17 Dicembre 2012
Una caratteristica singolare di Pier Cesare Bori, fra le tante che fanno di lui una figura davvero eccezionale, è il suo radicale rifiuto di qualsiasi retorica: un rifiuto decisamente anomalo negli scenari d'oggi, e che lo accomuna piuttosto, mi sembra, ai maestri delle tradizioni sapienziali a lui cari, come i saggi dell'antichità cinese da lui amati e dei quali aveva offerto letture di speciale intensità, fra le varie e molteplici di cui si è alimentato il suo fertile itinerario ermeneutico. Bori è morto il 4 novembre a Bologna, dove ha insegnato dal 1970 Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Filosofia Morale e Diritti Umani alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Alma Mater. Da qualche giorno era stato nominato titolare della cattedra UNESCO per il pluralismo religioso e la pace. Non ha voluto che si tenessero riti né discorsi al suo funerale, ma ha chiesto di osservare dieci minuti di silenzio, e che poi riprendessero le conversazioni fra gli amici. Aveva affidato a un breve testo pubblicato in questi giorni dal Mulino e intitolato CV 1937-2012, il suo curriculum vitae, una sintesi della sua formazione e della sua storia che configura un autoritratto sobrio e autoironico, e che è anche un messaggio di congedo. Ne riporto la pagina conclusiva, che prende le mosse da uno stare in silenzio al capezzale di Giuseppe Alberigo, scomparso nel giugno del 2007: «Con questo silenzio anch'io mi fermo. Come già accennavo, la spaccatura aveva marcato tutta la mia vita, che sembrava tutta vanamente impegnata a colmarla [.]. Cristianesimo, ebraismo, islam, buddhismo: mistica o mondanità, monachesimo o laicità, cattolicesimo umanista ed essenzialità quacchera, rinuncia alla bellezza e via della bellezza. Tante possibilità che si delineano anche in volti di amici così diversi fra di loro, pure tutti affabili. Preghiera o meditazione. Ecco, volevo dire che intravedo adesso - nell'unità della mia vita concreta e nella connessione di questa con tutte le altre vite - una ricomposizione possibile. Forse è giusto che la si intraveda solo ora, verso il termine, mentre in itinere le divisioni restano, e del resto chissà quali prove e tentazioni mi e ci attendono ancora. Ma è importante indicare che questa unità è possibile, indicare una direzione. È possibile - dico ancora questo, che è vitalmente importante - imparare a vivere nella continua e tranquilla transizione dall'invocazione per tutto quello che non siamo e non abbiamo ancora (Luca 10,13) alla contemplazione in cui, ben saldi nell'imago Dei, guardiamo consapevoli, sorridendo, al trascorrere della figura di questo mondo» (Bori 2012, pp. 151-152).
Un anno fa Bori aveva accettato di parlare a Uomini e profeti di Gabriella Caramore - lo spazio di Radiotre di cui più volte era stato ospite su temi diversi - della malattia che lo aveva colpito, il mesotelioma da amianto, la cui origine risaliva alla sua giovinezza a Casale Monferrato: le polveri dello stabilimento Eternit avevano raggiunto lui come tanti altri, senza lasciargli scampo. Quel male subdolo e tremendo che gli ha portato via il respiro egli l'ha affrontato con coraggio, con lucidità, e con un'inesausta generosità, fino alla fine, insieme a tutti coloro che lo circondavano: pronto ad ascoltare, fin nei suoi giorni estremi, i suoi interlocutori, a prestare orecchio ai loro discorsi e ai loro problemi. «Quanto meno sarà presente l'io e il mio», aveva detto, «tanto meno ci sarà dolore»; ed è in totale coerenza con questo assunto che egli ha vissuto l'ultima fase della sua vita, come se si trattasse di una prova suprema, che gli permetteva di saggiare fino in fondo la validità dei principi a cui aveva conformato la sua esistenza.
