17 Giugno 2012
«Media, fra i Promessi sposi che toccano la perfezione e le altre scritture del Manzoni che partecipano della mediocrità, incede la Morale cattolica,
che per merito morale è la più perfetta, e per letterario la più
imperfetta delle opere di quel grande scrittore. [...] Quanto alla
sostanza, il libro non supera la ordinaria mediocrità, quantunque sia
sempre esatto e perspicuo»1.
Così
«La Civiltà cattolica», poche settimane dopo la morte di Manzoni, in
uno scritto «pieno di riserve e cattiverie»2. Rileggere le Osservazioni sulla morale cattolica in
chiave non specialistica, non storico-letteraria3 mira qui non solo a
sottolineare alcuni punti centrali della cultura religiosa di Manzoni
nel suo momento formativo, ma anche, forse, a illuminare qualcosa della
storia più recente della cultura cattolica e del cristianesimo in
Italia. Di questa storia e delle sue svolte fa parte il mutamento di
giudizio sull’opera di Manzoni, dal giudizio condiscendente e arrogante
della Civiltà cattolica, alla sua quasi canonizzazione ad opera di papa Ratti. Le Osservazioni sulla morale cattolica
(1819-1855) di Alessandro Manzoni com’è noto, sono la risposta,
lungamente rielaborata, all’ultimo capitolo dell’opera di Simonde de
Sismondi (1773-1842) Histoire des républiques italiennes du moyen âge4,
in cui il cattolicesimo appare tra le cause della decadenza italiana,
accanto all’educazione, alla legislazione e al «point d’honneur», la
morale dell’onore. Più che Madame de Staël, François Guizot, Jules
Michelet e dello stesso Stendhal, più che gli inglesi italofili, da
Percy Bysshe Shelley a John Ruskin, più che Jacob Burckhardt, Sismondi
amava e capiva l’Italia e la com-pativa: «Une profonde pitié pour cette
nation, si richement douée par la nature, si cruellement dépravée par
les hommes, doit être le résultat d’un tel examen»5 sono le parole con
cui egli introduce la sua analisi delle cause della nostra decadenza.La
replica conteneva grandi riconoscimenti al valore dell’opera di
Sismondi, ne apprezzava l’originalità nel far storia non di pochi
protagonisti, ma della nazione intera, con le sue istituzioni
giuridiche, economiche, politiche. Perciò Manzoni si limitava, sceglieva
di scrivere una risposta analitica che isolava una dozzina di pagine
finali dell’opera (il capitolo 128), le citava ampiamente e vi ribatteva
puntualmente. Volersi ancorare al commento puntiglioso e alla critica
di quelle poche pagine costituiva in verità un vincolo che toglieva
respiro ed efficacia all’argomentazione. Anche la revisione delle Osservazioni,
iniziata alla fine degli anni Quaranta, fu difficile e tormentata.
Forse l’amicizia maturata nel frattempo con Antonio Rosmini era
ulteriore motivo di un sentimento di insoddisfazione e di inadeguatezza.
Lo rivelava l’Avvertimento alla seconda edizione, con ammissioni piuttosto imbarazzate:
«La seguente operetta fu pubblicata la prima volta col titolo di Prima Parte,
credendo allora l’autore di poterle far tener dietro alcune
dissertazioni relative a diversi punti toccati in essa. Ma, alla prova,
dovette deporre un tal pensiero, venendogli meno sia l’importanza o
l’opportunità che gli era parso di vedere nelle materie che s’era
proposte, sia la capacità di trattarle passabilmente, nemmeno al suo
proprio giudizio»6.
La
prima lettura crea l’impressione di un testo assai lontano ed estraneo,
anche se la qualità stilistica, la nobile modestia del «debole ma
sincero apologista», l’elevatezza dei modelli (la Bibbia, Pascal e i
moralisti cristiani francesi) suggeriscono rispetto e attenuano il senso
di angustia che ogni impresa apologetica comporta e che lo stesso
Manzoni paventava, quando scriveva Al lettore:
«[...]
sento che a ogni lavoro di questa sorta s’attacca un non so che
d’odioso, che è troppo difficile di levarne affatto. Prendere in mano il
libro d’uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato; ripetere
alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare in tutto
che dire, fargli per dir così, il dottore a ogni passo, è una cosa che, a
lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una certa impressione
di presunzione, e di basso e insistente litigio»7.
E tuttavia rimane che le Osservazioni (1819) appartengono allo stesso periodo decisivo per la creatività manzoniana (Fermo e Lucia del 1823; i Promessi sposi del 1827; gli Inni sacri; le due tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi), che le Osservazioni,
ponderate con attenzione, contengono temi che la sua produzione
artistica svilupperà con straordinaria efficacia, e infine che esse sono
una testimonianza di convinzioni e giudizi che l’autore non avrebbe
mutato e anzi avrebbe confermato preparando la riedizione del testo
trentacinque anni dopo. L’edizione critica delle Osservazioni
a cura di Romano Amerio del 19658, è segnata da un forte tratto
filosofico-sistematico e apologetico: retta dalla ferma convinzione
circa l’alta qualità filosofica delle Osservazioni,
quest’opera, frutto di un lungo impegno, rimane utile per la massa di
dati che vi sono raccolti e merita di essere presa in considerazione più
di quanto si sia fatto sinora, anche da chi, come noi, non ne condivide
per nulla la prospettiva. Va ricordata anche l’edizione curata da
Umberto Colombo, anch’essa tuttavia carica di afflato apologetico9. I
due ammirevoli volumi di Francesco Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni10
sono tuttora importanti e tuttavia il dibattito su Manzoni giansenista
ci appare ormai distante e sfocato, per le ragioni che diremo. Dopo
queste edizioni non ci risultano apporti significativi a proposito delle
Osservazioni. L’edizione nazionale delle opere di Alessandro Manzoni ha messo a disposizione le Postille a testi talvolta pertinenti al nostro tema11.
È difficile mettere da parte le critiche che Benedetto Croce rivolgeva alle Osservazioni in
uno scritto del 1930: un libro «di importanza documentaria» (data la
prossimità alla maggior produzione manzoniana) ma «rimasto estraneo alla
cultura e al sentimento italiani». Rimangono anche ben nitide le due
principali obiezioni mosse a Manzoni, entrambe derivate dal fatto del
non essere lui «mente filosofica»12. La prima: la concezione moralistica
della storia «come sequela di cause operanti a favorire o a turbare e
corrompere la natura e la disposizione morale»; una concezione
razionalistica e astratta che, del resto, Manzoni ha in comune con
l’«onesto Sismondi»: il cattolicesimo (quale? domanda Croce) come causa
della decadenza italiana per il Sismondi, come «causa benefica» invece
per Manzoni. La seconda critica riguarda la pretesa di marcare la morale
con un secundum quid
(cattolica, giudaica, protestante…), volendola sottomettere a qualcosa
di esterno a lei, «e sia pure di celestialmente e divinamente
esterno»13. Tutto questo si riduce alla piccola logica: «Il Manzoni può
ben dirsi, com’è stato detto, uno spirito logico, ma, per verità,
bisogna soggiungere, egli maneggiava piuttosto la logica piccola che
logica in grande»14, cioè la logica hegeliana. Il
terzo volume dell’edizione di Amerio è tutto dedicato, si può dire, a
una risposta al Croce. Manzoni è per Amerio una mente filosofica, che
rivendica il carattere razionale, «logico» della fede, l’analisi
psicologica e la stessa biografia vanno messe da parte (e questo invece
contro Ruffini).
«Culto razionale»
Il primo passo di Sismondi che Manzoni assume per criticarlo recita:
«L’unité
de foi, qui ne peut résulter que d’un asservissement absolu de la
raison à la croyance, et qui en conséquence ne se trouve dans aucune
autre religion au même degré que dans la catholique, lie bien tous les
membres de cette Église à recevoir les mêmes dogmes, à se soumettre aux
mêmes décisions, à se former par les mêmes enseignemens»15.
Manzoni
risponde che la fede include la sottomissione della ragione, che è
voluta dalla ragione stessa, una volta che abbia riconosciuto
inconfutabile che la religione cristiana è rivelata da Dio e che essa
sia unica. Anche se la sua unicità ed eternità non fossero insegnate
dalle Scritture, la ragione stessa deve arrivarci «per una necessità
logica».
«L’illustre
autore non adduce gli argomenti per cui l’unità della fede non deva
poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla
credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi
citati dianzi, con quell’altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto [Rom.12, 1]. Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.
Certo,
la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è
voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi
princìpi, è posta nell’alternativa, o di credere alcune conseguenze
necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi. Avendo
riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più
mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non
solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l’unità
della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha
ricevuta la fede deve adottarne l’unità: non ha più bisogno per questo
di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità
logica. La fede sta nell’assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l’autore scrivendo questa parola fede, le
ha applicata quest’idea, perché è impossibile applicargliene un’altra.
Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se
la verità è una, la fede dev’esserlo ugualmente, perché sia fondata
sulla verità. La connessione di quest’idee è chiaramente accennata nel
testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall’unità di Dio resulta necessariamente l’unità della fede, e da questa l’unità del culto essenziale». Intransigenti
e assoluti sono i dinieghi opposti a ogni idea di pluralismo: «L’idea
di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio
stesso pare che repugni a significare la loro unione; poiché si dirà
bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le
diverse fedi»16. Dal carattere della fede come assenso razionale Manzoni
trae anche la delegittimazione di ogni fede nazionale o «popolare».
