Da "http://editoria.associazionegrio.it/Avventure_di_un_bibliofilo.htm" :
La
"Lectio magistralis" (trascrizione integrale) dello scrittore alla
Fiera Internazionale del Libro di Torino del 10 Maggio 2007.
«Anni
fa, quando a Torino si è aperto il Salone del libro, non ricordo se per
qualche anno o solo per il primo, c’era anche una sezione antiquaria.
Non so quanto gli antiquari, in un salone frequentato da un pubblico che
abitualmente va in cerca di cose contemporanee, abbiano venduto, e se
siano stati loro a decidere di non venire più oppure se la direzione del
salone non li abbia più invitati. Ricordo solo che mi era molto
dispiaciuto perché, quando c’erano, ho visto intere scolaresche
percorrere il loro settore e soffermarsi davanti a vetrinette con
incunaboli o altre edizioni di pregio, e guardare incantati quei reperti
mai visti, quelle incisioni sorprendenti, quei capolavori di
tipografia. Anche se non si vendesse un solo libro, la presenza del
libro antico in questo salone, così frequentato da giovani, ha un grande
valore educativo, e sono lieto che questa volta gli antiquari siano
tornati. Per questo ho deciso di dedicare questa mia conversazione alla
passione di collezionare libri antichi o comunque rari.
Cos’è
la bibliofilia? Narra la leggenda che Gerberto d’Aurillac, papa
Silvestro II, il papa dell’anno mille, divorato dal suo amore per i
libri abbia un giorno acquistato un introvabile codice della Farsaglia
di Lucano, promettendo in cambio una sfera armillare in cuoio. Gerberto
non sapeva che Lucano non aveva potuto terminare il suo poema, perché
nel frattempo Nerone lo aveva invitato a tagliarsi le vene. Cosicché
ricevette il prezioso manoscritto ma lo trovò incompleto. Ogni buon
amatore di libri, dopo aver collazionato il volume appena acquistato, se
lo trova incompleto lo restituisce al libraio. Gerberto, per non
privarsi almeno di metà del suo tesoro, decise di inviare al suo
corrispondente non la sfera intera, ma solo mezza.
Trovo
questa storia mirabile, perché ci dice che cosa sia la bibliofilia.
Gerberto voleva certamente leggere il poema di Lucano - e questo ci dice
molto sull’amore per la cultura classica in quei secoli che ci
ostiniamo a ritenere oscuri - ma se fosse stato solo così avrebbe
richiesto il manoscritto in prestito. No, lui voleva possedere quei
fogli, toccarli, forse annusarli ogni giorno, e sentirli cosa propria. E
un bibliofilo che, dopo aver toccato e annusato, trova che il libro è
monco, che ne manca anche solo il colophon o un foglio di errata, prova
la sensazione di un coitus interruptus.
Certo ci sono
bibliofili che collezionano a soggetto e persino leggono i libri che
accumulano. Ma per leggere tanti libri basta essere topo di biblioteca.
Il bibliofilo, invece, anche se attento al contenuto, vuole l’oggetto, e
che possibilmente sia il primo uscito dai torchi dello stampatore. A
tal segno che ci sono bibliofili, che io non approvo ma capisco, i quali
- avuto un libro intonso - non ne tagliano le pagine per non violare
l’oggetto che hanno conquistato. Tagliare le pagine al libro raro
sarebbe come, per un collezionista di orologi, spaccare la cassa per
vedere il meccanismo.
L’amatore della lettura, o lo
studioso, ama sottolineare i libri contemporanei, anche perché a
distanza di anni un certo tipo di sottolineatura, un segno a margine,
una variazione tra pennarello nero e pennarello rosso, gli ricorda
un’esperienza di lettura. Io possiedo una Philosophie au Moyen Age di
Gilson degli anni cinquanta, che mi ha accompagnato dai giorni della
tesi di laurea a oggi. La carta di quel periodo era infame, ormai il
libro va in briciole appena lo si tocca o si tenta di voltarne le
pagine. Se esso fosse per me soltanto strumento di lavoro, non avrei che
a comperare una nuova edizione, che si trova a buon mercato. Potei
persino impiegare due giorni a risottolineare tutte le parti annotate,
riproducendo colori e stile delle mie note, che cambiavano durante gli
anni e le riletture. Ma non posso rassegnarmi a perdere quella copia,
che con la sua fragile vetustà mi ricorda i miei anni di formazione, e i
seguenti, e che è dunque parte dei miei ricordi.
Si
debbono sottolineare, anche solo a margine, i libri rari? In teoria una
copia perfetta, se non intonsa, deve essere a grandi margini, bianca,
con le pagine che crocchiano sotto le dita. Ma una volta ho acquistato
un Paracelso, di scarso valore dal punto di vista antiquario, perché si
trattava di un solo volume della 1a edizione dell'opera omnia compilata
da Huser, 1589-1591. Se l’opera non è completa, che gusto c’è? Ma,
rilegato in mezza pelle coeva, con nervi al dorso, uniforme media
arrossatura, firma manoscritta sul frontespizio, tutto il volume è
intessuto di sottolineature in rosso e nero e di note marginali coeve,
con titoli maiuscoletti in rosso, e silloge latina del testo tedesco.
L’oggetto è bellissimo a vedersi, le note si confondono col testo
stampato, e spesso lo sfoglio col piacere di rivive l’avventura
intellettuale di chi lo ha segnato con la propria testimonianza manuale.
