Da "http://isintellettualistoria2.myblog.it/2012/11/27/umberto-saba-non-esiste-un-mistero-della-vita/" :
Non
esiste un mistero della vita, o del mondo, o dell’Universo.
Tutti noi,
in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, in realtà sappiamo
tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità.
Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere
organico alla coscienza.
Ogni passo, anche piccolo, in questa direzione è
di un valore infinito.
Ma quante forze – in noi e fuori di noi –
sorgono, si coalizzano per impedire, ritardare, quel piccolo passo…
Mi sembra come quel passo della "rosa che non sa il suo perchè".
Il punto è che non c'è qualcosa da capire, perchè o in realtà lo abbiamo già capito e ci ricamiamo sopra non rendendocene conto oppure, non c'è proprio qual-"cosa" da capire.
LexMat
Nel 1858 John Stuart Mill, che già aveva dato alle stampe “Sistemi di logica deduttiva e induttiva ” e, nel 1848, i “Principi di economia politica”,
pubblica il “Saggio sulla libertà”. La “libertà”, un sentimento,
un’azione, un ideale, ma prima ancora una parola, come probabilmente
nessun’altra spesso pronunciata, anche a sproposito, invocata,
interpretata, tradita, beffeggiata, piegata a interessi particolari o
viceversa innalzata come bandiera, gonfalone o vessillo per legittimare
comportamenti in realtà niente affatto liberali. Il testo s’impone in
breve tempo come uno, se non addirittura “il” testo, che concerne,
studia, analizza e definisce il liberalismo, fungendo da paradigma per
la compiuta edificazione di una democrazia reale, anche
attraverso dei documenti, come le costituzioni degli Stati moderni e
contemporanei. Come pressoché ogni vero testo filosofico, il “Saggio sulla libertà” di Mill è in realtà nient’altro che un’articolata risposta a una domanda,
un interrogativo iniziale, per nulla semplice, anzi, tutt’altro, da cui
però ogni cosa, grazie alla piacevole limpidezza dello stile di Mill – a
tratti impreziosito da un certo ironico disincanto imbevuto di
realismo, nettezza di giudizio e buon senso, rendendo il suo messaggio
ancor più attuale, e le sue parole accostabili con facilità ad ambiti
anche diversi da quelli da lui esaminati in maniera diretta – scaturisce
naturalmente, procedendo con linearità di causa in conseguenza, con
l’effetto di un domino, o di una piccola cascata. Il tema della riflessione
è la libertà civile, e il pensatore si chiede quali siano dunque in
effetti in primo luogo i caratteri e, in seguito, soprattutto, i confini
del potere che la società ha diritto di esercitare sull’individuo, il
cui principio di libertà individuale non può in alcun modo essere coinvolto nella dottrina del libero scambio.
Scrive infatti Mill: “L’argomento di questo
saggio non è la cosiddetta “libertà della volontà”, tanto infelicemente
contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà civile,
o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può
legittimamente esercitare sull’individuo. Questione raramente enunciata,
e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente
influisce profondamente sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e
che probabilmente si paleserà ben presto come il problema fondamentale
del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso
l’umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso
cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si
presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di esser trattata in
modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e autorità è il
carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a
conoscenza, in particolare in Grecia, Roma, e Inghilterra. Ma
nell’antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di
sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla
tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi
popolari della Grecia) come necessariamente antagonistici al popolo da
essi governato”, e l’autorità “era ereditaria o frutto di conquista, in
ogni caso non della volontà dei governati”.
A un certo punto del progresso umano però “gli
uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente
essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e
giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato
ricevessero in concessione l’esercizio del potere, fossero cioè dei
delegati revocabili a piacimento dalla comunità”. Un pericolo è d’altro canto anche la cosiddetta “tirannia della maggioranza”,
un male per la società, che deve rispetto anche alle opinioni
numericamente meno rappresentate, e proprio per questo motivo spesso
improvvidamente e ingiustamente relegate ai margini, quando non
addirittura discriminate. “Vi è un limite – scrive Mill – alla
legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza
individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto
indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la
protezione dal dispotismo politico”. Il problema delle regole,
risolto quasi sempre in modo diverso a seconda dell’epoca e del luogo, e
quindi della cultura e della mentalità della popolazione lì residente, è
davvero centrale, anche perché secondo il filosofo “tutto ciò che rende l’esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende dall’imposizione di restrizioni sulle azioni altrui”.