Trae però anche la conseguenza, essendo la fede atto incoercibile
dell’intelletto, che occorra ripudiare ogni uso della forza in materia
religiosa, come si dirà più avanti. Interessa
qui invece rilevare brevemente due premesse teoretiche, che toccano
appunto l’antropologia religiosa dell’autore e forse non solo di lui, ma
di un certo cristianesimo italiano. La prima consiste nella continuità
tra i due ordini, natura e grazia, sottintesa per esempio in un passo di
questo genere, in cui si parla della «nozione di un bene perfetto e
inamissibile»:
«[...]
nozione che ha istruito l’uomo intorno alla sua intima natura più di
quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poiché,
concepita l’essenza d’un tal bene, l’uomo poté intendere e, dirò così,
avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene
fuori d’ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come
lui, d’intelligenza e di volontà»17.
Lo stesso Amerio, che scriveva in prossimità del dibattito sul soprannaturale e della Humani generis di
Pio XII, avvertiva che «Il M., eludendo un punto spinoso, non chiarisce
se la natura abbia verso l’ordine della grazia una qualche esigenza o
disposizione o potenzialità»18.
La seconda premessa è che l’impossibilità di contraddizione tra fede e ragione dipende dall’unico Logos
divino, che presiede alla creazione, alla storia e alla rivelazione:
«fede e ragione sono doni d’un solo e stesso Dio». Si tratta di una
linea di riflessione che attraversa la sapienza biblica, è valorizzata
in Filone, si affaccia nei primi apologisti, e appare nella letteratura
cristiana antica come rivendicazione della sapienza antica, egizia in
particolare (le cui spoglie spetterebbero di diritto agli ebrei), arriva
nella modernità come rivendicazione della compatibilità tra scienza e
fede, e garanzia dell’universalità della dottrina cristiana: così
nell’ultimo Campanella, edito da Amerio, che se ne serve per illuminare
la filosofia di Manzoni. Di
questo approccio razionale alla fede (ben lontano dal giansenismo)
Manzoni trova un compendio nella formula che si trova sin dall’inizio
del primo capitolo delle Osservazioni, dove si appella a s. Paolo, alla Lettera ai Romani, 12, 1, tradotto: «il razionale vostro culto». La formula è ripresa così alla fine dello stesso primo capitolo:
«Il
non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate
sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d’unità di
fede, ma l’unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è
un carattere doppiamente essenziale della verità de’ suoi insegnamenti. È
la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d’un
solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de’ quali è divinamente
espressa nelle parole già citate dell’Apostolo: il razionale vostro culto».
È molto interessante notare che la stessa formula viene usata nella Qui pluribus, una delle prime encicliche di Pio IX (1846):
«Bisogna
che la ragione umana, per non esser tratta in inganno e per non
sbagliare in una cosa così importante, studi attentamente la divina
rivelazione, per esser sicura che Dio ha parlato e per renderGli
ossequio secondo ragione [rationale obsequium exhibeat], come con grande
saggezza insegna l’Apostolo. Chi infatti può ignorare che bisogna avere
ogni fede nel Dio parlante e che nulla è più conforme alla ragione
stessa che ammettere, attaccandovisi saldamente, quelle cose che si
siano constatate come rivelate da Dio, che non può essere ingannato né
ingannare?»
La stessa formula compare nella costituzione dogmatica Dei Filius del
concilio Vaticano I, dove a proposito della fede si dice che «perché
l’ossequio della nostra fede fosse conforme a ragione [ut ... fidei
nostrae obsequium rationi consentaneum esset], Dio ha voluto che agli
interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove
esteriori della rivelazione»19.
Va detto anzitutto che il significato di logikē latréia
è diverso da quello attribuitogli dai documenti del magistero
nell’Ottocento, nel testo di Paolo il significato è cultuale, come
appare dal contesto:
«Vi
esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i
vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il
vostro culto spirituale (λογικὴ λατρεία). Non conformatevi alla
mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente,
per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e
perfetto» (Rom.12, 1).
Culto «spirituale» è certo meglio di «razionale», per tradurre logikē20.
Si è detto che questo significato morale di culto razionale non è certo
quello che viene attribuito dal magistero al «rationabile obsequium» da
Pio IX. Ma da questo differisce anche l’uso di Manzoni. La sua
traduzione proviene dalla versione Martini, che annotava esattamente:
«Ed un tal sagrifizio comprende quel culto della mente e della ragione
il quale non ne’ riti esterni e nella ragione, ma nello spirito e nella
santità della vita consiste, come dice il Grisostomo» (Lutero aveva
tradotto «vernünftige Gottesdienst», Diodati «rational servigio», King
James «reasonable service»: tutti sono consapevoli che non si tratta
dell’ossequio razionale della fede).
Manzoni
traducendo correttamente «obsequium» con «culto» e pur parlando di
sommissione della ragione, intende qui una convergenza dei «due doni
d’un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de’ quali è
divinamente espressa nelle parole già citate dell’Apostolo: il razionale vostro culto», come si è già letto. Siamo lontani dall’accezione del magistero recente, ma anche dallo stretto contesto della Lettera ai Romani,
a meno che, come proponiamo, si contestualizzino il discorso morale di
Paolo, e quello di Manzoni, nel quadro più ampio della sapienza biblica.
«Le parole della sapienza divina e i vani discorsi degli uomini»
La
lettura della Bibbia come testo sapienziale si è fatta strada durante
gli ultimi decenni21. Il materiale biblico storico-legale (la legge, e
il racconto del dono e della ricezione di questa) ci è proposto nel
testo biblico sotto due punti di vista. Il punto di vista profetico, che
esalta il ruolo della parola potente che crea, rivela, salva, in tempi,
luoghi eccezionali, con mediatori straordinari, i profeti appunto. E il
punto di vista sapienziale, appunto, che riflette il bisogno di
conoscenza e di disciplina, la persuasione che la bellezza del creato
dia testimonianza del Creatore, l’idea che esistono esperienze
universali e comunicabili, la necessità di maestri saggi, la convinzione
che nella coscienza umana si danno una evidenza e una argomentabilità
interna del bene esternamente attestato dalla tradizione, la certezza
che bene e male hanno anzitutto una retribuzione immanente. La
polarità sapienza-profezia non coincide semplicemente con i due blocchi
materiali dei «libri profetici» e dei «libri sapienziali»: non si
tratta solo di due forme letterarie, ma di due prospettive, due punti di
vista con cui si può percorrere tutta la storia biblica e da cui si può
guardare anzitutto all’opera e alla parola di Mosè e di Gesù, «ancor
meglio» del profeta di Giona, e del saggio di Salomone.
La
possibilità di delineare una lettura complessiva delle scritture
ebraiche e cristiane in cui la prospettiva sapienziale sia posta in
rilievo come asse centrale, come luogo in cui il materiale trasmesso in
contesto storico e profetico viene rimeditato e riespresso in termini
esperienziali, pragmatici. Questa sapienza biblica ha infatti carattere
pratico, non metafisico: attiene all’«intelligenza della propria via» (Prov.
14,8), non alle cause e ai fini ultimi della realtà. Al principio della
sapienza sta l’accettazione dell’incomprensibilità ultima delle origini
e della cause, il rifiuto della speculazione metafisica e il
riconoscimento di non padronanza sulla propria vita (il «timore di
Dio»), un’ammirazione per la potenza e bellezza misteriosa della
creazione, e insieme un desiderio di verità e di giustizia nella cose
che dall’uomo dipendono. Questa sapienza ha carattere tendenzialmente
universale, attraverso la mediazione delle sapienze mediorientali e
delle filosofia ellenistica (Siracide, Sapienza di Salomone). Essa talvolta riprende la tradizione in termini critici e problematici (Giobbe, Qohelet).
Essa non argomenta circa l’esistenza della divinità, ma insegna che
l’obbedienza ai comandamenti contiene un principio di conoscenza sicura
di quelle realtà che sfuggono alla conoscenza teoretica. In questo senso
la sapienza è, come la legge, prossima, accessibile a tutti: è «cultura
popolare» (Sir. 44, 4). Naturalmente Israele vanta di essere il primo depositario. Si legga la descrizione di Sir.
24, dove parla la Sapienza. Ma la sapienza è essenzialmente più ampia
rispetto allo spazio positivamente determinato della rivelazione storica
e della profezia che la rinnova: essa ha carattere in qualche modo
sperimentale (oltre che trasmissibile e tradizionale), ragionevole,
suscettibile perciò di accogliere «sapienze straniere», mondano,
secolare.
Questo carattere viene additato da Gerhard von Rad nel suo La sapienza in Israele, dove,
riferendosi all’epoca postsalomonica parla di «un brusco processo di
secolarizzazione, di una scoperta dell’umano, di una umanizzazione [...]
preceduto dal crollo interiore, dalla decomposizione di una concezione
della realtà che possiamo definire con una formula molto felice di
Martin Buber: “il pansacralismo”»22. E altrove afferma: «Se prendiamo la
parola “illuminismo” nel senso della ben nota definizione di Kant come
uscire dallo stato di minorità, sarà lecito pensare che lo stato di
maggiore età [...] anche in Israele è consistito innanzitutto
nell’affrontare criticamente il mondo dell’esperienza e le sue leggi
proprie». Ciò che naturalmente non avviene attraverso l’espulsione di
Dio dal mondo, ma attraverso «un’idea altrettanto intransigente sulla
guida degli avvenimenti da parte di Dio e sulla sua penetrazione in
tutti i campi della creazione»23.
Molta
parte dell’insegnamento stesso di Gesù – in cui si ritrova la polarità
profetica e quella sapienziale – è traducibile in quel nucleo
sapienziale, esperienziale, secolare, tendenzialmente universalistico.
