17 Giugno 2012
Questo
intervento si prefigge, sin dal titolo, una affermazione di Simone Weil
“Ogni religione è l’unica vera”. Tutto quel che segue è dedicato a una
riflessione su questa formula provocatoria: essa potrebbe valere come
insegna di quell’universalismo che per la Weil era l’imperativo imposto
dal presente. “Viviamo – diceva – in un’epoca del tutto senza
precedenti: nella situazione presente l’universalità, che poteva
altrimenti essere implicita, deve ora essere pienamente esplicita. Essa
deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera d’essere” (AD 81)
Comincerò
proprio da quella frase della Weil, e quindi dal tema
dell’universalismo. Parlerò della lealtà della Weil al punto di vista
cristiano. E vedremo infine appunto quale cristianesimo risulti, dalle
premesse precedenti. Farò particolarmente riferimento alla Lettera a un religioso,
un testo in cui il tema universalistico è assolutamente centrale,
divenendo il punto discriminante per il rifiuto del battesimo cattolico.
1. “La sintesi delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore”
Alla
fine del 1941, a Marsiglia, Simone Weil riflette su un suo quaderno
polemizzando contro la “mancanza di fede”, l’”ortodossia totalitaria
della Chiesa”. La Weil, dopo varie altre enunciazioni giunge a
quell’affermazione finale di straordinaria forza: “Ogni religione è
l’unica vera, vale a dire che nel momento in cui la si pensa è
necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse
nient’altro; allo stesso modo ogni paesaggio, ogni poesia, ecc. è
l’unico bello. La “sintesi” delle religioni implica una qualità di
attenzione inferiore” (II, 153).
L’universalismo
della Weil non consiste nel perseguire una nuova sintesi delle
religioni. Il passato è ricco di questi esperimenti. La gnosi antica, il
Rinascimento, l’età illuministica e il romanticismo hanno espresso
tentativi di sincretismo o, appunto, di sintesi, spesso ponendo al
centro di tutto il cristianesimo, si pensi al deismo massonico, alla
religione della Rivoluzione francese, a certe ambizioni di Tolstoj. Ma
la Weil afferma che “la sintesi delle religioni comporta una qualità di
attenzione inferiore”.
“Attenzione”
è una parola fondamentale per la Weil. L’attenzione che l’operaio
presta alla macchina, l’attenzione che chi studia una lingua presta ai
suoi caratteri, l’attenzione di chi contempla un’opera d’arte,
l’attenzione alla sventura, l’attenzione dell’”amore soprannaturale e
della preghiera” (II, 266): sono tutte varietà dello stesso
atteggiamento di fondo, quando l’oggetto di fronte a noi diventa unico, e
dimentichiamo completamente noi stessi. “Tecnica dell’attenzione. Per
abbattere le cicale in pieno volo, è sufficiente non vedere
nell’universo intero altro che la cicala presa di mira: non è possibile
mancarla…” (II, 67 n.). “Privare tutto ciò che io chiamo “io” della luce
dell’attenzione e riversarla sull’incomprensibile” (II, 79), dice
anche.
Attenzione
e bellezza. Ecco un testo vicinissimo al nostro. “Quando una cosa è
perfettamente bella, non appena vi si fissa l’attenzione, essa è l’unica
bellezza. Due statue greche: quella che si guarda è bella, l’altra no.
Così la fede cattolica e il pensiero platonico e il pensiero indù ecc.
[...] Così coloro che proclamano vera e bella solo una certa fede,
sebbene abbiano torto, in un certo senso hanno più ragione di quelli che
hanno ragione, perché essi l’hanno guardata con tutta la loro anima”
(II, 176). La sintesi delle religioni è possibile solo alla
disattenzione, incapace di penetrare un oggetto sino a percepirne
l’unicità.
