17 Giugno 2012

Questo
 intervento si prefigge, sin dal titolo, una affermazione di Simone Weil
 “Ogni religione è l’unica vera”. Tutto quel che segue è dedicato a una 
riflessione su questa formula provocatoria: essa potrebbe valere come 
insegna di quell’universalismo che per la Weil era l’imperativo imposto 
dal presente. “Viviamo – diceva – in un’epoca del tutto senza 
precedenti: nella situazione presente l’universalità, che poteva 
altrimenti essere implicita, deve ora essere pienamente esplicita. Essa 
deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera d’essere” (AD 81)
Comincerò
 proprio da quella frase della Weil, e quindi dal tema 
dell’universalismo. Parlerò della lealtà della Weil al punto di vista 
cristiano. E vedremo infine appunto quale cristianesimo risulti, dalle 
premesse precedenti. Farò particolarmente riferimento alla Lettera a un religioso,
 un testo in cui il tema universalistico è assolutamente centrale, 
divenendo il punto discriminante per il rifiuto del battesimo cattolico.
1. “La sintesi delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore”
Alla
 fine del 1941, a Marsiglia, Simone Weil riflette su un suo quaderno 
polemizzando contro la “mancanza di fede”, l’”ortodossia totalitaria 
della Chiesa”. La Weil, dopo varie altre enunciazioni giunge a 
quell’affermazione finale di straordinaria forza: “Ogni religione è 
l’unica vera, vale a dire che nel momento in cui la si pensa è 
necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse 
nient’altro; allo stesso modo ogni paesaggio, ogni poesia, ecc. è 
l’unico bello. La “sintesi” delle religioni implica una qualità di 
attenzione inferiore” (II, 153).
L’universalismo
 della Weil non consiste nel perseguire una nuova sintesi delle 
religioni. Il passato è ricco di questi esperimenti. La gnosi antica, il
 Rinascimento, l’età illuministica e il romanticismo hanno espresso 
tentativi di sincretismo o, appunto, di sintesi, spesso ponendo al 
centro di tutto il cristianesimo, si pensi al deismo massonico, alla 
religione della Rivoluzione francese, a certe ambizioni di Tolstoj. Ma 
la Weil afferma che “la sintesi delle religioni comporta una qualità di 
attenzione inferiore”.
“Attenzione”
 è una parola fondamentale per la Weil. L’attenzione che l’operaio 
presta alla macchina, l’attenzione che chi studia una lingua presta ai 
suoi caratteri, l’attenzione di chi contempla un’opera d’arte, 
l’attenzione alla sventura, l’attenzione dell’”amore soprannaturale e 
della preghiera” (II, 266): sono tutte varietà dello stesso 
atteggiamento di fondo, quando l’oggetto di fronte a noi diventa unico, e
 dimentichiamo completamente noi stessi. “Tecnica dell’attenzione. Per 
abbattere le cicale in pieno volo, è sufficiente non vedere 
nell’universo intero altro che la cicala presa di mira: non è possibile 
mancarla…” (II, 67 n.). “Privare tutto ciò che io chiamo “io” della luce
 dell’attenzione e riversarla sull’incomprensibile” (II, 79), dice 
anche.
Attenzione
 e bellezza. Ecco un testo vicinissimo al nostro. “Quando una cosa è 
perfettamente bella, non appena vi si fissa l’attenzione, essa è l’unica
 bellezza. Due statue greche: quella che si guarda è bella, l’altra no. 
Così la fede cattolica e il pensiero platonico e il pensiero indù ecc. 
[...] Così coloro che proclamano vera e bella solo una certa fede, 
sebbene abbiano torto, in un certo senso hanno più ragione di quelli che
 hanno ragione, perché essi l’hanno guardata con tutta la loro anima” 
(II, 176). La sintesi delle religioni è possibile solo alla 
disattenzione, incapace di penetrare un oggetto sino a percepirne 
l’unicità.
