15 Dicembre 2010
Su
segnalazione di Enrico Peyretti riproduciamo questa lettera di Pier
Cesare Bori presentata nella serata dedicata a “Tolstoj, profeta di
nonviolenza”, a Roma, il 15 dicembre 2010, nel corso“La pace è in
cammino: attualità di maestri, esperienze e metodi”, organizzato dal
Cipax in collaborazione con altre associazioni.
Caro Lev Nikolaevic,
gli
amici, nel titolo dell’incontro che abbiamo fatto per ricordarti, hanno
voluto chiamarti profeta, “profeta di nonviolenza”. Non credo che ti
piaccia essere chiamato profeta, ma un poco lo sei stato. Hai visto
molte cose. Quando fu ucciso Alessandro II, nel 1881, hai implorato il
figlio di concedere la grazia ai terroristi attentatori. Le tue parole
ancora commuovono chi ha cuore: “Maestà, imperatore, io che sono una
nullità, uomo per nulla degno, fragile, malvagio… Una parola solamente
di perdono e di carità cristiana… può sopprimere quel male che consuma
la Russia…” . La lettera forse non fu nemmeno aperta, la sequenza di
attentati e di condanne continuò, nel 1887 anche Aleksandr Uljanov fu
impiccato per un attentato a Alessandro III, e questo fatto segnò per
sempre il fratello, Vladimir Ilic Uljanov, detto Lenin.
Hai
visto con spavento il montare degli imperialismi e dei nazionalismi.
Hai visto la fame e l’ignoranza delle moltitudini. Gridasti inascoltato –
alla vigilia di quella guerra che si può dire durò sino al 1945 - che
il carro delle nazioni europee stava per ribaltare. Hai visto
l’ossificazione la corruzione e l’asservimento delle religioni – perfino
del buddhismo – e la denunciasti. Hai visto la miseria della droga,
della lotta fra i sessi e fra le generazioni, hai visto, hai parlato con
forza … Non avesti il premio Nobel e la sua chiesa ti escluse.
Siccome
la forza, anche profetica, è pur sempre forza, molti oggi trovano più
vicine e persuasive e gentili le tue parole come scrittore dei grandi
romanzi e racconti. Sono belli, ma molti dimenticano che hai dedicato
molti libri a riflettere direttamente sul mondo, su Dio, sulla vita e
sulla morte e non sanno che questi libri sono indispensabili per capirti
anche come scrittore; per capire perché hai messo una certa scritta
biblica all’inizio di Anna Karenina [1] o perché dici che Ivan Ilic vede
alla fine una certa luce o perché la violenza sia per te il contrario
del Regno di Dio.
Alcuni
pensano che nonviolenza sia una tecnica per risolvere i conflitti
senza armi. Ma per te era una scelta metafisica: era nientedimeno che il
passaggio dalla menzogna alla verità, dalla morte alla vita e quindi
anche dalla guerra alla pace. Tu hai detto: è possibile arrivare già
ora a una esistenza vera totale senza fine, se si risveglia in noi la
consapevolezza che «la vita si manifesta sì nel tempo e nello spazio, ma
questo è soltanto il suo manifestarsi» (Della vita, 1886). Hai
spiegato che a questa consapevolezza si giunge non con le parole, ma
attraverso una porta stretta: un atto di sottomissione al principio che
la vita si trova solo perdendola. Il non rispondere all’offesa era per
te il principale di questi gesti, cui se ne accompagnano tanti altri,
gesti cui le grandi tradizioni spirituali ci invitano, insieme con una
promessa di quella vera felicità che Gesù di Nazaret chiamava
“beatitudine”.
In
questo senso tu sei stato piuttosto che un profeta, un maestro che
“tramanda, non fabbrica” (Confucio, che tu amavi): volevi trasmettere il
nucleo delle diverse esperienze spirituali dell’umanità, volevi
invitare ciascuno a riconoscere questo nucleo nella propria tradizione
(come hai fatto con Gandhi). In mille modi diversi questo nucleo può
essere formulato. A te piaceva quello della lettera di Giovanni: come si
fa a dire di amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello, che
si vede?
Negli
ultimi dieci anni ti dedicasti a preparare libri di lettura che
raccoglievano la tradizione sapienziale dei popoli. Tu stesso usavi il
tuo Ciclo di lettura e te lo facevi leggere da tua figlia negli ultimi
giorni di malattia nella stazione di Astapovo. Leggeste il 5, forse il
6, e il 7 novembre il tuo corpo morì. La pagina del 7 finiva, e finisce
così: “Noi poniamo inutilmente la domanda, che cosa avviene dopo la
morte? perché parlando del futuro, parliamo del tempo, ma morendo,
usciamo dal tempo”.
Ed è questa la ragione per cui sappiamo, Lev Nikolaevic, che riceverai la lettera che ti abbiamo scritto, con tanto affetto.
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[1]
«A me la vendetta, io farò ragione». Sono parole che Tolstoj trae dalla
lettera di Paolo ai Romani 12,19: «Non fate le vostre vendette, miei
cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; poiché sta scritto: “A me la
vendetta; io darò la retribuzione”». Paolo cita qui dalla Bibbia
ebraica, secondo alcune versioni, l’esortazione a lasciare a Dio il fare
giustizia: Deuteronomio 32, 35 e seguenti; Proverbi 20,22; 24, 17-18
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