di PIERGIORGIO ODIFREDDI
Qualcuno lo ha definito il "Bobby Fisher della
filosofia". Ma per questo sessantenne il problema è coniugarla con la
matematica
Più che un professore è una leggenda vivente Ha insegnato a
Harvard e Princeton senza aver mai preso il dottorato
Quando Carnap riportò alcune frasi del pensatore tedesco le trovai
assurde e pensai che fossero inventate. Non credo che si debba essere per forza
un matematico per essere un buon filosofo benché la cosa aiuti
A tre anni
Saul Kripke sorprese la madre facendole notare che se davvero Dio fosse
dovunque, per entrare in cucina dovremmo scacciarne una parte fuori. A
diciannove stupì il mondo matematico risolvendo il problema, che aveva
impegnato i logici da Aristotele a Carnap, di dare un significato alla
logica modale, cioè a termini quali "possibile" e
"necessario". A trenta rivoluzionò la filosofia analitica
improvvisando tre conferenze sulla teoria del riferimento, sbobinate nel
classico Nome e necessità (Boringhieri, 1982).
Da allora
Kripke è entrato nella leggenda. Ha insegnato a Harvard e Princeton, senza aver
mai preso un dottorato. E' finito sulla copertina dell'inserto culturale del
New York Times, con grande sorpresa (e invidia) dei colleghi. Ha ispirato il
romanzo Il problema mentecorpo di Rebecca Goldstein, il cui
protagonista è un genio incapace di vivere il quotidiano. Ha sconvolto la setta
degli adoratori di Wittgenstein, assiomatizzandone il pensiero in Sulle
regole e il linguaggio privato (Boringhieri, 1984).
Benchè
appena sessantenne, Kripke è già andato in pensione. Le uniche occasioni di
vederlo sono dunque le sue rare apparizioni pubbliche, sempre in forse fino
all'ultimo momento. L'ultima è stata a Bologna il 20 dicembre 2001, dove
l'abbiamo intervistato.
Lei ha
cominciato molto giovane, quasi bambino. Come è arrivato alla filosofia?
"Vivevamo
a Omaha, un posto sperduto nel Nebraska. Verso i dodici o tredici anni chiesi a
mio padre come potevamo sapere che non stiamo sognando. Mi disse che
Cartesio, che lui pronunciava letteralmente "Descartis", aveva già
risposto al problema nelle sue Meditazioni, e me le diede da leggere. Ho
cominciato così. Poi sono passato a Hume e Berkeley, e verso i quattordici o
quindici anni ho letto Platone. All'epoca non ho fatto nessun serio tentativo
di leggere Kant".
E la logica
dove l'ha imparata?
"Poichè
la matematica che si faceva alle medie era troppo elementare, la mia
professoressa mi ha consigliato libri più avanzati, e qualcuno di questi
parlava di fondamenti. Poi ho letto i testi di Quine e Rosser, e la Introduzione
alla metamatematica di Kleene. E ho finalmente capito l'intuizionismo:
prima non riuscivo a immaginare come si potesse rifiutare il principio del
terzo escluso, che mi sembrava evidente".
Nessuno di
quei libri parla però di logica modale, che è il campo in cui lei è diventato
famoso.
"E'
vero. La logica modale l'ho scoperta sulle riviste specializzate che
incominciai a leggere al liceo. Andavo a prenderle a Lincoln, la
"capitale" del Nebraska, perché non si trovavano a Omaha. Tra
parentesi, benché il mio liceo fosse in una città sperduta, ha diplomato anche
Lawrence Klein e Alan Heeger, che hanno vinto rispettivamente il premio
Nobel per l'economia nel 1980, e per la chimica nel 2000. E l'ha frequentato
anche Ronald Jensen: un altro logico molto famoso, che io però ho conosciuto
solo dopo".
E come è
arrivato al suo primo grande risultato?
"Conoscevo
le tavole di verità per la logica classica, e ho cercato di estenderle alla
logica modale. Si trattava di tavole sempre con due soli valori di verità, come
nella logica classica, ma con molte più righe, che sarebbero poi diventate i
mondi possibili. Nel mio articolo originale del 1959 ho esposto le cose nel
modo in cui le ho trovate".
E così, a
diciannove anni, è diventato famoso.