2. Non cambiare lingua
“Nella
situazione presente l’universalità [...] deve ora essere pienamente
esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera
d’essere” (AD 81). Ho già citato questa frase, che esprime
l’universalismo programmatico della Weil. Se si guarda al contesto,
occorre correttamente constatare che la Weil parla del cristianesimo,
anzi, della santità cristiana, uno dei cui attributi essenziali è la
cattolicità. “Occorre essere cattolici, e cioè non essere vincolati a
niente di creato, che non sia la totalità della creazione. Questa
universalità poté in altri tempi essere implicita, anche nella loro
stessa coscienza”. Il comandamento dell’amore, dice la Weil nella stessa
pagina, è “anonimo e per ciò stesso assolutamente universale”. La
stessa amicizia, sembra dire, non deve essere una eccezione
all’universalità del comandamento. Segue l’affermazione
sull’universalità già ricordata, e poi aggiunge: “Oggi non è niente
essere santi, occorre la santità che il momento presente esige, una
santità nuova, senza precedenti” (AD 80 s.).La riflessione della Weil
sull’universalismo è dunque anche la discussione sul senso da
attribuirsi all’idea di totalità, ovvero di cattolicesimo, come
attributo sostanziale del cristianesimo.
La Weil non concepisce l’universalismo come un creare una superlingua, che contenga e superi le altre. “Credo – afferma nella Lettera a un religioso -
che per un uomo cambiare religione sia altrettanto pericoloso che per
uno scrittore cambiare lingua. La cosa può avere successo, ma può anche
avere conseguenze funeste” (LR n.10).
Poco
più avanti scrive che “la religione cattolica contiene esplicitamente
verità che altre religioni contengono implicitamente. Ma inversamente
altre religioni contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo
sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare
ancora molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose,
sebbene la luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso
la propria tradizione. E tuttavia, se le altre tradizioni sparissero
dalla faccia della terra, la perdita sarebbe irreparabile. I missionari
ne hanno già fatte sparire troppe”(LR n.11). Credo che sia questa la via giusta per comprendere l’immenso lavoro della Weil nei Quaderni.
La Weil non cercava una sintesi, ma cercava di aprire il cristianesimo
dall’interno, attraverso la lettura simultanea di fonti cristiane e non
cristiane, in modo che il più possibile potesse risaltare la
corrispondenza sostanziale, al di sotto della molteplicità insuperabile
dei linguaggi. La lingua biblica veniva così piegata alle esigenze di
una inaudita impresa di traduzione e di scambio tra culture.
C’è
un brano di Max Müller, il grande indologo che, scrivendo a metà
Ottocento, affermava cose assai pertinenti, in un’epoca cruciale per lo
sviluppo della conoscenza dell’Oriente induista, conoscenza cui com’è
noto Müller dà un contributo fondamentale. Non è escluso che il suo
pensiero possa avere indirettamente influenzato la Weil: “Per ogni
individuo la sua religione, se vi crede realmente, è qualcosa di
assolutamente inseparabile da lui stesso, qualcosa di unico, che non può
essere paragonato a nient’altro, né sostituito con alcuna altra cosa.
Da questo punto di vista, c’è una analogia con la nostra lingua materna.
Essa può sembrare ad altre lingue per le sue forme o per il suo
meccanismo; nella sua essenza, nell’uso che ne facciamo occupa un posto a
parte e non potrebbe avere né eguali né rivali. Ma nella storia del
mondo la nostra religione, al pari della nostra lingua materna, deve
essere considerata come facente parte di un vasto insieme. Se vogliamo
arrivare a vedere nettamente e esattamente la posizione del
cristianesimo nella storia universale e il suo vero posto tra le
religioni dell’umanità occorre paragonarlo non solo con il giudaismo, ma
con le aspirazioni religiose del mondo tutto intero”.
La
grandezza dell’esperimento che la Weil tenta non è nella sintesi delle
religioni, ma deriva da una pratica concreta di lettura pluralistica, in
cui essa legge simultaneamente fonti antiche e moderne di Oriente e di
Occidente, senza privilegiarne alcuna, e tuttavia sostenuta dalla
convinzione di una identità profonda, essenziale, al di sotto della
differenza linguistica. “Concepire l’identità delle diverse tradizioni,
non accostandole in base a quel che esse hanno di comune; ma cogliendo
l’essenza di ciò che ciascuna di esse ha di specifico. E’ una sola e
medesima essenza”(III, 201 s.).
