa, senza la quale non potrebbe però nemmeno esistere: nel rapporto di potenza sono presenti due parti che cercano di sopraffarsi a vicenda; se una smette di agire, svanisce anche il rapporto, il quale si trasforma in passiva obbedienza unilaterale.
La resistenza è dunque un’alternativa alla pressione del potere, sebbene rischi spesso di fare il suo stesso "gioco".
Date le caratteristiche del "biopotere", essa si può configurare solo come resistenza locale e circoscritta, come ricerca delle pratiche di libertà che permettano un “ri-soggettamento” e non siano passivo assoggettamento.
Da "http://rebstein.wordpress.com/2013/02/03/foucault-pensare-la-storia-della-verita-con-nietzsche/" :
Foucault: pensare la storia della verità con Nietzsche
di Giuseppe Zuccarino
[...]
Nella lezione successiva, del 16 dicembre 1970, Foucault conclude la
delineazione del modello aristotelico.
A suo giudizio, esso, per poter
funzionare, deve presupporre la verità, alla quale viene assegnato il
ruolo di assicurare il passaggio dal desiderio alla conoscenza; ed è
sempre la verità a far sorgere, dalla connessione di questi due
elementi, l’identità del soggetto.
Ma esiste, nella storia della
filosofia, qualcuno che abbia sviluppato al massimo grado tale modello?
Secondo Foucault, si tratta di Spinoza.
Per dimostrarlo, egli cita un
passo dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto:
«Decisi
infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e
condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo
fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta
scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Spinoza sottolinea, più ancora del desiderio di conoscenza, quello di
felicità, e solo successivamente mostra la funzione cardine della
verità, che è nel contempo fonte di conoscenza e di gioia.
In tal modo
egli si spinge un po’ oltre Aristotele, pur senza voler sottoporre il
paradigma teorico ideato da quest’ultimo ad una contestazione radicale.
A svolgere tale ruolo, secondo Foucault, provvede qualcun altro.
Ecco come, e da chi, viene elaborato il modello alternativo:
«In La gaia scienza,
Nietzsche definisce un insieme di rapporti completamente diverso: – la
conoscenza è un’“invenzione” dietro cui si trova qualcosa che è del
tutto differente da essa: un gioco d’istinti, d’impulsi, di desideri, di
paura, di volontà d’appropriazione.
È sulla scena in cui questi lottano
che la conoscenza ha modo di prodursi; – si produce non come effetto
della loro armonia, del loro felice equilibrio, bensì del loro odio, del
loro compromesso incerto e provvisorio, di un patto fragile che essi
sono sempre pronti a tradire.
La conoscenza non è una facoltà
permanente, bensì un evento, o almeno una serie di eventi; – è sempre
serva, dipendente, interessata (non a se stessa, ma a quel che è
suscettibile di interessare all’istinto o agli istinti che la dominano);
– e se si dà come conoscenza della verità, è perché produce la verità,
tramite il gioco di una falsificazione prima, e sempre rinnovata, che
pone la distinzione tra il vero e il falso».
È
chiaro che, dal punto di vista di Foucault, tali posizioni nietzschiane
sono condivisibili, e tuttavia, come abbiamo anticipato, egli ha
ritenuto strategicamente inopportuno dichiararlo in maniera netta nella
lezione inaugurale.
Certo, anche in L’ordre du discours egli si richiamava, en passant, a tutti coloro che hanno rimesso in questione la volontà di verità, «da Nietzsche ad Artaud a Bataille».
Ed è vero altresì che evocava indirettamente il filosofo tedesco quando
parlava di ricerche da condurre secondo una prospettiva genealogica.
Resta però il fatto che, in quel testo, Foucault non assegnava alle
idee di Nietzsche la funzione di un punto di riferimento essenziale.
Sembra dunque lecito interpretare le lezioni successive come un secondo
«discorso sul metodo».
Del resto, coloro che conoscono l’insieme delle
sue opere non possono sorprendersi: infatti, fin dal primo libro
importante, quello sulla storia della follia, egli aveva dichiarato di
voler porre il proprio lavoro «sotto il sole della grande ricerca
nietzschiana».