"Per
modo di dire. Quando arrivai a Harvard credevo che mi avrebbero incoraggiato, e
invece ho passato un periodo molto infelice. Il professore di logica, Burt
Dreben, fu molto dogmatico e scoraggiante: mi continuava a dire di fare il
matematico, di non sprecare il mio talento con lavori filosofici che non valeva
neppure la pena di pubblicare. Credo che non avrei dovuto andare a studiare a
Harvard".
Forse Dreben
pensava che solo un matematico possa essere un buon filosofo. E' un caso che
lei, Putnam e Dummett arriviate tutti dalla matematica? Anzi, dalla logica?
"Non
credo che si debba essere per forza un matematico o un logico per essere un
buon filosofo, benché la cosa aiuti. C'è chi è bravo a fare una cosa, e chi è
bravo a fare l'altra. Quanto a Dummett, ha addirittura cominciato con una
laurea in storia, credo. Lei l'ha intervistato, non gliel'ha detto?"
Non gliel'ho
chiesto. Lei, però, un giorno ha detto di un suo collega: "Che cosa volete
che sappia? E' un fenomenologo!".
"Non
l'ho mai detto, e sono contento di poterlo negare ufficialmente. E nemmeno lui
ha detto le cose che gli hanno fatto dire su di me. Sono i giornalisti che ci
hanno fatto dire quelle cose. Spero che lei non farà lo stesso!"
Tra logici
non si fa così. Ci dica però che cosa pensa, allora, della fenomenologia.
"Certamente
ci sarà del lavoro serio e interessante. Io ho letto solo qualche traduzione di
Husserl, non molto buona: non si capiva niente. Di Heidegger ho letto
soltanto le frasi citate da Carnap: credevo che se le fosse inventate lui, ma
sono andato a controllare e Heidegger le aveva dette sul serio. Ricorda?
"Parlerò dell'essere stesso e di niente altro". Che altro potrebbe
esserci, oltre l'essere? Queste sono barzellette".
Conosce la
sua intervista postuma Solo un Dio ci può salvare? Heidegger dice che i
suoi amici francesi gliel'hanno confermato: quando iniziano a pensare, devono
farlo in tedesco.
"Ridicolo.
Fra l'altro, Diderot diceva lo stesso del francese".
A proposito
di battute, qualcuno l'ha definita "il Bobby Fisher della filosofia".
"Lo so,
e sono molto seccato".
E perchè
mai? Fisher era un genio degli scacchi, che dopo aver vinto il campionato
mondiale ha deciso di non giocare più in pubblico. Anche lei non ha più
pubblicato niente, no?
"Io
l'ho preso come un insulto, come un giudizio di ristrettezza mentale. Anche
perché, quando l'hanno detto, avevo appena pubblicato il mio libro su
Wittgenstein. In ogni caso, non è la prima volta nella vita che passo del tempo
senza pubblicare: è già successo anche durante gli anni '60, quando lavoravo
alla teoria degli insiemi ammissibili".
Credo di
avere una copia dei suoi appunti, di quegli anni. Neppure quelli sono mai stati
pubblicati.
"E come
li ha avuti? Io non li ho pubblicati perché nel frattempo la teoria è stata
sviluppata indipendentemente, da Richard Platek. Li ho presentati a una
conferenza e Georg Kreisel, che era il relatore di Platek, è venuto a dirmi
che tutto ciò che avevo fatto era implicito nel suo lavoro. Io però credo di
essere arrivato primo. A dire il vero, anche Platek non ha pubblicato niente.
Per fortuna c'è stato Barwise, che ha scritto un libro sull'argomento".
E a che cosa
ha lavorato, in questi ultimi anni di silenzio editoriale?
"Molte
cose. In filosofia, il legame fra identità e tempo, ad esempio, o l'esistenza
di entità fittizie. In matematica, ho trovato un modo alternativo di provare i
teoremi di incompletezza di Gödel: una dimostrazione nello stile della
discesa infinita di Fermat, in cui se qualcosa di un certo tipo è
dimostrabile, allora lo è anche qualcosa dello stesso tipo ma più corto. Alcune
di queste cose le ho presentate in una conferenza, e sono state registrate e
trascritte. Poi hanno distrutto i nastri: non è straordinario?"
E qualcosa
di tutto ciò sarà pubblicato?
"Spero
proprio di sì. In fondo, lo devo al mondo".
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