Ci
sono i bibliofili e ci sono i bibliomani. Per stabilire una linea di
confine tra bibliofilia e bibliomania farò un esempio. Il libro più raro
del mondo, nel senso che probabilmente non ne esistono più copie in
libera circolazione sul mercato, è anche il primo, ossia la Bibbia di
Gutenberg. L’ultima copia circolante è stata venduta nel 1987 ad
acquirenti giapponesi per qualcosa come otto miliardi - al cambio di
allora. Se ne venisse fuori una prossima copia, non varrebbe otto
miliardi, bensì ottanta, o mille.
Dunque ogni
collezionista ha un sogno ricorrente. Trovare una vecchietta novantenne
che ha in casa un libro che cerca di vendere, senza sapere di che si
tratti, contare le linee, vedere che sono 42 e scoprire che è una Bibbia
di Gutenberg, calcolare che alla poveretta restano solo pochi anni di
vita e ha bisogno di cure mediche, decidere di sottrarla all’avidità di
un libraio disonesto che probabilmente le darebbe qualche migliaio di
euro (e lei ne sarebbe già felicissima), offrirle centomila euro con cui
essa si rimpannuccerebbe estasiata sino alla morte, e mettersi in casa
un tesoro.
Dopo di che, cosa accadrebbe? Un bibliomane,
terrebbe la copia segretamente per se, e guai a mostrarla perché solo a
parlarne si mobiliterebbero i ladri di mezzo mondo, e dunque dovrebbe
sfogliarsela da solo alla sera, come Paperone che fa il bagno nei suoi
dollari. Un bibliofilo, invece, vorrebbe che tutti vedessero questa
meraviglia. Allora scriverebbe al sindaco della sua città, gli
chiederebbe di ospitarla nel salone principale della biblioteca
comunale, pagando con fondi pubblici tutte le enormi spese di
assicurazione e sorveglianza, e consentendogli il privilegio di andarla a
vedere ogni volta che desidera, e senza fare la coda. Ma che piacere
sarebbe quello di possedere l’oggetto più raro del mondo senza potersi
alzare alle tre di notte e andarlo a sfogliare? Ecco il dramma: avere la
Bibbia di Gutenberg sarebbe come non averla. E allora perché sognare
quella utopica vecchietta? Ebbene, il bibliofilo la sogna sempre, come
se fosse un bibliomane.
Il bibliomane talora ruba
libri. Potrebbe rubarli anche il bibliofilo, spinto dall’indigenza, ma
di solito il bibliofilo ritiene che, se per avere un libro non ha
compiuto un sacrificio, non c’è piacere della conquista bensì soltanto
stupro. Il bibliomane invece ruba libri con mossa disinvolta mentre
parla col libraio: gli addita un’edizione rara sullo scaffale alto e ne
fa scomparire una altrettanto rara sotto la giacca; oppure ruba parti di
libri andando per biblioteche dove taglia con una lametta da barba le
pagine più appetibili. Ci sono persone di buona cultura, soddisfacente
condizione economica, fama pubblica e reputazione quasi immacolata, che
rubano libri per incontenibile passione, e gusto del brivido, come i
ladri gentiluomini che rubano solo gioielli famosi. Il ladro bibliomane
si vergognerebbe di rubare una pera dal banco del fruttivendolo, ma
giudica eccitante e cavalleresco rubare libri, come se la dignità
dell’oggetto ne scusasse il furto.
C’è poi la
biblioclastia. Ci sono tre forme di biblioclastia, la biblioclastia
fondamentalista, quella per incuria e quella per interesse. Il
biblioclasta fondamentalista non odia i libri come oggetto, ne teme il
contenuto e non vuole che altri li legga. E’ il caso dei roghi o
dell'incendio della biblioteca di Alessandria che (secondo una leggenda
che ormai è considerata falsa) fu messa fuoco da un califfo seguendo il
principio che o tutti quei libri dicevano la stessa cosa del Corano e
allora erano inutili, o dicevano cose diverse e allora erano dannosi.
La
biblioclastia per incuria è quella di tante biblioteche italiane, così
povere e così poco curate, che non di rado diventano luoghi di
distruzione del libro; perché c'è un modo di distruggere i libri
lasciandoli deperire o facendoli scomparire in penetrali inaccessibili.
Il
biblioclasta per interesse distrugge i libri perché vendendoli a pezzi
ne ricava molto più che vendendoli interi. Quanto conviene sfasciare un
libro completo? In un catalogo su Internet trovo che una mappa tratta da
una delle prime edizioni della Cosmographia di Sebastian Münster (1570)
viene offerta a 1200 euro. Ora la Cosmographia ha una quarantina di
vedute di città a doppia pagina, 14 carte geografiche a doppia pagina,
più una novantina di legni nel testo. Senza calcolare che i prezzi
possono variare a seconda se la mappa o veduta è a pagina semplice,
doppia, e ripiegata più volte, e che si vendono persino le pagine coi
piccoli legni nel testo, voliamo basso e, fissando una media di mille
euro solo per ogni mappa o veduta a doppia pagina, raggiungiamo la cifra
di 50.000 euro circa. Ora vedo su cataloghi recenti che un Münster
completo può valere anche 30.000 euro, ma se si è fortunati non è
impossibile averne una copia decente per 20.000 euro.