La convivialità che accoglie gli esclusi è una prassi di Gesù (Lc. 7, 35), che realizza così l’invito contenuto nel libro biblico dei Proverbi
(9, 1-6). Anche in Gesù si ritrovano la polarità profetica e quella
sapienziale, e la sua figura può essere compresa sotto l’uno e l’altro
profilo: egli è più di Giona, più di Salomone (Lc. 11, 29-32, parallelo a Mt. 12, 39-42, cosiddetta fonte Q).
Sosteniamo allora che la prospettiva sapienziale è atta a gettare luce sull’antropologia e la morale manzoniana24.
C’è una pagina molto bella delle Osservazioni, in
cui l’autore protesta la sua ammirazione per le sue fonti, e rinvia
appunto allo studio delle Sacre Scritture e alla lettura dei grandi
moralisti cattolici e alla meditazione su di sé e sugli altri. Vale la
pena di leggerla per intero, anche perché l’autore vi affida il nucleo
(come è stato osservato) della vicenda e dell’insegnamento del romanzo
storico:
«Chi
ha fatti studi seri e lunghi sulle Sacre Scritture, fonti inesauste di
morale divina, e ha letti con attenzione i gran moralisti cattolici, e
ha meditato, con riflessione spassionata, sopra di sé e sopra gli altri,
troverà superficiali queste Osservazioni; e sono ben lontano
dall’appellarmi dal suo giudizio. Le discussioni parziali possono bensì
mettere in chiaro qualche punto staccato di verità; ma l’evidenza e la
bellezza e la profondità della morale cattolica non si manifestano se
non nell’opere, dove si considera in grande la legge divina e l’uomo per
cui è fatta. Ivi l’intelletto passa di verità in verità: l’unità della
rivelazione è tale che ogni piccola parte diventa una nova conferma del
tutto, per la maravigliosa subordinazione che ci si scopre; le cose
difficili si spiegano a vicenda, e da molti paradossi resulta un sistema
evidente. Ciò che è, e ciò che dovrebb’essere; la miseria e la
concupiscenza, e l’idea sempre viva di perfezione e d’ordine che
troviamo ugualmente in noi; il bene e il male; le parole della sapienza
divina, e i vani discorsi degli uomini; la gioia vigilante del giusto, i
dolori e le consolazioni del pentito, e lo spavento o
l’imperturbabilità del malvagio; i trionfi della giustizia, e quelli
dell’iniquità; i disegni degli uomini condotti a termine tra mille
ostacoli, o fatti andare a voto da un ostacolo impreveduto; la fede che
aspetta la promessa, e che sente la vanità di ciò che passa,
l’incredulità stessa; tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il
Vangelo. La rivelazione d’un passato, di cui l’uomo porta in sé le
triste testimonianze, senza averne da sé la tradizione e il segreto, e
d’un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di
desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto
gli occhi; i misteri conciliano le contradizioni, e le cose visibili si
intendono per la notizia delle cose invisibili. E più s’esamina questa
religione, più si vede che è essa che ha rivelato l’uomo all’uomo, che
essa suppone nel suo Fondatore la cognizione la più universale, la più
intima, la più profetica d’ogni nostro sentimento. Rileggendo l’opere
de’ gran moralisti cattolici, e segnatamente i sermoni del Massillon e
del Bourdaloue, i Pensieri del Pascal, e i Saggi
del Nicole, io sento la piccolezza dell’osservazioni contenute in
questo scritto; e sento che vantaggio dava ai due primi l’autorità del
sacerdozio, e a tutti il modo generale di trattare la morale, un
grand’ingegno, de’ lunghi studi, e una vita sempre cristiana»25.
L’ammirazione
per la legge divina e il rilievo dato alla prassi e alla vita rispetto
al sapere astratto, l’importanza dell’insegnamento dei maestri, la
corrispondenza meravigliosa fra la parte e il tutto, la notizia delle
cose invisibili che consente di intendere quelle visibili (Rom. 1, 20, che dipende da Sap.
13, 1-9; Manzoni, come osserva Amerio, inverte: dall’invisibile al
visibile), la visione realistica della vanità e del peccato umano, ma
anche proprio la sapienza divina, la bellezza vera di una vita secondo
giustizia e verità: sono temi che dalla tradizione sapienziale biblica,
direttamente o per la mediazione della psicologia dei grandi moralisti
giungono sino a Manzoni. Così pure fa parte della teologia sapienziale
il ricapitolare la storia e darle senso come espressione di un piano, di
una provvidenza, di una prospettiva («La rivelazione d’un passato, di
cui l’uomo porta in sé le triste testimonianze, senza averne da la
tradizione e il segreto, e d’un avvenire, di cui ci restavano solo idee
confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il
presente che abbiamo sotto gli occhi»).
Naturalmente per un credente le domande che i sapienti della tradizione sapienziale e poetica ebraica pongono, come nel Qohelet, talvolta
senza risposta: che cosa è l’uomo?, trovano questa risposta nella
rivelazione cristiana: «E più s’esamina questa religione, più si vede
che è essa che ha rivelato l’uomo all’uomo», vedi naturalmente Pascal
«Non solamente noi non conosciamo Dio che attraverso Gesù Cristo, ma non
conosciamo noi stessi che attraverso Gesù Cristo»26. «Tutto si spiega
col Vangelo, tutto conferma il Vangelo».
«La filosofia morale sarà… la teologia stessa»
Coerentemente
con la sua tesi dell’integrale unità di fede e ragione Manzoni negava
la possibilità di una opposizione tra filosofia morale e morale
teologica. Sismondi, pur riconoscendo il legame tra la religione e la
morale, sosteneva che la filosofia morale è una scienza assolutamente
distinta dalla teologia: quella è basata sulla ragione e sulla
coscienza, mentre la teologia è dominio del magistero ecclesiastico, che
se ne è impadronito:
«Il
y a sans doute une liaison intime entre la religion et la morale, et
tout honnête homme doit reconnoître que le plus noble hommage que la
créature puisse rendre à son Créateur, c’est de s’élever à lui par ses
vertus. Cependant la philosophie morale est une science absolument
distincte de la théologie; elle a ses bases dans la raison et dans la
conscience, elle porte avec elle sa propre conviction; et après avoir
développé l’esprit par la recherche de ses principes, elle satisfait le
coeur par la découverte de ce qui est vraiment beau, juste et
convenable. L’Église s’empara de la morale, comme étant purement de son
domaine»27.
Manzoni non comprendeva questa contrapposizione:
«[Gesù
Cristo] unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla
Chiesa a separarle? Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in
genere e de’ vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della
relazione dell’una e dell’altro con la felicità o l’infelicità; vuole
insomma dirigere la nostra volontà e negl’intenti e, conseguentemente,
nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può
averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per
applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due
scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev’essere
falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente
che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o
rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che
non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può
schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere
contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto»28.
Manzoni
giungeva a identificare, almeno tendenzialmente, i due punti di vista:
se la filosofia morale attinge veramente a ciò che appaga per bellezza,
giustezza, convenienza (sono le parole di Sismondi), essa «sarà la
teologia stessa» (l’affermazione suscita le rimostranze dello stesso
Amerio, nel commento al passo seguente):
«Ma
questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza;
porta con sé il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo
spirito con la ricerca de’ princìpi, appaga il core con la scoperta di
ciò che è veramente bello, giusto e conveniente E cos’ha fondato, da sé,
su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua
ricerca de’ princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le
sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch’esse
concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta
dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio, sarà la
teologia stessa»29.
«Ramener
à la religion des sentiments grands, nobles et humains qui découlent
naturellement d’elle»30. Questo era il programma già espresso nel 1816 a
una lettera a Claude Fauriel. La religione cristiana è intima sia al
cuore che alla ragione umana, è tutta l’argomentazione delle Osservazioni, che si prolunga nella produzione artistica.
Si veda per esempio come il cardinal Federico riassuma in sé, nella descrizione in Fermo e Lucia
(II, XI), il complesso delle virtù che già Paolo desume dai moralisti
greci: «fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali
adoperarono una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente
nella ricerca “di ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è
santo, di ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco
virtù, e lode di disciplina”», citando esplicitamente la Lettera ai Filippesi (IV, 831); e si aggiunga anche il progetto grandioso della Biblioteca Ambrosiana.
E si veda anche in Fermo e Lucia (II, XI) la difesa del ruolo decisivo, per il risveglio della cultura italiana, dei lumi francesi:
«Ma
non si deve dissimulare che v’ha alcuni altri (pochissimi invero) i
quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi,
che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più
stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro
idea d’una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti
serj, di discussioni sincere, d’invenzioni che somigliassero a qualche
cosa di umano, e di reale, diretta a far passare nell’ingegno dei
lettori una persuasione ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad
un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui erano giunti
alcuni con una meditazione particolare. Scorgono costoro che questi
italiani cominciarono ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono
dal confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei
metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana di
quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più
esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una mente più
disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a poco
nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano
attinto»32.
A questo si può forse ricondurre anche l’ampia sezione delle Osservazioni,
destinata a una seconda parte, sullo «spirito del secolo», in cui
Manzoni, evitando del «secolo stesso» la condanna massiccia, invita a un
esercizio di «discernimento»: non conformarsi al secolo era prescritto
dalla stessa Lettera ai Romani che insegnava il «culto razionale».