2. Non cambiare lingua
“Nella
 situazione presente l’universalità [...] deve ora essere pienamente 
esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera 
d’essere” (AD 81). Ho già citato questa frase, che esprime 
l’universalismo programmatico della Weil. Se si guarda al contesto, 
occorre correttamente constatare che la Weil parla del cristianesimo, 
anzi, della santità cristiana, uno dei cui attributi essenziali è la 
cattolicità. “Occorre essere cattolici, e cioè non essere vincolati a 
niente di creato, che non sia la totalità della creazione. Questa 
universalità poté in altri tempi essere implicita, anche nella loro 
stessa coscienza”. Il comandamento dell’amore, dice la Weil nella stessa
 pagina, è “anonimo e per ciò stesso assolutamente universale”. La 
stessa amicizia, sembra dire, non deve essere una eccezione 
all’universalità del comandamento. Segue l’affermazione 
sull’universalità già ricordata, e poi aggiunge: “Oggi non è niente 
essere santi, occorre la santità che il momento presente esige, una 
santità nuova, senza precedenti” (AD 80 s.).La riflessione della Weil 
sull’universalismo è dunque anche la discussione sul senso da 
attribuirsi all’idea di totalità, ovvero di cattolicesimo, come 
attributo sostanziale del cristianesimo.
La Weil non concepisce l’universalismo come un creare una superlingua, che contenga e superi le altre. “Credo – afferma nella Lettera a un religioso -
 che per un uomo cambiare religione sia altrettanto pericoloso che per 
uno scrittore cambiare lingua. La cosa può avere successo, ma può anche 
avere conseguenze funeste” (LR n.10).
Poco
 più avanti scrive che “la religione cattolica contiene esplicitamente 
verità che altre religioni contengono implicitamente. Ma inversamente 
altre religioni contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo 
sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare 
ancora molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, 
sebbene la luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso 
la propria tradizione. E tuttavia, se le altre tradizioni sparissero 
dalla faccia della terra, la perdita sarebbe irreparabile. I missionari 
ne hanno già fatte sparire troppe”(LR n.11). Credo che sia questa la via giusta per comprendere l’immenso lavoro della Weil nei Quaderni.
 La Weil non cercava una sintesi, ma cercava di aprire il cristianesimo 
dall’interno, attraverso la lettura simultanea di fonti cristiane e non 
cristiane, in modo che il più possibile potesse risaltare la 
corrispondenza sostanziale, al di sotto della molteplicità insuperabile 
dei linguaggi. La lingua biblica veniva così piegata alle esigenze di 
una inaudita impresa di traduzione e di scambio tra culture.
C’è
 un brano di Max Müller, il grande indologo che, scrivendo a metà 
Ottocento, affermava cose assai pertinenti, in un’epoca cruciale per lo 
sviluppo della conoscenza dell’Oriente induista, conoscenza cui com’è 
noto Müller dà un contributo fondamentale. Non è escluso che il suo 
pensiero possa avere indirettamente influenzato la Weil: “Per ogni 
individuo la sua religione, se vi crede realmente, è qualcosa di 
assolutamente inseparabile da lui stesso, qualcosa di unico, che non può
 essere paragonato a nient’altro, né sostituito con alcuna altra cosa. 
Da questo punto di vista, c’è una analogia con la nostra lingua materna.
 Essa può sembrare ad altre lingue per le sue forme o per il suo 
meccanismo; nella sua essenza, nell’uso che ne facciamo occupa un posto a
 parte e non potrebbe avere né eguali né rivali. Ma nella storia del 
mondo la nostra religione, al pari della nostra lingua materna, deve 
essere considerata come facente parte di un vasto insieme. Se vogliamo 
arrivare a vedere nettamente e esattamente la posizione del 
cristianesimo nella storia universale e il suo vero posto tra le 
religioni dell’umanità occorre paragonarlo non solo con il giudaismo, ma
 con le aspirazioni religiose del mondo tutto intero”.
La
 grandezza dell’esperimento che la Weil tenta non è nella sintesi delle 
religioni, ma deriva da una pratica concreta di lettura pluralistica, in
 cui essa legge simultaneamente fonti antiche e moderne di Oriente e di 
Occidente, senza privilegiarne alcuna, e tuttavia sostenuta dalla 
convinzione di una identità profonda, essenziale, al di sotto della 
differenza linguistica. “Concepire l’identità delle diverse tradizioni, 
non accostandole in base a quel che esse hanno di comune; ma cogliendo 
l’essenza di ciò che ciascuna di esse ha di specifico. E’ una sola e 
medesima essenza”(III, 201 s.).