3.”La luce che illumina ogni uomo”.
La
vasta indagine religiosa che la Weil conduce è retta dunque dalla
convinzione che “il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto
sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce
interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la propria
tradizione”(LR n.11).
C’è qui l’allusione a un passo decisivo del Prologo al Vangelo secondo Giovanni , il versetto 9, cui la Weil torna più volte.
“La
Chiesa in quanto società che esprime delle opinioni è un fenomeno di
questo mondo, condizionato. Dio ha messo in ogni essere pensante la
capacità di luce necessaria per controllare la verità di ogni pensiero.
Il Verbo è la luce che illumina ogni uomo. Quale testo più categorico si
potrebbe desiderare?” (IV, 164). Analogamente, nella Lettera a un religioso afferma:
“Tutto quest’inizio del Vangelo di S. Giovanni è molto oscuro. La
parola “Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene al
mondo”contraddice assolutamente la dottrina cattolica del battesimo.
Poiché da allora il Verbo abita in segreto in ogni uomo, battezzato o
no; non è il battesimo che lo fa entrare nell’anima”(LR n.34).
La Weil ha una lettura particolare di Giovanni 1, 9, usando “con” per tradurre “in” (ogni uomo). “Il Verbo è la luce che viene con ogni uomo” (II, 150); “”La parola di Dio è come un seme…”La parola: si tratta del Verbo, della luce che nasce con
ogni uomo” (III, 53). “Il seme che cade in terra. Ancora un paragone
tra il Verbo e il seme. “La luce che nasce con ogni uomo”. Ogni terra
nasce con
questo seme”(III, 307). La lettura della Weil salda l’immagine della
luce con quella del seme. La luce suggerisce l’idea di irruzione
improvvisa, dal di fuori. Il seme insiste sul carattere interno, quasi
innato. L’immagine della luce esprime dualisticamente la discontinuità,
la rottura, rispetto all’ordine opposto della “tenebra”, in cui la luce
irrompe, disperdendola. La luce c’è o non c’è, è il contrario delle
tenebre. La metafora del seme invece – il seme minuscolo, che può
diventare una grande pianta – non è dualistica, ma stabilisce un nesso
di potenzialità ad attualità. Essa suggerisce la continuità tra ordine
naturale, o meglio creaturale, e ordine della grazia, tra ordine
anticotestamentario e neotestamentario; non oppone il logos
soprannaturale alla “capacità di luce necessaria per controllare la
verità di ogni pensiero”, come essa stessa dice, ma vede piuttosto
all’opera, nei due momenti, uno stesso principio divino di conoscenza o
di sapienza. Questa affermazione del carattere unitario della conoscenza
è fondamentale, per la Weil.
C’è
testo in cui la continuità è tra i due ordini è affermata con grande
forza: “In che modo il cristianesimo può impregnare tutto senza essere
totalitario? Lo può essere soltanto se il sacro è riconosciuto come
l’unica fonte d’ispirazione del profano, la ragione naturale come una
degradazione di quella soprannaturale, l’arte come una degradazione
della fede. Non degradazione, ma la stessa cosa a un grado di luce
inferiore. La luce soprannaturale discendendo nell’ambito dalla natura
umana diventa luce naturale. E’ una buona cosa se tale processione è
riconosciuta. Senza la fonte soprannaturale della luce, ben presto non
restano che tenebre al livello stesso della natura” (IV 145, anche 134:
“Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella
soprannaturale, ma questa dispone solo del linguaggio di quella.
Tuttavia la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella
della ragione naturale”). Si noti come nel passo citato la continuità
tra i due ordini sia stabilita in due modi, il cui il secondo corregge
il primo: la ragione naturale non è una degradazione, come verrebbe da
dire alla Weil in prima istanza, ma solo un grado inferiore di quello
soprannaturale. Prevale dunque appunto l’idea della dello sviluppo,della
crescita, del seme.