Dunque,
se si sfasciasse oggi una Cosmographia 1570, spendendo 20.000 euro se
ne incasserebbero 50.000. Conviene, no? Naturalmente la copia completa
che apparirà successivamente sul mercato, diventata più rara, costerà il
doppio, e il doppio costeranno le tavole sciolte. Così in un colpo solo
si distruggono opere di incommensurabile valore, si costringono i
collezionisti a sacrifici insostenibili, e si accresce il prezzo delle
tavole singole.
Il bibliofilo raccoglie libri per avere
una biblioteca. Una biblioteca non è una somma di libri, è un organismo
vivente con una vita autonoma. Una biblioteca di casa non è solo un
luogo in cui si raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per
conto nostro. Mi spiego. Credo che sia capitato a tutti coloro che hanno
in casa un numero abbastanza alto di libri di vivere per anni con il
rimorso di non averne letti alcuni, che per anni ci hanno fissato dagli
scaffali come a ricordarci il nostro peccato di omissione. A maggior
ragione accade con una biblioteca di libri rari, che talora sono scritti
in latino o addirittura in lingue ignote, e inoltre un libro antico
bellissimo come oggetto, e con belle immagini, può essere anche
noiosissimo.
Però ogni tanto accade che un giorno
prendiamo in mano uno di questi libri trascurati, incominciamo a
leggiucchiarlo, e ci accorgiamo che sapevamo già tutto quel che diceva.
Questo singolare fenomeno, di cui molti potranno testimoniare, ha solo
tre spiegazioni ragionevoli. La prima è che, avendo nel corso degli anni
toccato varie volte quel libro, per spostarlo, spolverarlo, anche
soltanto per scostarlo onde poterne afferrare un altro, qualcosa del suo
sapere si è trasmesso, attraverso i nostri polpastrelli, al nostro
cervello, e noi lo abbiamo letto tattilmente, come se fosse in alfabeto
Braille. Io non credo ai fenomeni paranormali, ma in questo caso il
fenomeno è normalissimo, certificato dall’esperienza quotidiana. La
seconda spiegazione è che non è vero che quel libro non lo abbiamo
letto: ogni volta che lo si spostava vi si gettava uno sguardo, si
apriva qualche pagina a caso, qualcosa nella grafica, nella consistenza
della carta, nei colori, parlava di un’epoca, di un ambiente. E così,
poco per volta, di quel libro se ne è assorbita gran parte.
La
terza spiegazione è che mentre gli anni passavano leggevamo altri libri
in cui si parlava anche di quello, così che senza rendercene conto
abbiamo appreso che cosa dicesse (sia che si trattasse di un libro
celebre, di cui tutti parlavano, sia che fosse un libro banale, dalle
idee così comuni che le ritrovavamo continuamente altrove). In verità
credo che siano vere tutte e tre le spiegazioni. Tutti questi elementi
messi insieme “quagliano” miracolosamente e concorrono tutti insieme a
renderci familiari quelle pagine che, legalmente parlando, non abbiamo
mai letto.
Naturalmente il bibliofilo, anche chi
colleziona libri contemporanei, è esposto all’insidia dell’imbecille che
ti entra in casa, vede tutti quegli scaffali, e pronuncia: “Quanti
libri! Li ha letti tutti?” L’esperienza quotidiana ci dice che questa
domanda viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che
soddisfacente. Di fronte a questo oltraggio esistono, a mia scienza, tre
risposte standard. La prima blocca il visitatore e interrompe ogni
rapporto, ed è: “Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei
qui?” Essa però gratifica l’importuno solleticando il suo senso di
superiorità e non vedo perché si debba rendergli questo favore.
La
seconda risposta piomba l’importuno in uno stato d’inferiorità, e
suona: “Di più, signore, molti di più!” La terza è una variazione della
seconda e la uso quando voglio che il visitatore cada in preda a
doloroso stupore. “No,” gli dico, “quelli che ho già letto li tengo
all’università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana
prossima.” Visto che la mia biblioteca conta cinquantamila volumi,
l’infelice cerca soltanto di anticipare il momento del commiato,
adducendo improvvisi impegni. Quello che l’infelice non sa è che la
biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che
hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel
momento fatale, potrai trovare quelli altri hanno letto prima di te. E'
un repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una vertigine,
un cocktail della memoria dotta.
Ecco il contenuto
virtuale di una biblioteca: Monsieurs les anglais, je me suis couché de
bonne heure. Tu quoque, alea! Licht, mehr Licht über alles. Qui si fa
l'Italia o si uccide un uomo morto. Soldato che scappa, arrestati sei
bello. Fratelli d'Italia, ancora uno sforzo. L'aratro che traccia il
solco è buono per un'altra volta. L'Italia è fatta ma non s'arrende. Ben
venga maggio, combatteremo all'ombra. Tre donne intorno al cor e senza
vento. L'albero a cui tendevi la nebbia agli irti colli. Dall'Alpi alle
Piramidi andò in guerra e mise l'elmo. Fresche le mie parole nella sera
pei quei quattro scherzucci da dozzina. Sempre libera sull'ali dorate.
Guido io vorrei che al ciel si scoloraro. Conobbi il tremolar, l'arme,
gli amori. Fresca e chiara è la notte, e il capitano. M'illumino, pio
bove. Alle cinque della sera mi ritrovai per una selva oscura.
Settembre, andiamo dove fioriscono i limoni. Sparse le trecce morbide,
una spronata, uno sfaglio: questi sono i cadetti di Guascogna.
Tintarella di luna, dimmi che fai. Contessa, cos'è mai la vita: tre
civette sul comò.