Nei giorni che hanno seguito la sua scomparsa, vari interventi hanno ripercorso il suo itinerario di vita e di pensiero (lo hanno fatto, ad esempio, Alberto Melloni sul Corriere della Sera, e Vittorio Capecchi su Inchiestaonline) e da prospettive differenti hanno sottolineato le qualità peculiari di un'esperienza che lo aveva portato a esplorare luoghi molteplici da Occidente a Oriente: da Gregorio Nisseno a Dostoevskij, da Freud a Simone Weil, da George Fox a Ibn Tufayl, da Tolstoj al Laozi, da Pico alla Bhagavadgîtâ ai testi pali buddhisti. Alla straordinaria vastità delle sue letture che spaziavano in ambiti e in linguaggi così diversi - arabo e cinese inclusi - e di un peregrinare che ha incluso Giappone, Russia, Stati Uniti, e che negli anni recenti si è snodato fra l'altro da Tunisi a Pechino, era costantemente sottesa un'intima tensione. Per dirla nella formulazione efficace con cui Gabriella Caramore ha intitolato la sua commossa commemorazione, si trattava della tensione inesausta di un "cercatore di verità" che non si è mai fermato.
Credo sia importante sottolineare che tale infaticabile quête si è configurata come una ricerca tanto audace quanto rigorosa, e ha assunto le modalità di una pratica di lettura costantemente volta alla condivisione, continuamente inscritta nel dialogo con gli amici e con gli allievi. Così in proposito egli scriveva nell'introduzione a un suo piccolo volume, Incipit. Cinquant'anni cinquanta libri (1953-2003) che compendiava, articolandola per decadi, la sua esperienza: «Qualche tempo fa ho cominciato a presentare regolarmente a un gruppo di miei allievi e amici alcuni libri che per me sono stati importanti [.]. Certo, i libri non sono la vita, quel che più conta è quanto viene da noi stessi; ma ci sono dei libri che ci hanno aiutato a esprimere quel che avevamo dentro, che ci hanno fatto crescere e in un certo senso crescono con noi» (Bori 2005, p. 9) Ognuno dei libri che faceva parte del suo iter rappresentava per lui una sorta di crocevia di incontri e di rapporti; come nelle grandi fonti classiche - platoniche e confuciane - frequentate, era da lui acutamente avvertito il senso della relazionalità costitutiva di uno studio volto a farsi pratica di vita. Intorno a tali crocevia si configurava una dialettica che apriva un inquieto e mai sopito interrogarsi, a partire da una radicale problematizzazione di quell'orizzonte di teologia cattolica che aveva costituito la prima tappa del suo cammino. Così ad esempio egli descrive il significato del suo incontro con Histoire et esprit. L'intelligence de l'écriture d'après Origène di Henri de Lubac (de Lubac 1950): «Da quel libro ho appreso che un apporto fondamentale alla teologia cristiana era venuto da una figura discussa e contestata. Ho acquisito una diffidenza sia per l'ignoranza della filologia, sia per un'esegesi arida, che non si preoccupa di nutrire spiritualmente il lettore. Ho concepito un'idea di dignità di lettore, animato dallo spirito quanto la Scrittura, che appunto cresce con chi la legge (la formula che ho derivato da P. Benedetto Calati). Da questo impulso trassi poi il movimento che mi portò ad ammettere la continuità del profetismo (era quanto aveva paventato il de Lubac con La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore!): di qui l'adesione alla Società degli amici» (Bori 2005, p. 49).
Mi sembra che in questo passo siano limpidamente compendiate le istanze fondamentali da cui ha preso le mosse un'infaticabile attività scientifica che, come ha osservato Francesco Borghesi in un penetrante saggio dedicato alla peculiare «etica della lettura» boriana, ha seguito una via «tanto apparentemente anomala quanto profondamente e intimamente congruente», e «ha da sempre portato i germi di interessi teorici molto specifici mai disuniti dalla volontà di una messa alla prova pratica» (Borghesi 2010, p. 9). Il metodo che vi si definisce è una costante - e sorprendente - coniugazione di rigore e di apertura: l'acuta esigenza di fare della lettura un nutrimento spirituale non è mai separata dall'esercizio fine e rigoroso della filologia, e l'una e l'altro convergono a definire una dinamica di interpretazione per cui «la Scrittura cresce con chi legge». Come Bori ribadisce più volte, dal suo scritto sull'interpretazione infinita (1987) al suo contributo al Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento apparso nel 2010, si tratta di vedere nei testi «non solo dei documenti storici, ma una realtà vivente, che parla al lettore, e che richiede di essere tradotta nella sua vita, e in quella della comunità» (Bori 2010, p. 152). Quest'esigenza, che scaturisce dall'ermeneutica biblica alimentando un'incessante tensione verso un cristianesimo radicale, insofferente di apparati istituzionali e di versioni rigidamente codificate, e che ha trovato fra l'altro una significativa espressione nella sua adesione alla Società degli amici, costituisce al contempo la premessa dell'apertura verso testi provenienti da orizzonti diversi e distanti: sulle orme di Tolstoj e di Simone Weil, autori ai quali ha dedicato frequentazioni intense che si sono concretate in lavori importanti (Bori 1994, 1995), egli definisce un'originale prospettiva che è universalistica e al contempo irriducibilmente pluralistica: «universalismo come pluralità delle vie» (Bori 2004a) significa cercare ciò che accomuna diverse culture e tradizioni senza mai tradursi in una loro uniformazione, senza mai spegnere la percezione della loro concreta polifonia, del corposo linguaggio in cui ciascuna si esprime.