Ma torniamo alla lezione del 16 dicembre, e dunque alla
contrapposizione fra i due modelli teorici.
Secondo Foucault, nel suo
sforzo di oltrepassare i limiti della conoscenza e di portarsi in una
specie di esteriorità ad essa, Nietzsche si espone a un’obiezione di
tipo kantiano: «O ciò che si dice sulla conoscenza è vero, ma questo può
accadere solo all’interno della conoscenza. Oppure si parla fuori dalla
conoscenza, ma allora nulla permette di affermare che ciò che si dice è
vero».
Per uscire dal dilemma, esiste una sola
via: quella che conduce a negare la coappartenza di verità e conoscenza.
Infatti, mentre Kant postulava nel contempo una verità inaccessibile e
una conoscenza limitata, Nietzsche procede a una «disimplicazione» dei
due elementi.
Ricordiamo che il confronto tra questi filosofi ha radici
lontane per Foucault.
Già nella sua introduzione all’Antropologia
kantiana, lungo saggio del 1961 rimasto inedito fino a pochi anni fa,
egli stabiliva il nesso: «Quale forma di accecamento ci ha impedito di
vedere che l’articolazione autentica del Philosophieren era di
nuovo presente, e sotto una forma ben più vincolante, in un pensiero che
non aveva forse esso stesso sottolineato nel modo più esatto ciò che
conservava in sé di filiazione e di fedeltà nei confronti del vecchio
“Cinese di Königsberg”? Bisognerebbe probabilmente capire cosa significa
“filosofare a colpi di martello”, cogliere con uno sguardo iniziale che
cos’è il Morgenrot, comprendere ciò che torna a noi
nell’Eterno Ritorno, per vedervi la ripetizione autentica, in un mondo
che è il nostro, di quello che, per una cultura già lontana, era la
riflessione sull’a priori, l’originario e la finitudine».
Non è dunque Kant ma piuttosto Spinoza a costituire l’avversario più
temibile, proprio in quanto «lega nella maniera più rigorosa la verità e
la conoscenza».
Nietzsche, che si propone
all’opposto di separarle, deve pertanto sbarazzarsi di Spinoza, a cui
pure sa di essere affine come pensatore.
Lo fa in
vari modi, ossia mostrando che «conoscere è detestare […], poiché si
conosce per dominare, per prevalere», che lo sviluppo storico della
conoscenza è guidato «da una regola di volontà», e infine che «dietro
l’atto stesso della conoscenza, dietro il soggetto che conosce nella
forma della coscienza, si dispiega la lotta degli istinti, degli io
parziali, delle violenze e dei desideri».
Foucault ha in mente un preciso passo della Gaia scienza, nel quale si legge: «Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere! dice Spinoza, con quella semplicità e sublimità che è nel suo carattere.
Ciò nondimeno: che cos’è in ultima analisi questo intelligere
se non la forma in cui appunto ci diventano a un tratto avvertibili
questi tre fatti?
Un risultato dei tre diversi e fra loro contraddittori
impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare?
Prima che sia
possibile un conoscere, ognuno di questi impulsi deve avere già espresso
il proprio unilaterale punto di vista sulla cosa o sul fatto: in
seguito nasce il conflitto tra queste unilateralità, e a partire da esso
talora un termine medio, una pacificazione […].
Noi, che siamo
consapevoli soltanto delle ultime scene di conciliazione e della
liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro.
[…] Sì, forse esiste nelle nostre lotte interiori parecchio eroismo
nascosto, ma non certo qualcosa di divino, che riposa eternamente in sé,
come pensava Spinoza».
La lezione del 23 dicembre 1970 risulta assente dal manoscritto.
Tuttavia il curatore del volume, Daniel Defert, confrontando gli appunti
presi quel giorno da un’uditrice con quelli redatti da Foucault come
base per una conferenza tenuta nell’aprile 1971 all’università McGill di
Montréal in Canada, ritiene che vi sia una sostanziale
sovrapponibilità.
Dunque lo seguiremo, sostituendo la lezione mancante
con le note preparatorie per la conferenza, che ha un titolo a prima
vista paradossale: Comment penser l’histoire de la vérité avec Nietzsche sans s’appuyer sur la vérité.