Inoltre c’è un fattore dominante nella determinazione delle regole di condotta: “le
simpatie e le antipatie della società, o di qualche suo potente
settore, […] e, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti
erano più avanzati di quelli della loro società hanno evitato di
attaccare in linea di principio questo stato di cose, anche se talvolta
possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono
preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o
avversare, piuttosto che di chiedersi se queste simpatie o antipatie
debbano aver valore di legge per gli individui: hanno preferito tentare
di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni
particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far
causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà. Il
solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più elevata,
e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è
quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo,
non da ultimo perché costituisce un esempio straordinario della
fallibilità di ciò che è chiamato senso morale. […] Le
minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare
maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non
potevano convertire il permesso di dissentire. […] I grandi
scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà religiosa di cui
gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di coscienza come
diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba render conto
ad altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l’intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per l’umanità,
è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai
realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui l’indifferenza
religiosa, che non gradisce essere turbata da dispute teologiche, ha
fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone […] ammettono il dovere della tolleranza con tacite riserve.”
Come fondamento dell’apparato normativo che regola il vivere
comunitario deve necessariamente pertanto esserci il criterio – di
stampo squisitamente utilitarista – secondo il quale l’obiettivo da raggiungere non può che essere il massimo benessere per il maggior numero di persone, ma al tempo stesso l’individualità è un elemento assai connotativo del bene della società, che non può essere soffocato, prevaricato o messo in secondo piano.
Pertanto l’uomo, finché la sua indipendenza non viola quella altrui (“il
solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su
qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per
evitare danno agli altri”), è del tutto libero di seguire il suo proprio percorso di ricerca della felicità, un diritto sentito come inalienabile
anche dai più grandi scrittori greci e latini, e quindi anche di
esprimere il proprio disaccordo con le opinioni maggioritarie e di
scegliere volontariamente di non adeguarsi, poiché li ritiene ingiusti
per sé, ai modelli di comportamenti, pensieri, usi, costumi, condotte e
persino gusti (de gusti bus non disputandum est è adagio di secolare tradizione) e sentimenti imposti, proposti o comunque adottati in modo predominante dalla collettività.
La regione propria della libertà umana, secondo Mill, che non si stanca nel corso dell’opera di ribadire il concetto, “comprende,
innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà di
coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento,
assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo,
scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere
pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro
principio, poiché rientra in quella parte del comportamento che riguarda
gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della stessa libertà di
pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è pratica
inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di
gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il
nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili
conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino,
anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, o
sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro
gli stessi limiti, quella di associazione tra individui: la libertà di
unirsi per qualunque scopo che non implichi altrui danno, a condizione
che si tratti di adulti, non costretti con la forza o con l’inganno. Nessuna
società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è
libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e
nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente
libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il
nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri
del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca”.
IMPORTANTE:
La visione del mondo di Mill che si desume dalle affermazioni proposte caratterizza ovviamente in maniera precisa anche le sue teorie in ambito economico:
definito dai più come un liberale classico, non mancano in realtà
controversie in merito alla sua collocazione nel solco della tradizione
economica generata da questa dottrina.
Mill infatti si discosta in certi
punti dal consueto favore nei confronti del libero mercato tout court,
poiché considera naturali e dunque immutabili solo le leggi di
produzione, mentre quelle di distribuzione, poiché frutto di particolari
contingenze di stampo etico-politico e di ragioni sociali, sono a suo dire modificabili.
Prendendo in ogni modo le mosse dal testo cardine di Adam Smith
(Krikcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) – celebre per la
sua teoria della mano invisibile, sulla regolazione spontanea dello
scambio e delle attività di produzione –, La ricchezza delle nazioni, Mill si spinge a dichiarare il proprio favore verso le imposte (osteggiate viceversa alla stregua di un male assoluto per la società da pensatori di spicco come per esempio Benjamin Franklin) purché esse abbiano una giustificazione nella loro utilità per il collettivo.
Inoltre contesta a Smith
il suo non considerare l’erogazione di un servizio come un vero lavoro
produttivo, e non reputa il proprio liberismo come una posizione
meramente di principio, bensì discendente da un pragmatico e profondo
convincimento, suffragato da dati, di maggiore efficienza e
produttività.
Non ritiene poi la proprietà privata un diritto naturale,
e ammette una certa dose di protezionismo, quando questo funga da
tutela di un sistema industriale “appena nato”. Una volta raggiunto il
livello di competitività con gli altri sistemi, le tutele vanno però
rimosse.