Fra i molti esempi di quest'atteggiamento che si potrebbero addurre, si veda questo passo sul Laozi o Daodejing, il classico del taoismo da lui prediletto che dagli anni Settanta lo ha sempre accompagnato: «La lettura del Daodejing mi sottraeva al moralismo della tradizione a cui, nonostante tutto, appartenevo. Imparai ad accedere all'originale cinese e per questo mi sentivo un signore. Intrapresi lo studio della lingua, dopo l'arabo, appunto per poter ricorrere all'originale dei classici [.]. Il prologo è fondamentale, ma è molto difficile. [.] Forse si vuole qui avviare chi recita il testo a una mistica naturalistica. Non si nega il bisogno di un pensiero concettuale, nominalistico, che traccia i confini tra una cosa e l'altra, e definisce il tao "madre", ma si afferma che esiste un atteggiamento ulteriore di chi non dà nomi e contempla così le perfezioni della realtà innominata. [.] In ogni caso l'invito a ritornare bambino, ad accettare di stare indietro e in basso, a non agire, suonava gradito: in una formulazione sapienziale e naturale riscoprivo cose che avevo appreso in termini religiosi e autoritari, di ascesi e mortificazione» (Bori 2005, p. 117).
E ancora, agli anni Settanta appartiene un incontro rilevante per la definizione della sua prospettiva, quello con L'uomo Mosé e la religione monoteistica di Freud, alla cui traduzione ha contribuito e alle cui tesi ha dedicato molta attenzione (Bori 1976): «un libro singolare» - egli osservava - «in cui Freud compie un atto di disaffiliazione/riappropriazione del giudaismo», recuperando infine il contenuto etico universalistico presente nel profetismo ebraico (Bori 2005, p. 108). Più in generale, mi sembra che questo suo confronto con Freud costituisca per lui una sorta di antidoto critico rispetto alle tentazioni autoritarie insite nei monoteismi e alle loro effettive e/o potenziali derive dogmatiche. In questa visuale, laicità e religiosità non si configurano come aspetti antitetici, ma come atteggiamenti intimamente connessi: «Dalla psicoanalisi ho imparato molto, ma è difficile dire cosa, forse a riconoscere le basi corporee e istintuali del pensiero, diffidando del sapere astratto che nasconde il più rozzo non-pensiero, dell'egocentrismo che si traveste da amore universale, dell'umiltà dietro la quale si cela la superbia» (Bori 2005, p. 111).
Su questo sfondo prende corpo, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, un filone di riflessione sui fondamenti dei diritti umani che si accompagna al concreto impegno con Amnesty International. Come sottolinea Dino Buzzetti in una sua bella nota biografica, nella prospettiva di Bori tale questione non è circoscrivibile entro i limiti di un dibattito puramente giuridico, ma postula un più profondo confronto sul piano delle motivazioni (Buzzetti 2010, pp.5-8). È possibile una formulazione transculturale dei diritti umani, tale cioè da sottrarli all'accusa di essere merely western? E quale rapporto si può configurare fra tradizioni antiche e moderno linguaggio dei diritti? La risposta a queste domande è tentata in Per un consenso etico tra culture, che individua nel tema della com-passione una risorsa in tal senso essenziale e che, sfatando il luogo comune secondo il quale la Dichiarazione dei diritti sarebbe frutto di un'elaborazione meramente eurocentrica, ne pone in luce gli aspetti interculturali, e segnatamente il cruciale contributo del confucianesimo (è ren, il "senso della reciprocità" confuciano a tradursi nel termine "coscienza"): «L'universalità dei diritti dell'uomo non suppone una concezione definita e costante della natura umana, ma piuttosto una idea di natura come attitudine tendenzialmente universale a partecipare al bisogno e alla sofferenza dell'altro (nelle diverse tradizioni: "umanità", "misericordia, nella Dichiarazione dei diritti umani: "ragione e coscienza")» (Bori 1991, p. 89).