3.”La luce che illumina ogni uomo”.
La
 vasta indagine religiosa che la Weil conduce è retta dunque dalla 
convinzione che “il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto 
sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce 
interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la propria 
tradizione”(LR n.11).
C’è qui l’allusione a un passo decisivo del Prologo al Vangelo secondo Giovanni , il versetto 9, cui la Weil torna più volte.
“La
 Chiesa in quanto società che esprime delle opinioni è un fenomeno di 
questo mondo, condizionato. Dio ha messo in ogni essere pensante la 
capacità di luce necessaria per controllare la verità di ogni pensiero. 
Il Verbo è la luce che illumina ogni uomo. Quale testo più categorico si
 potrebbe desiderare?” (IV, 164). Analogamente, nella Lettera a un religioso afferma:
 “Tutto quest’inizio del Vangelo di S. Giovanni è molto oscuro. La 
parola “Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene al 
mondo”contraddice assolutamente la dottrina cattolica del battesimo. 
Poiché da allora il Verbo abita in segreto in ogni uomo, battezzato o 
no; non è il battesimo che lo fa entrare nell’anima”(LR n.34).
La Weil ha una lettura particolare di Giovanni 1, 9, usando “con” per tradurre “in” (ogni uomo). “Il Verbo è la luce che viene con ogni uomo” (II, 150); “”La parola di Dio è come un seme…”La parola: si tratta del Verbo, della luce che nasce con
 ogni uomo” (III, 53). “Il seme che cade in terra. Ancora un paragone 
tra il Verbo e il seme. “La luce che nasce con ogni uomo”. Ogni terra 
nasce con
 questo seme”(III, 307). La lettura della Weil salda l’immagine della 
luce con quella del seme. La luce suggerisce l’idea di irruzione 
improvvisa, dal di fuori. Il seme insiste sul carattere interno, quasi 
innato. L’immagine della luce esprime dualisticamente la discontinuità, 
la rottura, rispetto all’ordine opposto della “tenebra”, in cui la luce 
irrompe, disperdendola. La luce c’è o non c’è, è il contrario delle 
tenebre. La metafora del seme invece – il seme minuscolo, che può 
diventare una grande pianta – non è dualistica, ma stabilisce un nesso 
di potenzialità ad attualità. Essa suggerisce la continuità tra ordine 
naturale, o meglio creaturale, e ordine della grazia, tra ordine 
anticotestamentario e neotestamentario; non oppone il logos 
soprannaturale alla “capacità di luce necessaria per controllare la 
verità di ogni pensiero”, come essa stessa dice, ma vede piuttosto 
all’opera, nei due momenti, uno stesso principio divino di conoscenza o 
di sapienza. Questa affermazione del carattere unitario della conoscenza
 è fondamentale, per la Weil.
C’è
 testo in cui la continuità è tra i due ordini è affermata con grande 
forza: “In che modo il cristianesimo può impregnare tutto senza essere 
totalitario? Lo può essere soltanto se il sacro è riconosciuto come 
l’unica fonte d’ispirazione del profano, la ragione naturale come una 
degradazione di quella soprannaturale, l’arte come una degradazione 
della fede. Non degradazione, ma la stessa cosa a un grado di luce 
inferiore. La luce soprannaturale discendendo nell’ambito dalla natura 
umana diventa luce naturale. E’ una buona cosa se tale processione è 
riconosciuta. Senza la fonte soprannaturale della luce, ben presto non 
restano che tenebre al livello stesso della natura” (IV 145, anche 134: 
“Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella 
soprannaturale, ma questa dispone solo del linguaggio di quella. 
Tuttavia la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella
 della ragione naturale”). Si noti come nel passo citato la continuità 
tra i due ordini sia stabilita in due modi, il cui il secondo corregge 
il primo: la ragione naturale non è una degradazione, come verrebbe da 
dire alla Weil in prima istanza, ma solo un grado inferiore di quello 
soprannaturale. Prevale dunque appunto l’idea della dello sviluppo,della
 crescita, del seme.