Ne
consegue che mentre l’illuminazione come tale è necessaria e
sufficiente, il concreto discernere questa luce del Verbo nel Gesù
storico del Nuovo Testamento, attraverso la Chiesa, non è necessario.
Scrive la Weil nella Lettera a un religioso “Non
c’è salvezza senza “nuova nascita”, senza illuminazione interiore senza
presenza di Cristo e dello Spirito Santo nell’anima. Se dunque c’è
possibilità di salvezza fuori della Chiesa, allora c’è altresì
possibilità di rivelazioni individuali o collettive fuori del
cristianesimo”. (LR n.21). Ma c’è un testo più complesso che va qui
ricordato: “Fondamentale: “Non si va al Padre che mediante il Verbo, la
luce nata con ogni uomo, e questo è vero sempre, per tutti gli uomini,
senza alcuna eccezione.(Ma questo non esige che sia dia un nome al
Verbo, forse neppure a Dio; questo rapporto si esprime in modo
differente in differenti linguaggi o senza linguaggio). Quindi dell’uomo
che era oJ Cristov”, chiunque l’ha incontrato sulla terra e l’ha udito,
chiunque ha letto le sue parole nel testo dei Vangeli e non ha pensato:
questo viene da Dio, non ha discernimento delle cose sante. Ma si
tratta unicamente del discernimento di un’ispirazione divina, non della
natura particolare di tale ispirazione. Quanto al legame d’identità tra
il Verbo e quest’uomo, nulla indica che l’affermazione di un simile
legame sia una condizione della salvezza, sarebbe una cosa assurda” (II,
177). In altre parole: per la Weil ciò che è necessario, e sufficiente
per la salvezza, e perciò nasce con ogni ogni uomo che viene in questo
mondo, è il Logos, o lo Spirito, o la Luce. Il riconoscere in Gesù il
Cristo, cioè una speciale presenza del Logos, è frutto del Logos stesso,
ma questo non deve necessariamente accadere per ognuno, e comunque ciò
può accadere – sembra dire la Weil – per una assolutamente imprevedibile
ispirazione divina, anche al di fuori dei confini della Chiesa, anche
prima della Chiesa e del cristianesimo. “Perché il cristianesimo – dice
la Weil – si incarni veramente [...] bisogna anzitutto riconoscere che
storicamente la nostra civiltà procede da un’ispirazione religiosa che,
benché cronologicamente precristiana, era cristiana nella sua essenza.
La Sapienza di Dio deve essere considerata come la fonte unica di ogni
luce quaggiù, anche dei lumi così deboli che rischiarano le cose di
questo mondo” (LR, 7).
4.”Dio è il bene”
Nella Professione di fede,
scritta a Londra, la Weil scriveva: “V’è una realtà situata fuori del
mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle
facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell’uomo
questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova
alcun oggetto in questo mondo”. E’ la luce di cui parla il Prologo
al Vangelo secondo Giovanni, ma è anche la luce del bene che attira a
sé coloro che stanno nella caverna, secondo la similitudine platonica (Rep.
VII). E’ noto che la categoria platonica del bene costituisce il punto
di riferimento critico della costruzione ermeneutica della Weil. Basta
leggere l’inizio di Israele e i gentili, con il testo parallelo, la Lettera a una religioso: “La conoscenza essenziale per quanto riguarda Dio è che Dio è il Bene. Tutto il resto è secondario”. E la Lettera : “La verità essenziale a proposito di Dio, è che è buono” (LR, 1). La Weil si riferisce continuamente a Rep. 509b, in cui si afferma il bene, to agathon, è epekeina tes ousias, al di là dell’essere.