Ne
nasceva anche la convinzione che di principio non sia corretto separare
la religione dalla politica: la morale abbraccia tutto il campo della
giustizia, e quindi anche il campo dei rapporti politici e sociali.
Madame de Staël sosteneva che non vi è pietà sincera se non nei paesi in
cui la dottrina della Chiesa non abbia rapporto con i dogmi politici, e
Manzoni replicava: «rien de plus absurde»: sarebbe come affermare che
la religione debba essere indifferente al bene e al male, al diritto e
all’ingiustizia33. Si
capisce che Manzoni si rivoltasse quando lesse in Sismondi l’accusa
alla Chiesa di aver perso di vista la sofferenza umana, di aver
rigettato la base che la natura umana aveva posto nei cuori umani, per
affidarsi invece ai casuisti:
«La
morale fut absolument dénaturée entre les mains des casuistes; elle
devint étrangère au coeur comme à la raison: elle perdit de vue la
souffrance que chacune de nos fautes pouvoit causer à quelqu’une des
créatures, pour n’avoir d’autres lois que les volontés supposées du
Créateur: elle repoussa la base que lui avoit donnée la nature dans le
coeur de tous les hommes pour s’en former une toute arbitraire»34.
«Non contristare una immagine di Dio»
Qui
Manzoni è toccato e offeso nel suo profondo. Mentre liquida
sprezzantemente i casuisti (intendi soprattutto Alfonso Maria de’
Liguori), affermando di non averli mai letti egli risponde opponendo con
forza un tema fondamentale della sua antropologia e della sua etica: la
dignità dell’uomo, immagine di Dio, punto di raccordo tra illuminismo e
visione biblica: «Il riguardo al dolore degli altri, il dovere di non
contristare una immagine di Dio è uno di questi sentimenti stampati da
Dio nel cuore dell’uomo»35. E ancora:
«Perché
noi riceviamo per lo più l’opinione fatta dagli altri; e i gentili, che
stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue
cristiano togliesse nulla all’umanità e alla giustizia d’un principe. È
la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d’umano e di
giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d’un’anima immortale
c’è qualche cosa d’ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e
a rispettare in ogni uomo l’immagine di Dio, e il prezzo della
Redenzione»36.
Lo stesso argomento si trova nei Promessi sposi,
e precisamente nelle parole di padre Cristoforo che replica indignato a
don Rodrigo, quando questi offre la sua protezione a Lucia. Nella
versione definitiva del 1840:
«Ho
compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a
vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e
suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una
creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete
creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo
avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il
vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io
povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto.
Verrà un giorno… »37.
Alla
fine della vicenda fra Cristoforo biasima Renzo a causa delle
espressioni violente con cui vorrebbe giustificare padre Cristoforo per
il suo delitto giovanile, a causa del quale si era fatto frate:
«E
perché sei povero, perché sei offeso, credi tu ch’Egli non possa
difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu
ch’Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa
puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento,
allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera
t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che
tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non
poter mai più dire: io gli perdono», (cap. XXXV).
Il tema sembra apparire per la prima volta nell’inno della Pentecoste, iniziato nel 1817:
«A Te sollevi il povero/ Al ciel ch’è suo, le ciglia/ Volga i lamenti in giubilo/ Pensando a cui somiglia»38.
Manzoni
è uscito da un momento di difficoltà religiosa. Ne è uscito persuaso
della presenza dello spirito nella Chiesa, «Madre dei santi»; persuaso
della necessità di sottomettersi, facendosi «parvulus», come scrive
nella lettera a Fauriel del 21 settembre 181039. Dio solo proteggerà
questi piccoli, che sono suoi, per l’immagine che ha loro donata, per
l’immagine del Figlio sofferente, dai terrori di questo e di ogni altro
secolo.
Più,
molto più ancora che della fiducia nella Provvidenza che guida con
giustizia la storia, si tratta qui dell’abbandono mistico al Dio che
«atterra e suscita, che affanna e che consola».
Ma
dietro al ricordo dell’immagine di Dio si coglie anche un rifiuto
indiretto, ma forte di ogni dispotismo e di ogni sacralizzazione del
potere. L’abate Henri Grégoire, così ammirato da Manzoni, non aveva
denunciato con indignazione nel 1814 il Cathéchisme à l’usage de toutes les églises de l’Empire Français che insegnava che l’imperatore era l’immagine di Dio? «Dieu l’a établi notre souverain; il est son image sur la terre»40.
Si
deve notare che l’uomo-immagine di Dio non appartiene all’antropologia
pessimista del giansenista Pascal, tanto amato da Manzoni, che però
appunto non lo segue nell’«abétissement» dell’umano. Cartesio e Fénelon
attribuiscono invece un’importanza particolare a questo tema41. Si può
pensare che questa idea abbia un ruolo importante perché Manzoni era
ansioso di sottolineare il suo cattolicesimo più rigoroso, nell’atto di
accogliere dai lumi l’idea della dignità dell’uomo.
«Nessuna
filosofia è più aliena da un tale errore stranissimo, che fa di Dio
quasi un artefice inesperto, il quale, per aggiungere un novo lume alla
sua immagine, impressa, per dono ineffabile, nell’uomo, avesse bisogno
di cancellarla; errore che fa del cristiano quasi una nova, anzi
un’inconcepibile specie d’animale puramente senziente, al quale venisse,
non si sa come, aggiunta la fede. Sicuro, che è una filosofia
naturaliter christiana, come disse profondamente Tertulliano, dell’anima
umana. Sicuro che, dopo aver percorso liberamente e cautamente (che in
fondo è lo stesso) il campo dell’osservazione e del ragionamento, si
trova, per dir così, accostata alla fede, e vede negl’insegnamenti, e
ne’ misteri medesimi di questa il compimento e il perfezionamento de’
suoi resultati razionali. Non che la ragione potesse mai arrivar da sé a
conoscer que’ misteri; non che, anche dopo essere stata sollevata dalla
rivelazione a conoscerli, possa arrivare a comprenderli; ma n’intende
abbastanza (mi servo della bella distinzione ricavata da questa
filosofia medesima) per vedere che le sono superiori, non opposti, e che
è quindi assurdo il negarli; n’intende abbastanza per trovare in essi
la spiegazione di tanti suoi propri misteri: come è del sole, che non si
lascia guardare, ma fa vedere»42.
Questa fedeltà ai lumi poi si impone da sé quando Manzoni riprende il tema e la denuncia di tortura, nella storia della Colonna infame.
Questo saggio è dedicato in particolare a un episodio terribile della
confessione sotto tortura. Qui, uno dei momenti più toccanti è quando
Giangiacomo Mora, il povero barbiere, è costretto ad ammettere la sua
connivenza con Guglielmo Piazza nel diffondere la peste. Egli è
minacciato di tortura:
«A
quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non
è vero niente, et lo dissi per li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci
un puoco dire un’Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me
inspirarà; e si mise in ginocchio davanti a un’immagine del Crocifisso,
cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici».
Nell’opposizione
alla pena di morte e alla tortura, Manzoni assume un tema
illuministico, e si connette, com’è noto, alla tradizione familiare. Il
nonno Cesare Beccaria è stato, infatti, il celebre autore di Dei delitti e delle pene (1764), e Pietro Verri, a cui Manzoni era profondamente legato, aveva già scritto le sue Osservazioni
sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione
delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò
Milano l’anno 1630,
pubblicate postume nel 1804. Verri condannava un secolo di «barbarie»,
allo stesso modo in cui Beccaria aveva denunciato la legislazione dei
«secoli barbari». Se da un lato Manzoni studia l’antica giurisprudenza e
mostra, con la consueta accuratezza storica, che la giurisprudenza
aveva già fornito un importante insieme di cautele per l’uso della
tortura che i giudici di Milano hanno trascurato (e per questo sono
colpevoli), d’altro canto avviva il suo testo con una intensità
religiosa sconosciuta a Verri e a Beccaria.
La
dignità umana, fondata sull’immagine di Dio, è appunto per Manzoni un
punto di confluenza tra i lumi e la Bibbia. O meglio, il punto in cui
l’istanza illuministica può, secondo Manzoni, essere ricondotta alla sua
piena verità biblica.
«Impadronirsi della morale»
Da
ciò che è si visto, Manzoni porta con sé ed esprime nel suo testo una
fondamentale esigenza di unità: unità di fede, nel tempo e nello spazio;
unità tra filosofia e morale; unità tra morale e politica. Unità tra la
piccola e la grande morale: quasi anticipando la risposta a Croce, che
gli rimproverava di attenersi alla «piccola logica», Manzoni, nel
dialogo Dell’invenzione rigettava il detto del Mirabeau , circa la piccola morale che uccide la grande: «La petite morale tue la grande».
«La petite morale tue la grande, disse
il Mirabeau; e lo disse, non già per buttar là una sentenza
speculativa, ma come una norma e una giustificazione applicabile ai gran
fatti pubblici ne’ quali fu anche lui pars magna. E
chi non vede la forza pratica d’una massima di questa sorte? Certo, per
i tristi di mestiere è superflua, o di poco uso; ma questi non
potrebbero far gran cosa, se dovessero far tutto da sé, e non avessero
l’aiuto delle coscienze erronee. E, per ingannar le coscienze, qual cosa
più efficace d’una massima che, non solo leva al male la qualità di
male, ma lo trasforma in un meglio? che fa della trasgressione un atto
sapiente, della violazione del diritto un’opera bona? Quello, però, che
può parere strano a chi appena ci rifletta, è che una proposizione così
repugnante al senso comune, e i termini della quale fanno a’ cozzi tra
di loro, sia potuta non parere strana a ognuno. La morale, che è una
legge, e, come legge, è essenzialmente assoluta e una, divisa in due
parti, una delle quali distrugge l’altra!»43.
