Relazionato, Ripetitivo (ciclicamente infinito nel tempo) e Diverso (senza ripetizioni causali obbligate nello spazio).
Se si potesse viaggiare nel passato o nel futuro tutto diventerebbe un eterno presente, una immortalità dello spazio in un tempo sempre fisso e per cui "inesistente, senza discorso (epi), e senza senso (onto)". Non sarebbe possibile perchè sarebbe analogo al Nulla.
Tutto è fatto di relazioni e le relazioni sono il tutto.
Se scappi ti rincorri, ma ti vedresti cambiato e, nel senso psicologico/filosofico, pure e sempre in peggio.
Noi potremmo tornare come non tornare, dipenderebbe da fattori probabilistici immensi.
Ciò potrebbe parzialmente ammettere altre vite e fattori di reminiscenza.
Dio potrebbe anche esistere, ed essere pure sempre esistito, ma esso stesso sarebbe vincolato all'Universo anche se Onnipotente, in pratica non sarebbe in grado di creare soltanto il Nulla.
Gli stessi mondi alternativi, che possano esistere o meno (questione da risolvere...), dovrebbero sussistere a queste regole, in questi casi però essendo appunto alternativi non si arriverebbe a violare qualcosa nel voler viaggiare tra di essi ed esplorare altri vissuti proprio perchè comunque diversi.
Possiamo partire a capire l'Universo Spazio/Tempo ponendo degli assunti base "prioritari".
Esiste un qui ed ora, interpretabile temporalmente ma incontrovertibile fisicamente.
Sarebbe possibile il verificarsi di nuovo di un evento?
Certo, se non altro per il caso.
Caso che deriverebbe dall'assunto che siamo sempre esistiti per regole cicliche di creazione e morte dell'Universo/Multiverso.
Determinate regole potrebbero apparire sempre fisse ma proprio per il fatto che le relazioni si influenzano a vicenda il risultato potrebbe cambiare sempre.
E' tutto partito da un qualcosa?
No. SET, è "Sempre" "Esistito" "Tutto".
Esiste il Nulla?
No. Altrimenti nulla sarebbe potuto venire (paradosso fisico).
Il Nulla potrebbe essere creato?
No. Perchè è inesistente (paradosso linguistico).
Spiegare un Universo/Multiverso finito e che può anche implodere e riesplodere sarebbe più ammissibile di un qualcosa con un "bordo alla fine".
L'Universo che si ripiega su stesso curvandosi è infinito.
Nel senso che si potrebbe anche ritornare a re-incontrarsi se non fosse per il "fatto" che le nostre "rette-curve" non si potrebbero comunque incontrare mai per effetti di spostamenti spazio/tempo, per cui ci "scanseremmo" sempre.
LexMat
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
sabato 26 aprile 2014
venerdì 25 aprile 2014
Perché non possiamo pensare alla vita come se fosse una partita a scacchi
Questo vorrebbe dire che il gioco della vita non può e non deve essere totalmente razionale, senza anima, come fosse una guerra.
Per la prima parte che rende la figura di come un buon attacco sia anche una buona difesa, mi sembra identica a quella del gioco del biliardo, dove effettivamente (ma in maniera decisamente visibile nell'immediato, cioè dopo aver tirato il proprio colpo in maniera impeccabile) un ottimo colpo che porta a punteggio deve presupporre anche in lascito un'ottima posizione di difesa.
E come se nel comportarsi nel gioco della vita in un determinato modo, non causale, ma con cognizione di causa, e si spera anche di effetto, si possa scatenare una sorta di "Effetto Butterfy" positivo.
LexMat
Da "http://giulionapoleoni.blogspot.it/2010/07/perche-non-possiamo-pensare-alla-vita.html" :
Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi quando ero bambino.
All'inizio, naturalmente, perdevo sempre.
Poi, piano piano, ho cominciato a migliorare fino alla fatidica partita in cui sono riuscito a batterlo.
Nel periodo in cui stavo sensibilmente migliorando (quell'estate, ricordo, lessi L'idiota di Dostoevskij) a un certo punto mi sono reso conto di una cosa.
Se riuscivo a formulare un "piano di gioco", una strategia per arrivare alla vittoria o anche solo per guadagnare un pezzo, spesso capitava che le mosse fatte per realizzare quella strategia, mosse di attacco, fossero a mia insaputa anche mosse difensive che andavano a parare suoi piani di attacco nei miei confronti.
Giocando sempre con in mente un "piano" (che andava costantemente rivisto, aggiornato, riaggiustato) prevenivo possibili pericoli anche ignorandoli.
Ciò confermava quanto avevo letto nelle indicazioni preliminari di un antico manuale di scacchi (che sempre mio padre mi aveva messo in mano): l'autore raccomandava "Mai una mossa senza scopo!" (seguivano subito dopo considerazioni sul fatto che mosse casuali quasi certamente indeboliscono la propria posizione e costituiscono perdite di tempo di cui l'avversario può avvantaggiarsi).
Questa regola mi aveva subito affascinato, e avevo cominciato a pensare se fosse una regola che potesse valere anche per la vita in generale. In quel periodo, da ragazzo, ero ossessionato dal problema di individuare regole generali da seguire per vivere nel modo migliore.
La regola di vivere perseguendo un progetto o più semplicemente ponendosi degli obiettivi è certamente una regola degna di attenzione per chi sia alla ricerca di "formule" per un buon vivere.
Volendo seguire l'analogia con il gioco degli scacchi potremmo dire che se perseguiamo un progetto, se ci poniamo degli obiettivi e agiamo di conseguenza, le nostre azioni porteranno a uno sviluppo del nostro essere che potrà essere utile a rispondere anche a situazioni impreviste.
Molti anni dopo le prime esperienze scacchistiche di cui parlavo all'inizio, studiando filosofia e imbattendomi nelle teorie sull'azione (G.H. von Wright, Habermas, Bubner...) tornai a interessarmi della questione.
Aristotele definisce un'azione come un comportamento finalizzato a raggiungere un certo scopo.
Secondo von Wright agire significa provocare intenzionalmente un mutamento nel mondo.
Avere un'intenzione, un fine, sembra essere parte del concetto stesso di azione, e si può valutare un'azione in base all'efficacia con la quale riesce a realizzare il proprio scopo, oppure in base alla razionalità dello scopo rispetto a fini ulteriori (si apre qui tutto il discorso sulla razionalità pratica e sull'etica...).
Un'azione è razionale se realizza efficacemente il proprio scopo.
Uno scopo è razionale se è coerente con fini generali, cioè se rientra in un piano coerente di miglioramento delle proprie condizioni (e, meglio ancora, delle condizioni di tutto ciò che ci circonda...).
Per la prima parte che rende la figura di come un buon attacco sia anche una buona difesa, mi sembra identica a quella del gioco del biliardo, dove effettivamente (ma in maniera decisamente visibile nell'immediato, cioè dopo aver tirato il proprio colpo in maniera impeccabile) un ottimo colpo che porta a punteggio deve presupporre anche in lascito un'ottima posizione di difesa.
E come se nel comportarsi nel gioco della vita in un determinato modo, non causale, ma con cognizione di causa, e si spera anche di effetto, si possa scatenare una sorta di "Effetto Butterfy" positivo.
LexMat
Da "http://giulionapoleoni.blogspot.it/2010/07/perche-non-possiamo-pensare-alla-vita.html" :
Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi quando ero bambino.
All'inizio, naturalmente, perdevo sempre.
Poi, piano piano, ho cominciato a migliorare fino alla fatidica partita in cui sono riuscito a batterlo.
Nel periodo in cui stavo sensibilmente migliorando (quell'estate, ricordo, lessi L'idiota di Dostoevskij) a un certo punto mi sono reso conto di una cosa.
Se riuscivo a formulare un "piano di gioco", una strategia per arrivare alla vittoria o anche solo per guadagnare un pezzo, spesso capitava che le mosse fatte per realizzare quella strategia, mosse di attacco, fossero a mia insaputa anche mosse difensive che andavano a parare suoi piani di attacco nei miei confronti.
Giocando sempre con in mente un "piano" (che andava costantemente rivisto, aggiornato, riaggiustato) prevenivo possibili pericoli anche ignorandoli.
Ciò confermava quanto avevo letto nelle indicazioni preliminari di un antico manuale di scacchi (che sempre mio padre mi aveva messo in mano): l'autore raccomandava "Mai una mossa senza scopo!" (seguivano subito dopo considerazioni sul fatto che mosse casuali quasi certamente indeboliscono la propria posizione e costituiscono perdite di tempo di cui l'avversario può avvantaggiarsi).
Questa regola mi aveva subito affascinato, e avevo cominciato a pensare se fosse una regola che potesse valere anche per la vita in generale. In quel periodo, da ragazzo, ero ossessionato dal problema di individuare regole generali da seguire per vivere nel modo migliore.
La regola di vivere perseguendo un progetto o più semplicemente ponendosi degli obiettivi è certamente una regola degna di attenzione per chi sia alla ricerca di "formule" per un buon vivere.
Volendo seguire l'analogia con il gioco degli scacchi potremmo dire che se perseguiamo un progetto, se ci poniamo degli obiettivi e agiamo di conseguenza, le nostre azioni porteranno a uno sviluppo del nostro essere che potrà essere utile a rispondere anche a situazioni impreviste.
Molti anni dopo le prime esperienze scacchistiche di cui parlavo all'inizio, studiando filosofia e imbattendomi nelle teorie sull'azione (G.H. von Wright, Habermas, Bubner...) tornai a interessarmi della questione.
Aristotele definisce un'azione come un comportamento finalizzato a raggiungere un certo scopo.
Secondo von Wright agire significa provocare intenzionalmente un mutamento nel mondo.
Avere un'intenzione, un fine, sembra essere parte del concetto stesso di azione, e si può valutare un'azione in base all'efficacia con la quale riesce a realizzare il proprio scopo, oppure in base alla razionalità dello scopo rispetto a fini ulteriori (si apre qui tutto il discorso sulla razionalità pratica e sull'etica...).
Un'azione è razionale se realizza efficacemente il proprio scopo.
Uno scopo è razionale se è coerente con fini generali, cioè se rientra in un piano coerente di miglioramento delle proprie condizioni (e, meglio ancora, delle condizioni di tutto ciò che ci circonda...).
Ma chiediamoci: fino a che punto può essere utile agire sempre
in modo razionale? Si può applicare la regola generale degli scacchi
"Mai una mossa senza scopo!" alla propria vita, trasformandola in "Mai
un'azione senza scopo!"??
A volte non ci è chiaro lo scopo per cui stiamo facendo qualcosa, ma è meglio così. In certi contesti lasciarsi "guidare dall'istinto" o "dall'intuizione" può essere meglio che farsi guidare dalla ragione. Quali sono questi contesti?
Pensiamo a cosa succederebbe se facendo l'amore pretendessimo di sapere esattamente perché facciamo una cosa piuttosto che un'altra.
Un altro contesto nel quale l'agire razionalmente può essere bloccante o controproducente è quello di una rilassata e intima conversazione tra amici o tra partner, dove il bello è proprio il "lasciarsi portare" dalle associazioni mentali, avendo anche la capacità di seguire quelle dell'altro (come del resto anche nel fare l'amore il bello non è solo il seguire i propri desideri ma anche il riuscire a sentire e seguire quelli del partner).
Qualcosa di analogo accade nella comunicazione fra paziente e terapeuta in una psicoterapia a orientamento psicoanalitico o più semplicemente nel cosiddetto "ascolto attivo" proprio di tutte le relazioni d'aiuto.
C'è poi tutto un ambito di situazioni nelle quali avere un obiettivo preciso può essere controproducente.
Penso alla creazione artistica, ma anche in certa misura alla ricerca scientifica. In questi contesti, per quel che ne sappiamo, si parte spesso con idee vaghe, intuizioni, problemi da risolvere di cui non si conosce la soluzione.
Si lavora proprio su questa vaghezza, sull'idea di qualcosa che vogliamo comunicare ma che non è a noi stessi chiaro, su un enigma che ci tormenta, su un nodo che non riusciamo a sciogliere.
La soluzione, l'opera compiuta, la si costruisce strada facendo, senza sapere prima esattamente dove ci condurrà il nostro lavoro (l'aveva già teorizzato Platone quando si era posto il problema di rispondere alla questione sofistica sulla impossibilità della ricerca di conoscenza: se so già non ho bisogno di conoscere, se non so non so nemmeno cosa cercare, e aveva risposto con la sua teoria del conoscere come ricordare...).
Un ultimo (ma non per questo meno importante!) contesto è quello del dialogo euristico, così definito da Franca D'Agostini in Verità avvelenata: "si ha un dialogo euristico quando A sostiene p e B sostiene non-p, e A e B sono interessati all'accertamento della verità, dunque si confrontano non tanto per avere ragione quanto per sapere chi ha ragione, e qual è la ragione migliore".
Tale tipo di dialogo è essenziale quando sono in gioco dispute sui valori, differenze culturali che portano a confronti fra culture. Sono temi tipici delle teorie sulla gestione nonviolenta dei conflitti (Gandhi, Capitini, Galtung, Patfoort e altri) ma anche della tradizione ermeneutica (della quale sempre Franca D'Agostini ha "distillato" alcune regole fondamentali nel suo recente Verità avvelenata).
Forse allora potremmo tornare alla questione della regola "Mai una mossa senza scopo!" e dire che se vogliamo mantenerla per applicarla alla vita dobbiamo trasformarla in "Mai un'azione senza consapevolezza del senso!".
Nei rapporti liberi e creativi con gli altri, nei contesti dove esercitiamo la nostra libertà e creatività possiamo (dobbiamo) abbandonare l'idea di uno scopo prefissato, di un chiaro piano d'azione, e accettare l'idea di un'azione senza scopo, o con uno scopo non chiaro, pur avendo però ben chiaro il senso di quello che stiamo facendo, anche proprio per distinguerlo dai contesti nei quali invece uno scopo preciso e un'azione razionale rispetto ad esso sono fondamentali.
Più in generale quindi è importante cercare sempre di riconoscere le esperienze che si stanno vivendo: l'essere presenti, dentro le situazioni, in sintonia o in contrasto con il contesto, ma essere comunque in rapporto con ciò che ci circonda e con noi stessi.
A volte non ci è chiaro lo scopo per cui stiamo facendo qualcosa, ma è meglio così. In certi contesti lasciarsi "guidare dall'istinto" o "dall'intuizione" può essere meglio che farsi guidare dalla ragione. Quali sono questi contesti?
Pensiamo a cosa succederebbe se facendo l'amore pretendessimo di sapere esattamente perché facciamo una cosa piuttosto che un'altra.
Un altro contesto nel quale l'agire razionalmente può essere bloccante o controproducente è quello di una rilassata e intima conversazione tra amici o tra partner, dove il bello è proprio il "lasciarsi portare" dalle associazioni mentali, avendo anche la capacità di seguire quelle dell'altro (come del resto anche nel fare l'amore il bello non è solo il seguire i propri desideri ma anche il riuscire a sentire e seguire quelli del partner).
Qualcosa di analogo accade nella comunicazione fra paziente e terapeuta in una psicoterapia a orientamento psicoanalitico o più semplicemente nel cosiddetto "ascolto attivo" proprio di tutte le relazioni d'aiuto.
C'è poi tutto un ambito di situazioni nelle quali avere un obiettivo preciso può essere controproducente.
Penso alla creazione artistica, ma anche in certa misura alla ricerca scientifica. In questi contesti, per quel che ne sappiamo, si parte spesso con idee vaghe, intuizioni, problemi da risolvere di cui non si conosce la soluzione.
Si lavora proprio su questa vaghezza, sull'idea di qualcosa che vogliamo comunicare ma che non è a noi stessi chiaro, su un enigma che ci tormenta, su un nodo che non riusciamo a sciogliere.
La soluzione, l'opera compiuta, la si costruisce strada facendo, senza sapere prima esattamente dove ci condurrà il nostro lavoro (l'aveva già teorizzato Platone quando si era posto il problema di rispondere alla questione sofistica sulla impossibilità della ricerca di conoscenza: se so già non ho bisogno di conoscere, se non so non so nemmeno cosa cercare, e aveva risposto con la sua teoria del conoscere come ricordare...).
Un ultimo (ma non per questo meno importante!) contesto è quello del dialogo euristico, così definito da Franca D'Agostini in Verità avvelenata: "si ha un dialogo euristico quando A sostiene p e B sostiene non-p, e A e B sono interessati all'accertamento della verità, dunque si confrontano non tanto per avere ragione quanto per sapere chi ha ragione, e qual è la ragione migliore".
Tale tipo di dialogo è essenziale quando sono in gioco dispute sui valori, differenze culturali che portano a confronti fra culture. Sono temi tipici delle teorie sulla gestione nonviolenta dei conflitti (Gandhi, Capitini, Galtung, Patfoort e altri) ma anche della tradizione ermeneutica (della quale sempre Franca D'Agostini ha "distillato" alcune regole fondamentali nel suo recente Verità avvelenata).
Forse allora potremmo tornare alla questione della regola "Mai una mossa senza scopo!" e dire che se vogliamo mantenerla per applicarla alla vita dobbiamo trasformarla in "Mai un'azione senza consapevolezza del senso!".
Nei rapporti liberi e creativi con gli altri, nei contesti dove esercitiamo la nostra libertà e creatività possiamo (dobbiamo) abbandonare l'idea di uno scopo prefissato, di un chiaro piano d'azione, e accettare l'idea di un'azione senza scopo, o con uno scopo non chiaro, pur avendo però ben chiaro il senso di quello che stiamo facendo, anche proprio per distinguerlo dai contesti nei quali invece uno scopo preciso e un'azione razionale rispetto ad esso sono fondamentali.
Più in generale quindi è importante cercare sempre di riconoscere le esperienze che si stanno vivendo: l'essere presenti, dentro le situazioni, in sintonia o in contrasto con il contesto, ma essere comunque in rapporto con ciò che ci circonda e con noi stessi.
Sempre avanti e per tutti
Se non è possibile tornare indietro, è però possibile e doveroso, andare avanti.
Non si possono riportare in vita le persone o cambiare gli eventi del passato, ma se ne possono esaudire i desideri sognati e riposti in noi, e ricreare positivamente quelle condizioni, per costruire un futuro nuovo e finalmente sereno.
In questo modo i nostri avi sarebbero vendicati dalle nostre e loro malefatte, noi avremmo un riscatto dai rimorsi e dai rimpianti ed i nostri figli vivrebbero in un mondo migliore.
Non pensare più alla partenza o alla strada percorsa, pensa a raggiungere il traguardo.
LexMat
Non si possono riportare in vita le persone o cambiare gli eventi del passato, ma se ne possono esaudire i desideri sognati e riposti in noi, e ricreare positivamente quelle condizioni, per costruire un futuro nuovo e finalmente sereno.
In questo modo i nostri avi sarebbero vendicati dalle nostre e loro malefatte, noi avremmo un riscatto dai rimorsi e dai rimpianti ed i nostri figli vivrebbero in un mondo migliore.
Non pensare più alla partenza o alla strada percorsa, pensa a raggiungere il traguardo.
LexMat
Intervista a Popper - Rai
Da "http://www.emsf.rai.it/dati/interviste/In_78.htm" :
1 Professor Popper, Lei è molto conosciuto per le sue idee sul metodo scientifico, che sono diametralmente opposte alla concezione, ancora oggi prevalente, secondo la quale il metodo scientifico consisterebbe nel metodo induttivo. Può illustrarci le Sue vedute sul metodo della scienza?