Ma
nella sua concezione il bene platonico si salda con l’evangelico “Dio
solo è buono” di Mt 10, 18 (III, 90). Nella visione della Weil, Platone
non dipende da Mosè. “Ma Platone (e prima di lui Pitagora e senza dubbio
molti altri) era stato istruito più di Mosè, perché sapeva che l’Essere
non è ancora ciò che vi ha di più alto; il bene è al di sopra
dell’Essere e Dio è il bene prima ancora di essere ciò che è” (IG 49).
Desiderare solo il Bene incondizionatamente: “un pensiero talmente
contrario alla natura che non può sorgere se non in un’anima divorata
completamente dal fuoco dello Spirito Santo, come lo erano certo quelle
dei Pitagorici. Giustino, Sant’Agostino ecc. dicevano che Platone aveva
appreso da Mosè che Dio è l’essere. Ma da chi ha appreso che Dio è il
Bene, e che il Bene è al di sopra dell’Essere? Non certo da Mosè” (IV,
209 s.). E nella Lettera:
“egli ha conosciuta la verità essenziale, cioè che Dio è il Bene. E che
è Onnipotente solo in sovrappiù” (LR 7). E’ questa categoria del Bene
trascendente che permette alla Weil di percorrere criticamente la storia
di Israele come quella cristiana: laddove soprattutto questa storia si
configura come dispiegamento della forza, come espressione dell’
“idolatria sociale”, Israele e la Chiesa, e lo stesso testo biblico sono
oggetto di severo giudizio. In
un altra occasione ho sviluppato un confronto con Agostino, a mio
parere assai istruttivo. Si tratta infatti di due diversi platonismi: in
Agostino l’idea del bene è assoggettata ad un regime teologico ed
ecclesiologico, nella Weil al contrario giudica la teologia, Israele e
la Chiesa. L’”extra ecclesiam nulla salus” dunque si rovescia, “intra
ecclesia nulla salus”. “Agostino- concludevo -trova la sofia nella Chiesa; S.Weil deve cercare il suo sposo, il logos, fuori della Chiesa”.
5. Illuminazione e illuminismo
E
tuttavia quello della Weil è un cristianesimo. Un cristianesimo
critico, potremmo dire. La Weil parla della necessità di “una soluzione
armoniosa del problema delle relazioni tra individui e collettività”.
“La situazione dell’intelligenza è la pietra di paragone di
quest’armonia, perché l’intelligenza è cosa specificamente,
rigorosamente individuale. Quest’armonia esiste dovunque l’intelligenza,
rimanendo al suo posto, esercita senza impedimenti e adempie in pieno
la sua funzione [...] La funzione propria dell’intelligenza esige una
libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l’assenza di
ogni forma di predominio” (AD, 55 s.).Ma
soprattutto insiste sulla necessità di un cristianesimo in cui la
verità (e la veracità) non siano subordinati all’adesione religiosa, ma
siano essi stessi il principio normativo. “Non c’è il punto di vista
cristiano e gli altri, ma la verità e l’errore”. Prosegue “Non: ciò che
non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano” (III,
401).
Viene
in mente un’opposizione – una delle tante, ma in questo caso non
stereotipa – tra Dostoevskij e Tolstoj. Dostoevskij afferma invece in
qualche luogo: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della
verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di
Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e
cioè starei con Cristo anche se avesse torto”. Tolstoj, citando
Coleridge, diceva invece: “Chi comincia con l’amare il cristianesimo più
della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e
finirà con l’amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra
cosa” (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo
). Un testo che ci riporta infine di nuovo a Platone, al famoso “amico
di Socrate, ma più ancora della verità” che nella sua forma originaria
si trova in Fedro
91B-C, Socrate dice: “…io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi
date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E
se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti
dovrete opporvi con ogni vostro argomento”.