Di
questo bisogno di integrità, di coerenza, vi sono anche risvolti di
impressionante intransigenza. Al pastore liberale ginevrino Jean Jacques
Chenevière il 27 settembre 1829: «Vous me parlez de liberté mais ce
n’est pas ce que je demande ni c’est ce que je dois demander. Je demande
à croire, puisque c’est pour cela que j’ai une intelligence, et qu’il y
a une religion; croire c’est mon besoin et mon devoir».44 E anche
l’atteggiamento verso Victor Cousin, adesso lumeggiato anche dalla
pubblicazione delle Postille,
è indicativo. Il Cousin poneva in primo piano una sorta di rivelazione
primitiva, degna di ogni rispetto, perché si tratta della forma
originaria della filosofia: «L’homme appelle révélation l’affirmation
primitive. Le genre humain a-t-il tort?»45. Manzoni si oppone nettamente
a una distinzione tra forma e sostanza della religione e arrivava ad
affermazioni di assoluta e impressionante intransigenza : «La verità è
con quella religione che, diciotto secoli sono, disse al mondo: Io non
cangerò mai e che non si è mai cangiata». Così scriveva nella Seconda
parte inedita, ma probabilmente coeva alla Prima.
È
veramente notevole come questa vena intransigente si prolunghi nel
magistero di papa Pio XI. Achille Ratti era profondamente legato a
Manzoni46. Del suo precettore e amico, Tommaso Gallarati Scotti
scriveva: «Pio XI il romanzo e gli Inni sacri
di Manzoni se li teneva – ricordo – sul tavolo di lavoro, nella sua
biblioteca, accanto a opere venerande di Padri e Dottori della
Chiesa»47. Fra l’altro nella sua funzione di prefetto nell’Ambrosiana,
si era fatto forte delle pagine del romanzo dedicate a Federigo Borromeo
e alla biblioteca per raccogliere risorse a sostegno di questa «nobile
opera a perpetua utilità»48.
Un lungo brano della Osservazioni viene richiamato – cosa inconsueta – nella Divini illius Magistri, del 31 dicembre 1929, per giustificare la giurisdizione morale della Chiesa:
«[...]
dichiara Pio X di santa memoria: “Qualunque cosa faccia il cristiano,
anche nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni
soprannaturali, ché anzi deve secondo gli insegnamenti della cristiana
sapienza dirigere tutte quante le cose al bene supremo come ad ultimo
fine; tutte le sue azioni inoltre, in quanto sono buone o cattive in
ordine ai costumi, ossia in quanto convengono o meno con il diritto
naturale e divino, sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della
Chiesa” (Enc. Singulari quadam,
24-9-1912). Ed è degno di nota come abbia saputo bene intendere ed
esprimere questa dottrina cattolica fondamentale un laico, mirabile
scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore: “La Chiesa non dice
che la morale appartenga puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei,
ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del
suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere
alcuna verità morale, ha anzi riprovata quest’opinione più d’una volta,
perché è comparsa in più d’una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà
sempre, che per l’istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo
Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede
originariamente e inammissibilmente l’intera verità morale (omnem
veritatem) nella quale tutte le verità particolari della morale sono
comprese, tanto quelle che l’uomo può arrivare a conoscere col semplice
mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o
che si possono dedurre da questa” (A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, cap. III)»49.
Papa
Ratti, fine conoscitore del testo, si riferisce a una nota a piè di
pagina in cui Manzoni sente di dover precisare l’«impadronirsi della
morale» di Sismondi:
L’illustre autore, dopo aver detto: L’Église s’empara de la morale, aggiunge: comme étant purement de son domaine:
parole che non esprimono esattamente la dottrina cattolica, e perciò
richiedono un’osservazione. La Chiesa non dice che la morale appartenga
puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei, ma che appartiene a lei
totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo
insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale, ha anzi
riprovata quest’opinione più d’una volta, perché è comparsa in più d’una
forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che per l’istituzione
che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo
nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inammissibilmente
l’intera verità morale (omnem veritatem) nella quale tutte le verità
particolari della morale sono comprese, tanto quelle che l’uomo può
arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che
fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa; come
fa la Chiesa stessa, con assoluta autorità, nelle nove decisioni che
siano richieste da novi bisogni; e come si fa nella Chiesa, con autorità
condizionata e sottomessa, da quelli che hanno da essa l’incarico
d’istruire i fedeli nella legge di Dio; e come si fa anche da’ semplici
fedeli medesimi, senza autorità, ma senza usurpazione, quando
riconoscano questa mancanza in loro d’ogni autorità, e abbiano
l’intenzione sincera di non dipartirsi dagl’insegnamenti della Chiesa, e
di sottomettersi in ogni caso a ogni sua decisione50.
Le Osservazioni appaiono di frequente in Pio XI. Egli vi si riferisce parlando ai rifugiati della guerra di Spagna, nel 1936:
«Si
è detto in questi ultimi giorni che Religione e Chiesa Cattolica si
sono mostrate impari e inefficaci contro quelle sciagure e quei mali, e
si è creduto di darne prova coll’esempio della Spagna e non di essa
sola. Quadra pienamente a questo proposito l’osservazione di A. Manzoni:
“Per giustificare la Chiesa non è mai necessario ricorrere a degli
esempi: basta esaminare le sue massime” (Osservazioni VII).
L’osservazione è evidente oltreché solida e profonda. Dateci infatti
una società nella quale abbiano sinceramente libera ed incontrastata
diffusione le massime che la Chiesa e la Religione Cattolica
continuamente insegnano e intimano con forza di leggi e di essenziali
direttive come da Dio volute e da Dio controllate e sancite a norma
della condotta e dignità individuale, della giustizia privata e
pubblica, sociale e professionale, della santità della famiglia [...].
Noi domandiamo con che cosa e come possono Chiesa e Religione Cattolica
più e meglio contribuire al vero benessere individuale, domestico e
sociale»51.
In
un’altra occasione parlando della stampa cattolica, Pio XI attribuisce
direttamente a Manzoni la formula «forte e profonda»: «impadronirsi
della morale», che invece appartiene originariamente al Sismondi
polemista. Manzoni certo la fa propria («Quando Gesù Cristo disse agli
Apostoli: “Istruite tutte le genti [...] insegnando loro d’osservare
tutto quello che v’ho comandato” ingiunse espressamente alla Chiesa
d’impadronirsi della morale») ma come espediente polemico, usando un
linguaggio dell’avversario che non gli appartiene:
«Coi
quali contributi la Chiesa cattolica, voi lo direte altamente, non
intende punto nulla usurpare di quello che alla politica propriamente
detta appartiene in ragione del suo fine, usurpazione contro verità oggi
affermata per creare alla Chiesa cattolica ogni sorta di difficoltà ed
escludere la sua benefica azione proprio da quei più vasti campi che ne
hanno maggior bisogno e più ne profitterebbero: la gioventù, la
famiglia, la scuola, la stampa, le masse popolari. La Chiesa riconosce
allo Stato la sua propria sfera d’azione e ne insegna, ne comanda il
coscienzioso rispetto; ma non può ammettere che la politica faccia a
meno della morale e non può dimenticare il precetto del divin Fondatore
che, secondo la forte e profonda espressione del nostro grande Manzoni (Osservazioni III), le comandava di occuparsi in proprio, di impadronirsi della morale dovunque essa entra e deve entrare: docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis»52.
Ma già nell’unico colloquio con Mussolini nell’anniversario del Concordato, l’11 febbraio del 1932, il papa invocava le Osservazioni:
si coglie qui ancora meglio il significato di questo «appropriarsi
della morale», come volto a opporre a un totalitarismo fascista una
sorta di «totalitarismo mondiale cattolico»53.
La
sintesi dell’incontro si legge nel resoconto che Mussolini inviava
tempestivamente a Vittorio Emanuele II, ed è attendibile, perché il
contenuto trova conferma nelle frequenti enunciazioni analoghe di Pio
XI, compreso il riferimento evangelico a Mt. 28, 19s., che lo scrivente ricordava in modo impreciso. Tra virgolette caporali parla Pio XI:
«Sono
lieto che si sia ristabilita la compatibilità tra Partito Fascista e
l’Az.[ione] Cattolica. Se mai, le difficoltà avrebbero dovuto partire da
parte cattolica. Ma io non vedo, nel complesso delle dottrine fasciste
tendenti all’affermazione dei principi d’ordine, di autorità, di
disciplina niente che sia contrario alle concezioni cattoliche:
«E mi spiego anche la pur reiterata affermazione – un po’ meno frequente in questi ultimi tempi – del totalitarismo fascista.
«Nell’ambito
dello Stato questo totalitarismo si comprende, ma oltre gli interessi
materiali, ci sono quelli delle anime e qui entra in azione il
“totalitarismo cattolico”».
Il
S. P. a questo punto prende un libro, cerca una pagina e quindi
riprende «Ecco un libro di Manzoni, non abbastanza conosciuto “La morale
cattolica”. Manzoni, in genere, è uno scrittore cauto e moderato, ma in
questo periodo sembra stringere il pugno. “Quando”, dice Manzoni,
“Cristo disse agli apostoli ‘Eunte [sic] et docete omnes gentes’ affidò
alla Chiesa un mandato divino, un ordine che la Chiesa deve eseguire”».
Io
condivido l’opinione del S.P. – Stato e Chiesa agiscono su due «piani»
diversi e possono quindi delimitate le loro reciproche sfere di attività
– collaborare insieme.