Ne
 consegue che mentre l’illuminazione come tale è necessaria e 
sufficiente, il concreto discernere questa luce del Verbo nel Gesù 
storico del Nuovo Testamento, attraverso la Chiesa, non è necessario. 
Scrive la Weil nella Lettera a un religioso “Non
 c’è salvezza senza “nuova nascita”, senza illuminazione interiore senza
 presenza di Cristo e dello Spirito Santo nell’anima. Se dunque c’è 
possibilità di salvezza fuori della Chiesa, allora c’è altresì 
possibilità di rivelazioni individuali o collettive fuori del 
cristianesimo”. (LR n.21). Ma c’è un testo più complesso che va qui 
ricordato: “Fondamentale: “Non si va al Padre che mediante il Verbo, la 
luce nata con ogni uomo, e questo è vero sempre, per tutti gli uomini, 
senza alcuna eccezione.(Ma questo non esige che sia dia un nome al 
Verbo, forse neppure a Dio; questo rapporto si esprime in modo 
differente in differenti linguaggi o senza linguaggio). Quindi dell’uomo
 che era oJ Cristov”, chiunque l’ha incontrato sulla terra e l’ha udito,
 chiunque ha letto le sue parole nel testo dei Vangeli e non ha pensato:
 questo viene da Dio, non ha discernimento delle cose sante. Ma si 
tratta unicamente del discernimento di un’ispirazione divina, non della 
natura particolare di tale ispirazione. Quanto al legame d’identità tra 
il Verbo e quest’uomo, nulla indica che l’affermazione di un simile 
legame sia una condizione della salvezza, sarebbe una cosa assurda” (II,
 177). In altre parole: per la Weil ciò che è necessario, e sufficiente 
per la salvezza, e perciò nasce con ogni ogni uomo che viene in questo 
mondo, è il Logos, o lo Spirito, o la Luce. Il riconoscere in Gesù il 
Cristo, cioè una speciale presenza del Logos, è frutto del Logos stesso,
 ma questo non deve necessariamente accadere per ognuno, e comunque ciò 
può accadere – sembra dire la Weil – per una assolutamente imprevedibile
 ispirazione divina, anche al di fuori dei confini della Chiesa, anche 
prima della Chiesa e del cristianesimo. “Perché il cristianesimo – dice 
la Weil – si incarni veramente [...] bisogna anzitutto riconoscere che 
storicamente la nostra civiltà procede da un’ispirazione religiosa che, 
benché cronologicamente precristiana, era cristiana nella sua essenza. 
La Sapienza di Dio deve essere considerata come la fonte unica di ogni 
luce quaggiù, anche dei lumi così deboli che rischiarano le cose di 
questo mondo” (LR, 7).
4.”Dio è il bene”
Nella Professione di fede,
 scritta a Londra, la Weil scriveva: “V’è una realtà situata fuori del 
mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle 
facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell’uomo
 questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova
 alcun oggetto in questo mondo”. E’ la luce di cui parla il Prologo
 al Vangelo secondo Giovanni, ma è anche la luce del bene che attira a 
sé coloro che stanno nella caverna, secondo la similitudine platonica (Rep.
 VII). E’ noto che la categoria platonica del bene costituisce il punto 
di riferimento critico della costruzione ermeneutica della Weil. Basta 
leggere l’inizio di Israele e i gentili, con il testo parallelo, la Lettera a una religioso: “La conoscenza essenziale per quanto riguarda Dio è che Dio è il Bene. Tutto il resto è secondario”. E la Lettera : “La verità essenziale a proposito di Dio, è che è buono” (LR, 1). La Weil si riferisce continuamente a Rep. 509b, in cui si afferma il bene, to agathon, è epekeina tes ousias, al di là dell’essere.