Secondo la mia personale concezione del metodo scientifico, non c'è effettivamente alcun bisogno di ricorrere all'induzione o a cose del genere. Per illustrare il metodo che io considero il vero metodo che usiamo per indagare la natura, partirei da Kant, il quale nella seconda edizione della Critica della ragion pura, più esattamente nella "Prefazione" alla seconda edizione, dice cose che trovo eccellenti. Cito: "Allorché Galilei fece rotolare lungo un piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da lui stesso prestabilito, e Torricelli fece sopportare all'aria un peso, da lui precedentemente calcolato pari a quello di una colonna d'acqua nota [...] una gran luce risplendette per tutti gli indagatori della natura. Si resero allora conto che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno, e compresero che essa deve procedere innanzi coi princìpi dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, colle dande. In caso diverso le nostre osservazioni casuali, fatte senza un piano preciso, non trovano connessione in alcuna delle leggi necessarie di cui invece la ragione va alla ricerca ed ha impellente bisogno" (Critica della ragion pura, B XII-XIII, tr. it. Torino, UTET, 1967, p. 42).
È una citazione abbastanza lunga, ma importante soprattutto là dove Kant parla di Galilei e Torricelli e degli esperimenti da loro architettati, affermando che i filosofi della natura - cioè quelli che noi oggi chiamiamo fisici - compresero che noi dobbiamo costringere la natura a rispondere alle nostre domande, liberamente scelte da noi, piuttosto che aggrapparci alle gonne di madre natura e aspettare che sia lei a guidarci. Osservazioni fatte a casaccio, senza un piano elaborato in anticipo, non possono essere infatti connesse da leggi, mentre sono proprio le leggi ciò di cui la ragione va alla ricerca.
Questa concezione l'ho chiamata "teoria del faro", in quanto siamo noi a gettare, per così dire, dei fasci di luce sulla natura, ed è del tutto differente da quella che suppone che sia la natura a darci informazioni secondo il suo piacere. In breve, il metodo che tale teoria prefigura è il metodo ipotetico. Non per altro, la mia precedente citazione da Kant dimostra quanto bene egli avesse compreso che dobbiamo presentarci davanti alla natura armati delle nostre ipotesi, cercando risposte alle nostre domande, o, meglio ,ai nostri problemi. Infatti, noi lavoriamo sempre con ipotesi e con problemi. Senza il loro aiuto, potremmo solo fare osservazioni casuali, fuori da qualsiasi piano, incapaci pertanto di condurci alla formulazione di una legge naturale. In altre parole, già Kant vide con estrema chiarezza che la storia della scienza ha confutato quell'idea del metodo - che è un dogma infondato - stando alla quale noi dovremmo partire dalle osservazioni e derivare poi da esse le nostre teorie. In realtà, facciamo qualcos'altro: partiamo da un problema, con l'aiuto di un'ipotesi. È questo - io credo - il punto decisivo.
2 Ma, se questo è il metodo della ricerca scientifica, non potremmo spingerci ancor oltre, affermando che tutti coloro che apprendono qualcosa - anche la gente comune e persino gli animali o i bambini - di fatto adottano esattamente lo stesso metodo ipotetico che usano gli scienziati? Possiamo cioè sostenere che esso sia il metodo con cui in generale si arriva ad apprendere?
È esattamente ciò che penso: cioè che il metodo per tentativi ed errori, il metodo ipotetico-deduttivo, sia un metodo universale.
Se osserviamo un coleottero alla ricerca di cibo, lo vediamo muovere tutt'intorno le sue antenne: ogni movimento corrisponde all'ipotesi di poter trovare cibo, o qualsiasi altra cosa stesse cercando, in una certa direzione; quando poi muove le sue antenne in un'altra direzione, questa è una nuova ipotesi, cioè che quanto esso cerca si trovi in quest'altra direzione, che esplora, come se avvertisse che quella è la via giusta per trovare qualcosa. Talvolta ho fatto ricorso alla famosa storiella dell'uomo nero che cerca in una stanza buia un cappello nero che potrebbe non essere lì. Che cosa può fare? Può solo muovere la mano in una certa direzione e vedere se per caso il cappello è lì. Oppure muovere l'altra mano in un'altra direzione: ognuna di queste azioni corrisponde a un'ipotesi: precisamente che il cappello nero si trovi proprio in un punto o nell'altro. Il coleottero, in altre parole, deve essere attivo: non può aspettarsi che quel che cerca gli venga incontro o gli si mostri da solo. Tutto ciò che può fare è cercare attivamente, sfruttando il movimento. Quest'ultimo, infatti, è estremamente importante: è ancora più importante della vista. Ad esempio, un cieco, muovendosi, può trovare degli oggetti. Anche il guardarsi intorno equivale a muovere gli occhi in certe direzioni, che sono quelle in cui si cerca. La storiella dell'uomo nero rappresenta dunque bene la situazione in cui si trova chiunque non conosca già, ma voglia conoscere. La stessa situazione vale per tutti noi quando cerchiamo qualcosa e, soprattutto, per gli scienziati.
Anche i bambini che imparano la loro lingua madre, si comportano sostanzialmente nello stesso modo, ovvero per tentativi. Fanno delle congetture e, quando sbagliano, vengono corretti dalle persone che insegnano loro la lingua. Da bambini, infatti, tutti abbiamo dovuto imparare la lingua dagli adulti, in quanto essa esisteva già e non c'era altro da fare che impadronirsene. Per riuscirvi, bisogna prima di tutto imparare a produrre i suoni. Solo successivamente - e qui cominciano i primi tentativi e la conseguente selezione - proviamo a riprodurre precisamente i suoni emessi dai genitori - o comunque dagli adulti che ci parlano attorno. Nel cercare di riprodurre questi suoni, commettiamo degli errori che, in parte, correggeremo da soli, in parte verranno corretti dalle persone con le quali parliamo, che ci ripetono in forma esatta le parole che stiamo tentando di pronunciare.
Altrettanto vale per l’apprendimento delle regole della grammatica. Immaginiamo un bambino che stia imparando il participio passato dei verbi. Sa già che il participio del verbo "sedere" è "seduto" e del verbo "vendere" è "venduto"; pertanto, dinanzi al verbo "ledere", dirà "leduto" (invece di "leso") e dinanzi al verbo "fondere" dirà "fonduto" (invece di "fuso"). Gli adulti aiutano i piccoli a eliminare questi errori.
Il nostro modo di apprendere mediante tentativi ed errori consiste proprio in questo, vale a dire nell'eliminare gli errori commessi. I tentativi sono ipotesi e l'eliminazione degli errori è il modo in cui ci adattiamo, nel nostro esempio, alla lingua esistente oppure, come avviene in altri casi, all'ambiente circostante, e così via.
In tutti i casi, si parte sempre proponendo soluzioni ipotetiche e si passa quindi alla prova di queste ipotesi, al loro controllo attraverso la prova. Non a caso, l'ho chiamato il metodo per tentativi ed errori, giacché qui l'errore gioca un ruolo molto importante: è proprio l'errore, infatti, a farci eliminare determinate ipotesi.
Anche per questo, non è solo un metodo fra tanti, bensì il metodo per risolvere tutti i problemi in generale: quando si ha un problema, ci si riflette sopra, si ha un'idea, un'ipotesi che va sottoposta a controllo. Questo può risultare negativo: in tal caso, dobbiamo proporre una nuova ipotesi e sottoporla ancora a controllo, che potrà essere a sua volta negativo, e così via, finché non troviamo un'ipotesi che regga alla prova. Ovviamente, se siamo fortunati! Ripensiamo al coleottero: l'eventuale insuccesso delle sue ricerche è puntualmente espresso dal perdurante movimento delle sue antenne. Così pure nel caso della storiella dell'uomo nero: forse costui troverà davvero un cappello e, nell'indossarlo, penserà: "questo deve essere il mio cappello nero". Tuttavia non potrà esserne ancora certo: nel buio di quella stanza tale potrebbe apparire, infatti, anche un cappello bianco. Pertanto, il metodo di procedere per congetture, porta in un certo senso solamente ad ipotesi, o, forse, ad ipotesi migliori.
Il movimento è fondamentale anche nel caso dell'apprendimento della lingua. Qui i movimenti riguardano la lingua, le labbra e così via. Solo con il tempo apprendiamo che si tratta di movimenti di un genere diverso da quelli che facciamo con le mani, sebbene anch'essi costituiscano, comunque, delle ipotesi conoscitive sull'adeguatezza di quei suoni, in quanto reazioni appropriate a ciò che i genitori dicono e indicano.
3 Qualcuno però potrebbe sostenere che un metodo del genere non abbia molto a che vedere con la scienza, che dopotutto è l'oggetto della nostra conversazione. Esso non sembra affatto una procedura particolarmente metodica: noi non pensiamo, infatti, a un coleottero, e nemmeno a un bambino, come ad animali eminentemente razionali, che aggrediscono i loro problemi mediante un pensiero metodicamente strutturato ed un piano ben organizzato. Di loro si direbbe, piuttosto, che si affannano sui problemi sino a ottenere graduali miglioramenti, ma solo se - come ha detto anche lei - sono fortunati! Cos'è, dunque, che caratterizza in modo specifico la scienza?
Innanzitutto, se siamo scienziati sul serio, i nostri problemi ce li scegliamo con cura tra quelli che abbiamo ricevuto dalla cosiddetta situazione problematica della scienza. In altri termini, generalmente partiamo da problemi già affrontati da altri. A volte, invece, capita la fortuna d’imbattersi in un problema completamente originale: un'esperienza davvero molto eccitante, che rappresenta di per sé una specie di scoperta. Vi è dunque qualcosa di inconscio nel tentativo di formulare, di non mollare od inseguire un problema. Va detto, naturalmente, che molto spesso il problema da noi affrontato cambia aspetto proprio mentre ci stiamo lavorando: capita allora di rendersi conto che non è esattamente il problema che dovremmo indagare, o quello più promettente, e così via. In realtà, persino nella scelta del problema noi adottiamo il metodo per tentativi ed errori. A volte, lo ricaviamo dalla nostra esperienza di insegnamento. Spesso capita poi, come s'è detto, che il problema muti mentre ci stiamo lavorando sopra: così lo capiamo meglio, sempre procedendo per tentativi ed errori.
L'altro elemento che, a mio avviso, è realmente decisivo nella scienza - e molto spesso anche in ambito prescientifico - è l'atteggiamento mentale di critica consapevole. Il coleottero non ama sbagliare, non ama muovere le proprie antenne verso il muro che impedisce la sua esplorazione. Il vero metodo critico, ossia consapevolmente critico, consiste, invece, nel proporsi di stabilire se un'ipotesi non sia per davvero errata. Abbiamo, dunque, un problema; formuliamo un'ipotesi e cerchiamo di scoprirne i punti deboli, sempre procedendo per tentativi ed errori. Così vi riflettiamo su e ipotizziamo certe situazioni in cui, forse, la nostra ipotesi non funzionerà. Poi tentiamo di realizzare tali circostanze attraverso esperimenti opportuni. Riusciamo così a scoprire se la nostra ipotesi non sia, per caso, estremamente debole. Come? Lasciando che condizioni sperimentali sempre nuove mettano alla prova la nostra ipotesi, "torturandola" - per così dire - attraverso tentativi ed errori. Ecco in cosa consiste il metodo critico che esiste, credo, solo a livello umano: nel mettersi alla ricerca dei propri errori attraverso un severo e consapevole controllo.
4 Dunque, nella scienza, come in altri ambiti, noi andiamo alla ricerca della verità attraverso l'eliminazione degli errori. Ma in quale senso preciso il metodo per tentativi ed errori è legato alla ricerca della verità?
Noi aspiriamo alla verità, e poiché non possiamo mai essere sicuri di averla davvero trovata, andiamo alla ricerca dei punti deboli delle nostre ipotesi, cercando di eliminare i possibili errori, i quali ci mostrano che quanto abbiamo raggiunto non è la verità, che la nostra ipotesi non è vera, ma falsa. In altri termini, tentiamo di falsificare le nostre stesse ipotesi, cioè di dimostrarne la falsità, di confutarle. In questo consiste il metodo consapevolmente critico. Lo scienziato serio, che è sempre critico, non assume un'ipotesi sperando che sia vera, ma con la determinazione di controllarla per stabilire se non sia invece falsa.
5 Ma alcuni potrebbero obiettare che è piuttosto strano parlare di verità quando si tratta di indovinare per mezzo di ipotesi, perché tentativi del genere vengono considerati di solito speculativi e non conclusivi, mai comunque veri.
Se ipotizzo che domani pioverà, questa è ovviamente una congettura incerta. Può accadere che domani piova, nel qual caso la congettura sarà vera; ma può anche accadere che domani non piova, e allora la mia ipotesi sarà falsa. Qui tutto è molto semplice, dall'inizio sino al momento in cui la congettura cessa di essere tale: domani, infatti, o pioverà o non pioverà, ma, prima di allora, l'ipotesi resterà incerta. Consideriamo ora un'ipotesi più generale: per esempio, quella secondo la quale "piove sempre quando io ho qualche giorno di vacanza". Questa ipotesi, non solo è un'ipotesi più generale, ma contiene in sé il termine "sempre". È davvero molto difficile che io, controllandola, possa stabilire che è vera; ma, ciò nonostante, potrebbe anche darsi che piova davvero ogni qualvolta ho qualche giorno di vacanza. Anche ammesso che ciò sia vero, l'ipotesi in quanto tale non lo sarà ugualmente, perché è talmente generale da non potersi confermare come vera dopo un numero finito qualsiasi di osservazioni (una, due, tre, non importa quante), cessando di essere una semplice congettura. Esiste, dunque, una differenza tra ipotesi (e tentativi) che consistono di asserti singolari e altre ipotesi che hanno un carattere più universale. Ma, per l'appunto, quel che cerchiamo nel fare scienza sono leggi generali, ipotesi universali.
Nella concezione popperiana del metodo scientificol'induzione non ha alcun ruolo: il punto di partenza per la ricerca non sono le osservazioni, ma le ipotesi che le guidano . Il modo di procedere per tentativi ed errori costituisce il metodo ipotetico-deduttivo, che Popper ritiene universale, comune tanto al genere umano quanto al mondo animale. L'eliminazione degli errori svolge la funzione fondamentale di controllo delle ipotesi , che conferisce al metodo un valore universale . In ambito più strettamente scientifico, il metodo esige un'attenzione particolare nella scelta dei problemi ed un costante atteggiamento critico verso le ipotesi assunte . L'ipotesi non va assunta nella speranza che sia vera, ma per controllarne l'eventuale falsità . Le ipotesi più generali non possono esaurirsi in una dimostrazione positiva, ma richiedono sempre una serie di controlli negativi.
1 Professor Popper, Lei è molto conosciuto per le sue idee sul metodo scientifico, che sono diametralmente opposte alla concezione, ancora oggi prevalente, secondo la quale il metodo scientifico consisterebbe nel metodo induttivo. Può illustrarci le Sue vedute sul metodo della scienza?
Secondo la mia personale concezione del metodo scientifico, non c'è effettivamente alcun bisogno di ricorrere all'induzione o a cose del genere. Per illustrare il metodo che io considero il vero metodo che usiamo per indagare la natura, partirei da Kant, il quale nella seconda edizione della Critica della ragion pura, più esattamente nella "Prefazione" alla seconda edizione, dice cose che trovo eccellenti. Cito: "Allorché Galilei fece rotolare lungo un piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da lui stesso prestabilito, e Torricelli fece sopportare all'aria un peso, da lui precedentemente calcolato pari a quello di una colonna d'acqua nota [...] una gran luce risplendette per tutti gli indagatori della natura. Si resero allora conto che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno, e compresero che essa deve procedere innanzi coi princìpi dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, colle dande. In caso diverso le nostre osservazioni casuali, fatte senza un piano preciso, non trovano connessione in alcuna delle leggi necessarie di cui invece la ragione va alla ricerca ed ha impellente bisogno" (Critica della ragion pura, B XII-XIII, tr. it. Torino, UTET, 1967, p. 42).
È una citazione abbastanza lunga, ma importante soprattutto là dove Kant parla di Galilei e Torricelli e degli esperimenti da loro architettati, affermando che i filosofi della natura - cioè quelli che noi oggi chiamiamo fisici - compresero che noi dobbiamo costringere la natura a rispondere alle nostre domande, liberamente scelte da noi, piuttosto che aggrapparci alle gonne di madre natura e aspettare che sia lei a guidarci. Osservazioni fatte a casaccio, senza un piano elaborato in anticipo, non possono essere infatti connesse da leggi, mentre sono proprio le leggi ciò di cui la ragione va alla ricerca.
Questa concezione l'ho chiamata "teoria del faro", in quanto siamo noi a gettare, per così dire, dei fasci di luce sulla natura, ed è del tutto differente da quella che suppone che sia la natura a darci informazioni secondo il suo piacere. In breve, il metodo che tale teoria prefigura è il metodo ipotetico. Non per altro, la mia precedente citazione da Kant dimostra quanto bene egli avesse compreso che dobbiamo presentarci davanti alla natura armati delle nostre ipotesi, cercando risposte alle nostre domande, o, meglio ,ai nostri problemi. Infatti, noi lavoriamo sempre con ipotesi e con problemi. Senza il loro aiuto, potremmo solo fare osservazioni casuali, fuori da qualsiasi piano, incapaci pertanto di condurci alla formulazione di una legge naturale. In altre parole, già Kant vide con estrema chiarezza che la storia della scienza ha confutato quell'idea del metodo - che è un dogma infondato - stando alla quale noi dovremmo partire dalle osservazioni e derivare poi da esse le nostre teorie. In realtà, facciamo qualcos'altro: partiamo da un problema, con l'aiuto di un'ipotesi. È questo - io credo - il punto decisivo.
2 Ma, se questo è il metodo della ricerca scientifica, non potremmo spingerci ancor oltre, affermando che tutti coloro che apprendono qualcosa - anche la gente comune e persino gli animali o i bambini - di fatto adottano esattamente lo stesso metodo ipotetico che usano gli scienziati? Possiamo cioè sostenere che esso sia il metodo con cui in generale si arriva ad apprendere?
È esattamente ciò che penso: cioè che il metodo per tentativi ed errori, il metodo ipotetico-deduttivo, sia un metodo universale.
Se osserviamo un coleottero alla ricerca di cibo, lo vediamo muovere tutt'intorno le sue antenne: ogni movimento corrisponde all'ipotesi di poter trovare cibo, o qualsiasi altra cosa stesse cercando, in una certa direzione; quando poi muove le sue antenne in un'altra direzione, questa è una nuova ipotesi, cioè che quanto esso cerca si trovi in quest'altra direzione, che esplora, come se avvertisse che quella è la via giusta per trovare qualcosa. Talvolta ho fatto ricorso alla famosa storiella dell'uomo nero che cerca in una stanza buia un cappello nero che potrebbe non essere lì. Che cosa può fare? Può solo muovere la mano in una certa direzione e vedere se per caso il cappello è lì. Oppure muovere l'altra mano in un'altra direzione: ognuna di queste azioni corrisponde a un'ipotesi: precisamente che il cappello nero si trovi proprio in un punto o nell'altro. Il coleottero, in altre parole, deve essere attivo: non può aspettarsi che quel che cerca gli venga incontro o gli si mostri da solo. Tutto ciò che può fare è cercare attivamente, sfruttando il movimento. Quest'ultimo, infatti, è estremamente importante: è ancora più importante della vista. Ad esempio, un cieco, muovendosi, può trovare degli oggetti. Anche il guardarsi intorno equivale a muovere gli occhi in certe direzioni, che sono quelle in cui si cerca. La storiella dell'uomo nero rappresenta dunque bene la situazione in cui si trova chiunque non conosca già, ma voglia conoscere. La stessa situazione vale per tutti noi quando cerchiamo qualcosa e, soprattutto, per gli scienziati.
Anche i bambini che imparano la loro lingua madre, si comportano sostanzialmente nello stesso modo, ovvero per tentativi. Fanno delle congetture e, quando sbagliano, vengono corretti dalle persone che insegnano loro la lingua. Da bambini, infatti, tutti abbiamo dovuto imparare la lingua dagli adulti, in quanto essa esisteva già e non c'era altro da fare che impadronirsene. Per riuscirvi, bisogna prima di tutto imparare a produrre i suoni. Solo successivamente - e qui cominciano i primi tentativi e la conseguente selezione - proviamo a riprodurre precisamente i suoni emessi dai genitori - o comunque dagli adulti che ci parlano attorno. Nel cercare di riprodurre questi suoni, commettiamo degli errori che, in parte, correggeremo da soli, in parte verranno corretti dalle persone con le quali parliamo, che ci ripetono in forma esatta le parole che stiamo tentando di pronunciare.