Si connette a questi interessi il lavoro su Pico e sull'Oratio de hominis dignitate - di cui Bori ha fra l'altro promosso la traduzione in cinese e in arabo (2010) - e la ricerca sul tema dell'Imago Dei, intorno alla quale egli ha animato un largo confronto interculturale che ha avuto fra i suoi momenti salienti il convegno internazionale del 2009 In the Image of God: Foundations and Objections within the Discourse of the Human Dignity (Melloni, Saccenti 2010). Negli ultimi anni, in particolare, aveva assunto crescente importanza per lui il rapporto con il mondo cinese: era stato a Pechino nel 2009 (in quell'occasione ho avuto il privilegio di accompagnarlo), e vi era tornato per trascorrere un più lungo periodo a Beida nel 2010. Della Cina non lo attraevano soltanto i prediletti classici e gli ambienti dei seminari filosofici, ma anche la gente e la vita palpitante delle strade, che osservava con affettuosa curiosità.
Ma vi erano anche altre e diverse distanze che attraversava. Dal '98 insegnava in carcere, alla "Dozza" di Bologna, a detenuti soprattutto stranieri, specialmente maghrebini. Così ne parlava in "Essere gharîb in questo mondo" apparso su Inchiesta nel 2004: «Ho cercato questa esperienza non come una iniziativa umanitaria, ma come una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e messe alla prova: la possibilità di un discorso etico e di una formazione etica che potessero reggere alla prova della differenza culturale. [.] Le nostre attività si possono così riassumere: a) insegnamento: "Filosofia morale d'Oriente e d'Occidente" basata su una sequenza di testi; "Passi verso un ethos condiviso" b) insegnamento e pratica della meditazione vipassana [.]. Laicità, quindi, ma non nel senso di agnosticismo, ma nel senso del "pluralismo delle vie" [.] Si tratta di mostrare che esistono molte vie spirituali, che in tutte occorre perseguire "virtù e conoscenza" [.]. In terzo luogo, fiducia nella possibilità di una liberazione attraverso il sapere, fiducia nella "luce che illumina ogni uomo", fiducia nella pratica della consapevolezza, fiducia nella pedagogia della lettura di grandi testi. [.] Non sappiamo se la prigione sia riformabile, le persone lo sono sempre (e non si parla solo dei detenuti)» (Bori 2004 b). E che cosa fosse per lui la "lettura di grandi testi", lo si può constatare in un finissimo saggio che è uno dei suoi ultimi, intitolato Star basso e dedicato all'antropologia religiosa di Alessandro Manzoni (Bori 2011). Mi sembra una bella esemplificazione del suo peculiare stile esegetico, fatto di rigore e di passione insieme. Vi si disegna un ritratto di Manzoni che lo sottrae agli stereotipi pigri, ai clichés inerti, alla banalità e alla prevedibilità dei luoghi comuni, per restituirne integralmente l'irriducibile complessità e l'insopprimibile tensione. In un autore diverso e distante da sé, Bori può così riconoscere, senza minimamente occultarne la distanza e la differenza dalle proprie posizioni, ciò che invece li accomuna: una vibrante istanza di giustizia, e la ferma rivendicazione della dignità di ogni essere umano, "fatto a Sua immagine". E ancora, può riconoscerne come affine la propria la scelta di umiltà: quello "star basso" verso cui egli vede convergere il precetto cristiano e l'esortazione del Laozi.
A conclusione di questa inevitabilmente sommaria e parziale rievocazione, si avverte quanto siano parole povere e inadeguate quelle che si possono dire intorno a un amico e a un maestro qual era Pier Cesare Bori. È dunque meglio affidarsi alle sue, in quell'Incipit già più volte richiamato, che rilette oggi assumono anche, in qualche misura, il sapore di un presagio: «Certo, quando dopo le espressioni augurali dell'ultima scheda, mi è venuto da scrivere explicit, c'è stata una sensazione dolorosa, di dispersione e di vuoto. E io? E le mie cose? E poi? Poi invece ho parlato a me stesso e ho ricordato l'insegnamento antico e diffuso: quanto più aprirai le mani e lascerai andare tutto quel che sei o ti appartiene, tanto più resterai connesso alla vita, agli altri. Tanto più resterai con loro». (Bori 2005, pp. 11-12)
Bibliografia
- Borghesi F., "'Al posto della morte c'era la luce': l'etica della lettura di Pier Cesare Bori", in Melloni A., Saccenti R. (eds)., In The Image of God. Foundations and Objections within the Discourse on Human Dignity. In Honour of Pier Cesare Bori, LIT Verlag, Berlin 2010, pp. 9-24.