C’è gente che, arrivata alla fine
della propria vita, dopo aver fatto ogni giorno le stesse cose, si
guarda indietro e non gli pare neppure di essere stata al mondo. Tutto è
passato spaventosamente in fretta. Pensate invece a una giornata o a
una settimana in cui vi sono accadute moltissime cose, una dietro
l’altra, tutte emozionanti (sia che fossero gioie o che fossero fastidi,
o dolori): ricorderete ore o giorni pieni, avrete l’impressione di
avere vissuto moltissimo. Io credo che questa sia una delle ragioni per
cui gli uomini si sono dedicati sempre a ricostruire il passato, sia per
bocca dei vecchi che raccontavano intorno al fuoco, sia attraverso i
libri. Qualcuno che, insieme ai suoi ricordi personali, abbia anche la
memoria di quel giorno che fu assassinato Giulio Cesare, o della
battaglia di Waterloo, ricorda più cose di chi non sa nulla di quello
che è accaduto agli altri. Un libro ci consente di vivere più e più
intensamente di quelle poche decine di anni che la biologia ci consente.
Rispetto a chi non legge io sono più vecchio di Matusalemme.
Il
bibliofilo non è spaventato né da Internet, né dai CDrom né dagli
e-books. Su Internet trova ormai i cataloghi antiquari, su CDrom quelle
opere che un privato potrebbe difficilmente tenere in casa, come i 221
volumi in folio della Patrologia Latina del Migne. Però sa anche che il
libro avrà lunga vita, e se ne accorge proprio guardando con occhio
amoroso i propri scaffali. Se tutta quella informazione che egli ha
accumulato fosse stata registrata, sin dai tempi di Gutenberg, su
supporto magnetico, sarebbe riuscita a sopravvivere per duecento,
trecento, quattrocento, cinquecento, cinquecentocinquant’anni? E si
sarebbe trasmessa, coi contenuti delle opere, la traccia di chi le ha
toccate, compulsate, annotate, tormentate e sovente sporcate con segni
di pollice, prima di noi? E ci si potrebbe innamorarsi di un dischetto
come ci si innamora di una pagina bianca e dura, che fa crack crack
sotto le dita come se fosse uscita ora dal torchio?
Un
libro è stato pensato per essere preso in mano, anche a letto, anche in
barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando
qualsiasi batteria si è scaricata, e sopporta segnacci e orecchie, può
essere lasciato cadere per terra o abbandonato aperto sul petto o sulle
ginocchia quando ci prende il sonno, sta in tasca, si sciupa, registra
l'intensità, l’assiduità o la regolarità delle nostre letture, ci
ricorda (se appare troppo fresco o intonso) che non l’abbiamo ancora
letto... Funzione del bibliofilo è anche quella di testimoniare del
passato e dell’avvenire del libro.
Tuttavia mi rendo
conto di quanto sia difficile parlare di bibliofilia ai non-bibliofili.
Non solo perché un conto è vedere un bel libro e un conto sentirne
parlare. Il cruccio di un collezionista di libri di pregio è che, se
collezionasse quadri del Rinascimento o porcellane cinesi, li terrebbe
nel soggiorno e tutti i visitatori ne rimarrebbero estasiati. Invece il
bibliofilo non sa mai a chi far vedere i propri tesori: i non bibliofili
vi gettano un’occhiata distratta e non capiscono perché un libercolo
secentesco in dodicesimo, dai fogli arrossati, possa rappresentare
l’orgoglio di chi ne ha acquisito l’ultima copia ancora in circolazione.
E spesso anche un altro bibliofilo, se è un collezionista di libri
d’architettura rinascimentali, può restare insensibile di fronte alla
più preziosa raccolta esistente di pamphlets rosacroce del
diciassettesimo secolo. Per questa ragione, e per non tediarvi
ulteriormente, ho deciso di dedicare il tempo che ci resta ad alcune
divagazioni su aspetti marginali e curiosi del collezionismo, vale a
dire ai libri bizzarri, talora deliranti, in ogni caso inattendibili che
popolano – a ben saperli leggere – i cataloghi di libri rari.
Leggere
i cataloghi significa scoprire presenze inattese, purché si abbia la
pazienza di andarle a scovare in quelle sezioni che i librai di solito
intitolano "Varia et Curiosa". Si scoprono allora libri i cui titoli ci
fanno sognare. Anni fa, in un solo catalogo intitolato Cabinet de
curiosités ho trovato squisite pubblicazioni mediche dell'epoca
positivistica – come analisi sulla follia di Rousseau, un Maometto
considerato come alienato del 1842, esperimenti di trapianto di
testicoli dalla scimmia all'uomo; protesi testicolari in argento, le
opere del celebre Tissot sulla masturbazione (come causa di cecità,
sordità, demenza precoce e così via), un'operetta in cui si denuncia la
sifilide come malattia pericolosa perché è possibile causa di
tubercolosi, un'altra del 1901 sulla necrofagia.