Altrettanto vale per l’apprendimento delle regole della grammatica. Immaginiamo un bambino che stia imparando il participio passato dei verbi. Sa già che il participio del verbo "sedere" è "seduto" e del verbo "vendere" è "venduto"; pertanto, dinanzi al verbo "ledere", dirà "leduto" (invece di "leso") e dinanzi al verbo "fondere" dirà "fonduto" (invece di "fuso"). Gli adulti aiutano i piccoli a eliminare questi errori.
Il nostro modo di apprendere mediante tentativi ed errori consiste proprio in questo, vale a dire nell'eliminare gli errori commessi. I tentativi sono ipotesi e l'eliminazione degli errori è il modo in cui ci adattiamo, nel nostro esempio, alla lingua esistente oppure, come avviene in altri casi, all'ambiente circostante, e così via.
In tutti i casi, si parte sempre proponendo soluzioni ipotetiche e si passa quindi alla prova di queste ipotesi, al loro controllo attraverso la prova. Non a caso, l'ho chiamato il metodo per tentativi ed errori, giacché qui l'errore gioca un ruolo molto importante: è proprio l'errore, infatti, a farci eliminare determinate ipotesi.
Anche per questo, non è solo un metodo fra tanti, bensì il metodo per risolvere tutti i problemi in generale: quando si ha un problema, ci si riflette sopra, si ha un'idea, un'ipotesi che va sottoposta a controllo. Questo può risultare negativo: in tal caso, dobbiamo proporre una nuova ipotesi e sottoporla ancora a controllo, che potrà essere a sua volta negativo, e così via, finché non troviamo un'ipotesi che regga alla prova. Ovviamente, se siamo fortunati! Ripensiamo al coleottero: l'eventuale insuccesso delle sue ricerche è puntualmente espresso dal perdurante movimento delle sue antenne. Così pure nel caso della storiella dell'uomo nero: forse costui troverà davvero un cappello e, nell'indossarlo, penserà: "questo deve essere il mio cappello nero". Tuttavia non potrà esserne ancora certo: nel buio di quella stanza tale potrebbe apparire, infatti, anche un cappello bianco. Pertanto, il metodo di procedere per congetture, porta in un certo senso solamente ad ipotesi, o, forse, ad ipotesi migliori.
Il movimento è fondamentale anche nel caso dell'apprendimento della lingua. Qui i movimenti riguardano la lingua, le labbra e così via. Solo con il tempo apprendiamo che si tratta di movimenti di un genere diverso da quelli che facciamo con le mani, sebbene anch'essi costituiscano, comunque, delle ipotesi conoscitive sull'adeguatezza di quei suoni, in quanto reazioni appropriate a ciò che i genitori dicono e indicano.
3 Qualcuno però potrebbe sostenere che un metodo del genere non abbia molto a che vedere con la scienza, che dopotutto è l'oggetto della nostra conversazione. Esso non sembra affatto una procedura particolarmente metodica: noi non pensiamo, infatti, a un coleottero, e nemmeno a un bambino, come ad animali eminentemente razionali, che aggrediscono i loro problemi mediante un pensiero metodicamente strutturato ed un piano ben organizzato. Di loro si direbbe, piuttosto, che si affannano sui problemi sino a ottenere graduali miglioramenti, ma solo se - come ha detto anche lei - sono fortunati! Cos'è, dunque, che caratterizza in modo specifico la scienza?
Innanzitutto, se siamo scienziati sul serio, i nostri problemi ce li scegliamo con cura tra quelli che abbiamo ricevuto dalla cosiddetta situazione problematica della scienza. In altri termini, generalmente partiamo da problemi già affrontati da altri. A volte, invece, capita la fortuna d’imbattersi in un problema completamente originale: un'esperienza davvero molto eccitante, che rappresenta di per sé una specie di scoperta. Vi è dunque qualcosa di inconscio nel tentativo di formulare, di non mollare od inseguire un problema. Va detto, naturalmente, che molto spesso il problema da noi affrontato cambia aspetto proprio mentre ci stiamo lavorando: capita allora di rendersi conto che non è esattamente il problema che dovremmo indagare, o quello più promettente, e così via. In realtà, persino nella scelta del problema noi adottiamo il metodo per tentativi ed errori. A volte, lo ricaviamo dalla nostra esperienza di insegnamento. Spesso capita poi, come s'è detto, che il problema muti mentre ci stiamo lavorando sopra: così lo capiamo meglio, sempre procedendo per tentativi ed errori.
L'altro elemento che, a mio avviso, è realmente decisivo nella scienza - e molto spesso anche in ambito prescientifico - è l'atteggiamento mentale di critica consapevole. Il coleottero non ama sbagliare, non ama muovere le proprie antenne verso il muro che impedisce la sua esplorazione. Il vero metodo critico, ossia consapevolmente critico, consiste, invece, nel proporsi di stabilire se un'ipotesi non sia per davvero errata. Abbiamo, dunque, un problema; formuliamo un'ipotesi e cerchiamo di scoprirne i punti deboli, sempre procedendo per tentativi ed errori. Così vi riflettiamo su e ipotizziamo certe situazioni in cui, forse, la nostra ipotesi non funzionerà. Poi tentiamo di realizzare tali circostanze attraverso esperimenti opportuni. Riusciamo così a scoprire se la nostra ipotesi non sia, per caso, estremamente debole. Come? Lasciando che condizioni sperimentali sempre nuove mettano alla prova la nostra ipotesi, "torturandola" - per così dire - attraverso tentativi ed errori. Ecco in cosa consiste il metodo critico che esiste, credo, solo a livello umano: nel mettersi alla ricerca dei propri errori attraverso un severo e consapevole controllo.
4 Dunque, nella scienza, come in altri ambiti, noi andiamo alla ricerca della verità attraverso l'eliminazione degli errori. Ma in quale senso preciso il metodo per tentativi ed errori è legato alla ricerca della verità?
Noi aspiriamo alla verità, e poiché non possiamo mai essere sicuri di averla davvero trovata, andiamo alla ricerca dei punti deboli delle nostre ipotesi, cercando di eliminare i possibili errori, i quali ci mostrano che quanto abbiamo raggiunto non è la verità, che la nostra ipotesi non è vera, ma falsa. In altri termini, tentiamo di falsificare le nostre stesse ipotesi, cioè di dimostrarne la falsità, di confutarle. In questo consiste il metodo consapevolmente critico. Lo scienziato serio, che è sempre critico, non assume un'ipotesi sperando che sia vera, ma con la determinazione di controllarla per stabilire se non sia invece falsa.
5 Ma alcuni potrebbero obiettare che è piuttosto strano parlare di verità quando si tratta di indovinare per mezzo di ipotesi, perché tentativi del genere vengono considerati di solito speculativi e non conclusivi, mai comunque veri.
Se ipotizzo che domani pioverà, questa è ovviamente una congettura incerta. Può accadere che domani piova, nel qual caso la congettura sarà vera; ma può anche accadere che domani non piova, e allora la mia ipotesi sarà falsa. Qui tutto è molto semplice, dall'inizio sino al momento in cui la congettura cessa di essere tale: domani, infatti, o pioverà o non pioverà, ma, prima di allora, l'ipotesi resterà incerta. Consideriamo ora un'ipotesi più generale: per esempio, quella secondo la quale "piove sempre quando io ho qualche giorno di vacanza". Questa ipotesi, non solo è un'ipotesi più generale, ma contiene in sé il termine "sempre". È davvero molto difficile che io, controllandola, possa stabilire che è vera; ma, ciò nonostante, potrebbe anche darsi che piova davvero ogni qualvolta ho qualche giorno di vacanza. Anche ammesso che ciò sia vero, l'ipotesi in quanto tale non lo sarà ugualmente, perché è talmente generale da non potersi confermare come vera dopo un numero finito qualsiasi di osservazioni (una, due, tre, non importa quante), cessando di essere una semplice congettura. Esiste, dunque, una differenza tra ipotesi (e tentativi) che consistono di asserti singolari e altre ipotesi che hanno un carattere più universale. Ma, per l'appunto, quel che cerchiamo nel fare scienza sono leggi generali, ipotesi universali.
Nella concezione popperiana del metodo scientificol'induzione non ha alcun ruolo: il punto di partenza per la ricerca non sono le osservazioni, ma le ipotesi che le guidano . Il modo di procedere per tentativi ed errori costituisce il metodo ipotetico-deduttivo, che Popper ritiene universale, comune tanto al genere umano quanto al mondo animale. L'eliminazione degli errori svolge la funzione fondamentale di controllo delle ipotesi , che conferisce al metodo un valore universale . In ambito più strettamente scientifico, il metodo esige un'attenzione particolare nella scelta dei problemi ed un costante atteggiamento critico verso le ipotesi assunte . L'ipotesi non va assunta nella speranza che sia vera, ma per controllarne l'eventuale falsità . Le ipotesi più generali non possono esaurirsi in una dimostrazione positiva, ma richiedono sempre una serie di controlli negativi.
Alexandre Koyre (é)
Da WikiQuote:
Non è dal lavoro che nasce la civiltà: essa nasce dal tempo libero e dal gioco.
(citato in Domenico De Masi, Il Futuro del Lavoro)
Il metodo cioè la via, è la sola via che ci possa liberare dall'errore e ci possa condurre alla conoscenza della verità.
(Lezioni su Cartesio, p. 39)
Il cosmo scomparso.
Le idee oscure e confuse, che fanno nascere il dubbio e che sono, a loro volta, distrutte dal dubbio, sono quelle che ci pervengono dalla tradizione e dai sensi.
Per quanto riguarda quelle chiare, quelle vere, esse sono innanzi tutto le idee matematiche.
E la ragione è ugualmente la ragione matematica.
Poiché solamente nelle matematiche la mente umana è giunta all'evidenza e alla certezza ed è riuscita a costruire una scienza, una vera disciplina in cui progredisce con ordine e chiarezza dalle cose più semplice alle costruzioni più complicate.
Quindi il metodo cartesiano, questo metodo che Cartesio ci dice di aver creato prendendo il meglio delle "tre arti o scienze che egli da giovane aveva un po' studiato": la Logica, L'Analisi dei Geometri e l'Algebra, si fonderà essenzialmente sulla matematica.
(Lezioni su Cartesio, p. 59)
È curioso constatare – ed insisto su questo punto, perché mi sembra di importanza capitale, e perché, pur essendo noto, non mi sembra abbastanza sottolineato – è curioso constatare l'indifferenza pressoché totale del mondo romano per la scienza e la filosofia. Il cittadino romano si interessa alle cose pratiche. L'agricoltura, l'architettura, l'arte della guerra, la politica, il diritto, la morale.
Ma si cerchi in tutta la letteratura latina classica un'opera scientifica degna di questo nome, e non si troverà; un'opera filosofica, ancor meno. Si troverà Plinio, cioè un insieme di aneddoti e racconti da comare; Seneca, cioè un'esposizione coscienziosa della morale e della fisica stoiche, adattate – il che significa semplificate – ad uso del pubblico romano; Cicerone, cioè i tentativi filosofici di un letterato dilettante; o Macrobio, un manuale di scuola elementare.
È veramente stupefacente, se vi si presta attenzione, che i Romani, non producendo nulla essi stessi, non abbiano nemmeno mai sentito il bisogno di procurarsi delle traduzioni. In effetti, al di fuori di due o tre dialoghi platonici (tra cui il Timeo) tradotti da Cicerone – trasduzione di cui non ci è pervenuto nulla – né Platone, né Aristotele, né Euclide, né Archimede sono mai stati tradotti in latino. Almeno nell'età classica. Perché se è vero che l'Organon di Aristotele e le Enneadi di Plotino lo furono, è parimenti vero che in fin dei conti ciò avvenne molto tardi e per opera di cristiani.
(Scritti su Spinoza e l'averroismo, pp. 63-64)
Non è dal lavoro che nasce la civiltà: essa nasce dal tempo libero e dal gioco.
(citato in Domenico De Masi, Il Futuro del Lavoro)
Il metodo cioè la via, è la sola via che ci possa liberare dall'errore e ci possa condurre alla conoscenza della verità.
(Lezioni su Cartesio, p. 39)
Il cosmo scomparso.
Le idee oscure e confuse, che fanno nascere il dubbio e che sono, a loro volta, distrutte dal dubbio, sono quelle che ci pervengono dalla tradizione e dai sensi.
Per quanto riguarda quelle chiare, quelle vere, esse sono innanzi tutto le idee matematiche.
E la ragione è ugualmente la ragione matematica.
Poiché solamente nelle matematiche la mente umana è giunta all'evidenza e alla certezza ed è riuscita a costruire una scienza, una vera disciplina in cui progredisce con ordine e chiarezza dalle cose più semplice alle costruzioni più complicate.
Quindi il metodo cartesiano, questo metodo che Cartesio ci dice di aver creato prendendo il meglio delle "tre arti o scienze che egli da giovane aveva un po' studiato": la Logica, L'Analisi dei Geometri e l'Algebra, si fonderà essenzialmente sulla matematica.
(Lezioni su Cartesio, p. 59)
È curioso constatare – ed insisto su questo punto, perché mi sembra di importanza capitale, e perché, pur essendo noto, non mi sembra abbastanza sottolineato – è curioso constatare l'indifferenza pressoché totale del mondo romano per la scienza e la filosofia. Il cittadino romano si interessa alle cose pratiche. L'agricoltura, l'architettura, l'arte della guerra, la politica, il diritto, la morale.
Ma si cerchi in tutta la letteratura latina classica un'opera scientifica degna di questo nome, e non si troverà; un'opera filosofica, ancor meno. Si troverà Plinio, cioè un insieme di aneddoti e racconti da comare; Seneca, cioè un'esposizione coscienziosa della morale e della fisica stoiche, adattate – il che significa semplificate – ad uso del pubblico romano; Cicerone, cioè i tentativi filosofici di un letterato dilettante; o Macrobio, un manuale di scuola elementare.
È veramente stupefacente, se vi si presta attenzione, che i Romani, non producendo nulla essi stessi, non abbiano nemmeno mai sentito il bisogno di procurarsi delle traduzioni. In effetti, al di fuori di due o tre dialoghi platonici (tra cui il Timeo) tradotti da Cicerone – trasduzione di cui non ci è pervenuto nulla – né Platone, né Aristotele, né Euclide, né Archimede sono mai stati tradotti in latino. Almeno nell'età classica. Perché se è vero che l'Organon di Aristotele e le Enneadi di Plotino lo furono, è parimenti vero che in fin dei conti ciò avvenne molto tardi e per opera di cristiani.
(Scritti su Spinoza e l'averroismo, pp. 63-64)
Rovelli, Democrito, Leucippo ed Aristotele
Da "http://giulionapoleoni.blogspot.it/2014/03/rovelli-capitolo-1-grani-dai-concetti.html" :
Nel primo capitolo Rovelli spiega come la teoria della gravità
quantistica abbia una radice filosofica nella teoria dell'atomismo
antico, di Leucippo e Democrito.
In particolare, riporta il ragionamento filosofico con il quale Democrito, insieme ad altri argomenti, è arrivato all'idea che tutte le cose sono fatte di atomi (è l'argomento riferito da Aristotele nel De generazione et corruptione).
In particolare, riporta il ragionamento filosofico con il quale Democrito, insieme ad altri argomenti, è arrivato all'idea che tutte le cose sono fatte di atomi (è l'argomento riferito da Aristotele nel De generazione et corruptione).
Immaginiamo che la materia sia divisibile all'infinito, e immaginiamo di
poter suddividere un pezzo di materia infinite volte. Cosa ne
resterebbe? Particelle con dimensione estesa?
No, perché se così fosse non potremmo dire di aver diviso all'infinito (quelle particelle, se estese, possono ancora essere suddivise).
Dovrebbero allora restare solo punti senza estensione. Ma anche questo esito è contraddittorio, poiché aggregando punti senza estensione non otterremo mai il pezzo da cui siamo partiti.
Per uscire dal paradosso dobbiamo pensare che la materia non sia divisibile all'infinito, cioè che sia composta da particelle estese non ulteriormente divisibili (gli atomi, appunto).
Le cose che voglio dire su questo sono due:
1. Democrito, usando concetti (infinito/finito; divisibile/indivisibile ecc.), il principio di non contraddizione e il ragionamento, capisce cose vere sulla realtà. In altri termini: facendo un esperimento mentale, usando l'immaginazione e i concetti linguistici, coglie la natura profonda della materia. Come è possibile questo? Certamente, e Rovelli lo ricorda, Democrito usava anche argomenti basati sull'osservazione, ma quello che colpisce è come la metafisica possa anticipare la fisica di molti secoli. Già Popper aveva riflettuto su questo rapporto filosofia-scienza, e proprio sull'esempio dell'atomismo antico. Ora mi chiedo: questo esempio non mostra che la ragione può spingersi anche oltre i limiti dell'esperienza ed ottenere risultati positivi? Questa domanda la farei a Kant... Certamente solo la ragione e solo esperimenti mentali non bastano. L'osservazione è indispensabile, per ottenere conoscenza che si approssimi alla verità. Ma la forza dei concetti e dei ragionamenti è innegabile e conserva qualcosa di misterioso anche a distanza di secoli. Forse la spiegazione di come sia possibile questo potere conoscitivo del linguaggio e della ragione è che i concetti si sono formati proprio partendo dall'esperienza, o meglio dall'incontro fra la nostra mente e la realtà. Il linguaggio consente un accesso alla realtà che sembra a volte scavalcare l'esperienza, ma il linguaggio non si è creato nel vuoto mentale, si è creato nel continuo rapportarsi delle menti umane con la realtà, quindi potremmo dire che il linguaggio è intriso di esperienza già di per sé, e quindi usandolo correttamente, facendone un uso immaginativo e razionale insieme (come anche nella matematica), possiamo fare ipotesi veritiere sulla realtà.
2. Nel ragionamento di Democrito si fa uso dell'infinito attuale: si immagina di aver già diviso un pezzo di materia infinite volte. Se invece Democrito avesse immaginato lo stesso caso ma basandosi sull'infinito potenziale, avrebbe potuto giungere a conclusioni diverse. Avrebbe potuto pensare a una materia continua (non granulare, o "discreta") nella quale ad ogni ulteriore suddivisione si ottengono parti estese, le quali però sono ulteriormente divisibili, e questo si può fare ogni volta senza mai fermarsi. (Un po' come accade nei video che simulano l'ingrandimento di un frattale, dove è chiaro che si può continuare all'infinito, nel senso che si potrebbe non smettere mai di ingrandire e troveremmo sempre la stessa struttura).
Rovelli afferma anche che probabilmente Leucippo aveva intuito che ci fosse un limite inferiore alla divisibilità ragionando su come risolvere i paradossi di Zenone di Elea.
Rovelli racconta poi che fino a fine Ottocento l'ipotesi atomica era rimasta tale, pur raccogliendo molti indizi, soprattutto dalla chimica. Molti, cioè, non credevano che gli atomi esistessero veramente. La prova definitiva è arrivata nel 1905, con un articolo di Einstein che parte dall'osservazione del moto browniano, cioè dal movimento fluttuante di granelli minimi di materia in un fluido (per esempio l'aria).
No, perché se così fosse non potremmo dire di aver diviso all'infinito (quelle particelle, se estese, possono ancora essere suddivise).
Dovrebbero allora restare solo punti senza estensione. Ma anche questo esito è contraddittorio, poiché aggregando punti senza estensione non otterremo mai il pezzo da cui siamo partiti.