Quando dunque, nella Lettera a un religioso,
parla di un “totalitarismo della fede”, per cui “l’intelligenza deve
essere imbavagliata”, la Weil non intende, lanciare uno dei tanti
attacchi all’oscurantismo ecclesiastico, come molta parte del modernismo
cattolico. Il seguito del passo rivela ben altro: “…Invece, “la
metafora del “velo” applicata dai mistici permette loro di uscire da un
tale soffocamento. Essi accettano l’insegnamento della Chiesa, non come
se fosse la verità, ma come qualcosa dietro a cui si trova la verità. E’
come se sotto stesso nome di cristianesimo ci fossero due religioni distinte,
quella dei mistici e l’altra” (LR n.14). Penso qui ad Isaac Penington:
“Ogni verità è ombra, eccetto l’ultima, la suprema; eppure ogni verità è
vera nel suo genere. E’ sostanza al suo luogo, sebbene sia ombra
altrove… e l’ombra è ombra vera, come la sostanza è sostanza vera”.
Penso a quell’area vastissima, difficile da definire, estesa oltre ai
limiti del cristianesimo (Spinoza), comprensiva di tendenze mistiche e
di tendenze razionalistiche e critiche, tra Sei- e Settecento, in cui i
confini tra illuminazione mistica e illuminismo sono ancora fluidi.
Forse qui è la casa spirituale di Simone Weil, e forse qui occorrerebbe
ritornare ad imparare.
In conclusione.
Non
è necessario condividere nei dettagli la religiosità della Weil (per
esempio la sua idea di abdicazione di Dio, di decreazione o di
mediazione) per riconoscere i tratti necessari di quell’universalismo
che sempre più, in un momento di conflitto di culture, dovrà “impregnare
il nostro linguaggio e tutto il nostro modo d’essere”.
Non potrà essere semplicemente l’universalismo dell’amore, messo in stato d’accusa da S.Freud ne Il disagio della civiltà. Tanto
meno potrà essere l’universalismo di chi possiede un’unica verità da
imporre al resto dell’umanità, giudicata incapace di attingerla
autonomamente (A.Momigliano ha delle osservazioni molto severe in
proposito). Ma non sarà neppure l’universalismo di chi non ha radici, non ha lingua, non ha cultura, non ha passione per la verità. Ma
sarà l’universalismo di chi aderendo alla propria tradizione e alla
luce che ne trae, afferma con pari forza – ed è questa la discriminante
decisiva – che nelle altre tradizioni, in altri termini, in altre
lingue, in altre figure, è presente la stessa luce.
In
questo modo la Weil, con un proprio percorso, usando gli strumenti
della propria cultura – tra illuminazione e illuminismo, come si è detto
– si allinea accanto ad altri mistici che hanno saputo dall’interno,
mediante gli strumenti della propria cultura, trascendere il proprio
stesso limite culturale. Ricordiamo per il contesto arabo-islamico,
Al-Hallaj, che sembra giungere a negare la necessità della professione
di fede, la shahâda:
“Ho molto pensato alle religioni per capirle e ho scoperto che sono
molti rami di un’unica fonte. Non pretendere dunque dall’uomo che ne
professi una, ché così si allontanerebbe dalla fonte sicura. E’ invece
la fonte, eccelsa e di significati pregna,che deve venire a cercarlo, e
l’uomo capirà”. E per il contesto indiano, Kabir Das, che osa uscire dal
Tempio: “O fratello, come puoi mai pensare al Signore come a due Essi
distinti? Perché mai erigesti la muraglia del dubbio attorno al Suo
nome? Egli è l’unico Creatore da cui sprizzò l’intero cosmo, eppure
alcuni l’adorano soltanto se il suo nome è Râma, ed altri se invece è
Rahîm”. “Per me Râma, Rahîm, e Keçava sono tutti verità[...] Il nome del
Signore attrae il Kâzi che osserva il suo digiuno e il Mullâh che prega
prostrandosi a ovest, ed il fedele hindu, che volge le sue orazioni
levante. Ma nessuno di essi osa avventurarsi oltre il Tempio e la
moschea, perché tutti han smarrito al strada. Stolti,non sanno ch’Egli
non dimora nel Tempio, né sotto le cupole della moschea, poveri ciechi,
che non vedono ch’Egli è presente in ogni cosa, e in essi stessi!”
da www. spbo.unibo.it/pais/bori
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