Poi,
un certo Andrieu, sullo stuzzicadenti e i suoi inconvenienti, 1869. Tale
Ecochoard, sulle varie tecniche d'impalamento, nonché Foumel, sulla
funzione dei colpi di bastone (1858), dove si fornisce una lista di
scrittori o artisti celebri che sono stati bastonati, da Boileau a
Voltaire e Mozart. Tale Berillon (indicato come esempio di uomo di
scienza accecato dal nazionalismo) in piena guerra mondiale (1915)
scrive un La polychesie de la race allemande dove dimostra che il
tedesco medio produce più materia fecale del francese, e di odore più
sgradevole. Un signor Chesnier-Duchene (1843) elabora un complesso
sistema per tradurre il francese in geroglifici di nuovo conio, in modo
di renderlo comprensibile a tutti i popoli. Tal Chassaignon scrive nel
1779 quattro volumi di cui vale la pena di assaporare il titolo:
Cataractes de l'imagination, déluge de la scribomanie, vomissement
littéraire, hémorragie encyclopedique, monstre des monstres. Questo
signore, che i bibliografi definiscono unanimemente come dissennato,
gioca su tutta la letteratura universale, da Virgilio agli scrittorucoli
più demenzialmente marginali, per trascinarli nel giro del proprio
delirio, traendone citazioni, episodi curiosi, osservazioni che
riempiono pagine e pagine di note, passando dai pericoli della critica
della modestia all'elogio della lode, dalle profezie di Ezechiele alle
radici della liquerizia.
Avevo anche trovato
un'operetta del 1626 sull'Ordine dei Cornuti Riformati, che di questi
adepti descrive lo statuto, la cerimonia d'iniziazione, e fa risalire
l'origine dei cornuti alla Torre di Babele. Erano pazzi tutti gli autori
di questi libri? Uso a buon diritto la parola “pazzi” perché esistono
libri di storiografia dei folli letterari, che si occupano di autori
"matti", non solo nell'ambito della letteratura ma anche delle scienze.
Tra i più noti cito Les fous littéraires di Gustave Brunet, Bruxelles
1880. Il nostro Brunet non faceva una chiara distinzione tra opere folli
e opere (anche sensatissime) di autori che nella vita privata
soffrivano di disturbi psichiatrici. Ma certamente egli riteneva che
l'opera di un folle fosse folle, e che un'opera che a lui pareva folle
presupponesse un autore folle. Appare pertanto ovvio che, accanto a un
Henrion che nel 1718 aveva presentato una memoria sulla statura di
Adamo, Brunet citasse persino Socrate, Newton, Poe e Walt Whitman.
Bisogna dire che Brunet aveva una sua logica. Per Socrate si chiedeva se
non bisognasse classificare tra i matti un signore che affermava di
avere un demone famigliare. Concludeva che si trattava in ogni caso di
monomania.
Tra gli eredi di Brunet, il più celebre ai
giorni nostri è stato André Blavier, che aveva pubblicato un volume di
quasi mille pagine su Les Fous Littéraires, schedando millecinquecento
opere di pazzi letterari. Ed ecco, in questa rassegna di mirifici
orrori, inventori di lingue universali, apostoli di nuove cosmogonie,
profeti, visionari, nuovi messia, quadratori del cerchio, inventori di
macchine per il moto perpetuo, filantropi che propongono palingenesi
sociali, igienisti che celebrano i vantaggi della marcia all’indietro,
medici che hanno studiato la quantità di “animalucoli” nocivi che
abitano lo sperma umano, un sociologo che propone un metodo per
utilizzare socialmente gli assassini, un tal Madrolle che discute della
teologia delle ferrovie, l’opera di Félix Passon, Demonstration de
l’immmobilité de la terre, del 1829, la Réfutation du systhème de
Copernic di Pierre Sindoco, del 1878; il lavoro di un tal Tardy che
prova come il nostro globo giri su se stesso in quarantott’ore, l’Essai
d’une nouvelle hypothèse planétaire di Van de Cotte (1851), dove si
dimostra che, se si accetta Copernico, una città non potrebbe mai essere
bombardata perché, la bomba restando almeno qualche secondo in aria
prima di cadere, nel frattempo la superficie terrestre si sarebbe
spostata.
Un'altra categoria di libri curiosi che
alcuni appassionati cercano di collezionare, è quella degli autori che
in un vecchio saggio avevo chiamato autori di Quarta Dimensione.
Definivo Prima Dimensione quella dell’opera in forma manoscritta, e
Seconda Dimensione quella dell’opera pubblicata da un editore serio.
Calcolando come Terza Dimensione quella del successo, individuavo come
quarta dimensione quella degli autori a proprie spese, di solito
pubblicati da case editrici specializzate nello sfruttamento di questi
talenti giustamente incompresi. Ne ho tratto materia narrativa
raccontando delle case editrici Manuzio e Garamond nel mio Il pendolo di
Foucault, ma se state attenti a individuare sui giornali pubblicità di
infiniti premi di poesia per esordienti vedrete come essa prospera
ancora. Personalmente ho raccolto una piccola bibliotechina di autori a
proprie spese che ha tutti i titoli per entrare nel mercato antiquario.
Uno dei miei pezzi più preziosi è il Dizionario biografico di personaggi
contemporanei di Domenico Gugnali, Gugnali editore, Modica. Cerchiamo
la voce "Cesare Pavese". È esatta e sobria: "Pavese Cesare. Nato a Santo
Stefano Belbo il 9-9-1908. Morto a Torino il 27 agosto 1950.
Traduttore, scrittore." Poco avanti abbiamo invece: "Paolizzi Deodato.