Per uscire dal paradosso dobbiamo pensare che la materia non sia divisibile all'infinito, cioè che sia composta da particelle estese non ulteriormente divisibili (gli atomi, appunto).
Le cose che voglio dire su questo sono due:
1. Democrito, usando concetti (infinito/finito; divisibile/indivisibile ecc.), il principio di non contraddizione e il ragionamento, capisce cose vere sulla realtà. In altri termini: facendo un esperimento mentale, usando l'immaginazione e i concetti linguistici, coglie la natura profonda della materia. Come è possibile questo? Certamente, e Rovelli lo ricorda, Democrito usava anche argomenti basati sull'osservazione, ma quello che colpisce è come la metafisica possa anticipare la fisica di molti secoli. Già Popper aveva riflettuto su questo rapporto filosofia-scienza, e proprio sull'esempio dell'atomismo antico. Ora mi chiedo: questo esempio non mostra che la ragione può spingersi anche oltre i limiti dell'esperienza ed ottenere risultati positivi? Questa domanda la farei a Kant... Certamente solo la ragione e solo esperimenti mentali non bastano. L'osservazione è indispensabile, per ottenere conoscenza che si approssimi alla verità. Ma la forza dei concetti e dei ragionamenti è innegabile e conserva qualcosa di misterioso anche a distanza di secoli. Forse la spiegazione di come sia possibile questo potere conoscitivo del linguaggio e della ragione è che i concetti si sono formati proprio partendo dall'esperienza, o meglio dall'incontro fra la nostra mente e la realtà. Il linguaggio consente un accesso alla realtà che sembra a volte scavalcare l'esperienza, ma il linguaggio non si è creato nel vuoto mentale, si è creato nel continuo rapportarsi delle menti umane con la realtà, quindi potremmo dire che il linguaggio è intriso di esperienza già di per sé, e quindi usandolo correttamente, facendone un uso immaginativo e razionale insieme (come anche nella matematica), possiamo fare ipotesi veritiere sulla realtà.
2. Nel ragionamento di Democrito si fa uso dell'infinito attuale: si immagina di aver già diviso un pezzo di materia infinite volte. Se invece Democrito avesse immaginato lo stesso caso ma basandosi sull'infinito potenziale, avrebbe potuto giungere a conclusioni diverse. Avrebbe potuto pensare a una materia continua (non granulare, o "discreta") nella quale ad ogni ulteriore suddivisione si ottengono parti estese, le quali però sono ulteriormente divisibili, e questo si può fare ogni volta senza mai fermarsi. (Un po' come accade nei video che simulano l'ingrandimento di un frattale, dove è chiaro che si può continuare all'infinito, nel senso che si potrebbe non smettere mai di ingrandire e troveremmo sempre la stessa struttura).
Rovelli afferma anche che probabilmente Leucippo aveva intuito che ci fosse un limite inferiore alla divisibilità ragionando su come risolvere i paradossi di Zenone di Elea.
Rovelli racconta poi che fino a fine Ottocento l'ipotesi atomica era rimasta tale, pur raccogliendo molti indizi, soprattutto dalla chimica. Molti, cioè, non credevano che gli atomi esistessero veramente. La prova definitiva è arrivata nel 1905, con un articolo di Einstein che parte dall'osservazione del moto browniano, cioè dal movimento fluttuante di granelli minimi di materia in un fluido (per esempio l'aria).
Rovelli ricostruisce poi la storia dell'atomismo, esaltandone il naturalismo, il razionalismo, il materialismo.
"Purtroppo," scrive a pagina 32 "ci è rimasto tutto Aristotele, sul
quale si è poi ricostruito il pensiero occidentale, e niente Democrito.
Forse, se ci fosse rimasto tutto Democrito e niente Aristotele, la
storia intellettuale della nostra civiltà sarebbe stata migliore. Ma
secoli di pensiero unico dominante monoteista non hanno permesso la
sopravvivenza del naturalismo razionalistico e materialistico di
Democrito (...) Platone e Aristotele, pagani che credevano
nell'immortalità dell'anima, potevano essere tollerati da un
Cristianesimo trionfante, non Democrito."
Nell'ultima frase Rovelli commette un errore: Aristotele non credeva nell'immortalità dell'anima...
Nell'ultima parte del capitolo Rovelli esalta il De rerum natura di Lucrezio come testo che conserva lo spirito dell'atomismo democriteo, e ne descrive alcuni tratti: il senso di meraviglia, di profonda unità delle cose (noi siamo fatti della stessa sostanza delle stelle...), la calma luminosa legata all'assenza di dèi capricciosi, l'accettazione profonda della vita e della morte, "amore profondo per la natura, immersione serena in essa, riconoscimento che ne siamo profondamente parte (...) tasselli organici di un tutto meraviglioso e senza gerarchie".
Nell'ultima frase Rovelli commette un errore: Aristotele non credeva nell'immortalità dell'anima...
Nell'ultima parte del capitolo Rovelli esalta il De rerum natura di Lucrezio come testo che conserva lo spirito dell'atomismo democriteo, e ne descrive alcuni tratti: il senso di meraviglia, di profonda unità delle cose (noi siamo fatti della stessa sostanza delle stelle...), la calma luminosa legata all'assenza di dèi capricciosi, l'accettazione profonda della vita e della morte, "amore profondo per la natura, immersione serena in essa, riconoscimento che ne siamo profondamente parte (...) tasselli organici di un tutto meraviglioso e senza gerarchie".
Cita Democrito, che dice: "Ogni terra è aperta al sapiente, perché la patria di un'anima virtuosa è l'intero universo".
Quello che mi sembra più interessante di questo discorso è il mostrare
come nelle radici filosofiche del pensiero scientifico, purtroppo in
buona parte perdute, ci fossero insieme conoscenza della natura e
valori, mentre oggi si tende a pensare che la scienza non possa, o non
debba, fare discorsi anche valoriali.
Il Dolore
Da "http://paolomaggi.wordpress.com/lesperienza-del-dolore" :
“Tu non arrecherai dolore, tu fuggirai il dolore, tu imparerai
dal dolore” è scritto su tre lati della scacchiera magica descritta da
Paolo Maurensig nel suo La variante di Lunemburg.
In questa frase sono riassunti i
tre precetti fondamentali dell’uomo di fronte alla sofferenza.
Ma se è
fin troppo evidente che si debba, nei limiti del possibile, evitare il
dolore e soprattutto non lo si debba arrecare ad altri, ci chiediamo:
come è possibile imparare dal dolore?
Scontro tra Titani: Induzione contro Deduzione verso Abduzione. Da Sherlock Holmes a Montalbano passando per Carofiglio
Sono delle piccole ma buone pagine di base da cui partire per iniziare a conoscere alcuni concetti fondamentali della ricerca filosofica e scientifica.
E per conoscere strani e loschi figuri come Bertrand Russel, Popper, Pierce, Aristotele, ecc.
Per conoscenza: Sherlock Holmes utilizzava il metodo induttivo e non deduttivo.
Da WikiPedia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Induzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Deduzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Abduzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Inferenza
http://it.wikipedia.org/wiki/Falsificabilit%C3%A0
Ed inoltre uno stupendo Articolo.
Da "http://paolomaggi.wordpress.com/scienziati-e-detective-da-sherlock-holmes-a-montalbano-passando-per-carofiglio" :
“Da una goccia d’acqua un logico può far derivare la possibilità dell’oceano Atlantico o delle cascate del Niagara senza aver sentito parlare né dell’uno né delle altre”
Da A: C: Doyle, “Uno studio in rosso”
La storia del grande investigatore Sherlock Holmes è, in fondo, una storia di medici. Ma è anche una storia che ha profondamente, e inaspettatamente, influenzato il pensiero scientifico moderno. Sembra incredibile ma, dopo la nascita di questo personaggio, nessun ricercatore, consciamente o inconsciamente, ha potuto fare a meno di confrontarsi, almeno una volta nella sua vita, con il metodo del grande detective residente al 221B di Baker Street. Pochi filosofi della scienza hanno fatto altrettanto.
Ma iniziamo dal suo autore: sir Arthur Conan Doyle è un medico, laureatosi ad Edimburgo nel 1885. Non brillò mai particolarmente dal punto di vista professionale: dopo la laurea si imbarcò su una baleniera come medico di bordo. Successivamente, tornato in patria, aprì uno studio a Southsea. Ma, per nostra fortuna, egli aveva pochi pazienti e molto tempo libero. Così, per ingannare le attese, iniziò a scrivere romanzi. Anche il nome di Sherlock Holmes si ispira con tutta probabilità a quello di un medico realmente esistito: Oliver Wendell Holmes, clinico e letterato americano molto noto all’epoca. Medico è anche l’alter ego di Holmes, il dottor John Hamish Watson. Ma il medico che ha avuto il maggior ruolo nella genesi del grande investigatore è stato certamente il professor Joseph Bell, maestro di Conan Doyle ai tempi dell’università.
Bell era certamente un medico di eccezionali capacità: egli era il rampollo di una dinastia di chirurghi scozzesi che esercitava da oltre 150 anni. Fu un ottimo chirurgo, ma anche un rinomato medico legale. Indagò attivamente sugli omicidi commessi da Jack lo squartatore, il famoso serial killer dell’Inghilterra vittoriana. Il metodo di lavoro del professor Bell era tutto incentrato sul ruolo dell’osservazione. Egli non si limitava a studiare il malato. Ne osservava ogni dettaglio: l’aspetto, le movenze, i vestiti, le scarpe, le macchie sul corpo e sugli indumenti…Sir Arthur Conan Doyle nella sua autobiografia ci racconta come Bell insegnasse ai propri studenti l’arte dell’osservazione:
“Certo, voi siete un militare, e più precisamente un sottufficiale”, disse il dottor Bell ad un suo paziente, “ed avete prestato servizio alle Bermude. Ora, Signori, come faccio a saperlo? È entrato nella stanza senza togliersi il cappello, come se entrasse in fureria, da cui ne ho dedotto che era un militare. L’aria leggermente autoritaria, abbinata all’età, mi ha fatto supporre che fosse un sottufficiale. Per finire, l’eruzione cutanea sulla fronte mi ha indicato che era stato alle Bermude, in quanto quel tipo di infezione della pelle colpisce solo in quel luogo”.
Sempre nella sua autobiografia, Conan Doyle ci racconta un altro episodio:
Il dottor Bell fece entrare un paziente. Appena lo vide, disse: “Ve la siete goduta la passeggiata a West Rings? come faccio a saperlo? Semplice. C’è della terra rossa sulle vostre scarpe e quella è l’unica zona dei dintorni in cui c’è quel tipo di suolo”.
Nel linguaggio letterario Sir Arthur definisce questo metodo “deduttivo” (“Elementare, Watson”…).In realtà non è così e lo abbiamo visto nelle altre pagine. Quella che praticano Bell e Sherlock Holmes è pura inferenza induttiva: si parte da una serie di indizi per costruire una teoria. Successivamente, nella fase della deduzione, si costruirà un sistema sperimentale per verificare questa teoria riportando, con un meccanismo inverso, i dati ricavati dall’osservazione, alla teoria prodotta. Qui, nella finzione letteraria, è il momento in cui si “incastra” il colpevole mettendo alla prova le proprie ipotesi. Naturalmente, nei romanzi di sir Arthur le teorie che Holmes costruisce, spesso da minimi dettagli, sono inevitabilmente esatte.
Ma le cose stanno realmente così? E se le scarpe sporche di terra rossa gli fossero state prestate dal cognato? E se l’infezione cutanea si fosse diffusa in un quartiere di Londra a causa della presenza di una famiglia di recente provenienza dalle Bermude? E se quel signore autoritario che non si toglie il cappello in pubblico fosse solo un tantino cafone? Nel film “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie, il grande investigatore (in arte Robert Downey Jr) si becca un bicchiere di vino in faccia dall’adirata fidanzata di Watson perché, in una carambolesca prova di inferenze induttive, conclude che la ragazza fosse stata lasciata dal suo precedente fidanzato. In realtà il fidanzato era morto. Bicchierata meritatissima e grande prova di acume da parte del regista: l’inferenza deduttiva è ad altissimo rischio di errore e il percorso dell’investigatore è irto di difficoltà e richiede tempo, pazienza, verifiche e molte, molte prove.
La presunzione di Sherlock Holmes è la stessa che Bacone imputava ad Aristotele: non è legittimo saltare da pochi dati di osservazione a grandi teorie generali fidandosi solo delle proprie capacità intellettuali. Ma per questo rimando al mio “breve compendio di filosofia della scienza”.
In realtà, le teorie scientifiche, come ci ricorda lo psichiatra inglese Michael Sheperd autore del libro “Sherlock Holmes e il caso del dottor Freud” sono assai simili ai miti dell’antichità. Per Sheperd i ricercatori sono grandi costruttori di miti. E non vi è nulla di male. Salvo poi a sottoporli alla prova dei fatti. Dunque, dice Sheperd la scienza non si muove secondo un metodo, ma secondo un “mitodo”. Anche Sherlock Holmes, durante le sue indagini, è un grande costruttore di miti.
Il mito peraltro è capace di mobilitare grandi risorse della fantasia, e di liberarci dai blocchi mentali costituiti dalle paure, dalle convenzioni, dai pregiudizi, massimi ostacoli alla ricerca di nuove idee:
“Per la scienza il valore del mito consiste nel fornire un cambiamento di metafora che crea un nuovo punto focale, un nuovo insieme di termini per trattare il materiale intellettuale, e così serve sia a risolvere i blocchi mentali, sia a fornire creatività nella ricerca delle risposte. Le soluzioni di problemi scientifici spesso richiedono metafore che a volte non sono state ancora concettualizzate”.
Dunque, alla base del metodo, o del “mitodo” di Sherlock Holmes c’è la costruzione di una storia. E su questo stesso filone si muove Gianrico Carofiglio, geniale autore di legal thriller, ma anche raffinato teorico dell’investigazione. Egli fa dire al suo protagonista, l’avvocato Guerrieri, “le storie sono tutto quello che abbiamo”. Nei suoi romanzi gli autori si muovono come scienziati, raccogliendo indizi e collegandoli tra di loro in storia. E qui Carofiglio non ha dubbi: “il ragionamento giudiziario ha la forma di una inferenza induttiva e non di un processo deduttivo” dice nel suo libro “L’arte del dubbio”, in cui affronta direttamente il problema del rapporto tra ricerca nella scienza e ricerca nell’aula giudiziaria. Quindi nel momento in cui l’investigatore costruisce una storia entra in quel processo di induzione-intuizione di cui abbiamo parlato. Così facendo, l’investigatore nostrano diventa l’investigator nel senso anglosassone del termine, che è quello di ricercatore.
Ma tra le tante possibili verità, come si potrà sapere quale sarà la storia vera, il mito vero? Quello che ha costruito il giudice da una parte della barricata, o quello che ha costruito l’avvocato difensore dall’altra? Che poi è come dire, nel mondo della scienza: quale fra le possibili ipotesi scientifiche è quella in grado di spiegare meglio un dato fenomeno della natura? Per Carofiglio il sistema è il medesimo suggerito da Popper in campo scientifico: quello della falsificazione. “Di nessuna verità storica, come peraltro di nessuna verità scientifica è impossibile predicare il contrario” dice sempre ne “L’arte del dubbio”. Dunque, quando le due verità si confrontano e si scontrano nella cross-examination all’anglosassone, l’avvocato e il pubblico ministero, si “falsificano” a vicenda e vince, almeno si spera, la storia, il mito più resistente al’opera distruttiva della falsificazione.
Certo, noi uomini di scienza dobbiamo dare atto che, in campo giudiziario è tutto molto più difficile che in campo scientifico perché, come dice Carofiglio, “le verità che produce il processo sono verità storiche e non scientifiche”. Cosa vuol dire questo? Che lo scienziato studia in genere fenomeni che si ripetono un gran numero di volte. Così egli li può osservare a suo piacimento, li può catalogare, li può determinare egli stesso sperimentalmente, li può trasformare in modelli matematici. La verità storica invece arriva una volta sola e non torna più. Carofiglio ricorda il film Rashomon, di Kurosawa. Nel film un samurai viene assassinato e quattro soggetti diversi, l’assassino, la moglie del samurai, il boscaiolo che assiste al delitto e lo stesso samurai evocato da una maga, raccontano quattro storie completamente diverse. Quale sarà quella vera? Il problema è che, se crediamo, in qualche misura, al principio di uniformità della natura, se crediamo cioè che la natura obbedisce a leggi universali, allora dobbiamo ammettere che il fenomeno scientifico è un evento che si ripete all’infinito. Il fenomeno storico non si ripete mai più nell’identico modo.
Ad avvicinare i laboratori di ricerca alle aule giudiziarie è comunque lo stesso Popper. Egli ritiene infatti che le leggi universali, in fondo, non esistano e che le ipotesi non possano mai venire definitivamente verificate. Tutta la scienza per Popper è destinata a rimanere per sempre un sapere congetturale; la scienza progredisce senza sosta, ma non può mai avere la certezza di aver raggiunto la verità.
Comunque continuo ad essere convinto che sia un po’ più facile la ricerca della verità per lo scienziato che per l’avvocato…
Ma vi prego di tornare alla citazione da “Uno studio in rosso” con cui ho aperto il capitolo: “Da una goccia d’acqua un logico può far derivare la possibilità dell’oceano Atlantico o delle cascate del Niagara senza aver sentito parlare né dell’uno né delle altre”. Credo siano state evidenti le ragioni per cui prendo le debite distanze da quell’affermazione: non è per nulla detto che una goccia d’acqua possa farci necessariamente risalire a oceani e cascate. Ma vorrei dirigere la vostra attenzione su un altro dettaglio: Sherlock Holmes dà una precisa definizione di sé stesso, quella di “logico”. In effetti il detective londinese opera secondo canoni di assoluta razionalità: ogni suo passaggio è caratterizzato da una logica impeccabile: nulla è lasciato all’intuizione e alla fantasia. Almeno così sembra, perché abbiamo visto che, in fin dei conti, Sherlock è un grande costruttore di miti. E Dio salvi i miti, oltre che la Regina!
C’è un grande detective della letteratura che non ha nessun problema ad attingere a piene mani, nel corso delle sue indagini, al mondo del’intuizione, del sogno, della fantasia: è il commissario Salvo Montalbano, nato dalla prolifica penna di Andrea Camilleri. Nelle pagine successive le citazioni che troverete non sono nella loro lingua originale, cioè in quella sublime mescolanza d‘italiano e siculo che solo Camilleri riesce a realizzare. Molto più modestamente le frasi tratte dai suoi libri saranno tradotte in italiano corrente, perché la loro bellezza letteraria non sia contaminata dall’uso funzionale che farò dell’ opera del suo autore, cioè quella di provare ad estrarre da essa quei segreti della mente umana che consentono di scoprire la Verità in tutto ciò che ci circonda. Mi scuso per la violenza al testo.
A differenza del collega Sherlock Holmes, Montalbano, probabilmente, non ha in particolare considerazione la classe medica anche perché spesso ne incontra di boriosi, cialtroni o addirittura disonesti. Tuttavia ha idee straordinariamente chiare su ciò che il medico dovrebbe essere ma, soprattutto sulle analogie che vi sono fra il suo mestiere e quello dei medici:
“Una volta avevano chiesto a Montalbano quale fosse, secondo lui, la qualità di uno sbirro, la dote essenziale. Il dono dell’intuizione? La costanza della ricerca? La capacità di concatenare fatti apparentemente tra di loro estranei? Il sapere che se due più due fa sempre quattro nell’ordine normale delle cose, invece nell’anormalità del delitto due più due può anche fare cinque? “L’occhio clinico” aveva risposto Montalbano. E tutti ci avevano fatta una bella risata. Ma il commissario non aveva avuto l’intenzione di fare lo spiritoso. Solo che non aveva spiegato la sua risposta, aveva preferito sorvolare dato che tra i presenti c’erano anche due medici. E il commissario, con “occhio clinico” aveva voluto intendere proprio la capacità dei medici di una volta di rendersi conto, a colpo d’occhio, appunto, se un paziente era malato o no. Senza bisogno, come oggi fanno tanti medici, di sottoporre uno a cento esami diversi prima di stabilire che quello è sano come un pesce”.