Ma
 nella sua concezione il bene platonico si salda con l’evangelico “Dio 
solo è buono” di Mt 10, 18 (III, 90). Nella visione della Weil, Platone 
non dipende da Mosè. “Ma Platone (e prima di lui Pitagora e senza dubbio
 molti altri) era stato istruito più di Mosè, perché sapeva che l’Essere
 non è ancora ciò che vi ha di più alto; il bene è al di sopra 
dell’Essere e Dio è il bene prima ancora di essere ciò che è” (IG 49). 
Desiderare solo il Bene incondizionatamente: “un pensiero talmente 
contrario alla natura che non può sorgere se non in un’anima divorata 
completamente dal fuoco dello Spirito Santo, come lo erano certo quelle 
dei Pitagorici. Giustino, Sant’Agostino ecc. dicevano che Platone aveva 
appreso da Mosè che Dio è l’essere. Ma da chi ha appreso che Dio è il 
Bene, e che il Bene è al di sopra dell’Essere? Non certo da Mosè” (IV, 
209 s.). E nella Lettera:
 “egli ha conosciuta la verità essenziale, cioè che Dio è il Bene. E che
 è Onnipotente solo in sovrappiù” (LR 7). E’ questa categoria del Bene 
trascendente che permette alla Weil di percorrere criticamente la storia
 di Israele come quella cristiana: laddove soprattutto questa storia si 
configura come dispiegamento della forza, come espressione dell’ 
“idolatria sociale”, Israele e la Chiesa, e lo stesso testo biblico sono
 oggetto di severo giudizio. In
 un altra occasione ho sviluppato un confronto con Agostino, a mio 
parere assai istruttivo. Si tratta infatti di due diversi platonismi: in
 Agostino l’idea del bene è assoggettata ad un regime teologico ed 
ecclesiologico, nella Weil al contrario giudica la teologia, Israele e 
la Chiesa. L’”extra ecclesiam nulla salus” dunque si rovescia, “intra 
ecclesia nulla salus”. “Agostino- concludevo -trova la sofia nella Chiesa; S.Weil deve cercare il suo sposo, il logos, fuori della Chiesa”.
5. Illuminazione e illuminismo
E
 tuttavia quello della Weil è un cristianesimo. Un cristianesimo 
critico, potremmo dire. La Weil parla della necessità di “una soluzione 
armoniosa del problema delle relazioni tra individui e collettività”. 
“La situazione dell’intelligenza è la pietra di paragone di 
quest’armonia, perché l’intelligenza è cosa specificamente, 
rigorosamente individuale. Quest’armonia esiste dovunque l’intelligenza,
 rimanendo al suo posto, esercita senza impedimenti e adempie in pieno 
la sua funzione [...] La funzione propria dell’intelligenza esige una 
libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l’assenza di 
ogni forma di predominio” (AD, 55 s.).Ma
 soprattutto insiste sulla necessità di un cristianesimo in cui la 
verità (e la veracità) non siano subordinati all’adesione religiosa, ma 
siano essi stessi il principio normativo. “Non c’è il punto di vista 
cristiano e gli altri, ma la verità e l’errore”. Prosegue “Non: ciò che 
non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano” (III, 
401).
Viene
 in mente un’opposizione – una delle tante, ma in questo caso non 
stereotipa – tra Dostoevskij e Tolstoj. Dostoevskij afferma invece in 
qualche luogo: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della 
verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di 
Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e 
cioè starei con Cristo anche se avesse torto”. Tolstoj, citando 
Coleridge, diceva invece: “Chi comincia con l’amare il cristianesimo più
 della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e 
finirà con l’amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra
 cosa” (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo
 ). Un testo che ci riporta infine di nuovo a Platone, al famoso “amico 
di Socrate, ma più ancora della verità” che nella sua forma originaria 
si trova in Fedro
 91B-C, Socrate dice: “…io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi 
date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E
 se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti 
dovrete opporvi con ogni vostro argomento”.