Uomo di penna ed uomo di lettere; ecco Deodato Paolizzi. Fin dalla sua
prima giovinezza si fece notare per le sue spontanee poesie, ma
specialmente per i suoi scritti incisivi in cui già si sentiva
l'avvocato di domani." Seguono cenni sul suo celebre romanzo Il destino
in marcia e note sulla sua attività civile e politica. Sempre nella "P",
dopo tre righe su "Piovene Guido" segue la lunga biografia di Pusineri
Chiesa Edvige, maestra elementare di Lodi, poetessa e scrittrice,
autrice di Mesti palpiti, Alba serena, Cantici, Il legionario, Sussurri
lievi, Aurei voli, Chiarori nell'ombra, Le avventure di Fuffi. È
redattrice milanese del periodico "Intervallo" che, per caso, è edito
dal Gugnali che pubblica il dizionario in questione. La voce è corredata
dalla foto della Pusineri Chiesa, che appare in tutta la gloria di una
sua opulenta maturità, accanto all'immagine della "delicata poetessa
sarda" Puligheddu Michelina.
Le biografie del Gugnali
ci svelano un universo letterario ricco e fecondo e spesso tratteggiano
una personalità di scrittore in pochi cenni essenziali: "Cariddi Walter.
Nato a San Pietro Vernotico, Brindisi, il 4-2-1930, ivi residente
(conosciuto)." Poeta, critico e pubblicista "ha una vocazione per gli
studi seri congiunta all'impegno per più notevoli successi ". C’è
Leonida Gavazzi (Cromatogramma tridimensionale dell'esistenza e La
ragnatela dell'essere), Gargiuto Gaetano, fondatore del movimento
poetico dell' Armonismo (che invia anche poesie dattiloscritte in
edizione numerata ai giornali), Maira Rosangela ("prese parte al
concorso Brava e Bella indetto fra le studentesse siciliane del
"Progresso italo-americano” ... premiata con un apparecchio radio"),
Montanelli Menicatti Elena ("una delle più apprezzate poetesse del
nostro tempo"), Mignemi Gregorio (autore di un Temi svolti), Moscucci
Cittadino ("autore di molte canzonette musicate dal maestro Cotogni e
cantate alla radio dal tenore Sernicoli") e, per finire, Scarfò Pasquale
(autore di un Il signore delle camelie di cui si sa che "ragioniere e
dottore commercialista, ha preferito sempre alla professione, però, la
vita militare"), nonché un Umani Giorgio, autore, oltre che di
L'ineffabile orgasmo, di un volume Umani 1937 e, come dice la biografia
con una certa ridondanza, "profondo studioso di problemi umani".
Ho
i due volumi di Carlo Cetti Difetti e pregi dei Promessi Sposi e
Rifacimento dei Promessi Sposi, di cui il secondo è l'adempimento dei
propositi critici del primo. Argomenta il Cetti che bene avrebbe fatto
il Manzoni a riscrivere un'altra volta il suo romanzo rendendolo meno
greve col ridurre di un terzo il numero delle sillabe. "Perché dire
'lago di Como' e 'mezzogiorno' invece di 'Lario' e 'sud'? ...Anziché
dire 'tutto a seni e a golfi' è meglio dire 'tutto seni e golfi'
evitando la duplice ripetizione di quell'a." Così il Cetti riesce a
riscrivere il romanzo in sole 196 pagine (pubblicate a cura dell'autore,
Como, 1965) dall'inizio che suona "Quel ramo del Lario..." al finale
che dice sobriamente, dopo la morte di padre Cristoforo, "il povero
giovane, sopraffatto da commozione e da gioia, piangeva". Si badi bene
che non si tratta di un semplice riassunto ma di un vero e proprio
ricalco con asportazione di sillabe eccedenti. Sui Promessi Sposi si
accanisce anche Vincenzo Costanza ("ammesso all'esame di libera docenza
per caso speciale di alta scienza", da Agrigento) in Il pecoronismo
incantevole in Italia, dove però la polemica abbandona rapidamente il
Manzoni per sostenere che non si dice Treccàni ma Trèccani.
Come
c'è il poeta e il narratore, così c'è il filosofo di quarta dimensione.
La figura che ha giganteggiato in questo campo verso la metà del
novecento è stata quella di Giulio Ser-Giacomi, di Offida {Ascoli
Piceno), che spargeva lo sconcerto nei congressi filosofici e che fu
autore di volumi di ampia mole. Tra questi, celebre rimane l'epistolario
con Einstein e Pio XII, che raccoglieva per centinaia di pagine tutte
le lettere inviate dall’autore a Pio XII e a Einstein (senza
naturalmente ottenere mai alcuna risposta) e in cui si confutavano a un
tempo sia la metafisica cristiana che quella relativistica. Nelle
riflessioni conclusive al diciassettesimo congresso di filosofia (dove,
come nei congressi precedenti, gli interventi del Ser-Giacomi
suscitavano giusta preoccupazione) il filosofo affermava: "I numerosi
argomenti sulla storia, da me posti e risolti in Alea iacta est e perciò
'anticipati', nessuno si è interessato di discuterli, come pure gli
altri esposti in Gutta cavat lapidem che mi sono preoccupato di far
recapitare a molti studiosi prima del Congresso... La filosofia ha
bisogno di una nuova linfa, quella linfa che io le ho da tempo data... "
Ser-Giacomi concludeva l'intervento al congresso rivolgendo un appello
affinché lo si aiutasse a trovare un mecenate "per la ristampa, a
migliaia di copie, di tutti i miei scritti".
La mia
raccolta di autori di quarta dimensione continua ad arricchirsi. Ho
ricevuto qualche anno fa, come "prova di stampa - campione gratuito" il
libro di Romano Pizzigoni, Rivolta di un uomo tranquillo. Il libro
contiene lettere che il Pizzigoni ha mandato praticamente a tutti.