(Gli arancini di Montalbano: La revisione, pag 200).
Trovo sublime il suo rapportarsi alle figure dei medici di una volta, depositari di una sapienza perduta e tutta da recuperare. E ancora:
Il suo maestro “…era uno sbirro vero, di quelli che si accorgevano a prima botta se la persona che avevano davanti diceva la verità o sparava fandonie. Come i medici che una volta avevano il cosiddetto occhio clinico e diagnosticavano la malattia del paziente solo a guardarlo e che oggi invece se prima non hanno tra le mani decine e decine di analisi fatte da macchine all’avanguardia tecnologica non riescono a capirci un’amata minchia, manco di una semplice e tradizionale influenza”. (La prima indagine di Montalbano pag. 102).
E’ sempre in questa stessa novella che Salvo mette a punto, da perfetto filosofo della scienza, la sua convincente teoria sul rapporto tra ragionamento e intuizione:
Il commissario si ferma a ragionare su una frase di Borges: “Il fatto stesso di percepire, di porre attenzione, è di tipo selettivo: ogni attenzione , ogni fissazione della nostra coscienza, comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa”. Questo era vero, si disse, in linea generale. Ma nel suo caso particolare, di sbirro cioè, la selezione tra ciò che interessa e ciò che non interessa non doveva essere contemporanea alla percezione, sarebbe stato un errore grave. La percezione di un fatto, in un’indagine, non può consistere in un scelta contestuale, deve essere assolutamente oggettiva. Le scelte si fanno appresso, faticosamente e non per percezione, ma per ragionamenti, deduzioni, comparazioni, esclusioni. E non è detto che non comportino lo stesso il rischio dell’errore, anzi. Ma, in percentuale, la possibilità di errore è più bassa rispetto alla scelta dovuta a un’istintiva selezione percettiva. Però d’altra parte, a ben considerare, in cosa consisteva quello che Hammett chiamava “l’istinto della caccia” se non nella capacità di una fulminea selezione all’atto stesso della percezione? Allora che cosa avrebbe potuto scrivere e consigliare in un ideale Manuale del perfetto investigatore? Che forse la virtù stava nel mezzo, come al solito. E cioè che la scelta percettiva bisognava tenerla in gran conto perché era la prima cosa da discutere fino alla sua negazione.
Il ragionamento del commissario di Vigata ricorda molto da vicino le teorie di Jules Henri Poincarè sulla nascita di una scoperta scientifica: per il grande matematico i criteri che devono guidare la scelta degli scienziati sono estremamente sottili e delicati. Più che formularli bisogna sentirli. Per Poincarè la selezione è operata da quello che egli definì l’”io subliminale” una proprietà sovrarazionale dell’uomo di scienza capace di valutare un numero enorme di possibili soluzioni, ma far salire al dominio della coscienza solo quelle degne di essere prese in esame.
Le pagine di Camilleri sono inaspettatamente ricche di esempi di come l’intuizione possa affiancare la razionalità per giungere alla scoperta della Verità. Vediamone qualcuno:
Ne “Il giro di boa”, Montalbano, dopo aver recuperato un cadavere in acqua mentre nuota, ricapitola dei dettagli che lo guideranno nella scoperta di come l’uomo era stato ucciso. Il momento cruciale della sua scoperta avviene in un momento in cui certamente non è la razionalità pura a dominare i suoi ragionamenti, cioè prima di addormentarsi:
“Prima d’inoltrarsi nel paese del sonno, gli capitò di fare, del tutto involontariamente, una specie di ripasso del suo incontro col cadavere…la sua pellicola mentale s’arrestò e tornò indietro, come in un tavolo di montaggio. Braccio sollevato, costume infilato, costume aggrovigliato…Stop. Braccio sollevato, costume infilato…E qui il sonno ebbe la meglio.” Pag. 35.
E ancora sul sogno: “Si era persuaso che, mentre era nel sonno, una parte del suo cervello restava vigilante a pensare a un qualche problema” (“Un mese con Montalbano”, pag 35).
Anche in quest’altro passaggio, i dettagli delle osservazioni che ha fatto non vengono analizzati razionalmente, ma sono sottoposti ad un’elaborazione di tipo intuitivo:
“ Mentre si faceva la barba, gli tornarono in testa le scene della sera avanti sulla banchina . E principiò ad avvertire, via via che a mente fredda gli passavano davanti, un senso di fastidio, di disagio. C’era qualche cosa che non quadrava, un dettaglio fuori posto”. (“Il giro di boa”, pag 69).
In vari episodi Montalbano chiarisce bene il ruolo del lato sovrarazionale della mente nella sua ricerca:
“ Si ritrovò a diritta, che rifaceva di corsa la strada fatta e quasi quasi non sapeva perché. O almeno il perché lo sapeva, ma non voleva ammetterlo, il lato razionale del suo cervello rifiutava quello che il lato irrazionale stava in quel momento comandando di fare al resto del corpo, vale a dire ubbidire a un assurdo presentimento.” (“Il giro di boa”, pag 104).
“…in questo consistevano il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro nato: cogliere a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio impercettibile che non quadrava con l’insieme, lo sfaglio minimo rispetto all’ordine consueto e prevedibile”. (“Il topo assassinato”, pag. 287).
E, se è vero che le teorie scientifiche sono simili ai miti, il commissario Montalbano ne ha perfetta coscienza, e lo dice esplicitamente ne “Il cane di terracotta”, prima di spiegare la sua ipotesi:
“…devo fare una premessa: il mio è un romanzo. Nel senso che non ho manco l’ombra di una prova di quello che dirò” (pag. 178)
E’ da un mito, un romanzo che parte il ricercatore, costruito con gli indizi di cui dispone. E con quel mito egli costruisce una rete, con cui proverà a pescare, come pesci, tutte le prove che gli serviranno. E come il mito, ogni ipotesi è ambigua e ingannevole. Lo ricorda Gianrico Carofiglio con i molti volti di Rashomon. Bisognerà esserne coscienti, E capire qual è il suo vero volto. Che spesso non è mai il più ovvio:
“Se vediamo un uomo steso sul marciapiede siamo portati a credere che sia caduto lì. Questo non è un fatto. Il fatto inconfutabile è che quell’uomo si trovi in quel punto. Può darsi che sia caduto altrove e che sia stato portato lì. Può essere tante altre cose. E se, mentre piove, ci entra in casa un uomo con i vestiti bagnati, si può legittimamente supporre che sia stata la pioggia a bagnarlo, ma anche questo non è un fatto: può darsi che qualcuno gli abbia versato in testa un catino pieno d’acqua”. (“Sostiene Pessoa”, pag 59).
Che coltivare il metodo scientifico significhi anche leggere buoni romanzi gialli?
E per conoscere strani e loschi figuri come Bertrand Russel, Popper, Pierce, Aristotele, ecc.
Per conoscenza: Sherlock Holmes utilizzava il metodo induttivo e non deduttivo.
Da WikiPedia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Induzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Deduzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Abduzione
http://it.wikipedia.org/wiki/Inferenza
http://it.wikipedia.org/wiki/Falsificabilit%C3%A0
Ed inoltre uno stupendo Articolo.
Da "http://paolomaggi.wordpress.com/scienziati-e-detective-da-sherlock-holmes-a-montalbano-passando-per-carofiglio" :
Scienziati e detective: da Sherlock Holmes a Montalbano, passando per Carofiglio
“Da una goccia d’acqua un logico può far derivare la possibilità dell’oceano Atlantico o delle cascate del Niagara senza aver sentito parlare né dell’uno né delle altre”
Da A: C: Doyle, “Uno studio in rosso”
La storia del grande investigatore Sherlock Holmes è, in fondo, una storia di medici. Ma è anche una storia che ha profondamente, e inaspettatamente, influenzato il pensiero scientifico moderno. Sembra incredibile ma, dopo la nascita di questo personaggio, nessun ricercatore, consciamente o inconsciamente, ha potuto fare a meno di confrontarsi, almeno una volta nella sua vita, con il metodo del grande detective residente al 221B di Baker Street. Pochi filosofi della scienza hanno fatto altrettanto.
Ma iniziamo dal suo autore: sir Arthur Conan Doyle è un medico, laureatosi ad Edimburgo nel 1885. Non brillò mai particolarmente dal punto di vista professionale: dopo la laurea si imbarcò su una baleniera come medico di bordo. Successivamente, tornato in patria, aprì uno studio a Southsea. Ma, per nostra fortuna, egli aveva pochi pazienti e molto tempo libero. Così, per ingannare le attese, iniziò a scrivere romanzi. Anche il nome di Sherlock Holmes si ispira con tutta probabilità a quello di un medico realmente esistito: Oliver Wendell Holmes, clinico e letterato americano molto noto all’epoca. Medico è anche l’alter ego di Holmes, il dottor John Hamish Watson. Ma il medico che ha avuto il maggior ruolo nella genesi del grande investigatore è stato certamente il professor Joseph Bell, maestro di Conan Doyle ai tempi dell’università.
Bell era certamente un medico di eccezionali capacità: egli era il rampollo di una dinastia di chirurghi scozzesi che esercitava da oltre 150 anni. Fu un ottimo chirurgo, ma anche un rinomato medico legale. Indagò attivamente sugli omicidi commessi da Jack lo squartatore, il famoso serial killer dell’Inghilterra vittoriana. Il metodo di lavoro del professor Bell era tutto incentrato sul ruolo dell’osservazione. Egli non si limitava a studiare il malato. Ne osservava ogni dettaglio: l’aspetto, le movenze, i vestiti, le scarpe, le macchie sul corpo e sugli indumenti…Sir Arthur Conan Doyle nella sua autobiografia ci racconta come Bell insegnasse ai propri studenti l’arte dell’osservazione:
“Certo, voi siete un militare, e più precisamente un sottufficiale”, disse il dottor Bell ad un suo paziente, “ed avete prestato servizio alle Bermude. Ora, Signori, come faccio a saperlo? È entrato nella stanza senza togliersi il cappello, come se entrasse in fureria, da cui ne ho dedotto che era un militare. L’aria leggermente autoritaria, abbinata all’età, mi ha fatto supporre che fosse un sottufficiale. Per finire, l’eruzione cutanea sulla fronte mi ha indicato che era stato alle Bermude, in quanto quel tipo di infezione della pelle colpisce solo in quel luogo”.
Sempre nella sua autobiografia, Conan Doyle ci racconta un altro episodio:
Il dottor Bell fece entrare un paziente. Appena lo vide, disse: “Ve la siete goduta la passeggiata a West Rings? come faccio a saperlo? Semplice. C’è della terra rossa sulle vostre scarpe e quella è l’unica zona dei dintorni in cui c’è quel tipo di suolo”.
Nel linguaggio letterario Sir Arthur definisce questo metodo “deduttivo” (“Elementare, Watson”…).In realtà non è così e lo abbiamo visto nelle altre pagine. Quella che praticano Bell e Sherlock Holmes è pura inferenza induttiva: si parte da una serie di indizi per costruire una teoria. Successivamente, nella fase della deduzione, si costruirà un sistema sperimentale per verificare questa teoria riportando, con un meccanismo inverso, i dati ricavati dall’osservazione, alla teoria prodotta. Qui, nella finzione letteraria, è il momento in cui si “incastra” il colpevole mettendo alla prova le proprie ipotesi. Naturalmente, nei romanzi di sir Arthur le teorie che Holmes costruisce, spesso da minimi dettagli, sono inevitabilmente esatte.
Ma le cose stanno realmente così? E se le scarpe sporche di terra rossa gli fossero state prestate dal cognato? E se l’infezione cutanea si fosse diffusa in un quartiere di Londra a causa della presenza di una famiglia di recente provenienza dalle Bermude? E se quel signore autoritario che non si toglie il cappello in pubblico fosse solo un tantino cafone? Nel film “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie, il grande investigatore (in arte Robert Downey Jr) si becca un bicchiere di vino in faccia dall’adirata fidanzata di Watson perché, in una carambolesca prova di inferenze induttive, conclude che la ragazza fosse stata lasciata dal suo precedente fidanzato. In realtà il fidanzato era morto. Bicchierata meritatissima e grande prova di acume da parte del regista: l’inferenza deduttiva è ad altissimo rischio di errore e il percorso dell’investigatore è irto di difficoltà e richiede tempo, pazienza, verifiche e molte, molte prove.
La presunzione di Sherlock Holmes è la stessa che Bacone imputava ad Aristotele: non è legittimo saltare da pochi dati di osservazione a grandi teorie generali fidandosi solo delle proprie capacità intellettuali. Ma per questo rimando al mio “breve compendio di filosofia della scienza”.
In realtà, le teorie scientifiche, come ci ricorda lo psichiatra inglese Michael Sheperd autore del libro “Sherlock Holmes e il caso del dottor Freud” sono assai simili ai miti dell’antichità. Per Sheperd i ricercatori sono grandi costruttori di miti. E non vi è nulla di male. Salvo poi a sottoporli alla prova dei fatti. Dunque, dice Sheperd la scienza non si muove secondo un metodo, ma secondo un “mitodo”. Anche Sherlock Holmes, durante le sue indagini, è un grande costruttore di miti.
Il mito peraltro è capace di mobilitare grandi risorse della fantasia, e di liberarci dai blocchi mentali costituiti dalle paure, dalle convenzioni, dai pregiudizi, massimi ostacoli alla ricerca di nuove idee:
“Per la scienza il valore del mito consiste nel fornire un cambiamento di metafora che crea un nuovo punto focale, un nuovo insieme di termini per trattare il materiale intellettuale, e così serve sia a risolvere i blocchi mentali, sia a fornire creatività nella ricerca delle risposte. Le soluzioni di problemi scientifici spesso richiedono metafore che a volte non sono state ancora concettualizzate”.
Dunque, alla base del metodo, o del “mitodo” di Sherlock Holmes c’è la costruzione di una storia. E su questo stesso filone si muove Gianrico Carofiglio, geniale autore di legal thriller, ma anche raffinato teorico dell’investigazione. Egli fa dire al suo protagonista, l’avvocato Guerrieri, “le storie sono tutto quello che abbiamo”. Nei suoi romanzi gli autori si muovono come scienziati, raccogliendo indizi e collegandoli tra di loro in storia. E qui Carofiglio non ha dubbi: “il ragionamento giudiziario ha la forma di una inferenza induttiva e non di un processo deduttivo” dice nel suo libro “L’arte del dubbio”, in cui affronta direttamente il problema del rapporto tra ricerca nella scienza e ricerca nell’aula giudiziaria. Quindi nel momento in cui l’investigatore costruisce una storia entra in quel processo di induzione-intuizione di cui abbiamo parlato. Così facendo, l’investigatore nostrano diventa l’investigator nel senso anglosassone del termine, che è quello di ricercatore.
Ma tra le tante possibili verità, come si potrà sapere quale sarà la storia vera, il mito vero? Quello che ha costruito il giudice da una parte della barricata, o quello che ha costruito l’avvocato difensore dall’altra? Che poi è come dire, nel mondo della scienza: quale fra le possibili ipotesi scientifiche è quella in grado di spiegare meglio un dato fenomeno della natura? Per Carofiglio il sistema è il medesimo suggerito da Popper in campo scientifico: quello della falsificazione. “Di nessuna verità storica, come peraltro di nessuna verità scientifica è impossibile predicare il contrario” dice sempre ne “L’arte del dubbio”. Dunque, quando le due verità si confrontano e si scontrano nella cross-examination all’anglosassone, l’avvocato e il pubblico ministero, si “falsificano” a vicenda e vince, almeno si spera, la storia, il mito più resistente al’opera distruttiva della falsificazione.
Certo, noi uomini di scienza dobbiamo dare atto che, in campo giudiziario è tutto molto più difficile che in campo scientifico perché, come dice Carofiglio, “le verità che produce il processo sono verità storiche e non scientifiche”. Cosa vuol dire questo? Che lo scienziato studia in genere fenomeni che si ripetono un gran numero di volte. Così egli li può osservare a suo piacimento, li può catalogare, li può determinare egli stesso sperimentalmente, li può trasformare in modelli matematici. La verità storica invece arriva una volta sola e non torna più. Carofiglio ricorda il film Rashomon, di Kurosawa. Nel film un samurai viene assassinato e quattro soggetti diversi, l’assassino, la moglie del samurai, il boscaiolo che assiste al delitto e lo stesso samurai evocato da una maga, raccontano quattro storie completamente diverse. Quale sarà quella vera? Il problema è che, se crediamo, in qualche misura, al principio di uniformità della natura, se crediamo cioè che la natura obbedisce a leggi universali, allora dobbiamo ammettere che il fenomeno scientifico è un evento che si ripete all’infinito. Il fenomeno storico non si ripete mai più nell’identico modo.
Ad avvicinare i laboratori di ricerca alle aule giudiziarie è comunque lo stesso Popper. Egli ritiene infatti che le leggi universali, in fondo, non esistano e che le ipotesi non possano mai venire definitivamente verificate. Tutta la scienza per Popper è destinata a rimanere per sempre un sapere congetturale; la scienza progredisce senza sosta, ma non può mai avere la certezza di aver raggiunto la verità.
Comunque continuo ad essere convinto che sia un po’ più facile la ricerca della verità per lo scienziato che per l’avvocato…
Ma vi prego di tornare alla citazione da “Uno studio in rosso” con cui ho aperto il capitolo: “Da una goccia d’acqua un logico può far derivare la possibilità dell’oceano Atlantico o delle cascate del Niagara senza aver sentito parlare né dell’uno né delle altre”. Credo siano state evidenti le ragioni per cui prendo le debite distanze da quell’affermazione: non è per nulla detto che una goccia d’acqua possa farci necessariamente risalire a oceani e cascate. Ma vorrei dirigere la vostra attenzione su un altro dettaglio: Sherlock Holmes dà una precisa definizione di sé stesso, quella di “logico”. In effetti il detective londinese opera secondo canoni di assoluta razionalità: ogni suo passaggio è caratterizzato da una logica impeccabile: nulla è lasciato all’intuizione e alla fantasia. Almeno così sembra, perché abbiamo visto che, in fin dei conti, Sherlock è un grande costruttore di miti. E Dio salvi i miti, oltre che la Regina!
C’è un grande detective della letteratura che non ha nessun problema ad attingere a piene mani, nel corso delle sue indagini, al mondo del’intuizione, del sogno, della fantasia: è il commissario Salvo Montalbano, nato dalla prolifica penna di Andrea Camilleri. Nelle pagine successive le citazioni che troverete non sono nella loro lingua originale, cioè in quella sublime mescolanza d‘italiano e siculo che solo Camilleri riesce a realizzare. Molto più modestamente le frasi tratte dai suoi libri saranno tradotte in italiano corrente, perché la loro bellezza letteraria non sia contaminata dall’uso funzionale che farò dell’ opera del suo autore, cioè quella di provare ad estrarre da essa quei segreti della mente umana che consentono di scoprire la Verità in tutto ciò che ci circonda. Mi scuso per la violenza al testo.
A differenza del collega Sherlock Holmes, Montalbano, probabilmente, non ha in particolare considerazione la classe medica anche perché spesso ne incontra di boriosi, cialtroni o addirittura disonesti. Tuttavia ha idee straordinariamente chiare su ciò che il medico dovrebbe essere ma, soprattutto sulle analogie che vi sono fra il suo mestiere e quello dei medici:
“Una volta avevano chiesto a Montalbano quale fosse, secondo lui, la qualità di uno sbirro, la dote essenziale. Il dono dell’intuizione? La costanza della ricerca? La capacità di concatenare fatti apparentemente tra di loro estranei? Il sapere che se due più due fa sempre quattro nell’ordine normale delle cose, invece nell’anormalità del delitto due più due può anche fare cinque? “L’occhio clinico” aveva risposto Montalbano. E tutti ci avevano fatta una bella risata. Ma il commissario non aveva avuto l’intenzione di fare lo spiritoso. Solo che non aveva spiegato la sua risposta, aveva preferito sorvolare dato che tra i presenti c’erano anche due medici. E il commissario, con “occhio clinico” aveva voluto intendere proprio la capacità dei medici di una volta di rendersi conto, a colpo d’occhio, appunto, se un paziente era malato o no. Senza bisogno, come oggi fanno tanti medici, di sottoporre uno a cento esami diversi prima di stabilire che quello è sano come un pesce”.