Il Santo P. ritiene questa collaborazione tanto più necessaria in questi tempi di crisi e di grande miseria54.
Mi pare allora si possa affermare che le Osservazioni hanno
un ruolo non secondario nella elaborazione di una intransigenza che si
può dire «totalitaria» nel contesto dell’opposizione ai totalitarismi
coevi55: si trattava di un modello ideale, la cui corrispondenza con
fatti può ben essere discussa, a cominciare dai contenuti del colloquio
stesso con Mussolini.
La formazione dei due editori delle Osservazioni, Colombo
e Amerio, si colloca appunto in questo orizzonte. In particolare,
trovano risonanza e amplificazione in Amerio le affermazioni più
radicali, come quella citata: «La verità è con quella religione che,
diciotto secoli sono, disse al mondo: Io non cangerò mai e che non si è
mai cangiata». Amerio commenta citando Mt.
5, 18: «iota unum aut unus apex non praeteribit a lege»56: questa è
forse la cellula originaria da cui si svilupperà il suo circostanziato e
durissimo attacco alle «variazioni» indotte dal concilio Vaticano II
denunciato come attentato alla dottrina immutabile della Chiesa
cattolica57.
«Prendere sul serio»
Proprio
il recupero cattolico in clima concordatario, attraverso lo stesso
magistero pontificio, di Manzoni, il «nostro» Manzoni, costituisce il
quadro ultimo in cui comprendere l’interpretazione antagonista,
cattolico-liberale (in senso lato, poiché, come insisteva Arturo Carlo
Jemolo58, Manzoni «sta a sé»), che si condensava intorno all’opera di
Ruffini, e che era fatta propria dallo stesso Benedetto Croce, così
critico delle Osservazioni,
ma pronto, nel momento di opporsi al Concordato, ad iscrivere
Alessandro Manzoni in quel «partito nazionale-liberale-cattolico, che
accolse uomini insigni, da tutti oggi ricordati e venerati e un poeta
che si chiamò Alessandro Manzoni. Quel partito, giova rammentarlo, non
venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa»59.
Che
cosa dunque portava a definire liberale Manzoni (dubitava di questa
qualifica Jemolo, la difendeva Spadolini)?60 C’era un nucleo profondo
che originava poi quei suoi atteggiamenti concreti di apertura verso il
movimento unitario risorgimentale e i suoi protagonisti?
Intolleranza
teologica e tolleranza civile sono le due categorie che usa Ruffini,
come anche Amerio che parla di liberalismo pratico. Questi ne da una
giustificazione teorica classica: l’intellettualismo manzoniano (il suo
«integralismo logico») non può ammettere alcuna coazione nell’assenso di
fede. Ruffini faceva appello alla matrice giansenista come chiave
esplicativa: è questa matrice a rendere Manzoni straordinariamente
sensibile al tema della libertà dinanzi ogni prevaricazione storica
della Chiesa romana.
Di
grande finezza nel segnalare tutte le tracce di giansenismo nella
formazione di Manzoni, la ricerca di Ruffini è tuttavia meno convincente
nell’individuare elementi espliciti e chiari nel pensiero dell’autore e
alla fine ci pare che lo stesso giansenismo divenga un concetto
piuttosto evanescente. Che le Osservazioni siano
solo un «penso» che Manzoni deve svolgere su ordine dei suoi direttori
spirituali è difficile da ammettere, data la sua personalità
indipendente e data la sua volontà di riprendere il testo decenni dopo.
Le sue professioni di fedeltà alla Chiesa romana, dopo il ripudio del
calvinismo61, sono assolutamente chiare, come i suoi dinieghi, sia nei
confronti del giansenismo, che nei confronti del «libero pensiero», come
si è visto dalla risposta a Chenevière e a Cousin, e ciò ben prima
dell’incontro con Rosmini. È significativo l’esito dello scambio con
Sismondi. Scrivendo il 20 dicembre 1820 a Fulvia Iacopetti, figlia di
Pietro Verri e quindi amica di Manzoni, Sismondi si diceva onorato
dell’attenzione di Manzoni, e apprezzava la gentilezza delle sue
espressioni, ma diceva: siamo come due spadaccini che si battono nel
buio, in due angoli diversi di una stanza. In realtà non ci si intende:
la posizione di Sismondi non è su questo o quel punto di dottrina, ma
sull’atteggiamento di fondo, «c’est la soumission de tous à toutes les
décisions de l’église, sur toutes les questions théologiques et
philosophiques, qu’on peut élever sur la nature de Dieu, sur celle de
l’âme humaine, sur tous les rapports de l’une avec l’autre». Manzoni,
lamenta Sismondi, risponde con il catechismo davanti a sé, invece di
abbandonarsi all’originalità dei sui pensieri62.
Così
racconta lo stesso Ruffini. È tuttavia impressionante che mentre papa
Ratti serrava i ranghi del cattolicesimo appellandosi alle proposizioni
intransigenti delle predilette Osservazioni, Ruffini producesse il suo grande ultimo libro sulla vita religiosa di Alessandro Manzoni. L’autore di libri straordinari come La libertà religiosa. Storia dell’idea (1901), o Diritti di libertà (1926),
contro il fascismo incipiente, l’oppositore del Concordato e al
giuramento di fedeltà al fascismo, morì nel 1934. Nell’ultima pagina,
Ruffini scriveva che quando non si accetta la componente giansenistica
nella sua conversione, si perde la nota più caratteristica profonda di
Manzoni, la serietà e la coerenza di vita:
«si
distrugge, in tal modo, anche uno dei più fini e penetranti strumenti
di analisi psicologica, il solo anzi che ci possa mostrare perché al
Manzoni spetti [...] il merito incomparabile di aver restituita alla
letteratura italiana quella concezione seria, quella visione patetica e
drammatica, non per altro disperata e tragica, del mondo e della vita,
che ne erano esulate dopo Dante e, per di più, quella rispondenza piena
tra la propria arte e la propria vita, che costituì una dei lati più
mirabili, anzi la nota più caratteristica di quella esistenza
gloriosa»63.
Sono
parole – serietà, rispondenza tra arte e vita – che vanno ben
soppesate, pensando al contesto storico in cui Ruffini scriveva.
(Benedetto Croce sottolineava questo tratto nello stesso Ruffini dicendo
di lui, all’indomani della morte di questi: «neppure si poneva il
quesito se potesse darsi sceveramento tra il proprio convincimento e il
proprio operare»)64.
Nella
stessa pagina, a Bossuet, «le sérieux incompréhensible de la vie
chrétienne», Ruffini riteneva pertinente aggiungere Giovanni Gentile:
«Questo pensiero forma il nucleo della commemorazione manzoniana di Giovanni Gentile (Dante e Manzoni,
Firenze 1923) che scrive (p.121), opportunamente rifacendosi a una
frase dello stesso Manzoni nel suo elogio del cardinale Federigo
Borromeo: “Prendere sul serio” le cose che tutti han sempre ammirate ed
esaltate; e perciò non dirle soltanto, ma farle: ecco la grande novità
della visione manzoniana della storia»65.
Pensando
ai diversi esiti di questa «serietà», ci si domanda ancora, più in
profondità, che cosa rendono veramente diversi l’intransigenza, la
coerenza, la serietà, eventualmente il giansenismo e il liberalismo di
Alessandro Manzoni rispetto a quanto gli attribuivano e gli
attribuiscono i suoi diversi lettori e ammiratori.
«Feroce forza il mondo possiede»
A
questa domanda ci sembra ci sia una risposta molto semplice in
un’espressione che si trova di passaggio in una sua lettera: «La
Provvidenza ha posto per me nello star basso il rimedio a due miserie in
una sola volta»66. Chi scriveva si riferiva soprattutto alla vanità e
al timore dinanzi alle «critiche e alle animosità letterarie», e al
carattere provvidenziale di certi tratti di carattere, di certi
impedimenti materiali che ne limitavano, per così dire, la socialità; ma
«star basso» può essere scelto a segnare la scelta intellettuale e di
vita di Manzoni.
«Star
basso» voleva dire accettare il peso, alle spalle, di una vita laicale,
che «non era stata sempre cristiana»67. Voleva dire accettare di stare
come intellettuale (pensiamo sempre alle Osservazioni)
nella Chiesa cattolica, sentita come un grande popolo che attraversa la
storia, al di là di ogni discriminazione nazionale, e ciò pur
sentendosi sempre impari allo scopo (viene in mente Angelo Roncalli che,
nell’accettazione del pontificato, citava il cardinal Federico, «Quae
scio de mea paupertate et vilitate sufficiunt ad meam confusionem», Promessi sposi, cap. XXVI: tradotto in latino!)68.
Di
qui veniva anche l’attenzione a quanto si muove nel secolo, senza
conformarsi a esso, ma con la volontà di discernervi tutto ciò che può
giovare al rispetto della dignità umana (cfr. «Della opposizione della
religione con lo spirito del secolo»)69.
«Star
basso» implicava astenersi dal discettare circa il rapporto della
morale cattolica con la politica, un punto che «non è stato da me
obbliato, ma intralasciato per una certa ripugnanza a toccare un
argomento che non avrei potuto pienamente discutere»70, senza tuttavia
precludersi scelte precise e coraggiose nel quadro politico della storia
unitaria che si stava facendo.
«Star basso» significava ripudiare la forza che domina il mondo:
«[...] loco a gentile / Ad innocente opra non v’è: non resta /Che far torto o patirlo. Una feroce / Forza il mondo possiede»71.