Il filosofo francese prende avvio dalla citazione di un celebre
passo nietzschiano:
«In qualche angolo sperduto di quest’universo, il
cui bagliore si spande in innumerevoli sistemi solari, ci fu una volta
un astro su cui degli animali intelligenti hanno inventato la
conoscenza.
Fu l’istante più menzognero e arrogante della storia
universale».
Parlare della conoscenza come di
un’invenzione significa, secondo Foucault, varie cose: che essa non
rappresenta un istinto inerente alla natura umana, che non è preceduta
da un modello anteriore di carattere divino, che non si costituisce come
decifrazione della struttura stessa del mondo e che è il risultato di
un’operazione complessa.
Dopo aver ricordato il brano antispinoziano di
Nietzsche, il filosofo francese lo commenta sottolineando il carattere
crudele della conoscenza: «Non si tratta di riconoscersi nelle cose, ma
di tenersene a distanza, di proteggersi da esse (tramite il riso), di
differenziarsene attraverso la svalorizzazione (disprezzare), di volerle
respingere o distruggere (detestari)»; ma occorre tener presente che è in causa «una malvagità rivolta anche verso colui che conosce».
Per Nietzsche, la conoscenza non ha come scopo l’utile, ed è
crudele in quanto comporta la rinuncia alla comodità delle illusioni.
Essa va oltre l’apparenza, ma non per contrapporle l’essere autentico
(alla maniera platonica), bensì soltanto per stanare la potenza celata
dietro di essa.
Tale operazione non serve dunque a depurare la
conoscenza da elementi che ne sono parte integrante, come l’istinto,
l’interesse, il gioco, la lotta.
Del resto, è possibile conoscere solo
in maniera prospettica e incompiuta.
La verità costituisce un’invenzione
tardiva e segue un suo corso storico, non tuttavia nel senso che
occorre considerarla come la meta finale, da sempre promessa, di un
lungo sforzo dell’umanità per raggiungerla.
Già prima che si
manifestasse l’esigenza della verità, esistevano altre due forme del
conoscere: l’una finalizzata al bisogno di padroneggiare le cose, in
rapporto alle esigenze corporee e vitali; l’altra più trasgressiva e
malvagia, volta a scoprire per svelare e profanare.
Solo in seguito è
comparso l’atteggiamento ascetico, quello di chi aspira alla verità e
vorrebbe, neutralizzando il corpo, poter esaminare tutto con occhio
distaccato e imparziale.
Si tratta ovviamente di una speranza illusoria,
perché non esiste una conoscenza in sé, così come non esiste un
asettico soggetto di essa.
Scrive Nietzsche: «D’ora innanzi guardiamoci
meglio […] dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che ha
impiantato un “puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto
della conoscenza”; guardiamoci dalle prensili braccia di tali concetti
contraddittori come “pura ragione”, “assoluta spiritualità”, “conoscenza
in sé” […].
Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra un determinata cosa, quanti più
occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa
cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra
“obiettività”».
In effetti, spiega Foucault, la conoscenza si basa su una rete di
relazioni, su un gioco di diversità in se stesse inconoscibili.
Tuttavia
la volontà di potenza che agisce in noi ci induce a cercare delle
analogie all’interno di questa caotica molteplicità, ad imporre a certe
differenze un contrassegno che le unifichi, costituendole come cose,
rendendole pertanto utilizzabili e dominabili.
Solo a partire da qui
possono sorgere dati come il cogito o la coppia
soggetto-oggetto, che la filosofia tradizionale considerava invece il
fondamento stesso della conoscenza.
Simili dati sono, oltre che tardivi,
inconsistenti: «Nietzsche introduce in luogo e al posto del cogito
[…] il gioco del contrassegno e del volere, della parola e della
volontà di potenza, o ancora del segno e dell’interpretazione».
Se la conoscenza precede la verità, significa che esse appartengono a
due ordini diversi.
Afferma il filosofo tedesco: «La verità non è […]
qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia “in sé” fisso e determinato. È una parola per la “volontà di potenza”».
La tradizione credeva che la volontà avesse solo la funzione ancillare
di favorire l’accesso all’unica cosa essenziale, ossia la verità.