(Gli arancini di Montalbano: La revisione, pag 200).
Trovo sublime il suo rapportarsi alle figure dei medici di una volta, depositari di una sapienza perduta e tutta da recuperare. E ancora:
Il suo maestro “…era uno sbirro vero, di quelli che si accorgevano a prima botta se la persona che avevano davanti diceva la verità o sparava fandonie. Come i medici che una volta avevano il cosiddetto occhio clinico e diagnosticavano la malattia del paziente solo a guardarlo e che oggi invece se prima non hanno tra le mani decine e decine di analisi fatte da macchine all’avanguardia tecnologica non riescono a capirci un’amata minchia, manco di una semplice e tradizionale influenza”. (La prima indagine di Montalbano pag. 102).
E’ sempre in questa stessa novella che Salvo mette a punto, da perfetto filosofo della scienza, la sua convincente teoria sul rapporto tra ragionamento e intuizione:
Il commissario si ferma a ragionare su una frase di Borges: “Il fatto stesso di percepire, di porre attenzione, è di tipo selettivo: ogni attenzione , ogni fissazione della nostra coscienza, comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa”. Questo era vero, si disse, in linea generale. Ma nel suo caso particolare, di sbirro cioè, la selezione tra ciò che interessa e ciò che non interessa non doveva essere contemporanea alla percezione, sarebbe stato un errore grave. La percezione di un fatto, in un’indagine, non può consistere in un scelta contestuale, deve essere assolutamente oggettiva. Le scelte si fanno appresso, faticosamente e non per percezione, ma per ragionamenti, deduzioni, comparazioni, esclusioni. E non è detto che non comportino lo stesso il rischio dell’errore, anzi. Ma, in percentuale, la possibilità di errore è più bassa rispetto alla scelta dovuta a un’istintiva selezione percettiva. Però d’altra parte, a ben considerare, in cosa consisteva quello che Hammett chiamava “l’istinto della caccia” se non nella capacità di una fulminea selezione all’atto stesso della percezione? Allora che cosa avrebbe potuto scrivere e consigliare in un ideale Manuale del perfetto investigatore? Che forse la virtù stava nel mezzo, come al solito. E cioè che la scelta percettiva bisognava tenerla in gran conto perché era la prima cosa da discutere fino alla sua negazione.
Il ragionamento del commissario di Vigata ricorda molto da vicino le teorie di Jules Henri Poincarè sulla nascita di una scoperta scientifica: per il grande matematico i criteri che devono guidare la scelta degli scienziati sono estremamente sottili e delicati. Più che formularli bisogna sentirli. Per Poincarè la selezione è operata da quello che egli definì l’”io subliminale” una proprietà sovrarazionale dell’uomo di scienza capace di valutare un numero enorme di possibili soluzioni, ma far salire al dominio della coscienza solo quelle degne di essere prese in esame.
Le pagine di Camilleri sono inaspettatamente ricche di esempi di come l’intuizione possa affiancare la razionalità per giungere alla scoperta della Verità. Vediamone qualcuno:
Ne “Il giro di boa”, Montalbano, dopo aver recuperato un cadavere in acqua mentre nuota, ricapitola dei dettagli che lo guideranno nella scoperta di come l’uomo era stato ucciso. Il momento cruciale della sua scoperta avviene in un momento in cui certamente non è la razionalità pura a dominare i suoi ragionamenti, cioè prima di addormentarsi:
“Prima d’inoltrarsi nel paese del sonno, gli capitò di fare, del tutto involontariamente, una specie di ripasso del suo incontro col cadavere…la sua pellicola mentale s’arrestò e tornò indietro, come in un tavolo di montaggio. Braccio sollevato, costume infilato, costume aggrovigliato…Stop. Braccio sollevato, costume infilato…E qui il sonno ebbe la meglio.” Pag. 35.
E ancora sul sogno: “Si era persuaso che, mentre era nel sonno, una parte del suo cervello restava vigilante a pensare a un qualche problema” (“Un mese con Montalbano”, pag 35).
Anche in quest’altro passaggio, i dettagli delle osservazioni che ha fatto non vengono analizzati razionalmente, ma sono sottoposti ad un’elaborazione di tipo intuitivo:
“ Mentre si faceva la barba, gli tornarono in testa le scene della sera avanti sulla banchina . E principiò ad avvertire, via via che a mente fredda gli passavano davanti, un senso di fastidio, di disagio. C’era qualche cosa che non quadrava, un dettaglio fuori posto”. (“Il giro di boa”, pag 69).
In vari episodi Montalbano chiarisce bene il ruolo del lato sovrarazionale della mente nella sua ricerca:
“ Si ritrovò a diritta, che rifaceva di corsa la strada fatta e quasi quasi non sapeva perché. O almeno il perché lo sapeva, ma non voleva ammetterlo, il lato razionale del suo cervello rifiutava quello che il lato irrazionale stava in quel momento comandando di fare al resto del corpo, vale a dire ubbidire a un assurdo presentimento.” (“Il giro di boa”, pag 104).
“…in questo consistevano il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro nato: cogliere a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio impercettibile che non quadrava con l’insieme, lo sfaglio minimo rispetto all’ordine consueto e prevedibile”. (“Il topo assassinato”, pag. 287).
E, se è vero che le teorie scientifiche sono simili ai miti, il commissario Montalbano ne ha perfetta coscienza, e lo dice esplicitamente ne “Il cane di terracotta”, prima di spiegare la sua ipotesi:
“…devo fare una premessa: il mio è un romanzo. Nel senso che non ho manco l’ombra di una prova di quello che dirò” (pag. 178)
E’ da un mito, un romanzo che parte il ricercatore, costruito con gli indizi di cui dispone. E con quel mito egli costruisce una rete, con cui proverà a pescare, come pesci, tutte le prove che gli serviranno. E come il mito, ogni ipotesi è ambigua e ingannevole. Lo ricorda Gianrico Carofiglio con i molti volti di Rashomon. Bisognerà esserne coscienti, E capire qual è il suo vero volto. Che spesso non è mai il più ovvio:
“Se vediamo un uomo steso sul marciapiede siamo portati a credere che sia caduto lì. Questo non è un fatto. Il fatto inconfutabile è che quell’uomo si trovi in quel punto. Può darsi che sia caduto altrove e che sia stato portato lì. Può essere tante altre cose. E se, mentre piove, ci entra in casa un uomo con i vestiti bagnati, si può legittimamente supporre che sia stata la pioggia a bagnarlo, ma anche questo non è un fatto: può darsi che qualcuno gli abbia versato in testa un catino pieno d’acqua”. (“Sostiene Pessoa”, pag 59).
Che coltivare il metodo scientifico significhi anche leggere buoni romanzi gialli?
HEGEL di Giulio Napoleoni e Franca D'Agostini
Da "http://giulionapoleoni.blogspot.it" :
Capire l'impostazione di fondo della filosofia hegeliana è sempre stato per me un problema, e la filosofia di Hegel è certamente una delle più difficili.
Nel volume di Franca D'Agostini "Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza" (Carocci 2005) ho trovato però dei passaggi illuminanti che mi hanno molto aiutato:
"Ogni realista difensore della cosa senza soggetto sta in verità parlando di se stesso, e difendendo il proprio modo di guardare la realtà.
Questo vale naturalmente anche per i difensori della soggettività senza la realtà: almeno e se non altro in quanto devono postulare come reale, dunque violare e rendere oggettivo, quel soggetto di cui difendono il primato contro gli oggetti.
In altre parole, nel momento in cui difendo i diritti dell'oggetto, lo faccio dal punto di vista di un soggetto tanto potente da saper conoscere perfettamente, e perciò difendere, il proprio altro; nel momento in cui invece difendo i diritti della soggettività lo faccio assumendo il soggetto stesso come un oggetto e un dato obiettivato, e dunque postulo un oggetto tanto forte da poter modellare con la sua forma il suo differente.
Questa elementare dialettica è il vizio di forma di qualsiasi posizione unilaterale.
Ma l'opinione di Gadamer (come quella di Hegel), è che tutti, i soggettivisti come i difensori dell'oggettivo, sono in qualche modo spossessati dalla oggettività di questa dialettica, che - essa stessa - costituisce il movimento proprio di qualcosa che non è interamente riducibile al soggettivo, né all'oggettivo, pur essendo proprio dell'uno e dell'altro."
Ecco. Questa è la dimensione in cui si colloca la filosofia hegeliana.
Di che si tratta? Del linguaggio, di quella dimensione oggettiva ma costituita attraverso il "solidificarsi dell'esperienza umana in concetti-parole", quindi qualcosa che ha una radice soggettiva e la cui oggettività non coincide però con quella delle cose. "Il linguaggio non è né uomo né cosa".
Hegel esalta e valorizza questa dimensione intermedia fra le cose (gli enti fisici) e i vissuti (gli eventi mentali), in cui troviamo oggetti che sono un prodotto collettivo dell'umanità e sono collegati fra loro in una struttura non statica bensì soggetta al mutamento, alla trasformazione storica.
Questa dimensione è in fondo quella della filosofia stessa, quella nella quale si collocano le indagini filosofiche, e la filosofia è anche quell'ambito "intermedio" fra scienza e arte che potrebbe far uscire dalla guerra delle "due culture" (umanistica vs scientifica) invitando all'ascolto reciproco, fornendo un terreno comune entro il quale dialogare.
Forse il male culturale del nostro tempo è proprio il non riuscire a tenere insieme i discorsi sui fatti e i discorsi sui valori.
Capire l'impostazione di fondo della filosofia hegeliana è sempre stato per me un problema, e la filosofia di Hegel è certamente una delle più difficili.
Nel volume di Franca D'Agostini "Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza" (Carocci 2005) ho trovato però dei passaggi illuminanti che mi hanno molto aiutato:
"Ogni realista difensore della cosa senza soggetto sta in verità parlando di se stesso, e difendendo il proprio modo di guardare la realtà.
Questo vale naturalmente anche per i difensori della soggettività senza la realtà: almeno e se non altro in quanto devono postulare come reale, dunque violare e rendere oggettivo, quel soggetto di cui difendono il primato contro gli oggetti.
In altre parole, nel momento in cui difendo i diritti dell'oggetto, lo faccio dal punto di vista di un soggetto tanto potente da saper conoscere perfettamente, e perciò difendere, il proprio altro; nel momento in cui invece difendo i diritti della soggettività lo faccio assumendo il soggetto stesso come un oggetto e un dato obiettivato, e dunque postulo un oggetto tanto forte da poter modellare con la sua forma il suo differente.
Questa elementare dialettica è il vizio di forma di qualsiasi posizione unilaterale.
Ma l'opinione di Gadamer (come quella di Hegel), è che tutti, i soggettivisti come i difensori dell'oggettivo, sono in qualche modo spossessati dalla oggettività di questa dialettica, che - essa stessa - costituisce il movimento proprio di qualcosa che non è interamente riducibile al soggettivo, né all'oggettivo, pur essendo proprio dell'uno e dell'altro."
Ecco. Questa è la dimensione in cui si colloca la filosofia hegeliana.
Di che si tratta? Del linguaggio, di quella dimensione oggettiva ma costituita attraverso il "solidificarsi dell'esperienza umana in concetti-parole", quindi qualcosa che ha una radice soggettiva e la cui oggettività non coincide però con quella delle cose. "Il linguaggio non è né uomo né cosa".
Hegel esalta e valorizza questa dimensione intermedia fra le cose (gli enti fisici) e i vissuti (gli eventi mentali), in cui troviamo oggetti che sono un prodotto collettivo dell'umanità e sono collegati fra loro in una struttura non statica bensì soggetta al mutamento, alla trasformazione storica.
Questa dimensione è in fondo quella della filosofia stessa, quella nella quale si collocano le indagini filosofiche, e la filosofia è anche quell'ambito "intermedio" fra scienza e arte che potrebbe far uscire dalla guerra delle "due culture" (umanistica vs scientifica) invitando all'ascolto reciproco, fornendo un terreno comune entro il quale dialogare.
Forse il male culturale del nostro tempo è proprio il non riuscire a tenere insieme i discorsi sui fatti e i discorsi sui valori.
giovedì 24 aprile 2014
Edgar Morin
Da WikiQuote:
Come hanno detto Marx e Engels all'inizio dell'Ideologia tedesca, gli
uomini hanno sempre elaborato false concezioni di se stessi, di ciò che
fanno, di ciò che devono fare e del mondo in cui vivono.
E Marx-Engels
non fanno eccezione.
Il carattere complesso dell'attività pensante [...] associa incessamente
in sé, in modo complementare, processi virtualmente antagonistici che
tenderebbero ad escludersi l'uno con l'altro.
Così il pensiero
deve stabilire frontiere e traversarle, aprire concetti e chiuderli,
andare dal tutto alle parti e dalle parti al tutto, dubitare e credere,
esso deve rifiutare e combattere la contraddizione ma, nello stesso
tempo, deve farsene carico e nutrimento.
Se non si ha qualche separazione, non si ha neppure più né soggetto né
oggetto di conoscenza; non si ha più né utilità interna di conoscere né
realtà esterna da conoscere.
La concezione di felicità tipica della cultura di massa,[...], può
essere detta consumatrice nel senso più largo del termine, vale a dire
che essa spinge non soltanto al consumo dei prodotti, ma al consumo
della vita stessa.
Alta cultura e cultura di massa si ricongiungono, l'una per il suo
aristocraticismo volgare, l'altra per la sua volgarità assetata di
riconoscimento sociale.
Qualunque sia il fenomeno studiato, occorre innanzitutto che l'osservatore studi se stesso, poiché l'osservatore o turba il fenomeno osservato, o vi si proietta in qualche misura.
Qualunque sia il fenomeno studiato, occorre innanzitutto che l'osservatore studi se stesso, poiché l'osservatore o turba il fenomeno osservato, o vi si proietta in qualche misura.
Jean Baudrillard
Da WikiPedia:
"Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza.
E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della proliferazione degli schermi e delle immagini."
(Jean Baudrillard, "Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà")
(Jean Baudrillard, "Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà")
Seneca
Da "Pedagogica" :
La vita e il pensiero
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull'ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all'esterno ; infatti - dice Seneca - se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchè non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l'interno si conformerà all'esterno: exemplum di questo atteggiamento è Socrate, il quale, quando era adirato, era solito "submittere vocem".
Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur.Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III).
Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perché lui stesso l’avrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sull’ira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo all’ira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell'autodominio, che é garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia é la forma naturale di costituzione: come il cosmo é tenuto insieme - secondo una tesi tipicamente stoica - da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell'impero é tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchè vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere ... Quel che importa non é morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male" (Epistole a Lucilio, 70 ).
Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur" (vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sè, della parte migliore di sè, cioè della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce l’intero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all' indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri.
Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa: "siamo tutti schiavi del destino: qualcuno é legato con una lunga catena d'oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri ... Tutta la vita é una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire" (De tranquillitate animi). Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare è accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è da Seneca compendiata -Epistulae ad Lucilium, 107 - nella sententia "il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone" ("ducunt fata volentem, nolentem trahunt"). Il dominio dei valori si trova così spostato dall'esterno all'interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L' interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed è per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata.
La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: "così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura". Tanto più che la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: "considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo". Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quand’erano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poiché "della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino". Del resto – nota acutamente Seneca – chi non è schiavo? "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria.
Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis - un’opera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto – egli scrive: "nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est" (De beneficiis, III, 18, 4). Se è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca, Epistola 42 – da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l'etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell'autosufficienza del sapiente. La costruzione e l'affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all'anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell'aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente: questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell'antichità: Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio.
La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), "soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator" ("sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore"), giacchè anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacchè "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, è quella dell’ape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta". Per questo motivo è di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi è dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda.
Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita è lunga, se sai farne uso") Il guaio è che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa (nelDe brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa":"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1).
E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica è impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica, che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.
FILOSOFIA
Dialogi (10) in 12 libri:
De providentia (a Paolino)
De constantia sapientis (ad Anneo Sereno)
De ira (3 libri)
Consolatio ad Marciam
De vita beata
De otio (ad Anneo Sereno)
De tranquillitate animi (ad Anneo Sereno)
De brevitate vitae (a Paolino)
Consolatio ad Polybium
Consolatio ad Helviam Matrem
De clementia in 3 libri.
De beneficiis in 7 libri.
Epistulae morales ad Lucilium: 124 lettere in 20 libri.
SCIENTIFICO-NATURALISTICHE
Naturales quaestiones in 7 libri.
MISTE DI PROSA E POESIA
Apokolokyntòsis divi Claudii o Ludus de morte Claudii: una satira menippea
TEATRALI
9 cothurnatae (tragedie di ambientazione greca):
Hercules furens
Troades
Phoenissae
Medea
Phaedra
Oedipus
Agamemnon
Thyestes
Hercules Aetaeus
ed una Praetexta (tragedia di ambientazione latina), sicuramente spuria, l'Octavia.
ANALISI DELLE SINGOLE OPERE
I DIALOGI
Così nominati in Quintiliano, non sono dialoghi di stampo platonico o ciceroniano (eccezion fatta per il De tranquillitate animi), ma seguono piuttosto la linea della diatriba cinico-stoica (l’autore che parla in prima persona ha come interlocutore il dedicatario dell’opera o un personaggio fittizio); quello operato da Seneca è dunque un vero e proprio spostamento semantico del termine dialogus.
Consolatio ad Marciam (39): è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, lo storico morto suicida, per consolarla della morte del figlio; Seneca ne fa un'occasione per affrontare il delicato tema del suicidio, che, coerentemente con i princìpi della dottrina stoica, è visto come positivo se motivato da una scelta compiuta razionalmente: la vita non è un bene in assoluto, ma è utile e positiva solo se vissuta in modo decoroso; il suicidio dunque può essere strumento di affermazione della libertà individuale. Modello di questo dialogus è la Consolatio ad se ipsum di Cicerone.
De ira in 3 libri (41): in base ai princìpi stoici, sommo bene è il lògos, e quindi tutto ciò che non è razionale è male e va evitato. L'ira è scelta di proposito fra le emozioni da evitare, in contrapposizione alla tesi aristotelico-peripatetica che ne fa uno strumento di stimolo all'azione. Per Seneca essa è semplicemente desiderio di punizione che si esprime in modo sbagliato; la giusta volontà punitiva è invece una lucida decisione maturata "a freddo", razionalmente. Seneca dunque mette in guardia sulle circostanze che provocano l'ira, onde prevenirla.
Consolatio ad Helviam Matrem (42-43): è dedicata a sua madre per la "perdita" del figlio, costretto in esilio in Corsica. Segue la topica consueta della consolatio ed espone le argomentazioni di consolazione tipiche del saggio stoico (autàrkeia = autosufficienza).
Consolatio ad Polybium (42-43): dedicata a Polibio, potente liberto e consigliere di Claudio, per la morte di un fratello. L'intento è evidentemente adulatorio nei confronti del princeps, nel tentativo di convincerlo a richiamarlo in Roma dall'esilio forzato.