Di ogni forza e splendore deve spogliarsi (come il servo di Dio in Isaia) anche la religione:
«Mi
ingannerò, ma credo che quando la religione fu spogliata in Francia
dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù
Cristo, poté parlare più alto e fu più ascoltata; e almeno coloro che
sono disposti a pigliare le parti degli oppressi, ebbero contro di essa
un pregiudizio di meno; e il linguaggio de’ suoi difensori ebbe tosto i
caratteri gloriosi di quei primi che la professarono, quando il
confessarla non portava che l’obbrobrio della croce»72.
Quando
Manzoni parlava dell’impero romano come luogo di violenza («una vita
intera di meriti non basta a coprire una violenza»), le sue parole
ricordano Simone Weil, del resto accomunabile in generale a Manzoni per
la rivendicazione dell’unità tra religione e politica:
«Ah!
quando alla memoria d’un cristiano si può rimproverare che, per uno
zelo ingiusto e erroneo, abbia usurpato il diritto sulla vita altrui,
sia pure stato, in tutto il resto, pio, irreprensibile, operoso nel
bene; a ogni sua virtù si contrappone il sangue ingiustamente sparso:
una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza. E perché nel
giudizio tanto favorevole di Traiano non si conta il sangue d’Ignazio e
de’ tanti altri innocenti, che pesa sopra di lui? perché si propone
come un esemplare? …È la religione che ci ha resi difficili a concedere
il titolo d’umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore
d’un’anima immortale c’è qualche cosa d’ineffabile; è essa che ci ha
istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l’immagine di Dio, e
il prezzo della Redenzione [...] Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio
non s’onora che con la mansuetudine e con l’amore, col dar la vita per
gli altri e non col levargliela, che la volontà libera dell’uomo è la
sola di cui Dio si degna ricevere gli omaggi?»73.
«Star
basso» significava soprattutto farsi piccolo (lettera a Claude
Fauriel), entrar in contatto con se stesso, con le proprie parti più
deboli e infantili, ma anche più creative, e dare loro voce (a partire
dalla ricerca di una lingua comune), non come l’apologista «debole ma
sincero» delle Osservazioni,
ma come poeta e narratore dei poveri di Dio, i «nessuno» di cui il
Griso dice: «Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra;
non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (cap. XI). Forse, se
una disposizione sapienziale fatta di mitezza, di semplicità, di
compassione può dirsi liberale, anche Manzoni vi appartiene
intimamente74.
Questa
caratterizzazione della figura religiosa complessiva di Manzoni –
all’interno di una scansione temporale della ricezione del pensiero
religioso manzoniano che va dal rigetto post-unitario all’esaltazione da
parte del cattolicesimo in epoca concordataria sino a una specie di
oblio dopo gli anni Sessanta del Novecento – si pone di là da categorie
che solo parzialmente gli si attagliano: liberalismo, giansenismo,
illuminismo, intransigentismo, e relativizza il conflitto delle
interpretazioni che per un secolo ha tenuto il campo.
Manzoni
religioso «sta a sé». La sua è una irripetibile sintesi di cultura
biblica, di francescanesimo, di umanesimo, di illuminismo, di idealismo
romantico. Ma il tipo religioso che si delinea dalla sua opera –
detestare la forza, una certa naturalezza nel credere, saggezza e
ironia, non odiare nessuno… star basso – è certo raro ma costante nella
storia religiosa italiana, e costituisce una radicale alternativa alla
prospettiva filo-romanismo di Machiavelli:
«Pensando
adunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli
fussero piú amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale credo sia
la diversità della educazione nostra dall’antica, fondata nella
diversità della religione nostra dalla antica. Perché avendoci la nostra
religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore
del mondo: onde i Gentili stimolandolo assai, ed avendo posto in quello
il sommo bene, erano nelle azioni loro piú feroci [...]. La nostra
religione ha glorificato piú gli uomini umili e contemplativi che gli
attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel
dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello
animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare
gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in
te fortezza, vuole che tu sia atto a patire piú che a fare una cosa
forte. Questo modo di vivere adunque pare che abbi renduto il mondo
debole, e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo
possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andare
in Paradiso pensa piú a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E
benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce
piú senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la
nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù»75.
Note
1 Cronaca contemporanea, «La Civiltà cattolica», Firenze 26 giugno 1873, 24, 1873, III, p. 82.
2 G. Spadolini, prefazione a A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni,
Firenze 1973, p. VII. A proposito dell’atteggiamento verso Manzoni
sarebbe opportuna una ricerca attraverso tutte le annate della rivista.
3 Cfr. in generale il saggio introduttivo in Fermo e Lucia, revisione del testo critico e commento a cura di S.S. Nigro, Milano 2002, in partic., per l’eccellente appendice, cfr. Percorsi bibliografici, a cura di S.S. Nigro, E. Paccagnini, ivi, pp. 1375-1402. Bibliografia recente si trova anche in P. Floriani, s.v. Manzoni, Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXIX, Roma 2007, pp. 306-322. Cfr. inoltre D. Ellero, Rassegna Manzoniana (2005-2008), «Lettere italiane», 61, 2009, pp. 602-641. Specificamente sulle Osservazioni la bibliografia di recente è molto ridotta: F. Mattesini, Dalla “Morale Cattolica” ai “Promessi sposi”, in Manzoni tra due secoli, Milano 1986, pp.11-25.
4 S. de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, 12 voll., Zürich-Paris 1807-1818.
5 S. de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, XVI, Paris 1826, p. 418.
6 Citiamo normalmente la seconda edizione, del 1855, in Opere morali e filosofiche, a cura di F. Ghisalberti, III, in Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari, F. Ghisalberti, III, Milano 1963, p. 2.
7 Ibidem, p. 3.
8 A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, 3 voll., Milano-Napoli 1966; Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, III, in A. Manzoni, Opera omnia,
diretta da C. Secchi, D. Nava, Milano 1965. Prima delle edizioni di
Amerio e di Colombo, l’edizione di riferimento era quella curata da
Antonio Cojazzi presso la Società editrice internazionale di Torino,
varie edizioni a partire dal 1910: Osservazioni sulla morale cattolica: parte I e II, postuma, e pensieri religiosi. Studi introduttivi, commenti e appendice di A. Cojazzi, tuttora interessante per alcuni spunti sulla ricezione del testo.
9 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, cit.
10 F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, 2 voll., Bari 1931.
11 Cfr. Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, a cura del Centro nazionale di studi manzoniani, XX, Postille: filosofia, con introduzione di V. Mathieu, a cura di D. Martinelli, Milano 2002, pp. 1997 seg.
12 B. Croce, Alessandro Manzoni. Saggi e discussioni, Bari 1942, pp. 57 seg.
13 Ibidem, p. 65.
14 Ibidem, p. 57.
15 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 11.
16 Ibidem, p.12.
17 Ibidem, p. 49.
18 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 76.
19 H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di H. Hünermann, Bologna 1995, nn. 2778, 3009.
20
Il termine non si trova nella versione greca della Bibbia ebraica, si
trova sia in Filone Ebreo sia nella letteratura del periodo cosiddetto
intertestamentario sia nella letteratura filosofica stoica: Epitteto e
anche nel Corpus hermeticum. L’idea di fondo di logikē latréia
è quella di un culto, di un servizio divino non ritualistico, ma reso
attraverso una vita moralmente degna. In particolare Paolo intende dire
che «il culto cristiano basato sulla fede non è paragonabile a nessuno
degli espletamenti rituali esteriori compiuti sia dai gentili sia dai
giudei; anzi egli non pensa neppure che il cristianesimo abbia dei riti
propri, ma intende l’intera vita quotidiana! Il cristiano è chiamato ad
agire nel suo contesto esistenziale in modo conveniente sia alla sua
fede sia anche alla sua dignità umana», R. Penna, Lettera ai Romani, III, Rm 12-16, Bologna 2008, pp. 24 seg.
21 Questa è una prospettiva su cui abbiamo insistito sin dai primi anni Novanta (P.C. Bori, Per un consenso etico tra culture,
Genova 1995), sottolineando la differenza tra un conoscere scisso ed
astratto e un sapere più alto che si volge a cogliere il nesso tra parti
e tutto, tra il pensare e agire, tra filosofia e religione.
22 G. von Rad, La sapienza in Israele, Casale Monferrato 1975, p. 61.
23 Ibidem, p. 94.
24
Aveva anche ragione Ernesto Buonaiuti quando rimproverava a Manzoni
tutto di mancare di «uno di quei violenti battiti d’ala improvvisi e
sollevanti che danno il sentore di rinnovamenti spirituali preludianti
ai trapassi della tradizione cristiana nella storia» (E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo. Origini e sviluppi teologici, culturali, politici di una religione, a cura di C. Marongiu Buonaiuti, Roma 2002, p. 1053): ma appunto Manzoni non appartiene al profetismo, sia pure romantico.
25 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 6.
26 Pascal. Oeuvres complètes, éd. par J. Chevalier, Paris 1954, n. 729.
27 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., pp. 23 seg.
28 Ibidem.
29 Ibidem, pp. 26 seg.
30 Lettera 52, del 23 marzo 1816, in Carteggio A. Manzoni-C. Fauriel, a cura di I. Botta, premessa di E. Raimondi, Milano 2000, p.199.
31 Lo stesso in Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 508.
32 Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia, a cura di B. Colli, P. Italia, G. Raboni, in I Promessi sposi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano 2006, p. 277.
33 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 332.
34 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 55.