Nietzsche sconvolge tale quadro, sostenendo che la verità è una violenza
fatta alle cose, e che non perde nulla ad ammettere il proprio
carattere di finzione.
Per lui, dunque, «la volontà di potenza è il
punto d’esplosione in cui verità e conoscenza si separano e si
distruggono a vicenda».
Nella lezione del 17 marzo 1971, Foucault sintetizza in maniera
molto efficace i caratteri del paradigma proposto dal filosofo tedesco:
«Il modello nietzschiano vuole […] che la Volontà di sapere rinvii a
tutt’altro che alla conoscenza, che dietro la Volontà di sapere ci sia
non una sorta di conoscenza preliminare, che sarebbe qualcosa come la
sensazione, bensì l’istinto, la lotta, la Volontà di potenza. Il modello
nietzschiano vuole, inoltre, che la Volontà di sapere non sia legata originariamente alla Verità; vuole che la Volontà di sapere componga
illusioni, fabbrichi menzogne, accumuli errori, si dispieghi in uno
spazio di finzione in cui la verità non sarebbe essa stessa che un
effetto. Vuole, per di più, che la Volontà di sapere non sia data sotto
la forma della soggettività e che il soggetto sia soltanto una specie di
prodotto della Volontà di sapere, nel doppio gioco della Volontà di
potenza e della Verità. Infine, per Nietzsche, la Volontà di sapere non
suppone che una conoscenza esista già preliminarmente; la verità non è
data in anticipo, ma viene prodotta come un evento».
Cosa rimane di integro dopo i colpi di martello nietzschiani, e che
beneficio può trarre Foucault dal richiamarsi a questo modello teorico?
Egli non ha alcuna difficoltà a rispondere alla domanda.
A suo
giudizio, infatti, il metodo inaugurato da Nietzsche offre numerosi e
importanti vantaggi, in quanto permette: «– di parlare di segno e
d’interpretazione, della loro inscindibilità, al di fuori di una
fenomenologia; – di parlare di segni al di fuori d’ogni
“strutturalismo”; – di parlare d’interpretazione al di fuori d’ogni
riferimento a un soggetto originario; – di articolare le analisi dei
sistemi di segni sulle analisi delle forme di violenza e di dominio; –
di pensare la conoscenza come un processo storico prima di ogni
problematica della verità, e in modo più fondamentale che non nel
rapporto soggetto-oggetto».
Si può dunque concludere dicendo che, sia per Nietzsche che per
Foucault, non si tratta di negare (in una prospettiva scettica) l’idea
di verità in quanto tale, bensì di proporne una diversa concezione.
Ad
essere da loro valorizzata è una verità che occorre produrre anziché
credere di scoprire come preesistente, una verità passionale piuttosto
che freddamente oggettiva, una verità non settoriale ma tale da
coinvolgere l’intera esistenza.
Si capisce meglio, a questo punto,
perché il filosofo francese, pur indagando in maniera genealogica sul
costituirsi storico delle diverse forme della volontà di sapere, non
abbia mai cessato di combattere, anche nei modi della militanza
politica, per ciò che riteneva giusto e vero.
Così, nel corso tenuto al
Collège de France nel 1979-80, egli ha messo in chiaro la propria
posizione, precisando che essa implica una contestazione del potere
costituito più ancora che della verità: «Non è esattamente
l’atteggiamento dell’εποχή, dello scetticismo, della sospensione di
tutte le certezze o di tutte le posizioni tetiche della verità.
È un
atteggiamento che consiste, in primo luogo, nel dirsi che nessun potere
va da sé […], che nessun potere, per conseguenza, merita di essere
accettato fin dall’inizio».
In tal senso, appare significativo anche il fatto che egli abbia dedicato il suo ultimo corso all’esame della parrēsia
antica, ossia della volontà di dire il vero pure quando ciò conduceva a
sfidare le autorità pubbliche e le convenzioni sociali (come nei casi
di Socrate e dei cinici).
Il titolo di questo corso appare pertanto
emblematico, e si presta a riassumere un po’ tutto il percorso
intellettuale di Foucault: Le courage de la vérité.
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
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