All'editore Baraghini per discutere la relatività e lamentare che il New
York Times e il Los Angeles Times, a cui aveva inviato moltissimi
articoli, avessero liberamente ripreso le sue idee; a Bush (padre) per
invitarlo a non ripresentarsi alle elezioni; ai deputati e senatori per
protestare contro il festival di San Remo; a Enzo Biagi sull'esistenza
di Dio; al re dell'Arabia Saudita, a Saddam Hussein per dare consigli
sull'equilibrio mondiale; a Giorgio Bocca sul comunismo; alla redazione
dell'Espresso per invitarli a non inviargli più gratuitamente il
settimanale (cosa che mi stupisce perché non lo mandano neppure a me);
alla rivista Nature sulla scomparsa dei dinosauri; alla fondazione Nobel
per esortarli a non premiare dei furfanti; a varie istituzioni per
accusare Hawking di averlo plagiato; a Ceronetti sul nazismo; a Tortora
ormai malato di cancro, indicandogli i mezzi piscologici per non morire;
a Canale 5 e per conoscenza a Berlusconi per offrire collaborazione; a
Bobbio su dittatura e democrazia; ad Alberoni sulla scuola dell'obbligo,
e via dicendo.
Chi sia il Pizzigoni ce lo diceva lui
stesso in una pagina autobiografica. Allora cinquantaseienne, licenza
elementare, sfuggito alla repressione della scuola dell'obbligo, operaio
all'Alfa per due mesi, aveva rifiutato la catena di montaggio, era
emigrato a Parigi, aveva lavorato all'Ansa come operatore di
telescriventi, era diventato fotoreporter per dieci anni, quindi aveva
iniziato un'altra attività non specificata che gli permetteva di farsi
una casa con vista sul mare, ma "gli sciacalli, in agguato, travestiti
da giudici, avvocati, bancari, lo spoglieranno, lasciandolo quasi nudo
in mezzo a una montagna fra popolazioni semi-selvagge". Ora, per
protesta contro il mondo, faceva lunghi scioperi della fame (ma –
scriveva - diversi da quelli di Pannella che, appena la gente si voltava
"sganasciava a più non posso"). Per non dover pagare le tasse preferiva
non guadagnare nulla, riuscendo a vivere con cinquemila lire al giorno
(su cui non so se pesassero anche le spese postali).
Non
era privo di ambizioni, e chiedeva di essere nominato Dittatore per il
periodo di un anno. Il suo programma si componeva di una sessantina di
punti tra cui: divieto di emettere buoni del tesoro per alcuni anni;
licenziamento di almeno il settanta per cento del personale statale;
abolizione della patente di guida; soppressione di mutue e pensioni,
tasse di ogni tipo, consolati e ambasciate (da sostituire con contatti
radiotelevisivi); libertà di commercio e esportazione per oggetti
d'arte; chiusura quasi totale degli ospedali e creazione di un corpo
medico che insegnasse ai cittadini come non ammalarsi; allattamento al
seno obbligatorio; scuole diversificate al massimo... E questi erano
propositi che avrebbero anche potuto allettare il nostro nuovo governo.
Ma pareva difficile come conciliare gli interessi del nuovo con queste
altre decisioni: abolizione del calcio professionistico; proibizione di
importare carne, tabacco e alcolici; proibizione della gomma da
masticare; abolizione della caccia; abolizione dell'ottanta per cento di
automobili; nei momenti di crisi obbligo per le aziende di rinunciare a
profitti; abolizione di tutta la pubblicità televisiva; stipendio
minimo a tutti i cittadini italiani, dalla nascita alla morte. Per non
dire di proponimenti che imbarazzerebbero qualsiasi gruppo politico,
tranne la Lega Lombarda, quali l'abolizione delle forze armate,
l'espulsione di tutti gli stranieri dal territorio nazionale, o il
trasporto della capitale a Merano.
Non è che al
Pizzigoni mancasse il senso della realtà: le copie pilote del suo libro
contenevano moduli con cui i lettori potevano sottoscrivere obbligazioni
di un milione ciascuno (non più di settanta in totale, per coprire le
spese di stampa), interamente restituibili al raggiungimento delle prime
cinquantamila copie vendute. Era un rischio per i lettori, nel caso
sfortunato che l'autore fosse riuscito a vendere solo 49.000 copie. Ma
poteva valere la pena, visto che il secondo comma del contratto
prevedeva che ogni sottoscrittore ricevesse interessi di tre milioni al
raggiungimento delle prime 450.000 copie vendute. Una proposta onesta,
perché 450.000 copie a 5000 lire fanno due miliardi e duecentocinquanta
milioni, e tre milioni per settanta fanno duecentodieci milioni. Quindi
saremmo stati di poco sotto al dieci per cento di interessi. Ma cosa
sarebbe accaduto se il Pizzigoni fosse riuscito nel capolavoro di
vendere solo 449.999 copie?
D’altra parte, non siamo
severi con i folli letterari. Quanti, che oggi consideriamo grandissimi,
non sono stati considerati folli ai tempi del loro esordio? Come
richiamo a un maggior rispetto per i folli letterari, ricorderò alcuni
episodi storici, andatevi a leggere due raccolte, Rotten Rejections di
André Bernard e Experts speak di Christopher Cerf e Victor Navasky,
tradotto nel 1985 da Frassinelli come La parola agli esperti. Sono
autori che hanno saputo reperire e sfogliare in biblioteca non solo
vecchi archivi editoriali ma anche saggi critici dimenticati e persino
recensioni su varie gazzette. "Sarò forse duro di comprendonio, ma non
riesco proprio a capacitarmi del fatto che un signore possa impiegare
trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di
prendere sonno". Con questa motivazione un lettore dell’editore
Ollendorf aveva respinto la Recherche di Proust.