De vita beata (58): la felicità, considerata come il sommo bene dalle filosofie ellenistiche, si ottiene, secondo gli epicurei, attraverso la hedonè, il piacere, ed il rifiuto della sofferenza, identificata con il male; secondo gli stoici, invece, il dolore non è un male, è anzi necessario all'uomo per migliorarsi. Seneca identifica il sommo bene con la virtus, ossia l'autodisciplina che l'uomo deve imporre alla propria componente emotiva. In questo Seneca, esponente del Terzo Stoicismo, è perfettamente coerente con i princìpi della dottrina stoica; egli è però conscio che le sue azioni non sono sempre coerenti con il suo pensiero: ma, si giustifica il filosofo, il saggio stoico non deve incarnare la verità, bensì solo indicarla agli altri ("fate quel che dico, non fate quel che faccio").
De otio (62): in quest’opera tarda, posteriore al ritiro a vita privata, Seneca, per quanto riguarda la problematica relativa all’otium (ossia alla vita contemplativa), prende le distanze dalla rigorosa etica stoica: quando l'impegno politico diviene impossibile o richiede compromessi troppo squallidi, meglio ripiegare su altre attività, quali letteratura e filosofia (posizione, questa, già di Sallustio). Il saggio stoico deve essere utile alla collettività; se ciò gli è impedito, lo sia almeno a se stesso e alla cerchia dei suoi amici.
De providentia (?): Seneca non intende in questa sede dimostrare l'esistenza di Dio e della Provvidenza, di cui è convinto; l'interrogativo che si pone, e a cui cerca di dare risposta, è piuttosto come possa un Dio provvidenziale ammettere l'esistenza del male. Seneca riprende qui la tematica della sofferenza, che non è male, ma è una sorta di banco di prova su cui la divinità saggia la tempra umana; male è per Seneca contrastare la volontà divina (il che è peraltro impossibile: aporìa concettuale).
De constantia sapientis (42? 62?): Seneca vi espone nuovamente la tesi stoica dell'imperturbabilità del saggio; il sapiente non può subire offesa perché è in possesso dell’unico vero bene: la serenità interiore.
De tranquillitate animi (?): sappiamo per certo che questo dialogo è posteriore al De constantia sapientis; è l'unico in forma effettivamente dialogica. Tratta della serenità dell'anima. Il destinatario, Anneo Sereno, è introdotto a parlare per chiedere aiuto in un momento di turbamento psicologico: come si può raggiungere la serenità? Non certo cambiando luogo o viaggiando di continuo ("ovunque tu vada ti porti dietro te stesso"), bensì facendo il bene, vivendo in modo frugale, frequentando buone compagnie, accettando la necessità della sofferenza e della morte.
De brevitate vitae (42? 62?): la vita dell'uomo non è mai troppo breve se vissuta intensamente. Non in quantità, ma in qualità si misura il valore della vita umana: "longa est vita si plena".
LE ALTRE OPERE FILOSOFICHE: I TRATTATI
De clementia: non è un vero e proprio trattato di politica: risale ai primi anni del regno di Nerone, ed il suo scopo è l'educazione del giovane principe. La posizione di Seneca nei confronti della monarchia denota una lucida coscienza politica: non hanno ormai più senso le nostalgie repubblicane (e con esse l'opposizione stoica al principato): Seneca accetta dunque la forma istituzionale del principato (che peraltro è specchio dell’ordinamento cosmico: un unico Dio, un unico princeps); ciò che contesta è la sua degenerazione e l'abuso di essa; per essere una figura positiva, il princeps dev’essere come un padre per i suoi sudditi (paternalismo illuminato).
De beneficiis (62-64): ci mostra un Seneca ormai disincantato e deluso, che ha visto fallire in pieno il suo programma pedagogico e politico. Seneca si rivolge perciò ora, con gli stessi ideali di fondo, ad un nuovo pubblico: la classe abbiente, la sola che possa opporre un rimedio alla povertà e alla miseria delle masse, se educata alla generosità e alla benevolenza. E' la stessa ottica paternalistica in cui si inquadrava il suo programma politico, e possiede già in nuce gli elementi della non lontana dottrina cristiana. È incentrato sul significato del beneficio (che cosa significa "fare del bene"?) e soprattutto sulla disposizione d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve.
Epistulae morales ad Lucilium: sono le 124 lettere, divise in 20 libri, che Seneca scrisse all’amico Lucilio, per lo più dopo il 62. Seneca non è più un personaggio pubblico, e si esprime in questa sede con un linguaggio più discorsivo e colloquiale di quello a cui ci aveva abituati; nonostante la forma privata dell'epistolario, avvertiamo comunque che Seneca teneva in considerazione la futura pubblicazione delle sue lettere. I temi trattati sono molteplici e vari e già presenti in alcuni Dialogi, ma due sono i motivi ricorrenti: la figura del saggio stoico e la morte. La filosofia senecana trova nell'epistolario un'esposizione pressoché completa, anche se non sistematica. E' questo un "difetto" riconosciuto al pensiero senecano da alcuni critici: facilmente contestabile, però, se si considera che una filosofia focalizzata sull'etica, come tipico della Terza Stoà, non necessita di sistematicità in senso classico.
Naturales quaestiones, in 7 l.: per la datazione si fa riferimento ad una cometa apparsa nel 60 d. C. e ad un terremoto che danneggiò Pompei nel 62. Rispondono anch'esse alla necessità di ripiegare su attività alternative all'impegno politico diretto. Sono di fatto un tentativo di collegare scienza e morale, evidente già dalla struttura delle singole quaestiones, ciascuna introdotta da un problema di carattere etico e conclusa in una specie di "morale" o comunque dalle conseguenze etiche della quaestio trattata. L’opera ha come argomento la scienza della terra, la fisica e i fenomeni atmosferici. Solo con lo studio dei fenomeni fisici si può vincere la paura e l’ignoranza: quindi la fisica è pertinente alla morale. Ha carattere dossografico (vengono cioè riportate le opinioni di filosofi greci e latini). Si deplora il comportamento di chi mette le scoperte scientifiche al servizio dei propri vizi. Seneca conclude l’opera con la certezza che le scoperte scientifiche continueranno e che le generazioni future conosceranno cose che ora non si conoscono.
LE TRAGEDIE
Delle molte tragedie del repertorio senecano che possediamo, la praetexta spuria (l'Octavia) è forse la più celebre: essa riguarda la morte della giovanissima Ottavia, sposa di Nerone, sacrificata per permettere le nozze del princeps con Poppea. Sicuramente falsa, in quanto troppo... "profetica" riguardo alla morte di Nerone, avvenuta dopo quella di Seneca, e poi per la comparsa dello stesso Seneca fra i personaggi, è tuttavia un'opera interessante, il cui vero autore potrebbe essere Anneo Cornuto, liberto di Seneca e maestro di filosofia.
Le 9 cothurnatae in nostro possesso sono tratte da opere dei tragici greci a noi note, eccezion fatta per il Thyestes.
Le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata ad un quesito di base: sono state composte per fini puramente artistici o con obiettivi politici? Se infatti rientrano nel progetto pedagogico di educazione del princeps, sono databili ai primi anni del principato di Nerone; se invece si tratta di un ripiego artistico del Seneca deluso dalla politica, sono databili agli ultimi anni della sua vita.
E ancora: erano destinate alla rappresentazione o alla lettura nelle sale di recitazione (recitatio)? L'uccisione dei figli di Medea in scena (quando sappiamo che, per questioni educative, sin dai primi tragici greci gli omicidi non potevano avvenire in scena) e lo stile tipico della recitatio inducono buona parte della critica a propendere per la seconda ipotesi.
Infine è da sottolineare che il tragico in Seneca non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico: la realtà esistenziale è assolutamente negativa, e nell'opera compaiono come personaggi positivi solo e sempre i minori, i subalterni, destinati comunque a rimanere inascoltati. L'aspetto che più colpisce dei personaggi di Seneca è che non dialogano fra loro: parlano, ma non si ascoltano.
Lo stile della tragedia senecana è fortemente influenzato dalla retorica asiana (stile gonfio, barocco, gusto per il macabro).
Eccone il contenuto in estrema sintesi:
Hercules Furens: Ercole impazzito uccide moglie e figli, poi, rinsavito, va ad Atene (modello è l' "Eracle" di Euripide).
Troades: descrive il dramma delle donne troiane destinate alla schiavitù presso i capi greci (modello sono le "Troiane" di Euripide).
Phoenissae: tratta il mito di Edipo e la rivalità dei figli Eteocle e Polinice per succedere al trono (modello sono le "Fenicie" di Euripide).
Medea: Medea, per vendicarsi dell’abbandono da parte di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui (modello è la "Medea" di Euripide).
Phaedra: tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito. La tragedia è di estremo interesse documentario perché non rispecchia affatto la trama dell’ "Ippolito coronato" di Euripide, che dovrebbe esserne il modello; la critica suppone pertanto che il prototipo di questa tragedia fosse il perduto "Ippolito velato", dramma giudicato troppo scandaloso dal pubblico ateniese e pertanto "rifatto" da Euripide l’anno successivo (428 a.C.) con il titolo di "Ippolito coronato";
Oedipus: Edipo scopre di essere l’uccisore del padre Laio e di avere sposato la madre Giocasta (modello è l' "Edipo re" di Sofocle).
Agamemnon: vi è rappresentato l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra (modello è l' "Agamennone" di Eschilo).
Thyestes: è la più celebre (e truculenta) fra le tragedie senecane: riprende l’atroce misfatto di Atreo, che imbandisce a Tieste le carni dei suoi figli.
Hercules Oetaeus: Ercole è ucciso dalla tunica intrisa del sangue velenoso del centauro Nesso, inviatagli dalla moglie Deianira con l’intenzione di riportarlo al suo amore (modello sono le "Trachinie" di Sofocle).
SATIRA MENIPPEA
L’ultima opera del corpus senecano, prosimetrica (= mista di prosa e versi), com’è tipico della satira menippea, è la Apokolokyntòsis divi Claudii (già nel titolo parodistica: Apokolokyntòsis sta per Apotheòsis).
Il significato del titolo (Apokolokyntòsis = "inzuccatura", "trasformazione in zucca"?) è controverso: secondo una diffusa ipotesi, esso significherebbe che alla sua morte Claudio, invece di essere assunto fra gli dèi, è stato assunto... fra le zucche (o gli zucchini); nulla di simile accade però nell’opera. Altri traducono "Infinocchiatura del divino Claudio", essendo per lui l'apoteosi una vera fregatura (egli non sarà affatto divinizzato)!
La critica riconosce piuttosto uniformemente che, per essere una satira, manca alla Apokolokyntòsis la vis polemica: più che un'invettiva sembra un (pesante) scherzo, un ludus. E forse, a giudicare dal sottotitolo (Ludus de morte Claudii), proprio questo voleva essere.
Contenuto:
Dopo che Mercurio riesce ad ottenere che Claudio esali finalmente l’anima, cessando così di sembrare vivo, si presenta a Giove un essere mostruoso, zoppo e che parla in modo incoerente. Viene creduto un mostro e sottoposto all’attenzione di Ercole, convinto di dover affrontare la sua tredicesima fatica. Dopo aver interrogato Claudio, Ercole si esprime negativamente, ma Giove, nonostante tutto, sarebbe dell’idea di divinizzarlo. Si avanza allora Augusto, che elenca tutte le malefatte di Claudio, per cui si decide di inviarlo agli Inferi. Accompagnato da Mercurio, passando per la via Sacra, Claudio assiste al suo funerale e si rende finalmente conto di essere morto. Nell’Ade viene accolto da tutte le sue vittime e viene condannato a giocare ai dadi con un bossolo senza fondo. Caligola lo vorrebbe come suo schiavo, ma Claudio viene assegnato al suo liberto Menandro.
Il tono è evidentemente, e pesantemente, parodistico: vengono messe alla berlina le fissazioni maniacali di Claudio, la sua infermità fisica (era probabilmente spastico) e la sua presunta stupidità.
LO STILE
Il filosofo deve badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale. La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa ma in particolare nei dialoghi l'autore si serve di un linguaggio colloquiale, caratterizzata dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che, nella sua disposizione ipotattica, organizza anche la gerarchia logica interna, e sviluppa uno stile eminentemente paratattico, che, nell'intento di riprodurre la lingua parlata, frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi penetranti e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla ripetizione.
Tale prosa antitetica all'armonioso periodare ciceroniano, rivoluzionaria sul piano del gusto e destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d'arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana procedendo con un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi di brevi frasi nervose e staccate, realizzando uno stile penetrante, drammatico, ma che non sa evitare una certa teatralità.
IL CONCETTO DEL TEMPO
Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli: il tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve affrancarsi e che l'uomo comune impiega in occupazioni dispersive, e, viceversa, il tempo come unico bene in possesso dell'uomo, strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla "quantità" ma sulla "qualità" del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di raggiungere la saggezza, è l'unica nostra vera ricchezza. Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione attraverso la quFugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 " in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").
Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C. ; il dialogo sviluppa come tema centrale l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che "scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un'immortalità che "supera" il tempo, nel dialogo questa conquista si circoscrive ad una dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni").
Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/aetas; carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito.
Nel concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito.
Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi , non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell'esistenza.
CITAZIONI
· C'è una grande differenza tra il non volere e il non saper peccare. (dalle Epistole, 90)
· Che cosa misera è l'umanità se non si sa elevare oltre l'umano! (da Naturales quaestiones)
O quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit.
· Chi domanda timorosamente, insegna a rifiutare. (da Fedra, v. 593)
· Dove ci porta la morte? Ci porta in quella pace dove noi fummo prima di nascere. La morte è il non-essere: è ciò che ha preceduto l'esistenza. Sarà dopo di me quello che era prima di me. Se la morte è uno stato di sofferenza, doveva essere così prima che noi venissimo alla luce: ma non sentimmo, allora, alcuna sofferenza. Tutto ciò che fu prima di noi è la morte. Nessuna differenza è tra il non-nascere e il morire, giacché l'effetto è uno solo: non essere. (da La dottrina morale)
· Innanzi tutto è più facile respingere il male che governarlo, non accoglierlo che moderarlo, una volta accolto, perché, quando si è insediato da padrone in un animo, diventa più forte di chi dovrebbe governarlo e non si lascia troncare ne rimpicciolire. (da I dialoghi)
· La vera felicità è non aver bisogno di felicità. (da La dottrina morale)
· L'assalto del male è di breve durata; simile ad un temporale, passa, di solito, dopo un'ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest'agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male "meditazione della morte": talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca la soffocazione. Pensi che ti scriva queste cose per la gioia di essere sfuggito al pericolo? Se mi rallegrassi di questa cessazione del male, come se avessi riacquistato la perfetta salute, sarei ridicolo come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo. (da Epistulae ad Lucilium, 54, 1-4)
· Le ricchezze sono al servizio del saggio, allo sciocco comandano. (da De vita beata)
· Nessuno è infelice se non per colpa sua. (da La dottrina morale)
· Non deviare dalla natura ed il formarci sulle sue leggi e sui suoi esempi, è sapienza. (citato in Claudio Malagoli, Etica dell'alimentazione: prodotti tipici e biologici, Ogm e nutraceutici, commercio equo e solidale, Aracne, 2006, p. 173)
· Sacra è la voce del popolo. (da Rhetorum controversiae I, 1, 10)
· Un tale ordine non può appartenere a una materia che si agiti casualmente. Un incontro di elementi senza piano e senza disegno non avrebbe questo equilibrio, né una così saggia disposizione. L'universo non può essere senza Dio. (da La dottrina morale)
· Ma se sei uomo, ammira chi tenta grandi imprese, anche se fallisce. (da De vita beata, XX, 2)
· "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. (da "epistulae ad lucilium 5,47)
BIBLIOGRAFIA
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L. A. Seneca, La vita felice: La brevità della vita; L’imperturbabilità del saggio…, Milano, Mursia, 1990
L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1992
L. A. Seneca, Una morale per vivere, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1992-1993
L. A. Seneca, La vita ritirata, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1993
Per approfondimenti e reperimento dei testi nel web:
http://bcs.fltr.ucl.ac.be/Apo/apoco1.html
http://www.thelatinlibrary.com/sen.html
http://www.discipulus.it/includes/DeBrevitateVitae.pdf
http://www.riflessioni.it/enciclopedia/seneca.htm
http://www.intratext.com/Catalogo/Autori/AUT343.HTM
http://digilander.libero.it/Bukowski/Letteratura%20latina.htm#LetteraturaIImpero
http://rmcisadu.let.uniroma1.it/seneca/seneca.html
Per approfondimenti dedicati all'autore pubblicati dai principali quotidiani italiani:
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/seneca.htm
Seneca e San Paolo: per tracce di un probabile scambio di lettere tra due grandi del passato:
http://www.paginecattoliche.it/Articolo_Sordi.htm
Per approfondimenti sul contesto storico con particolare attenzione al pensiero politico dell'autore:
http://www.lastoria.org/seneca.htm
La vita e il pensiero
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull'ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all'esterno ; infatti - dice Seneca - se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchè non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l'interno si conformerà all'esterno: exemplum di questo atteggiamento è Socrate, il quale, quando era adirato, era solito "submittere vocem".
Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur.Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III).
Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perché lui stesso l’avrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sull’ira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo all’ira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell'autodominio, che é garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia é la forma naturale di costituzione: come il cosmo é tenuto insieme - secondo una tesi tipicamente stoica - da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell'impero é tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchè vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere ... Quel che importa non é morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male" (Epistole a Lucilio, 70 ).
Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur" (vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sè, della parte migliore di sè, cioè della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce l’intero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all' indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri.
Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa: "siamo tutti schiavi del destino: qualcuno é legato con una lunga catena d'oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri ... Tutta la vita é una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire" (De tranquillitate animi). Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare è accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è da Seneca compendiata -Epistulae ad Lucilium, 107 - nella sententia "il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone" ("ducunt fata volentem, nolentem trahunt"). Il dominio dei valori si trova così spostato dall'esterno all'interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L' interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed è per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata.
La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: "così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura". Tanto più che la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: "considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo". Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quand’erano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poiché "della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino". Del resto – nota acutamente Seneca – chi non è schiavo? "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria.
Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis - un’opera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto – egli scrive: "nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est" (De beneficiis, III, 18, 4). Se è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca, Epistola 42 – da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l'etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell'autosufficienza del sapiente. La costruzione e l'affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all'anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell'aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente: questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell'antichità: Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio.
La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), "soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator" ("sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore"), giacchè anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacchè "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, è quella dell’ape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta". Per questo motivo è di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi è dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda.
Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita è lunga, se sai farne uso") Il guaio è che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa (nelDe brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa":"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1).
E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica è impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica, che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.
FILOSOFIA
Dialogi (10) in 12 libri:
De providentia (a Paolino)
De constantia sapientis (ad Anneo Sereno)
De ira (3 libri)
Consolatio ad Marciam
De vita beata
De otio (ad Anneo Sereno)
De tranquillitate animi (ad Anneo Sereno)
De brevitate vitae (a Paolino)
Consolatio ad Polybium
Consolatio ad Helviam Matrem
De clementia in 3 libri.
De beneficiis in 7 libri.
Epistulae morales ad Lucilium: 124 lettere in 20 libri.
SCIENTIFICO-NATURALISTICHE
Naturales quaestiones in 7 libri.
MISTE DI PROSA E POESIA
Apokolokyntòsis divi Claudii o Ludus de morte Claudii: una satira menippea
TEATRALI
9 cothurnatae (tragedie di ambientazione greca):
Hercules furens
Troades
Phoenissae
Medea
Phaedra
Oedipus
Agamemnon
Thyestes
Hercules Aetaeus
ed una Praetexta (tragedia di ambientazione latina), sicuramente spuria, l'Octavia.
ANALISI DELLE SINGOLE OPERE
I DIALOGI
Così nominati in Quintiliano, non sono dialoghi di stampo platonico o ciceroniano (eccezion fatta per il De tranquillitate animi), ma seguono piuttosto la linea della diatriba cinico-stoica (l’autore che parla in prima persona ha come interlocutore il dedicatario dell’opera o un personaggio fittizio); quello operato da Seneca è dunque un vero e proprio spostamento semantico del termine dialogus.