Quando dunque, nella Lettera a un religioso,
 parla di un “totalitarismo della fede”, per cui “l’intelligenza deve 
essere imbavagliata”, la Weil non intende, lanciare uno dei tanti 
attacchi all’oscurantismo ecclesiastico, come molta parte del modernismo
 cattolico. Il seguito del passo rivela ben altro: “…Invece, “la 
metafora del “velo” applicata dai mistici permette loro di uscire da un 
tale soffocamento. Essi accettano l’insegnamento della Chiesa, non come 
se fosse la verità, ma come qualcosa dietro a cui si trova la verità. E’
 come se sotto stesso nome di cristianesimo  ci fossero due religioni distinte,
 quella dei mistici e l’altra” (LR n.14). Penso qui ad Isaac Penington: 
“Ogni verità è ombra, eccetto l’ultima, la suprema; eppure ogni verità è
 vera nel suo genere. E’ sostanza al suo luogo, sebbene sia ombra 
altrove… e l’ombra è ombra vera, come la sostanza è sostanza vera”. 
Penso a quell’area vastissima, difficile da definire, estesa oltre ai 
limiti del cristianesimo (Spinoza), comprensiva di tendenze mistiche e 
di tendenze razionalistiche e critiche, tra Sei- e Settecento, in cui i 
confini tra illuminazione mistica e illuminismo sono ancora fluidi. 
Forse qui è la casa spirituale di Simone Weil, e forse qui occorrerebbe 
ritornare ad imparare.
In conclusione.
Non
 è necessario condividere nei dettagli la religiosità della Weil (per 
esempio la sua idea di abdicazione di Dio, di decreazione o di 
mediazione) per riconoscere i tratti necessari di quell’universalismo 
che sempre più, in un momento di conflitto di culture, dovrà “impregnare
 il nostro linguaggio e tutto il nostro modo d’essere”.
Non potrà essere semplicemente l’universalismo dell’amore, messo in stato d’accusa da S.Freud ne Il disagio della civiltà. Tanto
 meno potrà essere l’universalismo di chi possiede un’unica verità da 
imporre al resto dell’umanità, giudicata incapace di attingerla 
autonomamente (A.Momigliano ha delle osservazioni molto severe in 
proposito). Ma non sarà neppure l’universalismo di chi non ha radici, non ha lingua, non ha cultura, non ha passione per la verità. Ma
 sarà l’universalismo di chi aderendo alla propria tradizione e alla 
luce che ne trae, afferma con pari forza – ed è questa la discriminante 
decisiva – che nelle altre tradizioni, in altri termini, in altre 
lingue, in altre figure, è presente la stessa luce.
In
 questo modo la Weil, con un proprio percorso, usando gli strumenti 
della propria cultura – tra illuminazione e illuminismo, come si è detto
 – si allinea accanto ad altri mistici che hanno saputo dall’interno, 
mediante gli strumenti della propria cultura, trascendere il proprio 
stesso limite culturale. Ricordiamo per il contesto arabo-islamico, 
Al-Hallaj, che sembra giungere a negare la necessità della professione 
di fede, la shahâda:
 “Ho molto pensato alle religioni per capirle e ho scoperto che sono 
molti rami di un’unica fonte. Non pretendere dunque dall’uomo che ne 
professi una, ché così si allontanerebbe dalla fonte sicura. E’ invece 
la fonte, eccelsa e di significati pregna,che deve venire a cercarlo, e 
l’uomo capirà”. E per il contesto indiano, Kabir Das, che osa uscire dal
 Tempio: “O fratello, come puoi mai pensare al Signore come a due Essi 
distinti? Perché mai erigesti la muraglia del dubbio attorno al Suo 
nome? Egli è l’unico Creatore da cui sprizzò l’intero cosmo, eppure 
alcuni l’adorano soltanto se il suo nome è Râma, ed altri se invece è 
Rahîm”. “Per me Râma, Rahîm, e Keçava sono tutti verità[...] Il nome del
 Signore attrae il Kâzi che osserva il suo digiuno e il Mullâh che prega
 prostrandosi a ovest, ed il fedele hindu, che volge le sue orazioni 
levante. Ma nessuno di essi osa avventurarsi oltre il Tempio e la 
moschea, perché tutti han smarrito al strada. Stolti,non sanno ch’Egli 
non dimora nel Tempio, né sotto le cupole della moschea, poveri ciechi, 
che non vedono ch’Egli è presente in ogni cosa, e in essi stessi!”
da www. spbo.unibo.it/pais/bori
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