Nel
1851 Moby Dick viene respinto in Inghilterra col seguente giudizio: “Non
pensiamo che possa funzionare per il mercato della letteratura per
ragazzi. È lungo, di stile antiquato, e ci pare che non meriti la
reputazione di cui pare godere.” A Flaubert nel 1856 viene respinta
Madame Bovary con questa lettera: “Signore, avete seppellito il vostro
romanzo in un cumulo di dettagli che sono ben disegnati ma del tutto
superflui.” A Emily Dickinson, viene rifiutato il primo manoscritto di
poesie nel 1862 con: “Dubbio. Le rime sono tutte sbagliate”. Si rifiuta
La fattoria degli animali di George Orwell: “Impossibile vendere storie
di animali negli USA.” Per il Diario di Anna Frank: “Questa ragazza non
sembra avere una speciale percezione ovvero il sentimento di come si
possa portare questo libro al di sopra di un livello di semplice
curiosità.”
Per passare alla critica militante, ecco
cosa Eugène Poitou, nella Revue des deux mondes del 1856 diceva di
Honoré de Balzac: “Nei suoi romanzi non c’è niente che riveli
particolari doti immaginative, né la trama, né i personaggi. Balzac non
occuperà mai un posto di rilievo nella letteratura francese”. Quanto a
Emily Brontë: “In Cime tempestose i difetti di Jane Eyre [della sorella
Charlotte] vengono moltiplicati per mille. A pensarci bene, l’unica
consolazione che ci resterà è il pensiero che il romanzo non diventerà
mai popolare” (James Lorimer, North British Review, 1849). Emily
Dickinson: “L’incoerenza e la mancanza di forma delle sue poesiole - non
saprei definirle altrimenti - sono spaventose.” (Thomas Bailey Aldrich,
The Atlantic Monthly, 1982).
Herman Melville: “Moby
Dick è un libro triste, squallido, piatto, addirittura ridicolo.... Quel
capitano pazzo, poi, è di una noia mortale.” (The Southern Quarterly
Review, 1851). Walt Withman: “Walt Withman ha lo stesso rapporto con
l’arte che un maiale con la matematica” (The London Critic, 1855).
Passiamo alla musica. Su Bach, Johann Adolph Scheibe affermava nel Der
critische Musikus, 1737: “Le composizioni di Johann Sebastian Bach sono
totalmente prive di bellezza, di armonia e, soprattutto, di chiarezza.”
Louis Spohr recensiva nel 1808 la prima esecuzione della Quinta di
Beethoven con: “Un’orgia di frastuono e di volgarità”. Ludwig Rellstab
(Iris im Gebiete der Tonkunst, 1833) diceva che Chopin “se avesse
sottoposto le sue musiche al giudizio di un esperto, questi le avrebbe
stracciate... Comunque vorrei farlo io.” La Gazette Musicale de Paris,
1853, scriveva che “Il Rigoletto è carente sul piano melodico.
Quest’opera non ha nessuna possibilità d’inserirsi nel repertorio”.
Quanto
all'incomprensione tra geni, Emile Zola, in occasione della morte di
Baudelaire, necrologizzava: “Fra cent’anni Les fleurs du mal verranno
ricordati solo come una curiosità”. Nel Diario di Virginia Woolf si
legge: “Ho appena terminato di leggere lo Ulysses e lo giudico un
insuccesso... E’ prolisso e sgradevole. E’ un testo rozzo, non solo in
senso oggettivo, ma anche dal punto di vista letterario”. Ciaikowskij
nel suo diario scriveva di Brahms: “Ho studiato a lungo la musica di
quel furfante. E’ un bastardo privo di qualità.” Finiamo con una sola
citazione dallo show business. Un dirigente della Metro, dopo un provino
di Fred Astaire, nel 1928: “Non sa recitare, non sa cantare ed è calvo.
Se la cava un po’ con la danza.” Che poi, a pensarci bene, non era del
tutto sbagliato. Eppure era un errore.
Mi si potrà ora
chiedere perché, dopo aver iniziato in modo così alto e severo sul
valore del libro e i piaceri raffinati della bibliofilia, abbia poi
concluso con una serie di piacevoli irrilevanze – ovvero, come si diceva
un tempo, sciocchezzuole e pinzillacchere. E' che volevo invogliare i
miei ascoltatori non dico a leggere cataloghi, né ad acquistare
Cosmografie di Münster per ventimila euro, ma almeno ad aggirarsi per
biblioteche con la speranza di farvi qualche incontro curioso, sapendo
che non vi si trovano solo i prodotti del genio, talora non molto
esilaranti, ma anche i prodotti della follia, del cui elogio già altri
si è occupato.
Vorrei insomma che accadesse ai miei
ascoltatori quello che è accaduto al marchese Fuscaldo, immortale
personaggio di Achille Campanile che, da giovane, aprendo per caso un
libro nell'immensa biblioteca paterna, vi aveva trovato tra le pagine
una banconota da mille lire – per il resto della sua vita aveva passato
ogni giorno a sfogliare pagina per pagina tutte le altre decine di
migliaia di volumi, nella speranza di ripetere quella fortunata
trouvaille – e così era diventato in tarda età l'uomo più dotto ed
erudito del suo tempo».
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
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