Consolatio ad Marciam (39): è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, lo storico morto suicida, per consolarla della morte del figlio; Seneca ne fa un'occasione per affrontare il delicato tema del suicidio, che, coerentemente con i princìpi della dottrina stoica, è visto come positivo se motivato da una scelta compiuta razionalmente: la vita non è un bene in assoluto, ma è utile e positiva solo se vissuta in modo decoroso; il suicidio dunque può essere strumento di affermazione della libertà individuale. Modello di questo dialogus è la Consolatio ad se ipsum di Cicerone.
De ira in 3 libri (41): in base ai princìpi stoici, sommo bene è il lògos, e quindi tutto ciò che non è razionale è male e va evitato. L'ira è scelta di proposito fra le emozioni da evitare, in contrapposizione alla tesi aristotelico-peripatetica che ne fa uno strumento di stimolo all'azione. Per Seneca essa è semplicemente desiderio di punizione che si esprime in modo sbagliato; la giusta volontà punitiva è invece una lucida decisione maturata "a freddo", razionalmente. Seneca dunque mette in guardia sulle circostanze che provocano l'ira, onde prevenirla.
Consolatio ad Helviam Matrem (42-43): è dedicata a sua madre per la "perdita" del figlio, costretto in esilio in Corsica. Segue la topica consueta della consolatio ed espone le argomentazioni di consolazione tipiche del saggio stoico (autàrkeia = autosufficienza).
Consolatio ad Polybium (42-43): dedicata a Polibio, potente liberto e consigliere di Claudio, per la morte di un fratello. L'intento è evidentemente adulatorio nei confronti del princeps, nel tentativo di convincerlo a richiamarlo in Roma dall'esilio forzato.
De vita beata (58): la felicità, considerata come il sommo bene dalle filosofie ellenistiche, si ottiene, secondo gli epicurei, attraverso la hedonè, il piacere, ed il rifiuto della sofferenza, identificata con il male; secondo gli stoici, invece, il dolore non è un male, è anzi necessario all'uomo per migliorarsi. Seneca identifica il sommo bene con la virtus, ossia l'autodisciplina che l'uomo deve imporre alla propria componente emotiva. In questo Seneca, esponente del Terzo Stoicismo, è perfettamente coerente con i princìpi della dottrina stoica; egli è però conscio che le sue azioni non sono sempre coerenti con il suo pensiero: ma, si giustifica il filosofo, il saggio stoico non deve incarnare la verità, bensì solo indicarla agli altri ("fate quel che dico, non fate quel che faccio").
De otio (62): in quest’opera tarda, posteriore al ritiro a vita privata, Seneca, per quanto riguarda la problematica relativa all’otium (ossia alla vita contemplativa), prende le distanze dalla rigorosa etica stoica: quando l'impegno politico diviene impossibile o richiede compromessi troppo squallidi, meglio ripiegare su altre attività, quali letteratura e filosofia (posizione, questa, già di Sallustio). Il saggio stoico deve essere utile alla collettività; se ciò gli è impedito, lo sia almeno a se stesso e alla cerchia dei suoi amici.
De providentia (?): Seneca non intende in questa sede dimostrare l'esistenza di Dio e della Provvidenza, di cui è convinto; l'interrogativo che si pone, e a cui cerca di dare risposta, è piuttosto come possa un Dio provvidenziale ammettere l'esistenza del male. Seneca riprende qui la tematica della sofferenza, che non è male, ma è una sorta di banco di prova su cui la divinità saggia la tempra umana; male è per Seneca contrastare la volontà divina (il che è peraltro impossibile: aporìa concettuale).
De constantia sapientis (42? 62?): Seneca vi espone nuovamente la tesi stoica dell'imperturbabilità del saggio; il sapiente non può subire offesa perché è in possesso dell’unico vero bene: la serenità interiore.
De tranquillitate animi (?): sappiamo per certo che questo dialogo è posteriore al De constantia sapientis; è l'unico in forma effettivamente dialogica. Tratta della serenità dell'anima. Il destinatario, Anneo Sereno, è introdotto a parlare per chiedere aiuto in un momento di turbamento psicologico: come si può raggiungere la serenità? Non certo cambiando luogo o viaggiando di continuo ("ovunque tu vada ti porti dietro te stesso"), bensì facendo il bene, vivendo in modo frugale, frequentando buone compagnie, accettando la necessità della sofferenza e della morte.
De brevitate vitae (42? 62?): la vita dell'uomo non è mai troppo breve se vissuta intensamente. Non in quantità, ma in qualità si misura il valore della vita umana: "longa est vita si plena".
LE ALTRE OPERE FILOSOFICHE: I TRATTATI
De clementia: non è un vero e proprio trattato di politica: risale ai primi anni del regno di Nerone, ed il suo scopo è l'educazione del giovane principe. La posizione di Seneca nei confronti della monarchia denota una lucida coscienza politica: non hanno ormai più senso le nostalgie repubblicane (e con esse l'opposizione stoica al principato): Seneca accetta dunque la forma istituzionale del principato (che peraltro è specchio dell’ordinamento cosmico: un unico Dio, un unico princeps); ciò che contesta è la sua degenerazione e l'abuso di essa; per essere una figura positiva, il princeps dev’essere come un padre per i suoi sudditi (paternalismo illuminato).
De beneficiis (62-64): ci mostra un Seneca ormai disincantato e deluso, che ha visto fallire in pieno il suo programma pedagogico e politico. Seneca si rivolge perciò ora, con gli stessi ideali di fondo, ad un nuovo pubblico: la classe abbiente, la sola che possa opporre un rimedio alla povertà e alla miseria delle masse, se educata alla generosità e alla benevolenza. E' la stessa ottica paternalistica in cui si inquadrava il suo programma politico, e possiede già in nuce gli elementi della non lontana dottrina cristiana. È incentrato sul significato del beneficio (che cosa significa "fare del bene"?) e soprattutto sulla disposizione d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve.
Epistulae morales ad Lucilium: sono le 124 lettere, divise in 20 libri, che Seneca scrisse all’amico Lucilio, per lo più dopo il 62. Seneca non è più un personaggio pubblico, e si esprime in questa sede con un linguaggio più discorsivo e colloquiale di quello a cui ci aveva abituati; nonostante la forma privata dell'epistolario, avvertiamo comunque che Seneca teneva in considerazione la futura pubblicazione delle sue lettere. I temi trattati sono molteplici e vari e già presenti in alcuni Dialogi, ma due sono i motivi ricorrenti: la figura del saggio stoico e la morte. La filosofia senecana trova nell'epistolario un'esposizione pressoché completa, anche se non sistematica. E' questo un "difetto" riconosciuto al pensiero senecano da alcuni critici: facilmente contestabile, però, se si considera che una filosofia focalizzata sull'etica, come tipico della Terza Stoà, non necessita di sistematicità in senso classico.
Naturales quaestiones, in 7 l.: per la datazione si fa riferimento ad una cometa apparsa nel 60 d. C. e ad un terremoto che danneggiò Pompei nel 62. Rispondono anch'esse alla necessità di ripiegare su attività alternative all'impegno politico diretto. Sono di fatto un tentativo di collegare scienza e morale, evidente già dalla struttura delle singole quaestiones, ciascuna introdotta da un problema di carattere etico e conclusa in una specie di "morale" o comunque dalle conseguenze etiche della quaestio trattata. L’opera ha come argomento la scienza della terra, la fisica e i fenomeni atmosferici. Solo con lo studio dei fenomeni fisici si può vincere la paura e l’ignoranza: quindi la fisica è pertinente alla morale. Ha carattere dossografico (vengono cioè riportate le opinioni di filosofi greci e latini). Si deplora il comportamento di chi mette le scoperte scientifiche al servizio dei propri vizi. Seneca conclude l’opera con la certezza che le scoperte scientifiche continueranno e che le generazioni future conosceranno cose che ora non si conoscono.
LE TRAGEDIE
Delle molte tragedie del repertorio senecano che possediamo, la praetexta spuria (l'Octavia) è forse la più celebre: essa riguarda la morte della giovanissima Ottavia, sposa di Nerone, sacrificata per permettere le nozze del princeps con Poppea. Sicuramente falsa, in quanto troppo... "profetica" riguardo alla morte di Nerone, avvenuta dopo quella di Seneca, e poi per la comparsa dello stesso Seneca fra i personaggi, è tuttavia un'opera interessante, il cui vero autore potrebbe essere Anneo Cornuto, liberto di Seneca e maestro di filosofia.
Le 9 cothurnatae in nostro possesso sono tratte da opere dei tragici greci a noi note, eccezion fatta per il Thyestes.
Le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata ad un quesito di base: sono state composte per fini puramente artistici o con obiettivi politici? Se infatti rientrano nel progetto pedagogico di educazione del princeps, sono databili ai primi anni del principato di Nerone; se invece si tratta di un ripiego artistico del Seneca deluso dalla politica, sono databili agli ultimi anni della sua vita.
E ancora: erano destinate alla rappresentazione o alla lettura nelle sale di recitazione (recitatio)? L'uccisione dei figli di Medea in scena (quando sappiamo che, per questioni educative, sin dai primi tragici greci gli omicidi non potevano avvenire in scena) e lo stile tipico della recitatio inducono buona parte della critica a propendere per la seconda ipotesi.
Infine è da sottolineare che il tragico in Seneca non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico: la realtà esistenziale è assolutamente negativa, e nell'opera compaiono come personaggi positivi solo e sempre i minori, i subalterni, destinati comunque a rimanere inascoltati. L'aspetto che più colpisce dei personaggi di Seneca è che non dialogano fra loro: parlano, ma non si ascoltano.
Lo stile della tragedia senecana è fortemente influenzato dalla retorica asiana (stile gonfio, barocco, gusto per il macabro).
Eccone il contenuto in estrema sintesi:
Hercules Furens: Ercole impazzito uccide moglie e figli, poi, rinsavito, va ad Atene (modello è l' "Eracle" di Euripide).
Troades: descrive il dramma delle donne troiane destinate alla schiavitù presso i capi greci (modello sono le "Troiane" di Euripide).
Phoenissae: tratta il mito di Edipo e la rivalità dei figli Eteocle e Polinice per succedere al trono (modello sono le "Fenicie" di Euripide).
Medea: Medea, per vendicarsi dell’abbandono da parte di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui (modello è la "Medea" di Euripide).
Phaedra: tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito. La tragedia è di estremo interesse documentario perché non rispecchia affatto la trama dell’ "Ippolito coronato" di Euripide, che dovrebbe esserne il modello; la critica suppone pertanto che il prototipo di questa tragedia fosse il perduto "Ippolito velato", dramma giudicato troppo scandaloso dal pubblico ateniese e pertanto "rifatto" da Euripide l’anno successivo (428 a.C.) con il titolo di "Ippolito coronato";
Oedipus: Edipo scopre di essere l’uccisore del padre Laio e di avere sposato la madre Giocasta (modello è l' "Edipo re" di Sofocle).
Agamemnon: vi è rappresentato l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra (modello è l' "Agamennone" di Eschilo).
Thyestes: è la più celebre (e truculenta) fra le tragedie senecane: riprende l’atroce misfatto di Atreo, che imbandisce a Tieste le carni dei suoi figli.
Hercules Oetaeus: Ercole è ucciso dalla tunica intrisa del sangue velenoso del centauro Nesso, inviatagli dalla moglie Deianira con l’intenzione di riportarlo al suo amore (modello sono le "Trachinie" di Sofocle).
SATIRA MENIPPEA
L’ultima opera del corpus senecano, prosimetrica (= mista di prosa e versi), com’è tipico della satira menippea, è la Apokolokyntòsis divi Claudii (già nel titolo parodistica: Apokolokyntòsis sta per Apotheòsis).
Il significato del titolo (Apokolokyntòsis = "inzuccatura", "trasformazione in zucca"?) è controverso: secondo una diffusa ipotesi, esso significherebbe che alla sua morte Claudio, invece di essere assunto fra gli dèi, è stato assunto... fra le zucche (o gli zucchini); nulla di simile accade però nell’opera. Altri traducono "Infinocchiatura del divino Claudio", essendo per lui l'apoteosi una vera fregatura (egli non sarà affatto divinizzato)!
La critica riconosce piuttosto uniformemente che, per essere una satira, manca alla Apokolokyntòsis la vis polemica: più che un'invettiva sembra un (pesante) scherzo, un ludus. E forse, a giudicare dal sottotitolo (Ludus de morte Claudii), proprio questo voleva essere.
Contenuto:
Dopo che Mercurio riesce ad ottenere che Claudio esali finalmente l’anima, cessando così di sembrare vivo, si presenta a Giove un essere mostruoso, zoppo e che parla in modo incoerente. Viene creduto un mostro e sottoposto all’attenzione di Ercole, convinto di dover affrontare la sua tredicesima fatica. Dopo aver interrogato Claudio, Ercole si esprime negativamente, ma Giove, nonostante tutto, sarebbe dell’idea di divinizzarlo. Si avanza allora Augusto, che elenca tutte le malefatte di Claudio, per cui si decide di inviarlo agli Inferi. Accompagnato da Mercurio, passando per la via Sacra, Claudio assiste al suo funerale e si rende finalmente conto di essere morto. Nell’Ade viene accolto da tutte le sue vittime e viene condannato a giocare ai dadi con un bossolo senza fondo. Caligola lo vorrebbe come suo schiavo, ma Claudio viene assegnato al suo liberto Menandro.
Il tono è evidentemente, e pesantemente, parodistico: vengono messe alla berlina le fissazioni maniacali di Claudio, la sua infermità fisica (era probabilmente spastico) e la sua presunta stupidità.
LO STILE
Il filosofo deve badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale. La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa ma in particolare nei dialoghi l'autore si serve di un linguaggio colloquiale, caratterizzata dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che, nella sua disposizione ipotattica, organizza anche la gerarchia logica interna, e sviluppa uno stile eminentemente paratattico, che, nell'intento di riprodurre la lingua parlata, frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi penetranti e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla ripetizione.
Tale prosa antitetica all'armonioso periodare ciceroniano, rivoluzionaria sul piano del gusto e destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d'arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana procedendo con un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi di brevi frasi nervose e staccate, realizzando uno stile penetrante, drammatico, ma che non sa evitare una certa teatralità.
IL CONCETTO DEL TEMPO
Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli: il tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve affrancarsi e che l'uomo comune impiega in occupazioni dispersive, e, viceversa, il tempo come unico bene in possesso dell'uomo, strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla "quantità" ma sulla "qualità" del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di raggiungere la saggezza, è l'unica nostra vera ricchezza. Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione attraverso la quFugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 " in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").
Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C. ; il dialogo sviluppa come tema centrale l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che "scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un'immortalità che "supera" il tempo, nel dialogo questa conquista si circoscrive ad una dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni").
Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/aetas; carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito.
Nel concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito.
Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi , non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell'esistenza.
CITAZIONI
· C'è una grande differenza tra il non volere e il non saper peccare. (dalle Epistole, 90)
· Che cosa misera è l'umanità se non si sa elevare oltre l'umano! (da Naturales quaestiones)
O quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit.
· Chi domanda timorosamente, insegna a rifiutare. (da Fedra, v. 593)
· Dove ci porta la morte? Ci porta in quella pace dove noi fummo prima di nascere. La morte è il non-essere: è ciò che ha preceduto l'esistenza. Sarà dopo di me quello che era prima di me. Se la morte è uno stato di sofferenza, doveva essere così prima che noi venissimo alla luce: ma non sentimmo, allora, alcuna sofferenza. Tutto ciò che fu prima di noi è la morte. Nessuna differenza è tra il non-nascere e il morire, giacché l'effetto è uno solo: non essere. (da La dottrina morale)
· Innanzi tutto è più facile respingere il male che governarlo, non accoglierlo che moderarlo, una volta accolto, perché, quando si è insediato da padrone in un animo, diventa più forte di chi dovrebbe governarlo e non si lascia troncare ne rimpicciolire. (da I dialoghi)
· La vera felicità è non aver bisogno di felicità. (da La dottrina morale)
· L'assalto del male è di breve durata; simile ad un temporale, passa, di solito, dopo un'ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest'agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male "meditazione della morte": talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca la soffocazione. Pensi che ti scriva queste cose per la gioia di essere sfuggito al pericolo? Se mi rallegrassi di questa cessazione del male, come se avessi riacquistato la perfetta salute, sarei ridicolo come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo. (da Epistulae ad Lucilium, 54, 1-4)
· Le ricchezze sono al servizio del saggio, allo sciocco comandano. (da De vita beata)
· Nessuno è infelice se non per colpa sua. (da La dottrina morale)
· Non deviare dalla natura ed il formarci sulle sue leggi e sui suoi esempi, è sapienza. (citato in Claudio Malagoli, Etica dell'alimentazione: prodotti tipici e biologici, Ogm e nutraceutici, commercio equo e solidale, Aracne, 2006, p. 173)
· Sacra è la voce del popolo. (da Rhetorum controversiae I, 1, 10)
· Un tale ordine non può appartenere a una materia che si agiti casualmente. Un incontro di elementi senza piano e senza disegno non avrebbe questo equilibrio, né una così saggia disposizione. L'universo non può essere senza Dio. (da La dottrina morale)
· Ma se sei uomo, ammira chi tenta grandi imprese, anche se fallisce. (da De vita beata, XX, 2)
· "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. (da "epistulae ad lucilium 5,47)
BIBLIOGRAFIA
S. Rossi, La critica letteraria in L. Anneo Seneca, Messina, Tip. D’Amico, 1905
L.Corvaglia, La casa di Seneca: commedia in tre atti, Matino, F.lli Carra, 1925, 185 p.
G. Marchiano, La vitalità dell’ideale storico-educativo nello stoicismo di Seneca, Napoli, Picone, 1934
Q. Ficari, La morale di Seneca, Pesaro, Tip. Federici, 1938
M. Coccia, La consolatio in Seneca, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1958-1959
A. Traina, Lo stile drammatico del filosofo Seneca, Bologna, Patron, 1984, 230 p.
G. Pisi, La peste in Seneca tra scienza e letteratura, Parma, Ist. di lingua e letteratura latina, 1989
E. S. Piromalli, Seneca e il suo pensiero politico-giuridica, Milano, Università degli Studi, 1991
F. Citti, Seneca nel novecento: sondaggi sulla fortuna di un classico, Roma, Carocci, 2001
G. Casillo e R. Urraro (a cura di), Litterarum voces, Firenze, ed. Bulgarini, 2003
E. Malaspina (a cura di), Biliografia senecana del XX secolo, Bologna, Pàtron, 2005 (volume unico)
M. Bettini (a cura di), Cultura e letteratura a Roma. Profilo storico e testi, Scandicci, La Nuova Italia, 2005
L. A. Seneca, La vita felice: La brevità della vita; L’imperturbabilità del saggio…, Milano, Mursia, 1990
L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1992
L. A. Seneca, Una morale per vivere, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1992-1993
L. A. Seneca, La vita ritirata, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1993
Per approfondimenti e reperimento dei testi nel web:
http://bcs.fltr.ucl.ac.be/Apo/apoco1.html
http://www.thelatinlibrary.com/sen.html
http://www.discipulus.it/includes/DeBrevitateVitae.pdf
http://www.riflessioni.it/enciclopedia/seneca.htm
http://www.intratext.com/Catalogo/Autori/AUT343.HTM
http://digilander.libero.it/Bukowski/Letteratura%20latina.htm#LetteraturaIImpero
http://rmcisadu.let.uniroma1.it/seneca/seneca.html
Per approfondimenti dedicati all'autore pubblicati dai principali quotidiani italiani:
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/seneca.htm
Seneca e San Paolo: per tracce di un probabile scambio di lettere tra due grandi del passato:
http://www.paginecattoliche.it/Articolo_Sordi.htm
Per approfondimenti sul contesto storico con particolare attenzione al pensiero politico dell'autore:
http://www.lastoria.org/seneca.htm
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