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La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 25 febbraio 2014

John Stuart Mill, Saggio sulla libertà. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Da "http://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=1855" :

John Stuart Mill, nato nel 1806, il venti di maggio, a Pentonville, un distretto di Londra (laddove nel 1902 risiederanno anche Lenin e la moglie) e morto ad Avignone sessantasette anni dopo è senza dubbio una delle voci più interessanti, chiare e autorevoli della filosofia e dell’economia del Diciannovesimo secolo, il secolo che precedette quello “breve” per eccellenza; un pensatore di levatura francamente straordinaria, che ha influenzato molte delle opinioni che sono venute a palesarsi e a formarsi negli anni, nei decenni e nei secoli successivi, portando parecchi intellettuali a schierarsi più o meno apertamente in due contrapposte fazioni, tra chi condivide, sia pur mutatis mutandis, le sue tesi, e chi invece le contesta, benché possa non di rado in effetti trovare, nell’approfondita analisi della speculazione di Mill, punti di contatto con le proprie personali convinzioni.
Nel 1858 John Stuart Mill, che già aveva dato alle stampe “Sistemi di logica deduttiva e induttiva ” e, nel 1848, i “Principi di economia politica”, pubblica il “Saggio sulla libertà”. La “libertà”, un sentimento, un’azione, un ideale, ma prima ancora una parola, come probabilmente nessun’altra spesso pronunciata, anche a sproposito, invocata, interpretata, tradita, beffeggiata, piegata a interessi particolari o viceversa innalzata come bandiera, gonfalone o vessillo per legittimare comportamenti in realtà niente affatto liberali. Il testo s’impone in breve tempo come uno, se non addirittura “il” testo, che concerne, studia, analizza e definisce il liberalismo, fungendo da paradigma per la compiuta edificazione di una democrazia reale, anche attraverso dei documenti, come le costituzioni degli Stati moderni e contemporanei. Come pressoché ogni vero testo filosofico, il “Saggio sulla libertà” di Mill è in realtà nient’altro che un’articolata risposta a una domanda, un interrogativo iniziale, per nulla semplice, anzi, tutt’altro, da cui però ogni cosa, grazie alla piacevole limpidezza dello stile di Mill – a tratti impreziosito da un certo ironico disincanto imbevuto di realismo, nettezza di giudizio e buon senso, rendendo il suo messaggio ancor più attuale, e le sue parole accostabili con facilità ad ambiti anche diversi da quelli da lui esaminati in maniera diretta – scaturisce naturalmente, procedendo con linearità di causa in conseguenza, con l’effetto di un domino, o di una piccola cascata. Il tema della riflessione è la libertà civile, e il pensatore si chiede quali siano dunque in effetti in primo luogo i caratteri e, in seguito, soprattutto, i confini del potere che la società ha diritto di esercitare sull’individuo, il cui principio di libertà individuale non può in alcun modo essere coinvolto nella dottrina del libero scambio.
Scrive infatti Mill: “L’argomento di questo saggio non è la cosiddetta “libertà della volontà”, tanto infelicemente contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo. Questione raramente enunciata, e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben presto come il problema fondamentale del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l’umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di esser trattata in modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e autorità è il carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in particolare in Grecia, Roma, e Inghilterra. Ma nell’antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonistici al popolo da essi governato”, e l’autorità “era ereditaria o frutto di conquista, in ogni caso non della volontà dei governati”.
A un certo punto del progresso umano però “gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione l’esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità”. Un pericolo è d’altro canto anche la cosiddetta “tirannia della maggioranza”, un male per la società, che deve rispetto anche alle opinioni numericamente meno rappresentate, e proprio per questo motivo spesso improvvidamente e ingiustamente relegate ai margini, quando non addirittura discriminate. “Vi è un limite – scrive Mill – alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico”. Il problema delle regole, risolto quasi sempre in modo diverso a seconda dell’epoca e del luogo, e quindi della cultura e della mentalità della popolazione lì residente, è davvero centrale, anche perché secondo il filosofo “tutto ciò che rende l’esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende dall’imposizione di restrizioni sulle azioni altrui”.
Inoltre c’è un fattore dominante nella determinazione delle regole di condotta: “le simpatie e le antipatie della società, o di qualche suo potente settore, […] e, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati di quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose, anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui: hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà. Il solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché costituisce un esempio straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato senso morale. […] Le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire. […] I grandi scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba render conto ad altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l’intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per l’umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui l’indifferenza religiosa, che non gradisce essere turbata da dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone […] ammettono il dovere della tolleranza con tacite riserve.” Come fondamento dell’apparato normativo che regola il vivere comunitario deve necessariamente pertanto esserci il criterio – di stampo squisitamente utilitarista – secondo il quale l’obiettivo da raggiungere non può che essere il massimo benessere per il maggior numero di persone, ma al tempo stesso l’individualità è un elemento assai connotativo del bene della società, che non può essere soffocato, prevaricato o messo in secondo piano.
Pertanto l’uomo, finché la sua indipendenza non viola quella altrui (“il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per evitare danno agli altri”), è del tutto libero di seguire il suo proprio percorso di ricerca della felicità, un diritto sentito come inalienabile anche dai più grandi scrittori greci e latini, e quindi anche di esprimere il proprio disaccordo con le opinioni maggioritarie e di scegliere volontariamente di non adeguarsi, poiché li ritiene ingiusti per sé, ai modelli di comportamenti, pensieri, usi, costumi, condotte e persino gusti (de gusti bus non disputandum est è adagio di secolare tradizione) e sentimenti imposti, proposti o comunque adottati in modo predominante dalla collettività.
La regione propria della libertà umana, secondo Mill, che non si stanca nel corso dell’opera di ribadire il concetto, “comprende, innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo, scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché rientra in quella parte del comportamento che riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della stessa libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è pratica inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di associazione tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che non implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza o con l’inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca”.

IMPORTANTE:

La visione del mondo di Mill che si desume dalle affermazioni proposte caratterizza ovviamente in maniera precisa anche le sue teorie in ambito economico: definito dai più come un liberale classico, non mancano in realtà controversie in merito alla sua collocazione nel solco della tradizione economica generata da questa dottrina.
Mill infatti si discosta in certi punti dal consueto favore nei confronti del libero mercato tout court, poiché considera naturali e dunque immutabili solo le leggi di produzione, mentre quelle di distribuzione, poiché frutto di particolari contingenze di stampo etico-politico e di ragioni sociali, sono a suo dire modificabili.
Prendendo in ogni modo le mosse dal testo cardine di Adam Smith (Krikcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) – celebre per la sua teoria della mano invisibile, sulla regolazione spontanea dello scambio e delle attività di produzione –, La ricchezza delle nazioni, Mill si spinge a dichiarare il proprio favore verso le imposte (osteggiate viceversa alla stregua di un male assoluto per la società da pensatori di spicco come per esempio Benjamin Franklin) purché esse abbiano una giustificazione nella loro utilità per il collettivo.
Inoltre contesta a Smith il suo non considerare l’erogazione di un servizio come un vero lavoro produttivo, e non reputa il proprio liberismo come una posizione meramente di principio, bensì discendente da un pragmatico e profondo convincimento, suffragato da dati, di maggiore efficienza e produttività.
Non ritiene poi la proprietà privata un diritto naturale, e ammette una certa dose di protezionismo, quando questo funga da tutela di un sistema industriale “appena nato”. Una volta raggiunto il livello di competitività con gli altri sistemi, le tutele vanno però rimosse.

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