- Bori P.C. (1976), Il Mosé di Freud: per una prima valutazione storico-critica, in «Sic. Materiali per la psicoanalisi», 6, 1976, pp. 21-37.
- Id. (1987), L'interpretazione infinita. L'ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, il Mulino.
- Id. (1995, 1991), Per un consenso etico fra culture, Marietti, Genova-Milano.
- Id. (1995), L'altro Tolstoj, il Mulino, Bologna.
- Id. (1994), Ogni religione è l'unica vera. L'universalismo religioso di Simone Weil, in «Filosofia e teologia», 8, 1994, pp. 393-403.
- Id. (1996, rist. 2009), Per un percorso etico fra culture, a cura di S. Marchignoli, Carocci, Roma.
- Id. (2000), Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, testo latino, versione it, apparato testuale a cura di Saverio Marchignoli, Feltrinelli, Milano.
- Id. (2004a), Universalismo come pluralità delle vie, Marietti, Genova-Milano.
- Id. (2004b), Essere gharîb in questo mondo, in «Inchiesta» 144-145, aprile-settembre 2004 (riprodotto in www.inchiestaonline.it ).
- Id. (2005), Incipit. Cinquant'anni cinquanta libri (1953-2003), Marietti, Genova-Milano.
- Id. (2008), Lampada a se stessi: Letture fra università e carcere, Marietti, Genova-Milano.
- Id. (2010), Bibbia: tradizione ed ermeneutica cristiana, in Melloni A. (a cura di), Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, il Mulino, Bologna, pp. 140-152. - Id. (2011), "Meditazioni sulla presenza", 11 novembre 2011, www.inchiestaonline.it
- Id. (2012), "Quando il silenzio è una cosa concreta. L'esperienza delle carceri", 17 giugno 2012, www.inchiestaonline.it
- Id. (2012), CV 1937-2012, il Mulino, Bologna.
- Id. (2011), "Star basso": l'antropologia religiosa di Alessandro Manzoni, in Melloni A. (a cura di), Cristiani d'Italia, vol.I, Roma, pp. 169-181, ora anche in rete, www.treccani.it/enciclopedia, e riprodotto in www.inchiestaonline.it
- Buzzetti D. (2010), Pier Cesare Bori, in Melloni A., Saccenti R. (eds.), In The Image of God. Foundations and Objections within the Discourse on Human Dignity. In Honour of PierCesare Bori, LIT Verlag, Berlin, pp. 5-8.
- Capecchi V. (2012), "É morto PierCesare Bori, uomo di pace e di etica interculturale", 6 novembre 2012, www.inchiestaonline.it
- Crisma A. (2007), Il problema dei diritti umani in Cina in un orizzonte di universalismo contestuale, in Mattarelli S. (a cura di), Il senso della Repubblica. Doveri, Franco Angeli, Milano, pp. 179-190.
- Id. (2012), Il confucianesimo: essenza della sinità o costruzione interculturale?, in «Prometeo», 30, 119, settembre 2012, pp. 68-81
- Henri de Lubac (1950), Histoire et esprit. L'intelligence de l'écriture d'après Origène, Aubier, Paris.
- Freud S. (1977), L'uomo Mosé e la religione monoteistica, tr. it. di P.C Bori, G. Contri, E. Sagittario, Boringhieri, Torino.
- Melloni A. (2012), "Bori, si è spento il filosofo che cercava l'altrove", Corriere della sera, 5 novembre 2012
- Pico della Mirandola (2010), Lunwende zunyan, trad. cinese della Oratio de hominis dignitate, Beijing Daxue Chubanshe, Beijing.
- "Pier Cesare Bori, un cercatore di verità", con Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Fabian Lang, in Uomini e profeti di Gabriella Caramore, Radiotre, 10 novembre 2012.
Amina Crisma
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