35 Ibidem, p. 57; cfr. P.C. Bori, Alessandro Manzoni contre la torture, «Cristianesimo nella storia», 31, 2010, pp. 199-206.
36 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 78. Rispetto alle Osservazioni del 1819, nelle Osservazioni
del 1855 si parla dell’«immagine e somiglianza dell’ineffabile
Trinità», ivi, p. 53, e vi sono due nuovi riferimenti nel cap. XV.
37 Si veda la scena corrispondente nel Fermo e Lucia,
dove manca il riferimento al Faraone: «Ho compassione di questa casa:
ella è segnata dalla maledizione. State a vedere che la giustizia di Dio
avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani! Voi avete creduto
che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di
tormentarla! voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla contra
voi! Vi siete giudicato. Ne ho visti di più sicuri, di più potenti, di
più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro preda, mentre non
avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava
in silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura di
voi, ve lo dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà
un giorno…», Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia, a cura di B. Colli, P. Italia, G. Raboni, cit., p. 81.
38 Si veda anche A. Manzoni, Adelchi,
III, VII: «[...]Che, regnante o caduto, è tale Adelchi, / Che chi
l’offende, il Dio del cielo offende / Nella più pura immagin sua». Si
veda anche il coro alla fine del secondo atto del Conte di Carmagnola:
«Tutti fatti a sembianza d’un Solo, / figli tutti d’un solo Riscatto, /
in qual ora, in qual parte del suolo, / trascorriamo quest’aura vital, /
siam fratelli; siam stretti ad un patto: / maledetto colui che
l’infrange, / che s’innalza sul fiacco che piange, / che contrista uno
spirto immortal!».
39 Carteggio A. Manzoni-C. Fauriel, cit., p. 144.
40 F. Ruffini, La vita religiosa, cit., I, pp. 35 seg.
41 L. Devillairs, L’homme image de Dieu. Interprétations augustiniennes (Descartes, Pascal, Fénelon), «Archives de philosophie», 2, 2009, 72, pp. 293-315.
42 Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, cit., XVI, Dell’invenzione e altri scritti filosofici, introduzione e note di U. Muratore, testi a cura di M. Castoldi, p. 224. La nota rinvia alla dottrina rosminiana.
43 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 747.
44 Ibidem, VII, I, lettera 323, p. 566.
45 Lettera a V. Cousin, in A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 605. Si veda Postille: filosofia, a cura di D. Martinelli, cit., pp. 1997 segg.
46 C. Confalonieri, Pio XI visto da vicino, Torino 1957, 1993, p. 153; Y. Chiron, Pie XI,
Paris 2004, conta una cinquantina di citazioni di Manzoni nei discorsi
di Pio XI, tra il 1922 e il 1939, è fra i laici il più citato. Va anche
segnalata una lunga citazione di Manzoni, «un illustre scrittore, il
quale tratta anche di cose sacre con una competenza rara a trovarsi in
un laico», in Ad catholici sacerdotii, lettera enciclica del 1935.
47 T. Gallarati Scotti, La giovinezza del Manzoni, Milano 1969, pp. 260 segg.
48 http://www.group.intesasanpaolo.com/scriptIsir0/isInvestor/ita/newsletter/ita_newsletter_n3.jsp (28 luglio 2010).
49
Più esaustivamente: «omnem in morum genere veritatem possidere». Cfr.
«Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem.
Ioan. XVI, 13», citato anche nelle Osservazioni, in nota al capitolo III.
50 A. Manzoni, Opere morali,
a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 50. Amerio commentava: «Il M.
riprova espressamente la dottrina giansenistica che fa dipendere dalla
grazia ogni lume morale (prop. 41-48 di Quesnel e 36-37 di Baio), e
perciò asserisce alla religione non già un dominio esclusivo sulla morale, giusta l’accusa del Sismondi, sibbene un dominio totale, che su una parte si esercita in condominio colla ragione, ma oltre a ciò abbraccia la totalità del sistema» (corsivo nostro).
51 La vostra presenza,
Allocuzione di S.S. Pio XI ai vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli
profughi dalla Spagna, 14 settembre 1936,
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/speeches/documents/hf_p-xi_spe_19360914_vostra-presenza_it.html
(28 luglio 2010).
52 Siamo ancora,
Allocuzione di S.S. Pio XI in occasione dell’inaugurazione
dell’esposizione mondiale della stampa cattolica, 12 maggio 1936,
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/speeches/documents/hf_p-xi_spe_19360512_siamo-ancora_it.html
(28 luglio 2010).
53 Cfr. A. Guasco, Un termine e le sue declinazioni: chiesa cattolica e totalitarismi tra bibliografia e ricerca, in Pius XI: Keywords, International Conference Milan 2009, a cura di A. Guasco, R. Perin, 2009, pp. 91-106.
54 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di D. Susmel, E. Susmel, Appendice 1. Scritti, 1907-1945, Roma 1978, pp.129 seg. Il colloquio è molto interessante anche per i riferimenti al protestantesimo e all’ebraismo in Italia.
55 Su questi aspetti insiste P. Bouthillon, La naissance de la Mardité. Une théologie politique à l’âge totalitaire: Pie XI, 1922-1939, Strasbourg 2001.
56 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, p. 419.
57 R. Amerio, Iota unum. Studio sulle variazioni della chiesa cattolica nel secolo XX,
Milano-Napoli 1985. Il titolo riecheggia il libro di Jacques Bénigne
Bossuet dedicato alle «variazioni» delle chiese protestanti.
58 A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. 52.
59 Discorso al Senato del 24 maggio 1929, in P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari 1971, p. 211.
60 G. Spadolini, prefazione a A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. XVI.
61 Vedi le desolate considerazioni di G. Tourn, Italiani e protestantesimo. Un incontro impossibile?, Torino 1997, pp.125 segg.
62 F. Ruffini, La vita religiosa, cit., II, p. 173.
63 Ibidem, pp. 454 seg.
64 A.C. Jemolo, introduzione a F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia di un’idea, Milano 1991, con la postafazione di F. Margiotta Broglio, p. XXXI.
65
Questo è il passo cui ci si riferisce: «Tra gli agi e le pompe, badò
fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle
massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio,
alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori,
vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare
insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle
massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non
potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure
si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e
talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e
de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già
destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per
tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa», Promessi sposi, cap. XXII; non è ancora così in Fermo e Lucia.
66 A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, VII, 2, Milano 1970, lettera 444, p. 36.
67 Pensiamo a quanto T. Gallarati Scotti suggeriva in Una pagina ignorata della gioventù del Manzoni, in La giovinezza del Manzoni, cit., pp. 283 seg.
68 A.G. Roncalli-Giovanni XXIII, Edizione nazionale dei diari, a cura di A. Melloni, L. Butturini, M. Faggioli et al., VI, 2, Pace e Vangelo 1956-1968, a cura di E. Galavotti, p. 770. Il passo è ripreso molte volte da Angelo Roncalli, a partire dal 1936.
69 A. Manzoni, Opere morali,
a cura di F. Ghisalberti, cit., pp. 490 segg., anche se lo stesso
Amerio parla dello «scarso sentimento che il Manzoni ebbe della vita che
la verità prende dalla storia, e che non è soltanto vita degli uomini,
ma anche vita, cioè aumento, della verità stessa», Osservazioni sulla morale, cit., III, p. CVII.
70 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, p. 539.
71 A. Manzoni, Adelchi, V, VIII. Vedi anche il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia,
cap. II, «[...] quello stato così naturale all’uomo e così violento,
così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi, dei quali
rende impossibile l’adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i
rimedi, piuttosto che cessare un momento [...] quello stato che è un
mistero di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo considera
come uno stato di prova e di preparazione a un’altra esistenza», e E.
Raimondi, Romanzo senza idillio,
Torino 1974, p. 68. Con intento diverso, descrittivo, Calvino si
serviva efficacemente della nozione di «rapporti di forza»: I. Calvino, «I Promessi Sposi». Il romanzo dei rapporti di forza, in Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, pp. 338-341.
72 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, pp. 456-457.
73 Ibidem,
p. 511. Amerio nel suo commento a questo passo protesta contro la frase
«una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza».
Interessanti le pagine dedicate da Piero Treves a Manzoni: P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Napoli 1962, pp. 591 segg. C’è un «antigentilesimo» che ancora una volta divide Manzoni da Leopardi.
74 Su queste virtù complementari cfr. N. Bobbio, Elogio della mitezza, Milano 1910, p. 44. Altra cosa è propriamente la corrente del Pensiero religioso liberale, riprendendo la bella sintesi di R. Celada Ballanti, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive,
Brescia 2009, che sentiamo del resto molto vicina, sottolineando
l’importanza, in ogni caso, di tutto quel che comporta lo «star basso».
Con buona pace della critica gramsciana, la cui polemica antimanzoniana
(Manzoni opposto a Tolstoj) va inquadrata sull’uso cattolico e rattiano
del «nostro Manzoni», Jemolo scriveva: «Se la passione di parte non
accecasse, scorgerebbero che il compatimento di Manzoni non si arresta
ai poveri, va agli uomini tutti. Più vecchio di Tolstoj di una
generazione, lo anticipa e lo supera nel demolire i potenti: Dio solo è
il fattore della storia», A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. 39.
75 Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio,
II, 2, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, p. 162. Evidentemente è da
considerare la dipendenza dei giudizi di Sismondi da Machiavelli.
Il testo è stato pubblicato da Enciclopedia Treccani.it Cristiani d’Italia (2011)
Nessun commento:
Posta un commento
Salve, donatemi un pò dei Vostri Pensieri: