Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

giovedì 14 novembre 2013

Il Pensiero delle Religioni - Ernesto Riva

Da "http://www.filosofiaedintorni.eu/index.htm" :


IL BUDDHISMO

Sommario: vita di Buddha; le quattro nobili verità; la anatta; il sangha; le feste;
l'etica ; Nagarjuna; il buddhismo tibetano; il buddhismo Zen; storie Zen.

Vita di Buddha

Il termine Buddha in lingua pali significa “chi conosce o raggiunge l'illuminazione”. Il fondatore del Buddhismo si chiamava in realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya, che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del Nepal, a 170 chilometri circa dall'odierna Benares. Nacque verso la metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri. A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica. Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia e la morte sono la sorte dell'umanità e che vi sono delle persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò l'abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all'ascetismo più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la Risposta. Sotto quell'albero combatté l'ultima battaglia, quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la battaglia contro l'amore per il mondo, l'illusione, l'aspirazione ad esistere e a gioire, contro il desiderio dell'onore, della felicità, della vita familiare, del benessere, del potere ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya, egli raggiunse l'illuminazione. Da allora fu noto come “il Buddha”. Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri quarantacinque anni il nord dell'India insegnando e predicando il suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì all'età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel mese di karttika (ottobre-novembre).

Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina (Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili Verità. Esse sono: 1)c'è il dolore; 2)il dolore ha una causa; 3)il dolore può essere superato; 4)il modo per eliminare il dolore è pratica l'Ottuplice Sentiero. Vediamo in breve i vari punti.
1) Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un fatto universale. “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell'esistenza individuale”.
2) La causa del dolore è il desiderio ovvero brama ovvero sete (tauha). “Questa, o monaci, è la santa verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”.
3) Come può cessare il dolore? “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”. Esiste dunque uno stato in cui c'è libertà completa dalla sofferenza e da ogni schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che è il Nirvana (o Nibbana).
4) La via che conduce alla soppressione del dolore è l'Ottuplice Sentiero: “Questa, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione”. Questo Ottuplice Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio intimo, porta alla sapienza e fuga l'ignoranza; il suo frutto consiste nella serenità, nella conoscenza e nella illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e di perfetta felicità.

Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall'Induismo il concetto del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere nascerà e rinascerà. Questa però non vuole essere una dottrina deterministica poiché si è sempre liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre così. C'è infatti la possibilità di arrivare al Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore, accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione; è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha sperimentato può sapere che cos'è. Infatti può essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e costituisce ovviamente l'ultimo stadio del nirvana.Tale è il traguardo a cui l'Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.



La teoria della anatta.

Il Buddhismo respinge la nozione di anima intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non c'è nessuna anima, dunque c'è una non-anima, che chiama anatta. In altre parole, l'anima o l'io o il sé non esistono. Quel che è detto “io” è una combinazione continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò che è posseduto, vi sia anche un possessore - l'io - di tali processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio alla base della sofferenza, perché tale credenza rende possibile l'attaccamento dei vari processi appunto ad un sé che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il Buddhismo) permette l'attaccamento e rende perciò reale la sofferenza ed impossibile a superarsi.


Il Sangha.

Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è la “comunità” o sangha. Il sangha è l'ordine dei monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso modo, nella scuola meridionale o Theravada ( diffuso in Birmania, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani, del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina, Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo. Queste due scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non designò alcun successore né diede direttive riguardo una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata così costretta a stabilire vari gradi all'interno della comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco vero e proprio; poi l'anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227 precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista: buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro spirituale più alto, e che si sforza di vivere in conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in lingua pali, che si può tradurre così: “Al Buddha come rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come rifugio io vado”.


Le feste buddhiste

Il giorno di riposo è il sabato. Le tre feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile. La celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa dell'acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell'aspetto, tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento dell'acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate come un lavaggio dalla “sporcizia” accumulata nel corso dell'anno. L'acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.
Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha. Infatti in un giorno di luna piena del mese di maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena di maggio egli ebbe l'illuminazione, e in un giorno di maggio morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.
La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato più spesso che possono.


L'etica buddhistica

Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti, universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita, astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle cinque precedenti, sono: disciplina nell'ora dei pasti (cioè mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani, evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non ricevere denaro. In queste prescrizioni il buddhismo non fu originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga.
L'originalità del buddhismo è altrove. I precetti morali non hanno di mira l'individuo singolo, isolato, che ha di mira la propria salvezza; piuttosto considerano l'uomo come vivente in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo nella morale; la quale non è più l'eliminazione o cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri.
La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il senso del collettivo. L'uomo è sì artefice del proprio destino, deve evitare il male e superare le passioni e l'egoismo, ma questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo dalla morale dell'asceta: il quale necessariamente deve sottostare ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non è stato forse per nessuna scuola così palese come nel Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi, abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il karma conseguente non abbiano più presa sull'uomo. Su questa prassi si innesta il processo della meditazione, dell'ottenimento della perfetta quieta, della soppressione intera della passione, della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande Veicolo.
Nel Mahayana infatti l'amore trionfa nella figura del Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che l'agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri. Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari della elevazione spirituale e sta a significare l'assoluta abnegazione che deve animare il Bodhisattva.




Nagarjuna

Visse verso la fine del 2° secolo d.C. Secondo una biografia mitica cinese, era nato nell'India meridionale. Di casta brahmanica, studiò i Veda e apprese tutte le scienze, compresa la magia, grazie alla quale sapeva rendersi invisibile. Approfittando di quest'arte, penetrò nell'harem del re; scoperto, riuscì a fuggire e si fece monaco buddhista, e diffuso il buddhismo nell'India meridionale. È considerato il fondatore di una importante scuola del buddhismo, quella dei Sunya-vadin,ed è l'autore di un celebre testo, i Madhyamikakarika, oltre a numerose altre opere.
Nagarjuna dimostra che le cose, essendo reciprocamente condizionate, non hanno realtà in sé. Non c'è un soggetto e un oggetto. Nessuna cosa è esistente in sé: esiste in quanto in relazione con le altre. La sua individualità e singolarità è una supposizione erronea. Del mondo dell'esperienza non si può, in verità, predicare nulla: esso è contraddittorio e nessun concetto è valido per spiegarlo.
Nagarjuna cerca di ridurre all'assurdo ogni possibile teoria. È un criticismo estremo che afferma la relatività di ogni pensiero e di ogni essere: come ogni cosa non ha un'esistenza reale e il suo essere è puramente apparente, così nessun concetto è indipendente. Pensare è supporre sempre una relazione; quando il processo dialettico ha dimostrato l'insostenibilità logica di tutto il pensato, quella cessazione o arresto è il vuoto,la vacuità, l'inesprimibile, al di là di ogni designazione. Nagarjuna fa l'esempio di un malato agli occhi che immagina di vedere macchie o punti. Chi non sappia di essere malato prende quelle macchie per vere e reali; chi sa di essere malato, pur non potendo eliminare quel difetto, sa che la persona sana ne è priva e per lei quelle macchie non esistono. Così la vera vista è quella che scopre l'identità estrema oltre tutti gli opposti e tutti i concetti, identità nella quale appunto samsara e buddhità si equivalgono: il reale trascende ogni dualità.
La vacuità (sunyata) è il fondamento di tutto. Essa non è il puro nulla ma la negazione, come già accennato, di ogni categoria mentale, anche la più generale e astratta, per cui della realtà in sé non si può dire né che esiste né che non esiste perché trascende il nostro pensiero. Anche il buddha, il nirvana e le altre categorie buddhistiche sono in sé inesistenti, hanno soltanto un valore strumentale e servono come ideali a cui deve tendere la nostra azione. Chi crede nella realtà dei fenomeni si irretisce nel ciclo delle nascite e rinascite, chi invece si convince della loro illusorietà e crede nella vacuità, non si attacca al mondo e ottiene la liberazione.



Il Buddhismo tibetano

Il Buddhismo tibetano pratica la forma del “Veicolo di diamante”(vajrayana).Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all'opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest'epoca. Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contiene i sutra, il tantra, le regole di disciplina; l'altra la letteratura esegetica. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l'accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per esecoli un forte dominio teocratico su tutto il paese.
Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto la Cina.
Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (=maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c'en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi. Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l'anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del Lama deceduto.
Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei “Buddha viventi”, ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell'Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan e Sikkim.



Il Buddhismo Zen

Lo Zen è una forma particolare di Buddhismo. La parola zen è un termine giapponese derivato dal cinese ch'an o shan, a sua volta trascrizione del sanscrito dhyāna, ossia meditazione. È infatti una corrente del buddhismo che ebbe origine in Cina al principio del 6° sec. d. C. Dalla Cina si diffuse in Giappone con il monaco Eisai verso il 1190. Qui lo Zen ebbe grande fioritura e diede vita a numerose correnti (Rinzai, Soto ecc.), molte delle quali ancora attive.
Lo Zen non conosce dèi, non ricerca l'immortalità e non ammette concetti come peccato o anima. Non è né una religione né una filosofia in senso occidentale; è semmai un sistema di vita. Che cosa fa una persona che segue lo Zen? Essa si educa gradualmente a cogliere la realtà senza mediazioni intellettuali ma vivendola nella pienezza del momento.
È la qualità dell'esperienza qui e ora, e non la precisione della ragione, che assume la massima importanza per il seguace dello Zen. La pratica fondamentale dello Zen è lo zazen, che viene intrapresa al fine di ottenere le condizioni ottimali per vedere direttamente in se stessi e scoprire nella purezza della propria esistenza la vera natura dell'essere. Lo Zen crede che la persona comune sia presa in un groviglio di idee, teorie, riflessioni, pregiudizi, sentimenti ed emozioni tali che non le permettono di cogliere la verità e la realtà ma solo frammenti di essa. Lo scopo dello zazen è dunque quello di liberare l'individuo e di consentirgli di entrare in modo pieno e diretto nella realtà. Vi sono tre mete che lo zazen si propone. La prima consiste nell'aumentare i poteri di concentrazione eliminando tutti i fattori di distrazione e tutti i dualismi (soggetto e oggetto, realtà e apparenza, bene e male ecc.). La seconda mira al conseguimento del satori, ossia di una sorta di illuminazione (essa presuppone un intenso allenamento: per ottenere il satori, vengono in aiuto i koan, stratagemmi usati dal maestro per far ottenere l'illuminazione al discepolo). La terza infine consiste nel vivere l'illuminazione nella vita di tutti i giorni. In questo modo qualsiasi azione e qualsiasi momento sono vissuti nella pienezza e nella profondità della verità.



Storie Zen

Nan-in, un Maestro Giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. "E’ ricolma. Non ce n’entra più!". "Come questa tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza ?".

Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l’altro per la strada.
"Dove vai?" Domandò il primo. "Vado dove vanni i miei piedi" rispose l’altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina incontrerai quel bambino" gli disse l’insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado dove soffia il vento" rispose l’altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al
maestro la propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c’è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai ?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l’altro.

Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l’elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. "Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose".


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Canone buddhista, 2 voll., ediz. UTET
La rivelazione del Buddha, 2 voll. Meridiani Mondadori
Botto, Buddha e il buddhismo, Oscar Mondadori
101 storie zen, Adelphi
Conze, Breve storia del buddhismo, BUR Rizzoli
Humphreys, Dizionario buddhista, Astrolabio Ubaldini
Suzuki, Introduzione al buddhismo Zen, Astrolabio Ubaldini
Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza 



IL PENSIERO CINESE. IL CONFUCIANESIMO

Sommario: caratteristiche generali del pensiero cinese; Confucio; i quattro Libri

Caratteristiche generali del pensiero cinese

Con quella indiana e quella ebraica, la cultura cinese è fra le più antiche civiltà che si siano perpetuate senza interruzioni sino ad oggi. Essa ha mantenuto una serie di caratteri peculiari che ne hanno salvaguardato l'originalità. I differenti atteggiamenti mentali coinvolgono l'idea stessa di religione e di divinità, di bene e di male, di trascendenza e di spirito, e il rapporto individuo-società e individuo-universo.
A differenza della storia europea in cui il ruolo della Chiesa è stato determinante, e così pure l'antagonismo tra Stato e Chiesa e le guerre di religione, in Cina la religione non soltanto è stata subordinata allo Stato, ma è stata funzionale più alla condizione sociale dell'uomo piuttosto che allo sviluppo di una dimensione individualistica.
La storia cinese non ha in pratica conosciuto la contrapposizione fra un ordinamento politico ed uno soprannaturale che lo trascende e travalica (come nel caso della Chiesa) ed i rapporti fra Impero e Chiesa buddhista non sono paragonabili a quelli fra le Chiese cristiane e gli Stati europei. Del resto, se per religione intendiamo un fenomeno analogo a quello giudaico-cristiano, difficilmente potremmo rintracciarlo in Cina. Religioni istituzionali e religioni diffuse si equilibrano e si intersecano a differenti livelli, nel sincretismo della cosiddetta religione popolare come nell'interazione tra taoismo, buddhismo e confucianesimo.

Il cinese può venerare più divinità di religioni diverse senza che questo gli crei dei problemi perché è fondamentale per lui la funzione pratica della religione, e non la sua identificazione. Esempi di religione istituzionale sono il buddhismo e il taoismo, in quanto posseggono una propria organizzazione ecclesiastica, propri culti e dottrine. La religione diffusa, invece, è costituita da culti come quello rivolto agli antenati o alle divinità celesti.
In campo religioso non esiste una fede monoteistica, né l'idea di un Dio personale in diretta relazione con l'individuo. Ciò significa inoltre l'assenza dell'esclusivismo di un “Dio geloso”, di un'assoluta opposizione fra una divinità identificata con il Bene e il demonio identificato con il Male. Significa anche assenza di un rapporto personale e individuale con la divinità, che in campo etico si traduce in un diverso concetto di responsabilità che deve fare i conti con i legami fra il soggetto e il suo gruppo sociale. Anche l'idea di retribuzione ne viene influenzata perché è spesso intesa come una conseguenza automatica di un certo comportamento umano, ed il ruolo degli spiriti e delle divinità popolari è ridotto ad una funzione contrattualistica e propiziatoria.

La multifunzionalità dei templi contribuisce quindi al consolidamento dei legami familiari, alla protezione della comunità locale e del suo benessere, della salute individuale, dell'ordine morale, dello Stato e dell'ordinamento politico. Il pensiero cinese non ha neppure conosciuto il dualismo spirito-materia e l'opposizione fra anima e corpo - caratteristici della tradizione occidentale - e la conseguente distinzione fra il sensibile ed il razionale. Il termine xin indica la mente ma anche il cuore, vale a dire la sede del pensiero e allo stesso tempo delle emozioni e delle reazioni sensoriali. La funzione razionale non è intesa in Cina come la più alta nell'uomo, contrapposta alle passioni e agli istinti. La ragione non è neppure prerogativa dell'anima che, secondo la dottrina ad es. cristiana, avrebbe la capacità di discernere fra il bene e il male, e di compiere liberamente il bene o il male. In Cina si preferisce un universo in continua trasformazione, costituito da una sostanza fondamentale, la cui dinamicità (evoluzione ed involuzione, nascite e morti, contrazione ed espansione) è dovuta alla polarità di energie opposte ma complementari. In Cina è assente una concezione assoluta ed esclusiva degli opposti, intesi piuttosto come bipolarità complementari, come interazione e alternanza.



Confucio

In Cina la filosofia non è staccata dalla vita, e la sua pratica è considerata inseparabile dalla teoria. In Cina vi sono stati pochissimi filosofi di professione. Quasi tutti i grandi filosofi cinesi hanno ricoperto delle cariche amministrative nel governo, oppure sono stati artisti. In Cina, insomma, i filosofi vengono ritenuti tali soprattutto per le loro caratteristiche morali. Non è concepibile che un uomo cattivo possa essere un buon filosofo, o che un buon filosofo possa essere un uomo malvagio. La prova reale di una filosofia è la sua capacità di trasformare i suoi sostenitori in uomini più grandi.

Il nome Confucio è dovuto ai missionari del secolo 17° che latinizzarono il nome del saggio cinese K'ung fu tzu (ovvero maestro Kung) in Confucius. Confucio nacque a Tsou, una borgata dello stato di Lu (odierna Chueh-li nello Shantung) nel 551 a.C (il 27 agosto o il 28 settembre). Suo padre era governatore di Tsou e di stirpe nobile. Confucio rimase orfano di padre a tre anni. La famiglia si trovò in condizioni disagiate e Confucio dovette fare molti sacrifici e lavori umili. Si sposò a 19 anni, ed ebbe due figli, un maschio e una femmina. Nello stesso periodo ricoprì modesti incarichi governativi. Ma la sua vocazione era l'insegnamento e nel 530 a.C. aprì una scuola in cui erano ammessi tutti quelli che dimostravano di avere intelligenza, buona volontà e dai quali si faceva pagare a seconda delle possibilità.

La sua era una scuola di tipo tradizionale, in cui si insegnavano le sei arti: riti, musica, tiro con l'arco, guida dei carri, annali, calcolo. Quando, nel 528 a.C., gli morì la madre, Confucio si uniformò ai riti che prescrivevano al figlio in lutto di non esercitare alcuna carica pubblica per tre anni e allora egli si ritirò a vita privata. Dedicò questo periodo allo studio delle discipline a lui preferite: musica, riti e testi antichi. Questo studio profondo gli permise di tradurre in massime la saggezza degli antichi e di formulare poi norme che dovevano regolare il comportamento dell'uomo quale membro di una società. In seguito, per ampliare le sue conoscenze, nel 515 a.C. si recò a Loyang, la capitale del regno di Chou, dove la musica e i riti erano stati tramandati nella loro purezza originale. Pare che in questo periodo abbia incontrato Lao Tzu. Confucio ritornò poi a Lu e riprese l'insegnamento. Nel 514 il sovrano di Lu dovette fuggire per motivi politici e chiese ospitalità al duca di Ch'i. Confucio seguì il sovrano in esilio. Alla morte del sovrano il ducato di Lu passò nel 509 a.C. al duca Ting e Confucio ottenne finalmente, nel 501 a.C. (aveva ormai cinquant'anni), un incarico politico. Il duca Ting lo nominò governatore di Chung-Tu, capitale dello stato di Lu, permettendogli di attuare il sogno della sua vita: dimostrare sul piano pratico la fondatezza delle sue idee etiche e politiche. La sua amministrazione si rivelò talmente perfetta che poté essere paragonata al periodo aureo dei sovrani mitici ed inoltre le leggi penali non vennero più applicate perché non furono commessi più crimini.

I felici risultati ottenuti gli valsero però l'invidia e l'inimicizia della corte e Confucio fu costretto ad andarsene da Lu. Cominciò così le sue peregrinazioni, che durarono ben tredici anni, attraverso vari stati. Ritornò a Lu quando aveva ormai 69 anni. Il nuovo duca, Ngai, lo onorò, lo invitò a corte ma non gli affidò nessuna carica pubblica. Egli allora si dedicò, con i suoi discepoli, a raccogliere e a riordinare i testi antichi e scrisse una cronaca di Lu, intitolata Primavere e autunni. Si dice che, sette giorni prima di morire, un sogno l'avvertisse della prossima fine. Dopo aver recitato alcuni versi del Libro delle Odi (“Ecco come frana il monte T'ai/il grande albero viene abbattuto/e il saggio sfiorisce come un fiore) e avere ancora una volta espresso il suo rammarico per non essere riuscito a far accettare ai principi le sue idee, si ritirò nella sua stanza e morì. Era il 479 a.C.

L'insegnamento del maestro cinese è stato esclusivamente orale. Egli era convinto che la verità si possa cogliere concretamente e in singole situazioni, mentre ogni tentativo di elaborare un quadro completo non fa che impoverirne o travisarne l'infinita ricchezza. Non c'è alcun tentativo di definire concetti o di elaborare principi e teorie come fanno invece i filosofi occidentali. Spesso Confucio si limita a ricorrere al modello analogico, associando un esempio antico ad un episodio presente, o limitandosi a brevi osservazioni concrete.
Tutto quello che ci è pervenuto del suo pensiero è raccolto nei cosiddetti Quattro Libri (Ssu Shu), che sono opera di discepoli. Essi sono I Dialoghi, Il Grande Studio, L'Invariabile Mezzo e il Libro di Mencio.

I Dialoghi sono il libro più antico. Esso consta di 11.705 caratteri ed è diviso in venti libri, ognuno dei quali è chiamato col nome dei due caratteri che lo iniziano. Gli insegnamenti sono fatti sotto forma di massime, aforismi o brevi dialoghi senza legame tra loro. Confucio era convinto di aver ricevuto dal Cielo (T'ien) una missione da compiere. I suoi discepoli credevano fermamente in lui e nel suo mandato. Confucio era legittimista: non vedeva altra possibilità per sanare i mali della società se non con la restaurazione degli antichi valori morali, degli usi rituali e delle istituzioni del passato; ristabilire insomma l'ordinamento feudale come era agli inizi della dinastia Chou. Per salvare la società egli insisteva che per prima cosa bisognava salvare l'uomo. Per riuscire in ciò, egli si rivolgeva in primo luogo a quelli che considerava i responsabili del disordine sociale: i principi. Essi dovevano essere consci delle loro responsabilità e dei loro doveri e dovevano prendere esempio dalle sagge istituzioni dei re santi dell'antichità che si erano preoccupati prima di tutto della felicità del loro popolo. “Vi è governo quando il principe (si comporta) da principe, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio”(Dialoghi, 12,11). Ognuno doveva quindi mantenere la posizione che gli competeva ed attenersi ai doveri che gli imponeva la propria qualifica e rango. Secondo Confucio, “governare è correggere. Se induci il popolo a correggersi, chi oserà non correggersi?” (Dialoghi, ibid.).

Per aiutare i principi ad attuare quanto era necessario al buon governo, egli intendeva preparare per essi dei consiglieri abili, onesti, saggi e fidati. Secondo l'ideale confuciano, essi avrebbero dovuto possedere le virtù morali del chun-tzu, ovvero l'uomo saggio, perfetto.
Quest'uomo non era necessariamente un nobile per nascita bensì un uomo virtuoso. Se il consigliere tendeva alla perfezione, ne derivava anche un miglioramento dell'uomo comune, del suddito, che seguendo l'esempio di colui che lo governava, diventava un suddito docile e fedele. Nel Grande Studio è detto: “Dal Figlio del Cielo all'ultimo del popolo, per tutti la cosa principale è perfezionare la propria persona” (par. 6). Nel commento si fa rilevare che il perfezionamento si ottiene quando si riescono a dominare le passioni, non ci si crea delle illusioni e si riesce ad essere sinceri con se stessi; ciò permette al saggio di vedere com'è veramente il mondo e gli dà la possibilità di poterlo giudicare obiettivamente.

Ciò che conferisce all'uomo i sentimenti di umanità, giustizia, altruismo ecc. viene chiamato da Confucio col termine jen: si tratta di una virtù unica e completa in se stessa, che riassume tutta la legge morale oggettiva. In più vi è il li (ordine, etichetta), che si riferiva ai riti e alle cerimonie, ma esprimeva anche le norme che dovevano regolare i rapporti umani ed era quindi un codice di comportamento morale e sociale in una società organizzata gerarchicamente. Questi due concetti costituiscono la base del confucianesimo.

Quando chiedevano a Confucio di spiegare che cosa fosse jen, egli dava parecchie definizioni. Jen è “amare gli uomini”; è “conoscere gli uomini” (Dialoghi, 12,22). Altrove dirà che per attuare lo jen è necessario “rispetto, magnanimità, sincerità, sollecitudine, benevolenza. Chi rispetta non offende, chi è magnanimo si guadagna le folle, chi è sincero ottiene la fiducia degli altri, chi è sollecito porta a compimento, chi è benevolo è adatto a comandare gli uomini” (Dialoghi, 17,6). Anche il modo di comportarsi è jen: “fuori di casa comportati come quando ricevi un ospite importante; nel comandare al popolo comportati come se offrissi il grande sacrificio; ciò che non vuoi sia fatto a te, non fare agli altri; non suscitare ostilità nello stato, non suscitare rancori nella famiglia” (Dialoghi, 12,2). Gli fu chiesto una volta che cosa ne pensasse del principio per cui bisogna rendere il bene per il male. Confucio disse: “Con che ripagheresti la clemenza(bene)? Un torto si ripaga con la giustizia e la clemenza con la clemenza” (Dialoghi, 14,36).

Per Confucio il li pervade tutte le cose, in quanto è la vera base del governare. Il li rappresenta una completa dottrina sociale e morale, che si fonda sul principio dell'armonia nei rapporti umani fondamentali. Essi sono cinque (wu lun): tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico. Il governo vero e proprio non è opera degli impiegati statali, ma di ciascun cittadino che osserva i giusti rapporti con gli altri individui. Quando in una società esistono dei buoni rapporti tra tutti i cittadini, allora vuol dire che lo scopo del governo è stato raggiunto. In altre parole, quando tutti gli individui agiscono moralmente in tutti i loro rapporti con le altre persone, non vi sono più problemi sociali. Ecco perché Confucio può dire che per raggiungere la pace nel mondo è necessario e sufficiente rettificare i propri cuori o curare la propria vita personale e porre ordine nella propria vita familiare.

Il li comprende anche un altro concetto molto importante, quello di hsiao, che comunemente è tradotto con pietà filiale. Essa è la virtù della venerazione. I genitori sono anzitutto venerati in quanto la vita stessa è generata da loro. Nel mostrare venerazione per i genitori, è importante proteggere il corpo dall'offesa, poiché il corpo viene da essi. Quindi proteggere il corpo è onorare i genitori. Ma non basta: hsiao non è solo prestare cure fisiche ai genitori, ma dare loro una ricchezza emotiva e spirituale. Ugualmente importante, dopo che i genitori sono morti, gli scopi e i propositi del figlio dovrebbero essere i propositi e gli scopi che essi non sono riusciti a raggiungere. Ma hsiao non è solo una virtù familiare: essa diviene una virtù sociale. Quando i figli apprendono il rispetto e la venerazione per i loro genitori, arrivano ad avere rispetto e amore per i loro fratelli e sorelle. E quando hanno fatto ciò, possono rispettare ed amare tutta l'umanità. Quando dunque tutte le loro azioni sono dirette dall'amore per l'umanità, essi agiscono in accordo con lo jen.

Se Confucio sognava un'umanità perfetta, frutto dell'amore, dell'educazione e dello studio, era però convinto che questa perfezione non si poteva ottenere se non con l'aiuto del Cielo (T'ien). Sul concetto di T'ien, le interpretazioni sono discordanti. Possiamo comunque dire che egli non si discostava da quelle che erano le idee fondamentali della tradizione antica, e credeva dunque in un Cielo personalizzato, in cui vedeva l'ordinatore divino della coscienza morale dell'uomo. Nonostante i decreti celesti siano infallibili e immutabili (ming), l'uomo rimane responsabile delle sue azioni, e queste non riescono comunque a contrastare il corso degli eventi quale è disposto dal Cielo, ma dipendono dalla malizia dei loro cuori, che cercano i guadagni piuttosto che la rettitudine. La teoria dell'interazione tra cielo e terra era anche alla base della teoria del “mandato celeste”, già preesistente a Confucio (a cui poi Mencio diede una sistemazione organica) come fondamento di legittimazione del potere del sovrano. D'altronde il confucianesimo stesso, pur essendo sorto come filosofia e morale secolare, assunse progressivamente una serie di elementi religiosi, come quelli delle religioni diffuse, elaborando tutto un sistema di riti di riti ufficiali ed inglobando la cosmologia delle teorie dello yin e yang e dei cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua).

Egli parla pure del Tao, della legge morale cosmica, per seguire la quale l'uomo doveva praticare il li (cerimonie, riti). Egli quindi rendeva omaggio agli spiriti degli antenati e compiva i sacrifici come se essi fossero presenti, ma nello stesso tempo criticava l'abuso delle cerimonie e dei riti e il comportamento di coloro che compivano le cerimonie tradizionali, senza la debita reverenza o che, compiendole, peccavano contro il Cielo: “se si offende il Cielo, non serve pregare” (Dialoghi, 3,13).

Confucio non si atteggiò mai a superuomo o a profeta. Il suo era soprattutto un insegnamento pratico, guidato dalla consapevolezza delle difficoltà del compito che si era prefisso, del dovere e della responsabilità che si assumeva. Il suo insegnamento era quindi più esortazione che teoria. Egli credeva nella bontà dell'uomo e nell'azione benefica dello studio: “E' difficile che un uomo che abbia studiato per tre anni non sia diventato buono” (Dialoghi, 8,12). Ma ammoniva: “Studiare senza meditare è inutile, meditare senza studiare è pericoloso” (Dialoghi, 2,15). Confucio non si poneva mai al di sopra degli altri e non si sopravvalutava mai. Inoltre, modestamente, concludeva: “Io tramando, non creo” (Dialoghi, 7,1).


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Testi confuciani, ed. UTET
AA.VV., Le grandi religioni del mondo, Paoline
Confucio, I Dialoghi, ed. BUR Rizzoli o Oscar Mondadori o altre
Granet, Il pensiero cinese, Adelphi
Koller, Le filosofie orientali, Astrolabio Ubaldini (in particolare il cap. 17°).
Santangelo, Storia del pensiero cinese, Newton Compton



IL PENSIERO CINESE. IL TAOISMO

Sommario: introduzione; vita di Lao Tse; il Tao te ching

Introduzione

Il Taoismo sorse sullo stesso terreno culturale in cui nacque il Confucianesimo e si servì degli stessi elementi utilizzati da questo, che formavano il patrimonio intellettuale della Cina della seconda metà del 1° millennio a.C. Ma mentre il Confucianesimo ne dedusse dei modelli da imitare per ritornare alle virtù morali degli antichi re “santi”, il Taoismo li sottopose ad aspra critica, additando nei portatori di quelle virtù i corruttori della primigenia virtù del Tao, fatta di naturalezza e spontaneità. D'altro canto, essendo Lao Tzu e Confucio contemporanei, la medesima situazione storica di decadenza della dinastia Chou (che regnava ormai da sei secoli ed aveva perduto lo slancio riformatore dei primi sovrani), spingeva i due capiscuola ad evocare i tempi aurei in cui vigeva la semplicità del Tao, per Lao Tzu, o la carità e la giustizia dei santi imperatori, per Confucio. Bisogna ammettere però che i concetti che troviamo alla base del Taoismo e del Confucianesimo preesistevano ai fondatori delle due scuole, i quali non fecero che elaborarli e fissarli in un corpo di dottrine: Lao Tzu con lo scritto, Confucio con l'insegnamento.


Vita di Lao Tse

La tradizione ci dice che Lao tzu (o Lao tze) - che è in realtà un soprannome che vuol dire “vecchio maestro” -, si chiamava Chung-erh o Po-yang o anche Lao tan. Visse nel 6° secolo a.C. ed era di qualche anno più vecchio di Confucio. Nacque nel villaggio di Ch'u-jen, nel territorio dell'odierno Honan (Cina orientale, a sud di Pechino). Fu storiografo negli archivi imperiali. Si dice che Confucio si sarebbe incontrato con lui e sarebbe stato colpito dalla sua saggezza. Lao tzu abbandonò il suo incarico quando la corta cominciò a dare segni di decadenza e se ne andò verso l'ovest. Arrivato al passo di Han-ku, il guardiano Yin Hsi gli chiese di scrivere un libro per lui e Lao tzu espose allora le sue dottrine nel Tao Te ching. Poi partì e non se ne seppe più nulla.


Il Tao te ching

L'opera di Lao Tzu è divisa in due parti, la prima sul Tao e la seconda sul Te. In seguito fu suddivisa nel numero mistico di 81 capitoletti, e il nome di Tao Te ching fu dato, sembra, da uno dei suoi commentatori, Ho-shang Kung. L'opera ci è anche giunta in un'altra redazione, non molto diversa dalla prima, curata da Wang Pi.

Il libro si apre con una descrizione del Tao. La parola significa propriamente via e quindi anche modo di condursi, sistema. Il Tao è una astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, lo spontaneo modo di essere e di comportarsi dell'universo. In questo senso è indicibile, ineffabile, indeterminato. Essendo il principio primo e assoluto, è privo di caratteristiche, giacché è la stessa fonte di tutte le caratteristiche; non è però il nulla, dato che è l'origine di ogni cosa. Esso è prima di tutte le cose, dà loro l'esistenza. “Il Tao che può essere detto non è l'eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l'eterno nome” (In cinese suona più o meno così: Tao ke Tao fei chang Tao; ming ke ming, fei chang ming: cfr. Tao Te Ching, 1).

In altri termini, il Tao è oltre ogni denominazione, visto che la fonte da cui tutto deriva non può essere nominata, costituendo l'origine dei nomi e di ogni descrizione possibile. Tao è quindi un non-nome; indica, piuttosto, ciò che consente alle cose di essere quello che sono; è ciò che dà loro l'esistenza (come se si dicesse: il questo da cui derivano l'essere e il non essere). Sebbene non si possa dire ciò che il Tao è, ma si possa soltanto accennarlo, lo si può in un certo modo comprendere considerando il suo “funzionamento”, le sue manifestazioni.
Il Tao si manifesta nell'universo, nella natura, dato che ciò che le cose individuale possiedono del Tao è il Te. La parola Te, tradotta il genere con virtù, non ha un significato strettamente morale bensì quello di vigore, potenza, facoltà, efficacia. È in pratica la manifestazione del Tao, come già accennato. Il Tao, in quanto origine, fonte, sorgente, dà l'esistenza alle cose, mentre il Te dà loro diversità.

Tutte le cose esistono nel Tao e il Tao è presente in tutte le cose. Finché le cose avvengono naturalmente, tutto è armonico e nulla turba l'equilibrio cosmico. L'uomo, se vuole vivere felice, deve seguire il Tao senza ostacolarlo. In questo senso, egli non deve agire, nel senso che non deve modificare l'armonia dell'universo. Se lo fa, allora non è più in accordo col Tao. Il principio della inazione (wu wei) non indica quindi il rimanere ozioso, senza far nulla, ma è piuttosto basato sul riconoscimento che l'uomo non è la misura e la sorgente di tutte le cose, ma lo è soltanto il Tao. La vita è vissuta bene solo quando l'uomo è in completa armonia con tutto l'universo e la sua azione è l'azione dell'universo che fluisce attraverso di lui. Il bene non viene compiuto dall'azione spinta dai desideri, ma dalla inazione (wu wei) che è ispirata alla semplicità del Tao. “Il Tao in eterno non agisce eppure non c'è nulla che non sia fatto. Se chi governa si attenesse ai suoi principi, gli esseri si svilupperebbero da soli. Se durante questo sviluppo crescesse il desiderio, basterà risvegliare in essi l'originaria semplicità di quello che non ha nome. La semplicità del senza-nome genera l'assenza del desiderio; l'assenza del desiderio genera la serenità, così l'impero si consolida da solo” (TTC, 37).

Il problema riguarda dunque il modo in cui si dovrebbe agire. La risposta è che si dovrebbe agire adottando la semplice via del Tao, non imponendo i proprio desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. L'uomo deve conoscere le leggi che regolano i mutamenti delle cose per confermarsi ad esse; conoscendo tali leggi, l'uomo si renderà conto che è vano perseguire un fine diverso, poiché ogni cosa segue il proprio sviluppo, la propria intima legge.

L'uomo deve liberarsi da ogni pensiero, passione, interesse, desiderio particolare per ritornare alla semplicità di quando era bambino; egli deve fare solo ciò che è necessario e naturale. Vivere semplicemente vuol dire vivere una vita in cui è ignorato il profitto, lasciata da parte la scaltrezza, minimizzato l'egoismo, ridotti i desideri. Non bisogna cioè agire con artifici e deformazioni ma lasciare che le cose si compiano in modo spontaneo e naturale.

Anche in ambito sociale, le istituzioni sono giuste quando si permette loro di essere ciò che sono naturalmente; anche la società deve essere in armonia con l'universo. Se il legislatore si attenesse alle norme del Tao, il governo procederebbe in modo spontaneo e naturale. E non ci sarebbe bisogno di leggi severe e di guerre. Quando si governa un paese, si dovrebbe badare a non opprimere troppo la gente, portandola a ribellarsi. Quando invece le persone sono soddisfatte non ci sono guerre e ribellioni.

Perciò la semplice norma del governare consiste nel dare al popolo ciò che vuole, e nel rendere il governo conforme alla volontà del popolo, piuttosto che tentare di rendere il popolo conforme alla volontà di chi governa. Il lavoro di chi governa è quello di lasciare che il Tao operi liberamente, invece di tentare di opporsi alla sua funzione e di cambiarla. Così, chi vuole governare con l'aiuto del Tao, è avvisato di non fare uso di forza o violenza, poiché ciò finisce per determinare un rovesciamento. “Colui che assiste il principe col Tao non fortifica l'impero con le armi…tutto ciò che è contrario al Tao non può durare”. Quando chi governa conosce il Tao e il suo Te, da in che modo deve starsene al di fuori della vita del popolo e servirlo senza intromettersi. Così Lao Tzu dice che le persone “sono difficile da governare poiché chi governa agisce troppo”. “Più leggi e divieti ci sono nel mondo, più povero sarà il popolo… più si emanano leggi e decreti, più ci saranno ladri e predoni” (TTC, 57).

Eliminando i desideri e lasciando che il Tao entri e ci pervada, la vita supererà le distinzioni tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao, e l'uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità. È una soluzione che dipende soprattutto dal raggiungimento dell'unità col grande principio immanente della realtà, ed è perciò, in questo senso, una soluzione mistica.

Nei secoli a cavallo dell'era volgare, i seguaci del Taoismo si dedicarono soprattutto alla speculazione metafisica e in particolare sul problema della morte e della immortalità. Nacque così una forma di religione taoista, che assunse ben presto aspetti istituzionali e che ebbe, sotto la dinastia dei Tang (620-906 d.C.), una enorme diffusione, pari al buddhismo.

Il pensiero cinese delle origini non aveva elaborato una dottrina (come era successo in Grecia e nel Cristianesimo) che rispondesse al problema del destino dell'uomo dopo la morte. L'uomo cinese si vedeva solamente mortale. Da qui sorse la convinzione che l'immortalità fosse una sorta di conquista, da ottenere attraverso modalità per lo meno singolari. Il problema era appunto quello di far diventare il corpo umano immortale. Già da tempo erano stati codificati dei metodi per prolungare la vita e permettere una sorta di immortalità.
Questi metodi si dividono in due gruppi: le pratiche per nutrire lo spirito e le pratiche per nutrire la vita o il corpo.
Le pratiche per nutrire lo spirito si riferiscono naturalmente all'esercizio delle virtù morali, cioè la purezza di vita, il riconoscimento e il pentimento delle proprie colpe e il compimento delle buone azioni meritorie.
Le pratiche per nutrire la vita o il corpo sono invece di ordine dietetico, respiratorio, sessuale e alchimistico. La pratica dietetica consiste nell'astensione dai cosiddetti cinque cereali, perché di essi si nutrono i tre demoni (san shih) che risiedono nel corpo umano e sono avversi all'uomo. L'astensione da quegli alimenti mira a liberare l'uomo dalla loro presenza, facendoli morire di inedia.
Un'altra pratica molto importante è quella della respirazione controllata. Secondo le antiche tradizioni, il ch'i è il soffio vitale che permea l'universo. La pratica respiratoria tende ad immettere nel corpo il ch'i più sottile affinché lo nutra e piano piano elimini la parte densa e impura, portandolo alla stessa sottigliezza e purezza del cielo immortale.

La pratica sessuale consiste essenzialmente nella ritenzione del seme maschile: l'orgasmo dovrebbe essere ripetuto più volte e con diverse compagne, senza però lasciar sfuggire il ching maschile, in modo che torni indietro e si diffonda nell'organismo dove, unendosi al ch'i, darebbe nascita al corpo immortale. La pratica invece più difficile, dispendiosa e misteriosa, consisteva nell'ingerire, dopo una lunga preparazione alchimistica, il cinabro (solfuro di mercurio), che provocherebbe di per sé l'immortalità.
Come si vede, siamo ormai lontani dall'autentico Taoismo, che comunque fu importante perché fu la risposta a molteplici interrogativi spirituali. Inoltre non si dimentichi che, in campo politico, con la credenza messianica in una società migliore, molte furono le rivolte contadine che ebbero i loro capi in persone che si ispiravano al Taoismo. In campo artistico, il Taoismo, concedendo assoluta libertà all'individuo, permise la creazione di opere d'arte concepite per il godimento del letterato e del pittore e non, come volevano i confuciani, in esclusiva funzione di un certo tipo di società. In ultimo, la donna, che nella Cina confuciana e feudale era relegata a vivere all'interno della sua abitazione, acquisterà col Taoismo una certa parità con l'uomo, al punto di poter accedere anche a certi gradi della gerarchia religiosa taoista.
Oggi il Taoismo è diffuso nelle comunità cinesi sparse per il mondo, ed in particolare a Taiwan, Vietnam e Singapore.


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Testi taoisti, ed. UTET
Tao te ching, edizioni Adelphi, Stampa Alternativa ecc.
Blofeld, Taoismo, ed. Astrolabio Ubaldini
Blofeld, Il segreto e il sublime, Oscar Mondadori
Watts, Il Tao, Astrolabio Ubaldini
Robinet, La meditazione taoista, Astrolabio Ubaldini
Fung-yu-lan, Storia della filosofia cinese, Oscar Mondadori
Granet, Il pensiero cinese, ed. Adelphi



IL PENSIERO EBRAICO

INDICE: Introduzione; Dio; creazione; l'antropologia; il problema dell'immortalità dell'anima; l'aldilà; significato della storia; l'etica; Maimonide; La Cabbalà; Luria; Il midrash; bibliografia

Introduzione

Quando appaiono in Grecia i primi filosofi, verso il 500 a.C., si è, si può dire, alla fine della grande fioritura di scrittori, storici, profeti e sapienti ebrei. Se studiamo questa biblioteca costituitasi a poco a poco, costatiamo di essere davanti ad un pensiero assolutamente originale se la si confronta con altri tipi di pensiero, per esempio quello che si sviluppò dal X secolo a.C., almeno, in India, o ancora quello che si sviluppò in Cina, soprattutto a partire dal VII secolo a.C., o ancora il pensiero greco, dalle sue origini note, intorno al VI secolo a.C. In Israele l'umanità ha operato una conversione morale decisiva come anche una conversione mentale. Il rifiuto dell'idolatria, il rifiuto di adorare le cose di questo mondo come se fossero l'Assoluto, il rifiuto di considerare come divini il sole, la luna, le stelle, le forze della natura, le sorgenti, gli alberi, gli animali, i pezzi di legno, i blocchi di terra o di metallo; questo rifiuto attesta che in questo momento l'umanità ha raggiunto la razionalità.
È ancora contro l'animismo cosmico e biologico che i profeti di tutta la tradizione d'Israele si sono levati. In Grecia, presso alcuni Presocratici, come in Palestina, uno sforzo di razionalità emerge…ma in Israele trionfa, mentre nella Grecia antica la critica dei razionalisti sarà sommersa dal riflusso delle mistiche cosmiche che vedono nell'universo un dio e negli astri sostanze divine. Il piccolo popolo ebraico ha totalmente desacralizzato la natura (questo è molto originale perché i popoli dell'antico Oriente e i Greci professavano il contrario, la divinità dell'universo, della natura, degli astri, delle forze naturali e persino di certi uomini. Si può quindi sostenere senza paradosso che è all'origine del razionalismo moderno, poiché le scienze sperimentali dell'universo e della natura poggiano sul principio che niente nella nostra esperienza è divino.
Se ora consideriamo l'apporto del pensiero biblico nel suo insieme, se tentiamo un bilancio, bisogna constatare che la concezione del mondo trasmessaci dagli Ebrei è razionale, se per razionale si vuole intendere quello che è conforme all'esperienza scientificamente esplorata. Gli Ebrei hanno demistificato la concezione del mondo antica; hanno desacralizzato l'universo; hanno respinto il mito dell'eterno ritorno, hanno rigettato il mito della preesistenza dell'anima e la dottrina della reincarnazione (anche se in alcune correnti mistiche l'idea sembra ritornare).
Una certa idea dell'uomo è apparsa nel mondo, è nata e ancor oggi guida quello che c'è di meglio nell'umanismo odierno. Maurras e Nietzsche hanno ragione di dire che lo spirito rivoluzionario, lo spirito di sovversione, il senso della giustizia hanno origine ebraica. Questo popolo ha respinto l'idolatria sotto tutte le sue forme, ha rigettato la pratica dei sacrifici umani, rifiuta di praticare la divinizzazione, di consultare astrologi e chiromanti, è il popolo che insegna la giustizia a favore dei poveri e degli oppressi, delle vedove, degli orfani e degli stranieri. Questo costituisce veramente una nuova umanità, un nuovo tipo d'umanità. Da quando è stato messo per scritto, dal IX o VIII secolo a. C., questo popolo ha la certezza che il mondo intero si volterà verso il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.



Dio

Come si caratterizza dunque il pensiero ebraico? Innanzitutto con una certa dottrina dell'essere, del mondo e dei suoi rapporti con l'essere che la tradizione ebraica considera come l'essere assoluto, l'essere primo, colui che non ha inizio e non avrà fine e che chiama Dio, Elohim in ebraico, oppure il tetragramma YHWH che è verosimilmente la terza persona del verbo essere e quindi si potrebbe tradurre con: Egli è, a condizione di ricordarsi che nel sistema linguistico ebraico, la forma detta “inadempiuta” indica un'azione incompiuta che si può situare nel passato, nel presente o nel futuro. Egli è, in ebraico, bisogna tradurlo quindi con: Egli era, Egli è, Egli sarà, colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente. Si ricordi, en passant, che dopo la distruzione del santuario di Gerusalemme, nel 70, la vera pronuncia del tetragramma - che il sommo sacerdote pronunciava una volta l'anno - è andata perduta, senza possibilità che sia ritrovata con certezza. In Israele il tetragramma è letto e vocalizzato Adonai, Signore; la lettura del nome come Yahvé è una ipotesi critica purtroppo non verificabile (anche se in alleluja si intravede ja), mentre è del tutto infondata la lettura Geova, ottenuta dalla presunta sovrapposizione delle vocali di Adonai alle consonanti di YHWH.
La storia come il pensiero di Israele hanno questo di particolare, che si concepiscono come caratterizzati da una scoperta, da una conoscenza: quella dell'Assoluto come essere personale, creatore e che intrattiene con Israele relazioni di tipo personale. Con Israele un fenomeno nuovo si produce: se si crede ai libri di Israele, l'Assoluto stesso si indirizza all'uomo e viene a cercare l'uomo. Una relazione di dialogo si stabilisce tra l'Assoluto e l'uomo. Costantemente dalle origini di Israele, la loro analisi della situazione storica passata, presente e futura, si fonda sulla coscienza di una relazione tra Israele e l'Assoluto. Israele ha coscienza di essere stato creato in modo speciale dal Dio vivente per una missione universale.
Questi saggi di Israele, cosa ci insegnano dell'Assoluto? Ci insegnano innanzitutto che l'Assoluto è altro dal mondo, altro da tutto il mondo sensibile, visibile e tutto quello che contiene. La relazione tra Dio e il mondo è una relazione di creazione. Questa relazione di creazione è espressa in ebraico con il verbo barà, che è riservato in tutta la Bibbia all'azione creatrice di Dio. Non solo. Tutto l'Antico Testamento ha pensato Dio, il creatore del cielo e della terra come amante. L'Antico Testamento, in verità, non fa che esprimere questo amore di Dio, amore paterno, materno, amore dell'amante, questo amore che è espresso attraverso tutte le forme dell'amore umano. Questo amore non è sentimentale. È un amore creatore, un amore infinito, un amore esigente. Dio non ha creato l'uomo perché sia un bel pupazzetto (è un'espressione di Platone nelle Leggi) né un animale soddisfatto. Dio ha creato l'uomo perché sia a sua immagine e somiglianza. Che cosa significa questo, che cosa implica, cosa esige? Se Dio è creatore, anche l'uomo deve diventarlo. Occorrerà che l'uomo si appropri di questo dono di Dio che è la creazione, l'esistenza, in modo da farla sua. In altri termini, bisognerà che consenta alla sua propria creazione acconsentendo alla vita di Dio in lui, acconsentendo a una trasformazione che farà di lui, anima vivente, un essere spirituale.
Questa esigenza creatrice non tollera che l'uomo scenda al di sotto della propria vocazione. È ciò che vuol dire la Bibbia, quando ci dice che Dio è un Dio geloso, un fuoco che divora. Dio è geloso per noi di questa vocazione, che è la nostra e non vuole che ci accontentiamo delle piccole briciole di un destino di larva. Non tollera che ci buttiamo nel nulla dell'idolatria, non tollera la vanità, l'ingiustizia, il crimine dell'uomo contro l'uomo e contro se stesso. Si noti che la conoscenza di Dio nella problematica dell'Antico Testamento non è puramente mentale, speculativa. È l'uomo intero che conosce e non solamente la “sua ragione”, intesa come una funzione separata. La conoscenza di Dio nell'Antico testamento ha un contenuto etico. La conoscenza di Dio non è possibile senza un'adesione della libertà umana. La conoscenza di Dio non esiste fuori dalla giustizia, la giustizia è conoscenza di Dio. D'altra parte, la razionalità non si raggiunge senza la conversione morale, quella che la Bibbia chiama il rinnovamento del cuore, cioè della libertà e dell'intelligenza congiunte.



Creazione

Il concetto di creazione sembra proprio che sia originario dell'ebraismo. Sembra che l'idea della creazione quale dono, per generosità, sia assente dal pensiero umano conosciuto, salvo in questo punto: nella zona ebraica o ceppo ebraico. Nessun'altra cultura antica sembra averlo partorito. È nel testo che si trova all'inizio delle nostre Bibbie (nella Genesi), nel documento che gli studiosi chiamano Codice sacerdotale, che la metafisica della creazione è espressa nella maniera più sistematica. Questa creazione è pensata ed espressa come un atto libero sovrano. La creazione è dunque pensata come un dono, come manifestazione e come espressione di bellezza e di eccellenza. L'uomo è eminentemente manifestazione dell'Assoluto, perché unico, fra tutte le creature, è creato “ad immagine e somiglianza” dell'Assoluto. La ragione della creazione (poiché ciò non è né una mancanza, né un bisogno, né un divenire della divinità), la ragione della creazione è quello che in greco si chiama l'agape di Dio. Il pensiero ebraico distingue con cura tra l'essere assoluto e il mondo fisico, afferma la realtà del mondo fisico e la realtà dell'essere assoluto, distinto dal mondo fisico. Bisogna dunque distinguere nettamente due specie di esseri: l'essere increato e l'essere creato. È l'idea di creazione. Che cosa significa in particolare?
Significa, in primo luogo, che il mondo fisico, con tutto quello che contiene, esiste obiettivamente. È proprio reale. Non è un sogno, né un'apparenza, né un'illusione (a differenza di quello che pensa molta parte del pensiero orientale, come vedremo). L'idea della creazione del mondo e degli esseri ha senso solamente se il mondo esiste realmente, esso e tutti gli esseri che racchiude. Se non sono che un'apparenza o un'illusione, la questione sparisce con loro.
In secondo luogo, significa che l'universo fisico non è l'essere assoluto e non è autosufficiente. L'universo fisico in questa tradizione è de-divinizzato, desacralizzato. Esso è, ma non è l'essere assoluto. Non è sufficiente a se stesso e per esistere ha bisogno di ricevere l'essere da Colui che, solo, può darglielo: lo stesso essere assoluto, che gli Ebrei chiamano Dio.
In terzo luogo, l'idea della creazione, nella tradizione biblica, significa che Dio, per dare l'essere al mondo, non è partito da una materia preesistente, né da un caos originario. Questo mito del caos originario, i teologi ebrei lo conoscevano molto bene e l'hanno espressamente e totalmente respinto. Notiamo che l'espressione tohou wa bohou, dal secondo versetto del primo capitolo della Genesi, non significa per niente caos originario ma semplicemente: quando Dio ha creato il cielo e la terra (cioè l'universo intero), la terra, prima che egli la coprisse di piante e di animali, non aveva nulla, era deserta, era vuota. Tohou e bohou significano appunto il deserto e il vuoto e non il caos originario delle antiche mitologie egiziane e assiro-babilonesi.
L'idea della creazione significa che l'universo non è originato dalla sostanza divina. Non è fatto con la sostanza divina. Gli esseri del mondo iniziano ad esistere, assolutamente, perché sono stati creati. L'idea di creazione implica dunque un inizio dell'essere in maniera assoluta, senza nessuna preesistenza. Inoltre la creazione del mondo e degli esseri che lo popolano non determina, non implica nessuna trasformazione in Dio né implica alcuna modificazione in Dio.
L'idea della creazione significa ancora che gli esseri che costituiscono il mondo sono creati quale dono benevolo di Dio, per un atto di generosità, di liberalità, in modo che Dio, il creatore, potrà essere chiamato “padre”, poiché egli dà la vita liberamente e per bontà. Il mondo è stato creato non per una necessità e nemmeno per una successione di tragedie. Il Dio degli Ebrei è invece pace in sé, shalom. Per questa ragione nella tradizione ebraica, la creazione fisica è sempre considerata eccellente, stupenda, meravigliosa. Al contrario nelle metafisiche dell'oriente e della Grecia antica l'accento è in genere messo sul carattere illusorio e desolante del mondo, la liberazione è vista come fuga dal mondo sensibile, la stessa esistenza sensibile è considerata come cattiva, colpevole, penosa. Nella tradizione ebraica, al contrario, l'esistenza cosmica, fisica, biologica, è considerata come giubilo. Tutti gli esseri creati esultano a causa della loro esistenza e lodano l'unico Creatore. L'esistenza è sempre considerata un bene e la non esistenza un male. L'esistenza è amata, approvata e non disprezzata. Ed è amata perché il Creatore stesso la ama e la vuole. L'esistenza degli esseri è dichiarata a più riprese molto bella e molto buona: tov in ebraico significa contemporaneamente bello e buono.
Autori come Nietzsche e altri hanno diffuso l'idea che il sentimento di colpevolezza verso il mondo sensibile e l'esistenza fisica ci vengano dalla tradizione giudeo-cristiana. Ebbene, questo è un completo controsenso. È vero proprio il contrario. Se da qualche parte nella storia del pensiero umano sono apparsi l'idea della radicale eccellenza dell'esistenza fisica, cosmica, sensibile, materiale e il giubilo dell'esistenza creata, se da qualche parte l'ottimismo fondamentale è apparso nel pensiero umano, lo è presso gli Ebrei. Confrontate con quello che insegnano l'India o l'antica Grecia e potrete constatarlo.
Un'ultima osservazione legata alla creazione. Parlando di creazione non si può non parlare del tempo. Ebbene, il pensiero ebraico biblico intende la temporalità come irreversibile. Essa rifiuta l'idea del ciclo cosmico continuo ed eterno, tipico di molte altre culture orientali. Sono gli ebrei che hanno inventato, se così può dirsi, l'idea a noi familiare del tempo suddiviso nelle tre dimensioni di passato, presente e futuro. La creazione è irreversibile e lo è, quindi, anche il tempo poiché il tempo è solo una nozione astratta per indicare il progresso della creazione, irreversibile e diretta verso un termine definitivo.



L'antropologia

La concezione dell'uomo non è meno originale della cosmologia ebraica, rispetto allo stato del pensiero umano conosciuto nell'antico oriente e anche altrove. Per gli Ebrei l'anima umana, nefesh, non è un frammento della sostanza divina perché essa è stata creata. Su questo punto il pensiero biblico si oppone ai temi, largamente diffusi in India e nella tradizione religiosa detta orfica, secondo i quali l'animo umano è una parte o una particella della divinità, particella esiliata, alienata, discesa nei corpi, nella materia. L'anima umana non è divina per natura, né per origine, non è eterna nel passato, non preesisteva nel passato, incomincia ad essere, è creata.
Nelle tradizioni orientali vi è il problema della individuazione: per quale ragione le anime, che erano l'essere assoluto, sono diventate anime singolari, particolari, individuali? La risposta è: si sono staccate dall'essere assoluto; è stata una sorta di caduta, e l'individuazione si è effettuata per ensomatosi, cioè l'anima è discesa in un corpo particolare. Invece nel pensiero biblico il problema dell'individuazione non esiste nel senso che le anime individuali sono create appunto individuali e singole: incominciano nel modo più assoluto ad esistere, nella loro singolarità, senza alcuna preesistenza. Gli esseri particolari sono creati e voluti individualmente e singolarmente, per loro stessi. Ogni essere, per quanto infimo sia, è a sé. “Dio non conta mai oltre l'uno” dice uno scrittore francese, André Frossard.
Nella tradizione ebraica, poiché esiste la distinzione ontologica tra l'essere assoluto increato e noi, esseri molteplici creati, esiste anche una relazione di possibile dialogo e una relazione d'amore che va dal Creatore increato all'essere creato e dall'essere creato al Creatore increato. Così una metafisica dell'amore non è possibile che sulla base di una metafisica della creazione, la quale riconosce la realtà dell'esistenza molteplice degli esseri creati; la considera positiva, voluta per lei stessa. Da tutto ciò derivano delle conseguenze etiche. Se l'esistenza individuale non è che un'illusione o una disgrazia, da cui è meglio liberarsi al più presto, sforzandosi di evitare il triste ciclo delle reincarnazioni, allora l'assassinio dell'uomo concreto e individuale, dell'uomo vivo, non ha molta importanza. Nessuno uccide e nessuno è ucciso. Il punto di vista ebraico è opposto. L'esistenza non è un'illusione, né una disgrazia, né il risultato di una caduta, ma una creazione positiva, come già ribadito più volte. Di conseguenza uccidere un uomo significa andare contro la creazione, nella direzione opposta alla creazione, ed è proprio questo il male, secondo gli Ebrei: la distruzione dell'essere. Per questa ragione uno dei primi comandamenti dell'etica ebraica è di non uccidere. Il rispetto dell'uomo vivo, singolare, concreto, esistente è la base dell'etica biblica.



Il problema dell'immortalità dell'anima

L'antico problema dei rapporti tra anima e corpo per l'ebraismo non ha propriamente senso perché il corpo, il corpo vivo (non ne esiste altro, perché il cadavere non è un corpo) è l'anima che informa una materia. Un corpo vivo è un'anima che posso toccare. Il corpo è una funzione dell'anima, non è un essere diverso dall'anima. Esiste in ebraico una parola, nefesh, che viene tradotta in greco psyché e in latino anima. Nella tradizione ebraica, l'anima umana è creata e non è per natura consustanziale alla divinità. L'anima, dunque, non essendo divina, alla morte non ritorna propriamente alla divinità perché non ne è mai uscita. È stata creata, è ontologicamente diversa dalla sostanza della divinità. In secondo luogo, l'anima umana non preesiste al corpo. Il pensiero ebraico non ha alcuna idea del mito orfico della preesistenza delle anime, della loro caduta nei corpi, della loro trasmigrazione di corpo in corpo. L'idea che l'esistenza dell'anima nel corpo sia una disgrazia, una catastrofe o la conseguenza di una colpa, le è totalmente estranea. L'esistenza corporea e fisica, nella tradizione ebraica, non è mai sentita come colpevole né vergognosa né impura. L'ebraismo non ha alcuna idea di un dualismo sostanziale tra anima e corpo. In ebraico non vi è neppure una parola per designare il corpo nel senso di Platone e Cartesio, come sostanza distinta dall'anima. C'è invece la parola per designare il cadavere, che non è un corpo. Questa mancanza d'un termine è significativa. Per l'ebraismo un corpo senz'anima non solo non esiste, ma non ha alcun senso. È soltanto il frutto di un errore di analisi. Quando non c'è più anima non c'è neppure corpo. C'è solo un cadavere, cioè un mucchio di polvere che si decompone.
È del tutto normale che il popolo ebreo, composto da contadini, artigiani e pastori, uomini che lavorano la materia concreta e i suoi elementi, non abbia concepito un termine per designare ciò che non esiste, cioè un corpo senz'anima. Essi avevano un termine per designare il principio della vita, nefesh, poi un termine per designare il cadavere, ma nessuno per designare il corpo distinto dall'anima. C'è però in ebraico un altro termine, basar, che è stato tradotto in greco sarx e in latino caro (carne). Si badi: non corrisponde a ciò che intendiamo noi per carne. In modo più o meno confuso noi identifichiamo carne con corpo, per noi sono la stessa cosa. Invece per l'ebreo, giustamente, non è così; basar non è affatto il corpo distinto dall'anima. Basar è la totalità umana, la totalità psicofisiologica o psicosomatica. È il biologico e lo psicologico insieme. L'ebraico basar corrisponde quindi a ciò che noi chiamiamo il vivente tutto intero.
Ciò che l'ebreo chiama “carne“ corrisponde all'uomo o agli uomini. In ebraico le funzioni o le passioni che in una antropologia dualistica vengono attribuite al corpo, sono invece attribuite a nefesh, all'anima: “Acqua fresca all'anima che arde di sete“ (Proverbi, 25,25); “Se la tua anima avrà voglia di mangiare…“(Deuteronomio, 12,20). Al contrario, le funzioni o le passioni che in un'antropologia dualista sono attribuite ordinariamente all'anima, allo psichismo, nell'antropologia ebraica sono attribuite agli organi dl corpo. “Le mie viscere trasalgono di gioia“(Proverbi, 23,16); “I miei reni esultano“(Proverbi, 23,16). “Anche durante la notte i miei reni mi ammoniscono“(Salmi, 16,7).
Come si vede, l'uomo, in ebraico, è inteso come unità psicosomatica indissolubile. Sotto questo aspetto, l'antropologia ebraica, nella sua concezione concreta, si unisce all'analisi aristotelica del De anima. Non deve perciò destare meraviglia se, in definitiva, l'antropologia cristiana posteriore, quella di San Tommaso d'Aquino ad esempio, ha preferito l'analisi aristotelica a quella platonica, per esprimere il composto umano.
L'antropologia ebraica conosce inoltre una dimensione originale che sembra assente dalla filosofia greca (salvo forse qualche testo di Aristotele sul nous). Questa dimensione è la dimensione soprannaturale, la quale appartiene alla sfera della divinità ed è radicalmente diversa da qualunque cosa creata. Essa è indicata dal termine ruach, tradotto in greco con pneuma e in latino con spiritus (la parola ruach in ebraico designa tanto lo spirito di Dio quanto lo spirito dell'uomo). Lo spirito, nel linguaggio biblico, è ciò grazie al quale possiamo entrare in relazione con Dio, creatore del mondo e delle anime. Si può ricordare, a questo riguardo, che l'opposizione paolina tra carne e spirito è appunto tra l'uomo nella sua dimensione biopsicologica e l'uomo nella sua dimensione soprannaturale. Così pure, la celebre affermazione all'inizio del Vangelo di Giovanni, “o logos sarx egéneto“ (Gv 1,1-14) vuol dire che la Parola creatrice di Dio è diventata uomo. Insomma, l'anima e il corpo sono la carne in senso biblico.
L'immortalità dell'anima, nella prospettiva ebraica (e anche cristiana) non è pacifica. Le cose sono assai più complesse. Se infatti l'anima umana non è divina per natura, non è increata, se cominciò ad esistere venti, trenta, cinquant'anni fa, come possiamo sapere se continuerà ad esistere quando avrà finito d'informare una materia per costituire il corpo che io sono? In tal caso, se l'esistenza è per se stessa un dono, come sapere se continuerà allorché avremo cessato d'informare la materia che costituisce il corpo? In altri termini, se l'anima è creata, essa non è la propria esistenza, riceve perciò la vita. È ontologicamente dipendente. Dunque come potrebbe sopravvivere alla morte? La risposta ebraica è: l'immortalità non è né un diritto né una proprietà naturale per l'anima; essa è e sarà un dono.
L'uomo è un'anima vivente: nefesh haiia. È basar, carne, cioè totalità psicosomatica. Sono due parole per designare l'uomo. La speranza giudaica, nel suo ramo farisaico, è che l'uomo vivrà dopo la morte. Il giudaismo farisaico, per quanto lo conosciamo dai testi dell'epoca, insegnava una resurrezione alla fine dei tempi, cioè i morti dovevano aspettare la resurrezione.



L'aldilà

l'Equità divina si esprime nell'intolleranza al male e nella punizione del peccato. Conformemente, la Torà fornisce un sistema di punizioni che varia secondo la gravità e l'intenzione dell'offesa. Non si parla in particolare di ricompense o di punizioni dopo la morte. È chiaro, tuttavia, che la pena del kareth (esclusione) minacciata per le offese alla religione implica un concetto di “esclusione” dalla presenza di Dio nell'aldilà (cfr. Levitico, 20, 2-3): e il concetto implica l'idea di una ricompensa all'obbedienza. La Scrittura, nondimeno, ritiene necessario gettare un velo su tutto il problema della sopravvivenza nell'oltretomba, per distogliere il popolo dal culto idolatra dei morti con il quale a quei tempi tale credenza si associava. Il giudaismo insegna comunque che esistono una gehenna, l'abisso di fuoco menzionato nella Bibbia (Isaia,30,33), e una dimora di beatitudine, il Gan Eden (il giardino di delizia), e non va oltre. I malvagi trascorreranno nella gehenna, salvo casi eccezionali, dodici mesi: dopo entreranno nel Gan Eden per godere in compagnia del giusto, secondo l'espressione rabbinica, “lo splendore della Shekinà” (Presenza divina) e la vita eterna. Il Gan Eden, d'altro canto, non è riservato esclusivamente a Israele. L'insegnamento giudaico fa dipendere la salvezza dalla retta condotta, di conseguenza tutte le nazioni sono ammesse alla beatitudine della vita futura.
Il Regno di Dio, nell'avvento messianico e nell'adempimento terreno, è solo la preparazione per il compimento del Regno nel mondo sopra-storico e soprannaturale di là da venire, un mondo che, nel linguaggio rabbinico, “mai orecchio aveva udito, né occhio aveva veduto“ (cfr. Isaia, 64, 34). Ad esso si associano le dottrine della resurrezione dei morti e del Giudizio universale, quando si paleserà la meta delle vie del Signore e quando il Suo fine si sarà adempiuto. La fede in tale adempimento è condivisa da altre religioni; ma ciò che distingue il giudaismo è l'insistere sul fatto che l'adempimento nell'Aldilà è condizionato dall'adempimento del fine divino nel contesto storico e sociale della vita quotidiana.



Significato della storia

Dio pone la liberazione in condizioni tali che umanamente parlando è disperata. Questo metodo di Dio di vincere con la debolezza, affinché Dio sia conosciuto nella sua forza, è costante in tutta la storia sacra. Questo paradosso del trionfo di ciò che è debole nel mondo da parte di un pugno di ebrei nomadi contro tutte le potenze del mondo, è per gli ebrei la dimostrazione sperimentale che Dio interviene nella storia. Il libro sacro di Israele è la raccolta degli atti e degli archivi che riferiscono un'esperienza storica operata in pieno giorno, a cielo aperto, alla faccia del mondo. Israele nasce attraverso la chiamata indirizzata ad un uomo, Abramo. Israele ha coscienza di essere stato creato specificatamente per realizzare un compito nel disegno creatore del Dio vivente e ha coscienza di vivere una storia che non si dissocia più da questo compito, da questa missione. La storia di Israele è come una lunga conoscenza sperimentale di Dio. È a questa intelligenza dell'avvenimento che ci invitano i profeti: alla lettura spirituale dell'avvenimento.
Israele non è un popolo tra altri popoli, è il germe, il disegno, l'inizio di una umanità radicalmente nuova, una seconda creazione, la creazione di una umanità capace di intendere la parola di Dio, di rispondere e di entrare in relazione personale con il Dio vivente, capace di ricevere il suo Spirito e di essere trasformata radicalmente da questo Spirito.



Etica

L’etica ebraica nasce dai Dieci Comandamenti che la tradizione vuole siano stati assegnati da Dio a Mosè sul Sinai. Dio desidera fare di Israele la nazione santa. Israele è stato scelto per rivelare l’amore che Dio porta a tutta l’umanità. L’aggettivo riferito specificamente a Dio, kadosh, santo, (gli ebrei dicono sovente Ha Kadosh, Baruch Hu cioè “il Santo, benedetto sia”) indica, nei confronti dell’uomo, una separazione da tutto ciò che contrasta col volere di Dio e nello stesso tempo una consacrazione al suo servizio.
Per quanto riguarda la morale, la santità richiede negativamente che si resista a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana, e positivamente che si obbedisca ad un’etica incentrata sul servizio del prossimo. Mentre i precetti positivi servono a coltivare la virtù e a sviluppare le più elevate qualità umane, i precetti negativi sono intesi a combattere il vizio e a reprimere tendenze ed istinti malvagi che ostacolano gli sforzi dell’uomo per conquistare la santità. In questo senso le prescrizioni hanno una carica di dinamismo morale capace di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli è parte.
A fondamento della morale troviamo l’equità e la giustizia. Nella vita quotidiana, l’equità comporta il riconoscimento di sei diritti fondamentali: il diritto di vivere, di possedere, di lavorare, di vestirsi, il diritto di asilo e infine il diritto dell’individuo (che comprende il diritto al riposo e alla libertà, come pure il divieto di odiare, vendicarsi e di serbare rancore). La giustizia deve estrinsecarsi nell’accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. E deve anche manifestarsi nella maniera di concepire i beni terreni e anche animali, il cui possesso deve considerarsi non come un diritto naturale ma come un debito con Dio. In contrasto con tutti i codici dell’antichità, come quello di Hammurabi e degli Ittiti che si basavano sulla difesa della proprietà, motivo ispiratore della Torà ebraica è la protezione della personalità. I limiti imposti al potere dimostrano quanto fortemente fossero sentiti i diritti della persona. Al padrone è proibito sfruttare gli operai (Levitico,19,13).; al creditore è proibito offendere la dignità del debitore(Deuteronomio,24.10-11); perfino lo schiavo conserva i suoi diritti di persona (Esodo,21,26-27). La Torà rifiuta ogni distinzione tra re e nobile, cittadino e schiavo, indigeno o straniero (“Ama lo straniero come te stesso”,Levitico, 19,34), essendo tutti uguali di fronte alla legge di Dio! Nel giudaismo infatti le distinzioni tra ebrei e non-ebrei sono solo di ordine religioso, mentre non esistono distinzioni sociali o politiche. La legge è uguale per tutti . E’ Dio che dà allo straniero il diritto di usufruire pienamente delle leggi locali.
Alla base di tutta l’etica giudaica, è bene ribadirlo, sta il concetto della santità individuale. Essa richiede autocontrollo: esso va esercitato non solo per evitare le cattive azioni ma anche i desideri cattivi, i quali, tendendo – quando non sono repressi – a trasformarsi in vizio, possono dar luogo a conseguenze peggiori delle cattive azioni stesse. Pericolosissimi vizi sono l’invidia, la cupidigia e l’orgoglio. Il controllo delle passioni non va però confuso con l’ascetismo. Gli ideali di un ascetismo fine a se stesso sono estranei allo spirito del giudaismo. Essenzialmente ottimista, l’ebraismo non vede nel mondo il male e non crede che la vita sia gravata da una maledizione. Questa vita è anzi bellissima e Dio vuole che l’uomo gioisca di tutte le cose belle di cui la terra è piena (“E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono-bello”, Genesi, 1,37). Né l’ebraismo ha mai considerato il corpo come cosa impura o gli appetiti umani come radicati nel male (anche per quanto riguarda il sesso, sta scritto ad esempio: ”L’uomo farà lieta la moglie che ha sposato”, Deuteronomio,24,5, e questo brano viene interpretato come dovere dell’uomo di soddisfare la moglie nei piaceri della carne, al punto che la moglie può ripudiare il marito se non è soddisfatta sessualmente!). Il corpo umano è il sacro vaso in cui si cela una scintilla divina, l’anima, e come tale bisogna conservarlo in buona salute, in buone condizioni e pulito. Trascurare il corpo e i bisogni fisici significa offendere Dio, e lavarsi ogni giorno è un dovere religioso. Non solo : si badi che astenersi da quelle cose che non sono condannate dalla legge è peccato! Una massima del Talmud dice: “L’uomo deve rendere conto nell’aldilà di tutti i piaceri leciti dai quali si sarà astenuto”(Talmud di Gerusalemme, trattato Kiddushin, 4,12). L’autocontrollo, anche se estirpa il vizio, non basta. Bisogna dunque coltivare quelle qualità positive che dando all’uomo il senso di ciò che egli deve fare e non solo di ciò che non deve fare. La prima di queste virtù consiste nell’accontentarsi, nell’essere in pace con se stessi. La contentezza scaturisce però da una consapevole fede nel divino ordinamento della vita umana, provvidenziale e benefico. Ne derivano una calma e una serenità che assumono il colore più intenso della gioia, la “gioia in Dio”. La fede in Dio comporta anche che l’uomo riconosca di dipendere da Dio e di essere insufficiente e debole senza di Lui. Ciò conduce all’umiltà, che impedisce all’uomo di inorgoglirsi per i valori e le conquiste materiali. L’amore per Dio conduce poi alla “santificazione del Nome”(Kiddush Ha Shem), che consiste in ogni atto di abnegazione, di rinuncia, di sacrificio fatto per amore di Dio e degli uomini.
Nell'ebraismo l'essere primo è un essere personale, almeno tanto personale quanto lo siamo noi. La storia della creazione è dunque quella della formazione, della genesi, del consolidamento e del compimento degli esseri personali. Si va dalla Persona alle persone. Il senso della creazione è la costituzione di persone create, capaci di prender parte alla vita dell'essere assoluto che è personale. Comune a tutta l'umanità è l'obbligo di osservare i “Sette precetti dei figli di Noè”. Tali precetti sono l'astensione da 1)l'idolatria, 2)la bestemmia, 3)l'incesto, 4)l'assassinio, 5)il furto, 6)il mangiare un arto strappato a un animale vivo, e 7)il comandamento di praticare la giustizia. Ma per il figlio di Israele il contributo deve avere più ampia portata e carattere più elevato. Da qui il rispetto dei 613 precetti, l'obbedienza alla Torà ecc.
Da creatura noi siamo invitati a diventare creatori. Dipende da noi acconsentire alla trasformazione necessaria. La nostra libertà è la sola cosa che Dio non può costringere. La libertà è il principio e il pegno del nostro destino divino. Si tratta di consentire a divenire dei e a partecipare alla vita personale ed eterna di Dio.



MAIMONIDE (Cordova, 1135-Il Cairo, 1204)

Tra i tanti filosofi ebrei del Medioevo, citerò solamente Maimonide, perché è forse il più rappresentativo. L'opera fondamentale di Mosè ben Maimoun, detto Maimonide, è la Guida dei perplessi, in cui egli cercò di conciliare rivelazione e ragione, Bibbia e filosofia. Egli inizia dimostrando l'esistenza di Dio e i suoi attributi. Dio è l'essere necessario, il quale conosce tutto, anche le cose particolari (mentre Averroè aveva sostenuto che Dio conosce solo se cose universali e necessarie), e le conosce con un unico ed immutabile atto di conoscenza. Dio ha creato il mondo con un atto di libertà creatrice e quindi il mondo non è eterno bensì ha avuto un inizio nel tempo.
Come la metafisica di Maimonide voleva salvaguardare la libertà divina, così l'antropologia cerca di salvaguardare la libertà dell'uomo. Predeterminazione divina e libertà umana sono conciliabili per quanto in un modo che ci sfugge; la provvidenza divina si esercita tenendo conto della libertà, della ragione e dei meriti dell'uomo, così da non imporre all'uomo il peso di un ordine precostituito che gli tolga la libertà. A seconda del grado di preparazione della sua anima razionale, l'uomo riceve in misura più o meno grande l'azione dell'Intelletto attivo e si solleva più o meno alla perfezione. Chi riceve l'emanazione dell'Intelletto attivo nell'anima razionale è un sapiente, che si dedica alla speculazione; chi la riceve, oltre che nell'anima razionale, anche nella facoltà immaginativa, è un profeta. La profezia rappresenta per Maimonide la perfezione più alta per l'uomo. L'immortalità, secondo Maimonide, non spetta a tutti gli uomini ma solo agli eletti. Ma non si tratta di un'immortalità singola. L'uomo non è immortale come uomo, ma solo come parte dell'Intelletto attivo; e la misura della sua immortalità è data dalla misura della sua partecipazione a tale intelletto, cioè della sua elevazione spirituale.



IL TALMUD

Il termine in ebraico significa insegnamento. Esso designa la raccolta delle discussioni degli antichi rabbini (sec. IV e V) sui testi della Mishnà. (E la Mishnà è il codice compilato da rabbi Giuda han-Nasi, alla fine del 2° sec. d. C., nel quale sono raccolte e organizzate le norme giuridiche, rituali e morali tradizionali del popolo ebraico o fissate dai rabbini in base ai testi biblici o a considerazioni di altro genere). In pratica il Talmud è quindi la Mishnà col suo commento (Ghemarà), ed in primo luogo la Mishnà di rabbi Giuda con il relativo commento. Vi sono due forme di Talmud, quello babilonese e quello di Gerusalemme. Il più noto è quello babilonese che è considerato in genere il Talmud per antonomasia.
Il pensiero talmudico ha due aspetti principali: l'esegesi giuridica (halakica), che scruta la Torà per fondare il diritto; e l'esegesi morale (haggadica) che si sforza di scoprire il suo senso spirituale, religioso o mistico. L'esegesi talmudica tuttavia non deve inventare nulla ma deve trarre tutto dalla tradizione: un ragionamento, per quanto giusto, non può mai fondare una nuova legge né abrogarne una antica. Ciò permette da un lato un rispetto quasi fanatico della lettera rivelata, ma dall'altro una stupefacente libertà di fronte al testo biblico, da cui derivano le mille sottigliezze e interpretazioni di cui hanno dato prova i vari rabbini.




LA CABBALA'

Cabbalà, che significa tradizione, è termine generale per indicare un insegnamento religioso in origine tramandato oralmente da generazione a generazione. Più in particolare, venne in uso dopo l'XI secolo ad indicare quel tipo di pensiero mistico giudaico che si diceva trasmesso dal lontano passato e fu dapprima affidato come dottrina segreta a pochi privilegiati per diventare poi, dal XIV secolo, uno studio al quale si dedicarono apertamente molti.
Caratteristico del misticismo giudaico è l'orientamento messianico. Per esso tutta la creazione è travagliata da una lotta universale per la redenzione dal male, insinuatosi in qualche modo nel mondo, e per la restaurazione di quell'armonia in cui il tutto troverà salvezza nell'avveramento del regno universale di Dio, con l'avvento messianico. In sostanza, il perno del misticismo giudaico è la concezione secondo cui l'uomo è stato creato per collaborare con Dio ed è stato dotato perciò delle capacità e dei mezzi necessari per controllare e ridurre le cose ai propri fini e a quelli della creazione. Nella misura in cui l'uomo collabora con in piano divino e contribuisce alla restaurazione dell'unità, l'anima viene ricompensata o punita nell'aldilà. Quando un giusto muore, le tre parti dell'anima si dividono: la neshamah riceve il bacio d'amore da Dio ed entra subito nell'eternità di gioia; la ruach entra nell'Eden dove si riveste del corpo che fu suo nel mondo; la nefesh rimane nella tomba dove trova finalmente riposo e pace sulla terra. Ben altra sorte è riservata al malvagio: chi non ha raggiunto la perfezione deve sperimentare l'incarnazione in un altro corpo e ripetere l'esperienza finché non hanno assolto il loro compito sulla terra. Sembra che vi sia dunque nella Cabbalà una accettazione della dottrina della metempsicosi, cioè della trasmigrazione delle anime, che era stata rifiutata nell'ebraismo tradizionale.
Nella letteratura talmudica ci sono abbondanti tracce di temi mistici. Queste dottrine erano gelosamente custodite; era proibito diffonderle nel timore di esporle ad erronee interpretazioni che potevano disseminare scetticismo ed eresia.
Una famosissima opera mistica, attribuita addirittura ad Abramo, è il Sefer Yetzirah (Libro della creazione), databile forse ai primi tempi gaonici in Babilonia. Il tema fondamentale è annunciato dall'affermazione con cui essa si apre: “Per mezzo di trentadue vie misteriose l'Eterno, il Signore degli eserciti, il Dio supremo di Israele (ecc….seguono altri attributi)… incise e stabilì il Suo nome e creò il Suo mondo”. Si spiega poi che le trentadue vie sono le ventidue lettere dell'alfabeto ebraico più le cosiddette dieci Sefiroth.Il Talmud parlava già di “dieci agenti mediante i quali Dio creò il mondo, e cioè la saggezza, l'intelligenza, la conoscenza, la forza, la potenza, l'inesorabilità, la giustizia, l'equità, l'amore, la misericordia“ (Talmud Hagigah, 12 a). Già nel Talmud si attribuiva importanza cosmica alle lettere. Comunque sia, il mondo fu chiamato ad esistere da una serie di dieci espressioni divine (Etica dei padri, 5,1), affermazione che a sua volta è solo espressione della frase del salmista: “I cieli furono fatti dalla parola del Signore e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca” (33,6). Secondo appunto il Sefer Yetzirath, le espressioni divine comprendevano tutte le lettere dell'alfabeto ebraico che, combinandosi variamente, formarono la lingua santa (l'ebraico), la lingua della creazione. Lingua e numeri, congiunti, sarebbero così gli strumenti con cui il cosmo nella sua infinita varietà di combinazioni e di manifestazioni fu chiamato a esistere da Dio.
Spogliato di tutto il suo simbolismo e delle sue formulazioni mistiche, la filosofia che è alla base del Sefer Yetzirah è la famosa teoria delle idee. Questa teoria è entrata nella storia della filosofia attraverso Platone, ma non nacque affatto con lui. Nel Sefer Yetzirah le idee sono considerate sia come modelli che come principi attivi. Le Sefiroth costituivano appunto queste idee, tanto nel senso di modelli quanto nel senso di princìpi. Inoltre, nell'esposizione dell'origine dell'universo, il Sefer Yetzirath ricorse sia al concetto di emanazione sia a quello di creazione. In tal modo tentò di armonizzare le dottrine dell'immanenza e della tracendenza divine. Più avanti nel tempo, le dieci Sefiroth furono concepite come attributi e agenti ipostatizzati della divinità.
Ad assicurare finalmente alla Cabbalà la sua posizione di preminenza nella vita religiosa giudaica fu la comparsa, avvenuta intorno al 1300, del libro dello Zohar (Splendore). L'opera, scritta in parte in aramaico e in parte in ebraico, è un'epitome (=compendio) del misticismo. Attribuita a Mosè de Leon di Granata (morto nel 1305) diventò ben presto il testo fondamentale della mistica ebraica e fu il libro che, dopo il Talmud, esercitò l'influenza più profonda sul giudaismo. Lo Zohar è scritto in forma di commento al Pentateuco, e si propone di rivelare i significati reconditi dei racconti della Bibbia e dei comandamenti divini. Le Sefiroth sono immaginate e raggruppate in modo da formare una figura umana, Adam Kadmon (uomo primordiale), in cui le qualità attive occupano la destra, e le passive la sinistra, mentre i prodotti dell'unione di ciascuna coppia di Sefiroth si situano lungo il meridiano centrale. A causa del peccato, che cominciò con l'atto di disobbedienza di Adamo, l'uomo si allontanò da Dio. Immediatamente, la perfetta unione si spezzò. La frattura significò l'apparizione del male nell'universo. Da allora la Shekinà (la presenza divina) è in esilio: invece di pervadere tutto l'universo, va ricercata qui e là, in questo o quell'individuo, in questa o quella comunità. Riunire allora la Shekinà all'En Sof, restaurare l'unità originaria: questo è il fine per cui è stato creato l'uomo. Ogni individuo è tenuto a parteciparvi mediante la comunione con Dio e la perfezione morale. Ma il più alto contributo lo reca la comunità di Israele. Questo è il compito assegnatole con la sua elezione. La Shekinà non ha mai abbandonato Israele: anche nei tempi più bui essa lo accompagna e alla fine dei tempi “il Signore sarà uno e uno sarà il suo nome” (III, 260b). Grazie a questi insegnamenti, gli ebrei hanno imparato a vedere nella loro tragedia un riflesso della tragedia cosmica in cui Dio stesso, per così dire, è coinvolto, ed hanno trovato in essi la forza per continuare ed assicurare salvezza e beatitudine a loro stessi e al mondo.



LURIA

ISACCO LURIA (1514-72), detto Ari (leone), elaborò le dottrine dello Zohar. Al centro del suo pensiero è la teoria dello Tzimtzum (contrazione), per cui la creazione sarebbe stata preceduta da una volontaria contrazione o autolimitazione dell'Infinito (En Sof) per far posto al mondo fenomenico. Nel buio vuoto che così si formò l'Infinito proiettò la Sua luce, provvedendo nello stesso tempo i “Vasi” che sarebbero serviti alle multiformi manifestazioni della creazione. Ma qualche vaso, incapace di sopportare l'empito della luce emanata dall'En Sof cedette e si ruppe. La rottura dei vasi (Shebirath hakelim) provocò un deterioramento nel mondo superiore e caos quaggiù. Invece di diffondersi uniformemente in tutto l'universo, la luce irradiata dall'Infinito si ruppe in faville che illuminarono solo alcune parti del creato, mentre altre restarono al buio, condizione che è in sé stessa un tipo di male negativo. Così luce e buio, bene e male, cominciarono a contendere per il dominio del mondo. La divina armonia era infranta e la Shekinà esiliata. Nello stesso tempo, le scintille di Luce divina attraversavano qua e là il buio, col risultato che bene e male si mescolarono talmente che non esiste male che non contenga un elemento di bene, come non esiste bene totalmente esente dal male. La confusione fu aggravata dai peccati del primo uomo. Secondo Luria, tutte le anime destinate all'umanità furono create insieme con Adamo. Quando Adamo peccò, tuttavia, furono tutte inquinate. Le varie categorie di anime si confusero; ma il turbamento non è destinato a durare: finirà con l'avvento del Messia che sarà inviato da Dio per ripristinare l'armonia originaria tra le anime dell'uomo e in tutto il cosmo. Tuttavia l'iniziativa della restaurazione dell'armonia originaria deve venire dall'uomo. Adottando la dottrina zoharica dell'emigrazione delle anime, Luria la sviluppò ulteriormente con la teoria dell'Ibbur (Impregnazione). Se un'anima, cioè, si dimostra troppo debole per il compito assegnatole sulla terra, può essere costretta a tornare alla vita terrena per impregnarsi nell'anima di un altro individuo e riceverne aiuto e compensare le sue deficienze. Inoltre, a volte un'anima più forte può essere inviata di nuovo sulla terra per aiutare un'anima più debole, nutrendola della propria sostanza come fa una madre col piccolo che porta nel ventre. Alla teoria dell'impregnazione si collega in Luria il concetto secondo cui la dispersione degli ebrei aveva lo scopo di salvare tutte le anime, perché le anime purificate degli Israeliti, unendosi con le anime degli uomini di altre razze, le liberassero dalle potenze del male

IL MIDRASH

Il termine midrash, plurale midrashim, viene dalla radice DRS, che contiene i concetti di spiegare, interpretare, indagare, sviscerare, e infatti darshanim sono coloro che si servono del midrash per indagare il testo biblico. La Casa del midrash è poi la scuola dove si approfondisce lo studio dei testi sacri. Nell'accezione divenuta comune e diffusa, il termine midrash viene quindi ad indicare un'attività di studio e di ricerca del testo biblico, eseguita con la massima attenzione, che non si limita al senso immediato e letterale ma indaga e scruta ogni possibile significato implicito: midrash quindi indica essenzialmente un metodo rabbinico di esegesi. Il termine poi per estensione indica anche altre due cose: la singola interpretazione ottenuta applicando il metodo e la raccolta di più interpretazioni (raccolta molto diluita nel tempo, che va dal IV sec. a.C al 1550 ca.).
Vi sono due tipi di midrash: uno relativo alla halakà e uno relativo alla aggadà. Il primo si riferisce alla componente legale e giuridica della tradizione; con l'altro termine, si itende praticamente tutto ciò che non è strettamente halakà e quindi ogni forma di narrazione storica, mitica, leggendaria, le espressioni post-bibliche della letteratura sapienziale, la morale, in un certo senso anche la mistica. Ma per toccare subito con mano che cosa sia concretamente il midrash, ecco qui di seguito una serie di midrashim.

Perché il mondo fu creato con la lettera Beth? Per insegnarci: come la Beth è chiusa da tutti i suoi lati, e aperta solo in avanti, così tu non sei autorizzato a indagare ciò che è in alto, in basso, in avanti e indietro, ma solo dal giorno in cui fu creato il mondo in poi. (Bereshit Rabbà,1).

Disse Rabbi Berechia: mentre il Signore stava per creare il primo uomo, previde che da lui sarebbero derivati i giusti e i peccatori e pensò: se io creo l'uomo, ne verranno i peccatori; e se non lo creo, come sorgeranno i giusti? Allora il Santo, benedetto Egli sia, allontanò da sé il pensiero dei peccatori e, unitosi all'attributo della clemenza, creò l'uomo (Bereshit Rabbà, 8).

L'uomo fu creato solo (come progenitore del genere umano) perché da ciò si deducesse che chiunque distrugge una vita umana è come se distruggesse un mondo e viceversa chi salva una vita è come se salvasse il mondo intero (Sanedrin, 37).

“Così dirai alla casa di Giacobbe ed esporrai ai figli di Israele”(Esodo, 19,3). L'espressione casa di Giacobbe significa: le donne. Il Signore disse a Mosè: alle donne annuncia i principi fondamentali, quelli che esse sono in grado di comprendere. Esporrai ai figli di Israele si riferisce agli uomini. Agli uomini, disse il Signore, esporrai minutamente tutte quelle leggi che sono in grado di comprendere. Secondo un'altra interpretazione, la Torà doveva essere esposta alle donne prima che agli uomini perché le donne sono più sollecite nell'adempimento delle mitzvot o, secondo altri, affinché si mostrassero zelanti nell'avvicinare i loro figli allo studio della Torà (Shemot Rabbà 25).



UN PENSATORE CONTEMPORANEO

MARTIN BUBER (1878-1965)

Nacque a Vienna e studiò in diverse università. Nel 1923 pubblicò una delle opere più famose, Io e tu. Nello stesso anno cominciò ad insegnare a Francoforte. Nel 1925 incontrò Franz Rosenzweig, con cui tradurrà la Bibbia (impresa che porterà a termine nel 1962). Nel 1938 si trasferisce a Gerusalemme dove rimarrà per tutto il resto della vita.
Buber ha riproposto innanzitutto la questione dell'identità ebraica. Quali sono le caratteristiche dell'ebraismo? Una prima caratteristica è la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; una seconda è la ricerca di una relazione tra morale e religione, intendendo la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi principi - unità, azione e futuro - sono i principi validi anche per l'umanità: un autentico ritorno all'ebraismo coincide per lui ad un ritorno verso la vera umanità.
Anche in filosofia Buber ha incentrato il suo pensiero sul concetto di relazione. L'uomo si può porre nei confronti del mondo con due atteggiamenti base, una relazione di io-tu oppure una relazione di io-esso. Il primo è il mondo vero e proprio della relazione, il secondo è il mondo dell'esperienza. Fare esperienza di una cosa o di una persona è inteso da Buber in senso impersonale, strumentale, oggettivo, superficiale. Mentre io-tu è la relazione fondamentale perché non esiste, per Buber, un io da solo bensì solo e sempre il rapporto io-tu, nel senso che nessun uomo è autosufficiente (“All'inizio è la relazione”, scrive Buber). Quindi se la realtà o l'essere è basilare, la coppia io-tu precede la coppia io-esso: noi ci rapportiamo al mondo, come indica l'esperienza dei primitivi e dei bambini, secondo io-tu e solo secondariamente come io-esso, soggetto-oggetto. Per cui, se la realtà vera è relazione, essa è dialogo, mentre dove non c'è relazione, dove c'è egoismo, non c'è dialogo e non c'è nemmeno realtà. Solo impegnandosi nel mondo e solo assumendo le proprie responsabilità l'uomo giunge ad un vero rapporto con sé, con gli altri e con Dio stesso.


BIBLIOGRAFIA MINIMA

N. Abbagnano, Storia della filosofia, (a cura di G.Fornero, F. Restaino, D. Antiseri), UTET, Torino 1994, vol. IV tomo 2°.
M. Buber, L'eclissi di Dio, Mondadori, Milano 1990
M. Buber, Il problema dell'uomo, LDC, Leumann (Torino) 1983
(a cura di G. Busi e E. Loewenthal), Mistica ebraica, Einaudi, Torino 1995
A. Chouraqui, La vita quotidiana degli uomini della Bibbia, Mondadori, Milano 1988
A. Chouraqui, Il pensiero ebraico, Queriniana, Brescia 1989
Epstein, Il giudaismo, Feltrinelli, Milano 1982
G. Limentani, Il midrash, Paoline Milano, 1996
A. Nangeroni, La filosofia ebraica, Xenia, Milano 2000
R. Pacifici, Midrashim, Marietti, Casale Monferrato 1986
E. Saracini, Breve storia degli ebrei e dell'antisemitismo, Mondadori, Milano 1977
C. Tresmontant, Il problema dell'anima, Paoline, Roma 1972
C. Tresmontant, L'intelligenza di fronte a Dio, Jaca Book, Milano 1981
C. Tresmontant, Cristianesimo, filosofia, scienze, Jaca Book, Milano 1983



L'INDUISMO

Sommario: Caratteristiche generali del pensiero indiano; l'induismo in generale;le feste, le cerimonie,
 i testi sacri; l'etica induista; le scuole filosofiche classiche; Ramanuja; Radhakrishnan; Aurobindo

Caratteristiche generali del pensiero indiano

Il pensiero filosofico indiano mostra una ricchezza, una sottigliezza e una varietà tali che non ha nulla da invidiare al pensiero occidentale. L'aspetto più importante del pensiero filosofico indiano è il suo carattere pratico. Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza. In che modo?
La risposta dell'India fu quella di mettere in primo piano il controllo dei desideri. Ne risulta che i filosofi indiani tendono ad insistere sull'auto-disciplina e sull'auto-controllo come prerequisiti per raggiungere una vita felice. Questo bisogno di regolare e controllare i desideri annette un'importanza fondamentale alla conoscenza di sé.

La stessa parola che indica la filosofia, è il termine darshana, che in realtà significa visione, nel senso di ciò che si riesce a vedere dopo che si è indagata la realtà suprema. Naturalmente è possibile che una visione contenga degli errori e le cose possono non essere viste come sono in effetti. Di conseguenza, il filosofo deve giustificare la sua visione fornendo le prove della sua veridicità. Ebbene, i filosofi indiani hanno sempre insistito che la pratica è la vera prova della verità. Le visioni filosofiche devono essere messe in pratica e e la vita deve essere vissuta in conformità con gli ideali di quella particolare concezione. La qualità della vita che è vissuta in conformità con questi ideali costituisce la prova finale di qualsiasi concezione. Migliore diventa la vita, più prossima alla verità totale è la visione.
La visione che rende possibile una vita liberata dalla sofferenza, è giustamente chiamata una vera filosofia. Per cui non ha senso, nel pensiero indiano, dire ad es. “Buona in teoria,ma non in pratica”. Buona in teoria, significa, necessariamente, per il pensiero indiano, anche buona in pratica. Se una teoria non può essere messa in pratica in essa c'è qualcosa di sbagliato. L'identificazione della via verso la vita felice con la visione della vita felice stessa, in India, è il fattore di integrazione tra la filosofia e la religione.
Filosofia e religione non sono considerate due attività separate. L'insistenza indiana sulla pratica come banco di prova della verità filosofica ebbe anche un altro effetto, quello di porre l'accento sull'approccio introspettivo. Per vincere la sofferenza il filosofo deve guardare dentro se stesso, nella propria vita, e valutare ciò che vi andava accadendo. Era necessario osservarne i cambiamenti e darne una valutazione affinché l'individuo potesse proseguire nella propria auto-analisi.

In filosofia la verità dipende dal soggetto umano, e l'esperienza di un altro può essere conosciuta soltanto come un oggetto. Di conseguenza non si può rifiutare l'esperienza altrui come insoddisfacente o inadeguata. Il riconoscimento di ciò ha portato ad un atteggiamento tollerante e sintetico che viene comunemente espresso dicendo che, sebbene non ci possa essere una visione, in se stessa, assolutamente vera e completa, nondimeno ogni visione contiene almeno dei barlumi di verità, e tenendo conto dei punti di vista e dell'esperienza delle varie visioni, si arriva ad ottenere la verità assoluta ed una visione totale.

Oltre a questi aspetti che sono frutto del suo orientamento pratico, nel pensiero indiano c'è una diffusa tendenza a presupporre una giustizia morale universale. Il mondo è visto come una grande rappresentazione morale governata dalla giustizia. Qualsiasi cosa, buona o cattiva o indifferente, è guadagnata e meritata. L'effetto di questo atteggiamento è quello di rendere l'uomo stesso direttamente responsabile della sua condizione umana. In quanto individuo, è responsabile di ciò che è e di quello che diventa. Ne pensiero filosofico indiano c'è anche un consenso piuttosto esteso nei riguardi del non-attaccamento. La sofferenza proviene dall'attaccarsi a ciò che non si ha, o anche a ciò che non si può avere. Così il non-attaccamento è riconosciuto come il mezzo essenziale per la realizzazione della vita felice.

L'induismo in generale

Nell'Induismo l'intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l'uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno. Tutto questo è l'unica e medesima Realtà: “Tutto è Brahman” (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: “Io sono Brahman” (Brhadaranyaka Upanisad).Il Brahman è l'“Uno, senza secondo”(Chandogya Upanisad). L'io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Brahman. “Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso” (Chandogya Upanisad). E per quanto riguarda l'uomo, l'Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: “Tu sei Quello” (Tat tvam asi) (cfr. Chandogya Upanisad). Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come Maya (illusione) presso il saggio Sankara (788-820 d.C.), o venga piuttosto descritto come il gioco di Dio, lila, presso i Visnuiti, esso è l'eterna manifestazione dell'eterno esistente, il volto fenomenico dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle medesime nella loro eterna Origine.

Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l'uomo non muore con la sua morte fisica? Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato.
La risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita è la seguente: “Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso” (2,13-14).
In altre parole, l'io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman. “Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi”(Bhagavad Gita, 2, 21-23).

Com'è possibile che un uomo assuma diversi corpi? Per rispondere dobbiamo ricordare che l'induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi (i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità) gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall'eternità, per quel giorno, e l'eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della storia, così pure - a livelli più o meno elevati - egli ha sempre fluttuato tra le onde di quell'oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la Grazia della Liberazione(Moksha o Mukti) non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman. Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l'uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora.
E qui l'Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: “tu che non ti ricordi neppure che cos'eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno a Dio?”. Gettato nel mondo, l'uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite (samsara). L'uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l'Assoluto. Questo è il problema della Liberazione. Per l'Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman. Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma (azione).
L'uomo è normalmente spinto all'azione dal desiderio (kama) dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell'uomo nasce dal contatto con la realtà fenomenica e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l'azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite.
Anche se l'uomo osservasse perfettamente tutta la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l'uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l'uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: “Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare” (Bhagavad Gita, 18,66).

Ma allora Dio è per l'Induismo è personale o impersonale? Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Dio. Egli è la Persona suprema, che salva il suo fedele. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.
Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque Dio che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione.

Vi è una triplice via per la liberazione (trimarga): l'azione (karma yoga), la conoscenza (jnana yoga) e la devozione (bhakti yoga).
1) la via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;
2) la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna;
3) la via della devozione è la vera e propria essenza dell'Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. “Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto io l'ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna” (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).
Dopo il superamento di ogni concezione politeistica, l'Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di dèi del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano degli dèi, bensì aspetti manifestativi dell'unico Dio personale.

Dobbiamo anche precisare qui, perché molto nota in Occidente, che la celebre Trimurti (Brahma come creatore, Visnu come conservatore e Shiva come distruttore) è una elaborazione teologica posteriore che non riproduce reali movimenti devozionali all'interno dell'Induismo. Non esistono movimenti devozionali rivolti alla Trimurti. Inoltre essa non ha nulla a che vedere con la Trinità cristiana: non sono tre distinte persone, ma è il triplice modo di manifestarsi dell'unica sostanza divina. Insomma, quando l'Induismo parla di dèi, è solo per esprimere, attraverso essi e alle relative mitologie, i vari aspetti dell'unico ed identico Dio.
Fatta questa premessa, si può parlare degli dèi dell'Induismo, che sono molti. Shiva rappresenta l'aspetto paterno di Dio, ma è anche distruttore e ricreatore di tutte le cose. La sua shakti (l'energia eterna di Dio) è anche vista come Kali, dea della distruzione (ma poiché distrugge anche i demoni, è anche dea della protezione). Vishnu è l'immagine di Dio che ha forse il culto maggiore perché è legata alla sue numerose incarnazioni o discese (avatar), alcune delle quali, come Krsna e Rama, sono universalmente popolari. E poi vi è Ganesha, col corpo umano e la testa di elefante, figlio di Shiva, dio della conoscenza e della liberazione; Karttikeya, anche lui figlio di Shiva, dio del coraggio e della potenza; Hanuman, in forma di scimmia, personificazione della fedeltà, alleato di Rama; Agni, dio del fuoco, invocato nei sacrifici. Manasha, regina dei serpenti (naga) ecc.

I testi sacri. Sono divisi in due categorie: i testi uditi o della rivelazione (srti), e i testi appresi o testi della tradizione (smrti).Ai primi appartengono i Veda e le Upanishad, chiamate anche Vedanta, ovvero fine dei Veda. Le smrti più note sono invece le due epiche: il Mahabharata (o grande India), che contiene nel sesto libro la Bhagavad Gita; e il Ramayana, in cui appaiono rispettivamente le due più popolari incarnazioni di Visnu, e cioè Krsna (nella Bahagavad Gita) e appunto Rama.

Le cerimonie. Anche nell'Induismo moderno rimane il rito del sacrificio (Yajna), che consiste nell'offerta alla divinità di burro fuso, cereali, talvolta anche animali e del soma (liquore estratto da un vitigno, che è una sorta di bevanda dell'immortalità, offerta in libagione agli dèi; è anche sinonimo della Luna, per la somiglianza del colore; è estratto dalla asclepias acida). Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni di portarele offerte al cospetto divino. Il rito post-vedico più comune è la puja, la cerimonia di venerazione della divinità, durante la quale una statua del dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande che però non sono consumati nel fuoco ma ridati ai fedeli; in particolari occasioni l'immagine del dio è portata in processione fuori del tempio. La forma normale della preghiera è la japa, che consiste nella recitazione e ripetizione di mantra, ossia parole e formule sacre. Il mantra più importante è la ripetizione del suono Om o Aum, che indica il Brahman. Ci sono poi ovviamente riti particolari per i diversi stadi della vita: nascita, ammissione ai doveri della propria casta, matrimonio, malati, defunti ecc.

Le feste. In primavera si celebra Holi: la festa coincide con la luna piena del mese di Phalguna (febbraio-marzo). È appunto celebrata con la holi, una mistura di acqua, calce e altro che i fedeli si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa con la venerazione soprattutto di Krsna. In autunno c'è la festa di Dashara, nei primi dieci giorni del mese di Ashvina (settembre-ottobre). In essa viene onorata la shakti di Shiva (cioè Durga o Kali), ed è cara ai Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono anche i Visnuiti perché si celebra la vittoria di Rama sul demone Ravana e la liberazione di Sita, sposa di Rama.
A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare, ed in particolare è celebrato il 14 del mese di Magha (gennaio-febbraio), detto la notte di Shiva.



L'etica induista in generale

Nell'Induismo in generale la morale mantiene il suo carattere distaccato di mezzo e di purificazione (non è, come vedremo, come quella buddhista, in cui conta anche la partecipazione, la compassione, l'amore). Propedeutica della vera conoscenza, trascura le esigenze della vita associata o non vi insiste; ha di mira non i rapporti dell'uomo con la comunità ma dell'uomo con l'assoluto, è pertanto ascetica piuttosto che morale. La morale si riduce ad un conflitto tra i desiderio, cioè il richiamo della vita, e la saggezza, cioè il superamento della vita. Quindi le proibizioni prevalgono sulle ingiunzioni; il peccato interessa più della virtù, e per peccato si intende il prevalere dell'istinto e dell'ignoranza. Nella Bhagavad Gita precetti morali e ingiunzioni religiose sono ancora congiunti.
La vita viene considerata dagli indiani duplice, come sotto una doppia luce. Da un punto di vista relativo, convenzionale, la società è divisa in caste e l'uomo è sottomesso a regole e doveri diversi a seconda dell'età. Ogni uomo passa per quattro momenti: la giovinezza, quando la continenza dei sensi è d'obbligo; l'età matura, quando col matrimonio e l'operosità attiva si assicura la continuità della famiglia e si assolve il dovere verso gli antenati; la rinuncia, quando giunge la vecchiaia; in ultimo lo stato di vanaprastha,il ritiro nella selva, in un completo distacco nell'attesa della morte.
Ma oltre questa vita, vi è l'altro piano, il piano al di là del samsara, lo stato del Brahman, l'isolamento definitivo dell'anima da ogni contatto o suggestione dai vincoli della materia. Questo stato si consegue non con l'azione ma con la cessazione dell'azione.
Ogni nostra attività deve quindi essere volta al supremo bene(naihsreyas), che coincide con l'arresto e il superamento del samsara. Perciò l'attenzione è tutta portata non tanto sui doveri umani quanto sulla ricerca della conoscenza che conduce all'arresto definitivo della vita. Il bene compiuto e io rispetto delle regole religiose sono certo preferibili al male, ma ci legano comunque all'esistenza, il loro frutto è perituro, limitato nel tempo. Non l'azione dunque, ma lo yoga, l'ascesi, agevolata e preparata dallo yoga, la gnosi, la conoscenza, il superamento del bene e del male.
Ecco perché anche l'azione meritoria dev'essere disinteressata, non la deve accompagnare nessun pensiero di ricompensa futura.
Ma come si fa a predicare la rinuncia quando la vita stessa con le sue richieste implacabili ci getta in braccio al peccato? Non c'è dunque conflitto tra le ingiunzioni della religione e della mistica ed i doveri sociali? Fu il problema che si pose e cercò di risolvere il Bhagavad Gita. La risposta di Krna ad Arjuna è: l'atman che abita in fondo a ciascun uomo, amico o nemico che sia, è uguale in tutti. Colpendo i corpi, privando della vita i propri nemici, Arjuna non commette peccato perché egli è un guerriero e ciascuno deve assolvere i propri doveri, fissati dalla nascita. Peccherebbe invece non già uccidendo i nemici ma abbandonando il campo, perché questo sarebbe viltà e coprirebbe di vergogna sé e la sua famiglia. Ciò che occorre è compiere il proprio dovere. L'azione non si può evitare, visto che la vita stessa è incessante azione, ma bisogna stare attenti ad agire senza desiderio od odio, senza che le passioni ne siano il nascosto movente.



Scuole filosofiche classiche

GIAINISMO (o JAINISMO)

Il Giainismo deriva il nome dal suo fondatore, Mahavira (morto nel 476 a.C.), che fu chiamato Jina, (il vittorioso), con un appellativo che non è proprio solo di lui ma di tutti quelli che hanno superato il mondo e vinto le passioni, come ad es. Buddha.
La filosofia giainista è una sorta di pluralismo dualista. Da un lato c'è l'anima, dall'altro la materia. Le anime, le forze vitali (jiva) sono infinite e pervadono la materia ed i corpi. In noi è presente una tendenza innata alla perfezione, anche se è offuscata dalla materia. Per cui vi sono due tipi di anime: quelle legate al samsara, e quelle libere (kevalin), che sono diventate pura coscienza e pura luce.


LE SCUOLE MATERIALISTICHE
Le scuole materialistiche sono chiamate con vari nomi: Charvaka, Lokayatika, Nastika. Esse negano il karma, la responsabilità morale come causa della ricompensa o dell'espiazione in un'altra esistenza. Molti indirizzi erano arrivati alla conclusione che il karma non esiste, che l'azione buona o cattiva non porta frutto di cui poi l'uomo debba godere o soffrire. Alcuni affermavano che la vita è retta dal destino. Gli ajivika, per esempio, che riconoscevano come loro maestro Makhali Gosala, ammettevano l'esistenza dell'anima, ed erano dell'opinione che il ciclo del samsara si svolgesse per 84 milioni di eoni, dopo di che la liberazione poteva essere raggiunta indipendentemente dal karma, perché tutto ciò che avviene si svolge per opera del destino (niyati).
Altri affermavano che ogni avvenimento è dovuto all'impulso della natura propria delle cose in virtù di un automatismo del loro essere stesso o alla maturazione del tempo. Altri, infine, negavano l'esistenza del bene e del male, e non ammettevano che un cieco impulso vitale: alcune correnti si riducevano ad un semplice edonismo senza pretese speculative. Il che indica quanto complessi e vari fossero gli indirizzi della speculazione induista.



IL SANKHYA E LO YOGA

I due sistemi sono in genere considerati insieme perché hanno molte dottrine comuni, tranne il fatto che alcune correnti del Sankhya non ammettono l'esistenza di Dio mentre lo Yoga la postula. L'esposizione più antica del Sankhya è l'opera di Isvarakrsna intitolata Sankhyakarika(4°-5° secolo d.C.) in 72 versi. Invece la letteratura yoga si incentra intorno agli Yogasutra di Patanjali (2° sec. a.C.).
Sia il Sankhya che lo Yoga ammettono due sostanze opposte ma ugualmente eterne: da un lato le anime (purusha), che sono infinite e semplici, e dall'altro la prakrti,che sarebbe un po' la nostra natura o materia, unica, dinamica, complessa. Il processo cosmico o, come diremmo noi, l'evoluzione della natura o della materia è ciclico (teoria accettata da tutte o quasi le scuole dell'India) e può avvenire ovviamente in due sensi: o dall'alto verso il basso, dalla natura evoluta alle sue forme più semplici, o dal basso verso l'alto, prendendo in considerazione le forme più semplici fino ad arrivare a quelle più evolute. Le anime sono luminose, pura intelligenza, ma inattive, impassibili, non soggette né a gioia né a dolore: sono all'incirca l'io della coscienza. Le anime devono conquistarsi la liberazione definitiva attraverso l'esperienza della vita: occorre che avvenga il contatto con la materia, e quindi la conquista della consapevolezza attraverso la sofferenza vissuta, perché sia per sempre rotto l'incanto e la materia non possa più avere presa sull'anima. Fino a quanto ciò non avviene, l'anima è incatenata al fascino del materiale. Il ciclo samsarico avrà fine quando nascerà nella psiche, attraverso la conoscenza data dal Sankhya e dallo Yoga, la consapevolezza della distinzione tra l'anima (purusha) e la psiche stessa (buddhi). Essendo così eliminata l'ignoranza, la psiche (buddhi) ritorna allo stato di purezza originaria.

Lo Yoga, a differenza del Sankhya, ammette l'esistenza di un Dio come supremo regolatore del moto della natura, la quale, non essendo intelligente, non potrebbe svolgersi con la necessaria regolarità intesa alla liberazione delle anime. Dio non è creatore ma è un'anima somma, che con la sua perfezione stimola l'uomo a liberarsi dai vincoli materiali. Il concetto di Dio è così passato per diversi stadi: dalla primitiva, indifferente presenza, Dio è diventato a poco a poco il Supremo signore onnipotente, Isvara. Altra differenza notevole tra Yoga e Sankhya è il fatto che la liberazione, per lo Yoga, non deriva soltanto dalla conoscenza, quanto dalla rigida disciplina ascetica. Deve cioè compiersi un progressivo svuotamento dell'individuo: astensione dall'offesa ad ogni creatura vivente, rispetto della verità, desistenza dal furto sia pensato che eseguito, rifiuto di possedere ogni cosa che non serva al puro sostentamento, purezza di spirito e di corpo, indifferenza a tutto ciò che può succedere, ascetismo, studio dei testi sacri e devozione verso Dio. Si prescrive quindi l'uso di posture convenienti alla meditazione, il controllo del respiro (pranayama),che è premessa essenziale per il controllo del pensiero e la sottrazione dei sensi da ogni influsso dei propri oggetti, in modo che la loro funzione sia ridotta a semplice percezione senza partecipazione dell'io (pratyahara). Alla fine vi sarà lo stato supremo in cui è raggiunto l'arresto delle funzioni mentali (nirodha-samadi o asamprajnata).



NYAYA E VAISESIKA

Anche questi due sistemi sono stati tradizionalmente abbinati, anche se hanno fondamenti diversi. Il Nyaya è, almeno alle origini, prevalentemente un sistema di logica che aiuta a motivare le proprie opinioni; solo in seguito diventerà un sistema metafisico. Il Vaisesika si occupa di classificare i dati dell'esperienza e di ridurli ad alcune categorie fondamentali, e quindi propone una teoria atomica che indaga la natura degli atomi, della loro combinazione e degli elementi che ne derivano. I testi canonici sono i Vaisesikasutra attribuiti ad un brahmano chiamato Kanada, redatti verso il 1° o 2° secolo d.C; i Nyayasutra, attribuiti ad Aksapada, nel 3° secolo.
Secondo il Vaisesika, tutto ciò che si percepisce è reale. Le cose esistono indipendentemente dal fatto che noi le percepiamo. Il mondo è eterno ed è il risultato di una combinazione di atomi in continuo movimento. Dio non è creatore ma è la causa efficiente dell'universo e il regolatore del karma. Quando avviene la liberazione, l'anima tornerà nella sua essenziale immobilità, inattività e inconsapevolezza, distaccata dal mutevole mondo terreno.
Lo scopo del Nyaya è la conoscenza della realtà conoscibile attraverso quattro mezzi appropriati: percezione, inferenza, analogia o comparazione, testimonianza autorevole. Per cui conoscenza vera è quella che non sarà mai soggetta a contraddizione o dubbio, che riproduce l'oggetto come realmente è, e ci presenta insomma in maniera fedele un oggetto qualunque. Questa soltanto è conoscenza, ed è da distinguere dal ricordo, dal dubbio, dal ragionamento puramente ipotetico.


LA MIMAMSA

Questo sistema si riallaccia ai Veda. I primi Mimansasutra sono stati redatti tra il 200 a.C. e il 200 d.C. Pensatori famosi di questa corrente furono Kumarila e Prabhakara (entrambi del 7°-8° sec. d.C.) e Khandanadevamisra( 16°-17° sec.). Il karma domina sovrano, inteso non solo come atto morale, ma soprattutto in senso rituale, come atto liturgico: l'universo e l'uomo sono retti dal sacrificio. Da ciascun momento del rito, quando esso sia compiuto secondo le regola, si sprigiona un risultato parziale, che sommandosi con gli altri risultati parziali dell'atto sacrificale, si trasforma in un risultato complessivo e globale. Il rito conduce al proprio fine in maniera puramente meccanica. Tale sistema non ammette nell'ordinamento dell'universo nessun intervento divino, per il fatto stesso che un Dio creatore e distruttore dell'universo non esiste. La Mimamsa accetta una concezione realistica dell'universo: le cose che cadono sotto i nostri sensi sono reali. Al di là della materia, esistono innumerevoli anime, che sono eterne, le quali trasmigrano di corpo in corpo per scontare i risultati delle azioni compiute, fino a quando l'atto sacrificale non abbia eliminato del tutto il residuo karmico. Rinuncia e devozione non servono a nulla: soltanto il rito cancella il karma e separa l'anima dal corpo, interrompendo il ciclo samsarico. La liberazione consiste nella interruzione del processo karmico volto sia al male che al bene, perché anche il bene fatto con la speranza di ricompense, in questa o nell'altra vita, mantiene sempre legati all'esistenza e al samsara. La Mimamsa resta dunque soprattutto una severa ed austera disciplina ed una teoria sacrificale precisa, minuta e cavillosa. Ma come si può essere certi che l'atto sacrificale abbia tanta infallibile efficacia? I mimansaka (seguaci del Mimansa) poggiano la loro certezza sui Veda, considerati come la massima inconfutabile autorità. I Veda sono eterni.



IL VEDANTA DI SHANKARA

Shankara (788-820) muove dall'assoluto e a quello contrappone lo stesso mondo dell'esperienza quotidiana come il non-essere illusione (maya), ignoranza (avidya). Nella rivelazione delle Upanishad, dice in sostanza Sankara, è contenuta intera la verità. La ragione non serve a scoprire la verità ma a dimostrare la legittimità di quella rivelazione e la coerenza logica delle sue osservazioni. Egli vuole così opporsi alle teorie del giainismo e del buddhismo.
Siccome l'io assoluto (Atman e Brahman) è l'unica realtà rivelata dalle Upanishad, tutto ciò che non è questo io è un non essere, è irreale. Il rapporto tra l'assoluto e l'apparenza è illustrato da Shankara con esempi: di notte vedo luccicare qualcosa e prendo per argento quella che è invece una semplice conchiglia. Così, in virtù della maya, l'Uno mi appare molteplice, riflesso in un numero infinito di io particolari; ma essi scompaiono quando si giunge alla consapevolezza dell'unico Io. La maya è dunque una libertà magica che è presente nel Brahman come il potere di bruciare è inerente al fuoco; in virtù della maya, il Brahman nasconde la propria essenza e si proietta in una molteplicità apparente che lo fa sembrare come diverso da quello che è, cioè come mondo o come io singolo.
Commisurate alle possibilità degli uomini, esistono due forme di verità: una assoluta, riservata a pochi eletti, e l'altra relativa. La maggior parte degli uomini è ottenebrata dall'ignoranza per cui vive nella convinzione della realtà del mondo fenomenico, retto da un Dio personale. Al contrario, per colui che è giunto alla percezione dell'unica autentica realtà né i riti, né le opere buone, né adorazione di una divinità particolare hanno più valore; però, questi atti, uniti all'osservanza dei precetti morali e sociali insegnati nei Veda, sono efficaci affinché coloro che sono ancora nell'errore possano risalire, nel corso delle esistenze, ad un grado tale di perfezione tale da raggiungere la verità assoluta e con essa la definitiva liberazione. Giustificando in tal modo da un lato le tradizioni antiche e ponendo dall'altro le basi per un misticismo religioso intellettualmente elevato, Shankara è stato in grado di soddisfare i bisogni religiosi tanto dell'uomo colto che dell'ignorante: di qui la straordinaria fortuna della sua dottrina e l'unanime stima goduta dalla sua persona.



RAMANUJA
Ramanuja (1017-1137, vissuto secondo la tradizione ben 120 anni!), è il fondatore di un altro famoso indirizzo nella filosofia indiana, la scuola del Visistadvaita (monismo differenziato). Partendo anch'egli dalle Upanishad, elabora un sistema teistico: Dio ha creato il mondo lo crea traendolo da sé. Infatti in Lui c'è tutto, sia spirito che materia. Il mondo quindi è parte di Lui ed è dunque reale, non è solo un'apparenza (come diceva Shankara) e costituisce il corpo di Dio, il quale è immanente in tutto l'universo ma, nello stesso tempo, lo trascende. Tra Dio da una parte e le anime individuali ed il mondo dall'altra, c'è lo stesso rapporto che c'è tra l'anima e il corpo umano: come i difetti del corpo non sono i difetti dell'anima, così le nostre imperfezioni e quelle del mondo non sono le imperfezioni di Dio. La via che conduce alla liberazione è il bhakti-yoga, o via della devozione, che consiste nell'abbandono del fedele al Signore. Conseguendo la liberazione, l'anima del fedele si unisce a Dio (Vishnu), rimanendo però da Lui distinta e conservando la propria personalità.



Pensatori contemporanei



RADHAKRISHNAN (1888-1975)

Sarvepalli Radhakrishnan, che è stato anche presidente dell'India, è autore di moltissimi articoli e dozzine di libri di filosofia. IN primo luogo egli non ritiene contraddittorio che un filosofo partecipi attivamente agli affari politici e sociali, poiché questi sono apparenze del Brahman e sono quindi dei mezzi da utilizzarsi nello sforzo di raggiungere l'esperienza della realtà suprema. La filosofia di Radhakhrisnan è stata dunque un tentativo di elaborare una esauriente filosofia della religione. Il compito della filosofia della religione com'è intesa da lui è quello di sviluppare una teoria sulle natura delle cose nel mondo che possa rivelare le relazioni tra il mondo, l'anima e Dio. La teoria deve spiegare i fatti dell'esperienza religiosa e nello stesso tempo ammettere la ragione: in altre parole, ammessa la coerenza razionale, la teoria deve avere le sue basi nell'esperienza religiosa stessa. Per Radhakhrisnan la teologia, il dogma, il rituale, le altre varie istituzioni sono le eterne trappole della religione, non la sua essenza. L'essenza della religione è invece il tentativo di scoprire le possibilità ideali della vita umana. Questa ricerca è personale e coinvolge necessariamente l'intera persona. La religione include quindi la sensazione, la ragione, la volontà e va ancora oltre tutto questo verso il centro più profondo della persona, dov'è la vera sorgente dell'uomo e, integrando queste facoltà, le guida per trasformare la vita della persona in qualcosa di completo e di integro. Questo sé interiore è descritto come Spirito, e la sostanza e l'essenza della religione è l'esperienza della vita dello Spirito. Così come cambiano le forme della cultura e della civiltà, debbono mutare anche le forme di religione, in modo da poter manifestare adeguatamente l'esperienza dell'incontro spirituale. Se nell'esperienza religiosa viene coinvolta tutta la persona, essa è radicalmente da qualunque altra esperienza l'uomo possa fare. In questo senso, le distinzioni che normalmente si fanno tra soggetto e oggetto e tra una facoltà e l'altra, sono abbandonate per affermare che nell'esperienza religiosa il soggetto e l'oggetto si fondono divenendo un'unità. Ma quando è abbandonata la distinzione tra soggetto e oggetto sono abbandonate anche tutte le altre consuete distinzioni presupposte dal pensiero. Passato, presente e futuro diventano pure astrazioni, prive di realtà. C'è soltanto l'adesso, privo di dimensioni ed il qui, senza collocazione.
L'intento fondamentale della religione consiste nell'aiutare l'individuo a rendersi conto che può elevarsi oltre i limiti imposti dalla materia, dalla vita o dalla coscienza, fino a capire che nel suo essere più profondo egli è identico con lo Spirito Assoluto ed è in verità completamente libero dalle limitazioni inerenti all'identificazione con un particolare modo o funzione dello Spirito. Tutto ciò è possibile soltanto per mezzo di un'attività pratica, un'attività dell'essere piuttosto che della conoscenza. È la realizzazione spirituale dell'insegnamento di Uddalaka a suo figlio Shetaketu: “Tu sei quello”.



AUROBINDO (1872-1950)

Per Sri Aurobindo il grande problema del giorno d'oggi è la trasformazione dell'uomo attuale nel grande essere spirituale che potenzialmente è. La vita divina è per Aurobindo la vita vissuta nella piena realizzazione del Brahman, e lo yoga è il mezzo per questa vita. Lo yoga dev'essere praticato come mezzo per cambiare la condizione attuale dell'umanità. Il Brahman ha dato origine all'universo senza alcuna ragione, traendolo semplicemente fuori dalla pura esuberanza del suo essere. L'universo esiste perciò come gioco di pura esistenza. Ma non è un gioco capriccioso, poiché è diretto dall'Assoluto. L'evoluzione dell'universo verso forme sempre più alte di vita e di coscienza è così un ritorno verso la fonte di ogni cosa, verso il Brahman. La tendenza dell'esistenza umana è quella di spingersi verso livelli superiori di esistenza: per fare ciò viene in aiuto lo yoga, che comprende però ogni cosa e non è riducibile a mera ascesi fisica. Per questo ci vogliono anche condizioni materiali e sociali che permetteranno all'uomo di arrivare oltre se stesso, elevando la sua esistenza fino alla vita divina. Perciò devono essere instaurate e garantite la giustizia e la libertà della società come condizioni necessarie per la superiore evoluzione dell'uomo.


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Il Mahabharata, ed. it. TEA
Bhagavad Gita, ed. UTET
Koller, Le filosofie orientali, Ubaldini, Roma 1971
Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Roma-Bari 1987
AA.VV., Le grandi religioni del mondo, Paoline, Roma 1976
AA.VV., Enciclopedia filosofica, a cura del Centro di Studi filosofici di Gallarate,
Le Lettere, Lucarini, Firenze 1982.
Stefano Piano ha curato per le edizioni Paoline una edizione della Bhagavad Gita (1994)
S. Piano, Enciclopedia dello yoga, Promolibri 1999 



IL PENSIERO ISLAMICO

Sommario: Caratteristiche generali del pensiero islamico; dalle origini al Medioevo; Al Kindi; Al Razi; I fratelli della purità; Al Farabi; Avicenna; Al Gazali; Averroè; il mondo contemporaneo; il Sufismo

Caratteristiche generali del pensiero islamico

“Nell'Islàm nulla conta l'uomo, sia pure il suo Profeta, di fronte alla assoluta sovranità eterna di Dio, al quale egli deve darsi, abbandonarsi. Assoluta è la distanza abissale fra Dio e uomo. Dio è il Signore, l'uomo lo schiavo. In questa religione Dio è liberissimo ed arbitrario. Accanto a questa adogmaticità assoluta, vi sono soltanto semplici istruzioni normative e organizzative per questo mondo. Il sistema appare semplice ed adatto al primitivo ambiente sedentario, o beduino che fosse, d'Arabia: un elementare sistema di tassazione, una preghiera canonica da ripetere con facili gesti rituali cinque volte al giorno, assenza di sacerdozio, di sacramenti e di veri e propri templi, ma anche facilmente corrompibile di fronte alle nuove esigenze venute con l'incontrollata e riuscita espansione islamica dalla Spagna all'India in soli 100 anni dalla morte del suo profeta” (cfr. C. Baffioni, Storia della filosofia islamica, Mondadori, Milano 1991, p.5).

Alla base della cultura degli arabi si trova un sostrato semitico. La forma mentis degli arabi, modificata dai contatti con gli ambienti circostanti ebraico, cristiano, gnostico ecc., fu fissata nel Corano da Maometto. La forma di pensiero prettamente semitica si contrappone a quella occidentale nelle sue diverse manifestazioni. Essa è caratterizzata dall'associazione degli opposti, a volte anche dei simili, mentre quella occidentale è segnata dalla gradazione, dal passaggio successivo, senza salti bruschi, da uno stadio di pensiero ad un altro. Il parallelismo ebraico, la paremiologia (=studio dei proverbi) ebraica ed araba sono espressioni di questa forma mentis. Il ragionamento semitico, piuttosto che di deduzione, è fatto di giustapposizione ovvero contrapposizione, di diversi aspetti dell'oggetto: sono assenti da esso le sfumature. L'avvento dell'Islàm ha per così dire canonizzato tale atteggiamento: contrasto fra Dio e le creature, fra questo mondo e l'aldilà, fra l'uomo e la donna, fra il principe e il popolo. Nello stato islamico, senza gerarchia né ingranaggi, i governatori, investiti per la semplice volontà del califfo, potevano ad ogni momento cadere in disgrazia; così essi erano gelosi della loro autorità sommamente instabile, fino a contrapporla spesso a quella del califfo, ciò che dava luogo a frequenti rivolte e spiega in parte la mancanza di continuità e l'incessante frantumarsi dell'impero islamico. Maometto, uomo d'azione in primo luogo, pieno dell'idea dell'unità del popolo arabo sotto un Dio unico, era poco incline alle sottigliezze speculative. Soltanto in epoca posteriore la tradizione musulmana (hadith) mise in bocca a lui e a suo genero, il quarto califfo, Ali, motti che riguardano la scienza e persino la filosofia. Appena l'Islàm nascente entrò in contatti con i popoli orientali di una cultura secolare evoluta, provò il bisogno di difendere le sue posizioni.



Dalle origini al Medioevo

Generalmente si sconsiglia al musulmano normale di interessarsi di teologia, mentre è sempre consigliata la precisa aderenza al precetto della legge. La ragione di ciò sta, in sostanza, nell'impossibilità di ragionare su un Dio come quello islamico, per la sua estrema "personalità" arbitraria, per la sua estrema libertà, che nulla deve garantire alla logica umana. Egli, attraverso il Profeta dell'Islam, fonda uno stato universale e dà particolare importanza a quello che il credente deve fare su questa terra per realizzare il piano divino. L'unica cosa concreta di cui l'uomo debba interessarsi, rispetto a Dio, è la giusta esecuzione dei suoi ordini per la conquista ordinata dei beni di questo mondo e dell'altro.
Si può ben comprendere come in un quadro siffatto la "falsafah", come in arabo si chiama la "filosofia", sia stata sostanzialmente un corpo estraneo al vero Islàm, quello tutto teso all'obbedienza al Corano e all'imitazione del pensiero e del comportamento di Maometto: il carattere religioso del pensiero islamico ne è l'aspetto distintivo, che le conferisce una assoluta coerenza. Ora, è proprio il tentativo di dare spiegazione coerente all'assoluto monoteismo divino il primo fattore che indusse i musulmani all'esercizio della ragione in riferimento alla divinità. Se vogliamo trovare una differenza di fondo tra la tradizione islamica e quella occidentale la possiamo vedere nel concetto di necessità: la necessità domina il mondo divino ed umano; tale è la convinzione dei grandi filosofi islamici (da notare che moltissimi sono persiani e non arabi). Al contrario, la scolastica latina cercherà di salvaguardare sia il libero arbitrio dell'uomo che la libertà creativa di Dio.


Il primo problema che sorse riguardò il Corano stesso: se sia parola creata o increata, essendo divina. I difensori della divinità del Corano costituirono il gruppo dei Mutakallimum (parlanti), dal termine kalam, che significa appunto parola. Un altro problema riguardò gli atti umani e la libertà. I primi pensatori dell'Islàm, fieramente attaccati alla lettera del Corano e sprovvisti ancora di una attrezzatura dialettica, difesero accanitamente l'assoluta onnipotenza di Dio, alla quale non può sfuggire il minimo moto dell'anima. L'assoluta onnipotenza di Dio assume presso gli ortodossi la forma di un reciso volontarismo; il creato si innova momento per momento grazie all'incessante volontà divina. E' così negato ogni tipo di causalità secondaria: quella che noi riteniamo essere la causalità è semplicemente la constatazione del modo abitudinario con cui Dio fa essere le cose del mondo. Ma anche se certi fenomeni sono sempre andati in una certa maniera, nulla può assicurarci che in seguito Dio non cambi i propri decreti relativamente ad essi. Si noti che il problema della teodicea (giustificazione di Dio rispetto al problema del male) perde qualsiasi senso nell'ortodossia islamica.

Essendo Dio onnipotente, da Lui viene tutto, compresi gli atti dell'uomo: quando, ad es. un uomo muove la mano, Dio, che ha già creato l'uomo e la mano, crea anche il moto della mano nonché il potere che l'uomo ha di muoverla; ma Dio crea, oltre agli atti, la capacità nell'uomo di compierli, grazie alla quale egli acquisisce questi atti, rendendosene responsabile. Dio non crea il male morale, compie solo il bene; il male viene dall'uomo, anzi, il bene e il male "stanno nelle cose": è per questo che Dio ne comanda alcune e ne vieta altre.

C'è dunque una legge morale "naturale" conoscibile attraverso la ragione, e alla quale è sottoposto lo stesso Dio: Egli fa sempre il meglio per le sue creature. Sorsero così i Giabariti, campioni ad oltranza della onnipotenza divina, a scapito della libertà umana. Però, a mano a mano che l'Islàm assorbiva il pensiero greco, si fece maggiormente sentire la reazione dei Qadariti: per essi è l'uomo che dispone liberamente delle sue sorti. Dai Qadariti sorsero ben presto i primi pensatori indipendenti, che erano spiriti aperti al progresso, i quali avevano come scopo di rendere ragione della loro fede e, nello stesso tempo, di liberarla dagli eccessivi del letteralismo, che la rendeva sempre più vulnerabile. Codesti erano i Mutaziliti (o indipendenti, perché si erano appartati, separati, durante una discussione svoltasi nell'anno 35 dell'egira tra gli ortodossi e la setta dei careziti; ad essi rimase per eccellenza il nome di Mutakallimun), che furono i creatori della prima teologia speculativa.


AL KINDI (Kufa,Persia,800 ca.-Bagdad?873)

Nacque in Persia tra la fine dell'VIII e gli inizi del IX secolo. Fu probabilmente per merito suo che la filosofia passò a far parte della scienza e della cultura arabe. Al Kindi radicalizzò al massimo l'unità di Dio. Dio come causa del tutto è incausato: è assurdo anche intenderlo come autocausato perché, non essendoci nulla prima del suo essere, Dio non può neppure impartire l'essere a se stesso. Dio è il solo agente reale, la sola vera causa efficiente, cioè che crea dal nulla. Anche la regolarità degli eventi naturali fa presupporre secondo Al Kindi l'esistenza di Dio e, inversamente, ogni cosa particolare è destinata a perire se manca del suo sostegno.
In lui appare per la prima volta il principio tipico dell'aristotelismo islamico che attribuisce direttamente all'intelletto di Dio l'iniziativa del processo del conoscere nell'uomo. La filosofia è definita come la "conoscenza della realtà delle cose secondo la capacità umana"; il legame con la religione è però garantito dal fatto che la conoscenza della verità implica la conoscenza del divino. Dunque la filosofia è considerata un mezzo per accostarsi alle verità di fede, pur essendo posta ad un livello inferiore rispetto alla religione. E comunque poiché riconosce il valore cumulativo della conoscenza filosofica, egli dà credito alle scoperte dei predecessori, anche se non appartengono alla fede islamica. In tal modo, la filosofia riceve ulteriore giustificazione nell'ambito dell'Islam. Ad onta delle possibili preoccupazioni dei teologi, Al Kindi ammise una causalità secondaria, sia pure limitata al mondo sublunare. I quattro elementi invece, e le forme delle cose, sono ritenuti incorruttibili, come i corpi celesti.


AL RAZI (850-925/935)

Il medico più celebre dell'antichità dopo Galeno, costituisce la sola eccezione alla regola che vi configura la filosofia come una rilettura e una chiosa della Rivelazione in chiave razionale. Egli vede la filosofia come autonomia totale della ragione, come sola via per la verità. Per la sua filosofia s'ispirò non tanto ad Aristotele quanto a Platone e soprattutto ai naturalisti greci, integrandone le dottrine con la tradizione pitagorica ed ermetica, nonché con alcune credenze gnostiche, manichee, sabee, braminiche; anch'egli ebbe modo di costruirsi un patrimonio culturale che gli permise di elaborare teorie in ogni settore della filosofia. In etica Razi si opponeva all'eccessivo ascetismo e si faceva interprete di una rivalutazione della medietà, sulla scia di Aristotele, ma anche di Epicuro. L'aspetto più celebre della filosofia di Razi è l'ammissione di cinque principi eterni: Dio, la materia, lo spazio, il tempo e l'anima. Razi parla sì di creazione, ma non di creazione ex nihilo; Dio è incapace di creare dal nulla. Anche quando parla di creatore, pensa in realtà ad un demiurgo che, sul modello di quello del Timeo, plasma una materia preesistente. Razi rifiutò recisamente ogni possibilità di compenetrazione fra fede e ragione, legge religiosa e filosofia. Caso più unico che raro in filosofia islamica, infatti egli privilegia la ragione in quanto posseduta indistintamente da tutti gli uomini. La scienza ha un valore terapeutico rispetto all'anima, in quanto le consente di allontanarsi dal mondo materiale e di riavvicinarsi a quello da dove è venuta: per cui una volta che il processo di purificazione sarà completato, anche il mondo materiale si annullerà. Ma in attesa di questo momento, le anime individuali sono soggette a trasmigrare dall'uno all'altro corpo; ed è proprio in questo contesto che Razi ravvisò una sia pur parziale giustificazione morale dell'uccisione degli animali, per il resto da lui aspramente avversata. Se, infatti, l'uccisione degli animali feroci può essere motivata da legittima difesa, questo non vale certo per gli animali domestici: l'unico vantaggio che essi avrebbero nell'essere uccisi, sarà che la loro anima potrà, in tal modo, liberarsi dal corpo e accedere a una dimora "superiore" (come ad es. un corpo umano), avanzando così nel processo di purificazione. Molto contrastavano con le generali idee musulmane anche le idee di Razi sulla metempsicosi; e soprattutto, com'è naturale, il fatto che egli avesse posto oltre a Dio altri quattro principi eterni. D'altra parte, Razi sottopose a critica serrata tutte le religioni, che, essendo necessariamente in contraddizione fra loro, risultano contrarie all'unica autentica verità, e sono motivabili solo in forza della tradizione e dell'abitudine. Esse sono foriere solo di distruzioni e guerre e ostacolano il progresso della filosofia e della scienza: certo Platone e Aristotele o Euclide e Ippocrate furono più utili all'umanità che non gli autori dei Vangeli. Ma Razi arrivò addirittura a negare il carattere fondamentale della religione musulmana, cioè il profetismo. E se è dubbio che egli possa essere considerato ateo, però, almeno per questo aspetto, sarà stato considerato kafir dai Musulmani (si tenga presente che kafir, comunemente tradotto con "infedele", in senso proprio è colui che rifiuta la grazia concessa da Dio al profeta nel momento in cui lo rende depositario della Rivelazione). Comunque anche per il laico Razi, il massimo obiettivo intellettuale coincide con la conoscenza del creatore, ancora una volta posta in cima a un curriculum di scienze.


I FRATELLI DELLA PURITA'

La più ricca e complessa delle enciclopedie musulmana delle scienze ci è pervenuta in forma di una serie di epistole col titolo di Epistole dei fratelli puri e degli amici fedeli: è considerata la summa del sapere islamico medievale e sembra sia stata compiuta a Bassora intorno al sec. X. I fratelli della purità sposano appieno l'ideale musulmano, secondo cui il fine supremo dell'uomo è il conseguimento della felicità, sia in questo mondo che nell'altro. Quindi le Epistole sono prodighe di indicazioni sui modi di raggiungerla: sul piano fisico, su quello politico e soprattutto su quello metafisico. Il fine ultimo di ogni esperienza religiosa è separare l'anima dai vincoli della materia, e purificarla per assicurarne la vita ultraterrena nel regno della divina beatitudine. Tale purificazione può avvenire oltre che attraverso la rivelazione profetica, anche attraverso l'esercizio della ragione. In tal modo assistiamo al recupero e alla giustificazione delle singole scienze, uno studio delle quali, come abbiamo visto, era stato spesso considerato dai teologi musulmani come un veicolo di eresia e di ateismo. Per i fratelli della Purità invece le singole scienze spiegano la realtà profonda dell'universo, che è il creato; in tal modo, esse consentono di capire razionalmente i contenuti della Rivelazione e delle leggi religiose. Naturalmente è chiaro che tale esercizio della ragione dovrà andare di pari passo con i contenuti e i fini della religione.



Al-FARABI (Turkestan,870-Damasco,950-951)

Al-Farabi, meglio noto come Abu Nasr, nacque intorno all'870 e morì nel 950. Egli è noto soprattutto come logico, anzi si meritò l'appellativo di "secondo maestro", essendo il primo maestro Aristotele. Secondo al-Farabi, tutto ciò che esiste o è possibile o è necessario. Tale distinzione sarà fondamentale per tutto il pensiero arabo ed anche per la scolastica latina posteriore. La logica è per Al-Farabi l'unico mezzo per fondare un linguaggio universale in antitesi alle diverse grammatiche valide soltanto per i popoli che parlano le lingue in cui sono formulate. Al tentativo di costituzione di un linguaggio universale identificato appunto con l'arabo e destinato a sostituire le altre lingue, è poi strettamente connesso il problema del linguaggio per natura o per convenzione. Si deve ad Al Farabi anche un tentativo di elaborare sincretisticamente le filosofie di Platone e Aristotele. Di conseguenza la teoria del Motore immobile aristotelico risulta trasformata alla luce di una visione emanatistica. L'essere primo, sul modello plotiniano, è visto come oggetto di contemplazione ma anche di amore. Da questo per sovrabbondanza di essere e di perfezione, emana necessariamente, senza cioè volontà o scelta, un primo intelletto. Tutto quello che seguirà, non aggiungerà nulla alla perfezione dell'essere primo, né esso ha bisogno di alcun intermediario. Metafisica e politica sono in questo autore strettamente saldate, in quanto la politica ha come suo primo scopo quello di assicurare la somma felicità. Mentre il filosofo di Platone, dopo la rivelazione ricevuta nella caverna, ritorna tra gli uomini, il saggio di Al Farabi può solo dedicarsi ad una contemplazione spirituale, e la differenza del saggio rispetto al profeta è che il primo si unisce all'intelletto agente, attraverso la speculazione razionale, e il secondo attraverso l'immaginazione.



AVICENNA (Buchara,Persia,980-Hamadan,1037)

Ibn Sina noto come Avicenna (dalla storpiatura della pronuncia ebraica in Spagna di Ibn, divenuto Aven Sina, da cui poi Avi Cenna). Avicenna è il primo pensatore musulmano che creò un sistema di pensiero completo e armonico, col quale esercitò profonda influenza sul Medioevo occidentale, e in particolare su Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. La metafisica è scienza delle entità separate, delle cause prime delle cose. In tal senso, si può considerare una "eziologia"(studio delle cause); è poi anche una "ontologia" in quanto si occupa delle determinazioni fondamentali dell'essere. Il principio della speculazione di Avicenna, come in al-Farabi, è quello della necessità dell'essere. Tutto l'essere in quanto tale è necessario; anche il cosiddetto essere possibile si contraddistingue per il fatto che esso ha necessariamente bisogno di un'altra cosa che lo faccia esistere in atto. L'origine del mondo è spiegata come un'eterna emanazione: la creazione infatti infirmerebbe l'immutabilità e la perfezione dell'Essere supremo. In quanto pensa se stesso, l'essere primo genera l'intera creazione, senza che alcun volere né intenzione o altra passione siano implicate in tale processo. Questa radicale eliminazione della contingenza dell'essere e la dottrina dell'emanazione sono i punti in cui più Avicenna si allontana dalla scolastica latina medievale. Bisogna però dire che il concetto di possibile in Avicenna ha due significati: da un lato il possibile è inteso da lui come il “non impossibile”; dall'altro lato, il possibile è una terza via tra il non impossibile ed il necessario (a differenza di Aristotele, per il quale il possibile si identificava con il non impossibile). Le connotazioni più specificamente islamiche di Avicenna si rilevano nei numerosi scritti "mistici". Per Avicenna l'essere supremo dev'essere oggetto non solo di conoscenza ma anche di amore. In tal quadro, interesse particolare ha l'itinerario dell'anima verso Dio. Un progressivo distacco dai legami materiali è condizione per il raggiungimento della felicità.
Avicenna crede nell'immortalità dell'anima pur immaginando anch'egli le anime meno perfette come soggette a numerose reincarnazioni. Nei progetti dell'autore, il nucleo della cosiddetta "filosofia orientale" avrebbe dovuto essere un'esposizione enciclopedica delle scienze filosofiche, come superamento esplicito della scienza greca (dalle stesse parole di Avicenna non si coglie il reale significato del termine "orientale": se esso indichi una corrente di pensiero antitetica a quella greca, o la filosofia vera e propria di Avicenna, orientale rispetto ai Greci, oppure, in senso più geografico, le reliquie della filosofia iranica). Va ricordato il profondo interesse di Avicenna anche per le scienze fisiche e naturali, la medicina, la linguistica e l'astronomia. Famosissimo medico, il Canone di Avicenna fu la base di sette secoli di teoria e pratica medica. Esso contiene la summa della scienza medica fino ad Avicenna come pure le sue personali rielaborazioni.



AL GAZALI (1057-1111).

Al Gazali s'impegnò nella critica della filosofia greca e del neoplatonismo. Anzi, il suo bersaglio polemico preferito fu Avicenna, vista la teoria di quel filosofo che sosteneva la necessità dell'essere. A tal fine, egli si mise a studiare profondamente la filosofia. Egli negava alla filosofia la capacità di fornire conoscenze vere intorno alla divinità e alla fede, adottando però procedimenti strettamente filosofici. Il fine primario di Al-Gazali è quello di difendere le verità di fede: egli è anzitutto teologo, anche se si impone di seguire procedimenti strettamente filosofici; e ritiene che le verità di fede debbano essere tenute per valide, a meno che non si dimostrino inconsistenti dal punto di vista logico. Invece, all'incoerenza sono appunto soggette le opinioni dei filosofi. Uno dei punti principali della speculazione gazaliana fu la sua critica al concetto di causalità secondaria. Nell'intento di accentuare al massimo il volontarismo divino, egli ridusse il rapporto causa-effetto alla semplice "abitudine" di veder determinati eventi come costantemente concomitanti con quelli che, solo per questo, ne sono considerate le cause. Non esiste in realtà alcun nesso di causalità necessaria, e la congiunzione abituale può essere infranta in ogni istante dal volere divino, che darebbe luogo così a quelli che i musulmani considerano come "miracoli". D'altra parte, Dio crea addirittura in certi uomini particolari, e cioè i profeti, la consapevolezza che tali eventi, anche se non attuali, sono però possibili. Dunque, simili uomini possono, per volere divino, anche prevedere l'avverarsi di eventi così "anomali". Gli elementi base della teologia gazaliana sono: la fede in un Dio unico, assolutamente trascendente e predicabile solo in senso negativo; l'essere supremo è del tutto diverso dal mondo da lui creato per un atto incondizionato di libera volontà. Al-Gazali distingue un "mondo del comando" e in "mondo creato": non la conoscenza ma la volontà è il fine primario dell'uomo. Fu già a causa della volontà divina che il mondo venne messo in opera; e sarà per un atto di volontà che l'uomo potrà ricongiungersi alla sua matrice originaria. Ancora, è grazie alla volontà che i valori di verità possono essere trasformati in valori morali. La conoscenza più alta è quella dell'esperienza diretta. Nella condizione mistica il mistico muore a se stesso, annullandosi in Dio. Ciò non deve intendersi come una identificazione con la divinità ma come riconoscimento dell'unità divina, coscienza che non c'è nel mondo altro essere reale a parte Dio.




AVERROE' (Cordova, Spagna,1126-Marocco,1198)

L'intento dichiarato del pensiero di Averroè è quello di chiarire il significato autentico della filosofia di Aristotele, che per lui è il termine ultimo del pensiero umano. Averroè non concepisce la filosofia in antagonismo con la religione; d'altra parte, però, la religione del filosofo non può essere quella del volgo. La religione popolare deve seguire una via semplice e narrativa che illumini e diriga l'azione; alla filosofia spetta invece il mondo della speculazione. Non gli si può quindi attribuire la dottrina della doppia verità che gli scolastici latini ritennero un caposaldo del suo sistema. Non c'è per lui una verità religiosa accanto ad una verità filosofica. La verità è una sola: il filosofo la cerca attraverso la dimostrazione necessaria, il credente la riceve dal Corano nella forma semplice e narrativa, che è adatta alla maggioranza degli uomini. Ma non c'è contrasto tra le due vie, né dualismo nella verità. La dottrina che gli scolastici latini ritennero tipica dell'averroismo è quella dell'intelletto. Per Averroè l'intelletto potenziale o materiale o ilico non è l'anima razionale umana (come invece sostenevano i filosofi arabi da al-Kindi a Ibn Tofail). L'intelletto speculativo o acquisito può invece essere detto da un lato unico e dall'altro molteplice; da un lato eterno, dall'altro generabile e corruttibile. In sé è unico ed eterno; come disposizione o preparazione dell'anima è molteplice e soggetto a nascita e morte.
Da questa dottrina scaturisce una serie di conseguenze paradossali che attirarono la vivace polemica della scolastica latina. In primo luogo, l'intelletto materiale è unico in tutti gli uomini perché è la disposizione comunicata alle loro anime dall'Intelletto agente. Su questa natura dell'intelletto si fonda il destino ultimo dell'uomo. Averroè riprende in pieno la dottrina aristotelica della superiorità della vita teoretica per l'uomo. La scienza è l'unica via della beatitudine umana: una beatitudine che si raggiunge in questa vita, mediante la pura ricerca speculativa, giacché non c'è una continuazione della vita umana al di là della morte. Sul problema dell'intelletto e sulle questioni connesse, compresa quella dell'immortalità dell'anima, Averroè è in contrasto con i suoi predecessori e specialmente con Avicenna, il quale identificava l'intelletto materiale con l'umano e riteneva l'immortalità propria della natura e del destino dell'anima umana. Ma per ciò che riguarda il rapporto tra Dio e il mondo, Averroè è d'accordo con Avicenna sulla necessità dell'essere.
La creazione è intesa da Averroè come dipendenza causale dall'essere necessario, non quindi l'inizio nel tempo, ed inoltre non ha nulla a che fare col concetto di creazione della Bibbia e del Corano. L'azione di Dio non è paragonabile a quella dell'uomo: egli regge il mondo con la sua scienza ma la scienza di Dio non ha nulla a che fare con quella umana. La sua scienza non riguarda le cose particolari, e così pure non le regge né le governa con la sua provvidenza. Dio regge il mondo secondo un ordine necessario e infallibile, ma ciò che è puramente individuale o casuale sfugge alla provvidenza come alla scienza di Dio. La stessa volontà umana è determinata: la volontà è per suo conto un agente libero, ma esplica la sua azione nel mondo che è regolato dall'ordine necessario ed eterno di Dio. Perciò il Corano parla di una infallibile predestinazione dell'uomo.



Il mondo contemporaneo


La filosofia non si limita ad avere la religione fra i suoi oggetti privilegiati, ma la considera di preferenza come il cemento di quell'unica nazione islamica (ummah) della quale auspica attivamente la rinascita, sotto la guida di un solo califfo. In secondo luogo, il mondo islamico deve fare i conti con quell'occidente che fino a pochi decenni prima era stato fra le cause non minori della sua decadenza. Esso identifica molto spesso l'Occidente col regno del materialismo e della decadenza morale, e propone l'Islam - come religione dotata di forti valenze sociali, oltre che per il suo valore strettamente spirituale - quale modello da cui l'uomo moderno potrà trovare risposta ai suoi dubbi e al suo smarrimento. Nel secolo scorso, il mondo islamico viveva in un grave e ormai generalizzato stato di decadenza, originato sia da cause interne (decadenza morale e politica dei vari stati) sia dalla sempre maggiore preponderanza dell'Europa. Altra causa di decadenza è stata individuata nella perdurante chiusura del mondo islamico (a causa di un malinteso ossequio alla fede religiosa) al progresso tecnico e scientifico dell'Occidente.
Ne sarebbero conseguiti almeno dal punto di vista degli storici occidentali, immobilismo e arretratezza sfociate in una pedissequa imitazione dell'antico, cui facevano da contraltare la negazione della scienza (come foriera di materialismo) e della filosofia (accusata di allontanare l'uomo dalla contemplazione religiosa). tutto questo, infine, avrebbe causato indifferenza per il bene sociale e dunque decadenza anche sul piano sanitario e del livello di vita.
Dobbiamo però anche sottolineare che solitamente i musulmani, a causa della diversità socio-culturale dei loro paesi, rifiutano come inadeguati tali concetti di "decadenza" e di "declino culturale". Ciò che all'europeo potrebbe apparire segno di decadenza, può essere considerato dal musulmano segno di vita spirituale; come pure viene talora obiettato che l'ideale di vita musulmano non consiste in una ipertrofica civiltà industriale, ma in una vita più semplice, donde proprio l'adozione dei modello occidentali verrebbe dai musulmani considerata fattore di "declino". Per "rinascita" si intende inizialmente il tentativo di riforma avviato al fine di conciliare il patrimonio della tradizione religiosa con le nuove condizioni di vita moderna.
La vera e propria rinascita islamica comincia poi intorno alla metà del secolo XIX. Però il più celebre dei tentativi di rinascita islamica fu quello legato al movimento dei "wahhabiti", che prendono il nome da Muhammad ibn Abd al-Wahahab, vissuto nel 1700. Egli cercò di riunire le tribù arabe sotto un'unica bandiera, cominciando con l'abbattere tutte le tombe dei "santi" (oggetto di superstiziosa venerazione). Il movimento wahhabita cercò di risvegliare gli arabi ad una nuova coscienza di sé. La nuova realtà moderna, in effetti, offriva alla discussione problemi che per loro stessa natura non avrebbero potuto esser noti ai teologi e giuristi dei secoli antichi. Bisogna dunque apprendere quattro cose: 1)la scienza, per meglio conoscere Dio e l'Islam, 2)la pratica dell'Islam, 3)la predicazione o propaganda, 4)la pazienza, in caso di persecuzioni. (il credo wahhabita è oggi la dottrina ufficiale dell'Arabia Saudita, ma anche in Yemen, Iraq, nel subcontinente indiano e in Africa, a Zanzibar).
Altro importante movimento, sorto attorno alla metà del XIX secolo, fu in Nord Africa quello della Sanusiyyah che si propone di riportare l'Islam all'originaria purezza e di favorire il progresso della società musulmana, di far rivivere la solidarietà fra i paesi musulmani e di combattere i moti imperialistici occidentali nei paesi musulmani. Nel suo tentativo di purificazione dell'Islam questo movimento si presenta come sostenitore di un rigido puritanesimo, tuttavia, a differenza di altri ordini sufi, privilegiò la ragione sulla meditazione.
Il comune obiettivo dei movimenti di rinascita islamica implica di solito una strenua resistenza alle idee, alla cultura e al sistema di vita dell'Occidente. Tuttavia tali movimenti debbono, per loro natura, la loro origine proprio al liberalismo occidentale; e nello stesso tempo si materiano proprio di quegli elementi che a suo tempo avevano costituito il "rinascimento" europeo. Ciò naturalmente non significa che il mondo islamico non abbia poi fatto uso di tali elementi in una direzione profondamente originale, se non addirittura di polemica aperta rispetto all'Occidente.
Intendiamo riferirci anzitutto all'evoluzione sociale, ve la progressiva industralizzazione venne a determinare una crescente urbanizzazione. Ora, è innegabile che il passaggio alla vita sedentaria in alternativa al nomadismo si traduca nella formazione di nuove esigenze e nuovi interessi. Così ad es. risultano determinanti le battaglie contro l'analfabetismo e la mortalità infantile; e lentamente si sviluppa una nuova classe intellettuale, composta talora anche da donne, che fa sempre più appello alla ragione (con conseguente ripresa degli studi filosofici) per soddisfare le nuove esigenze. Sono quindi di questi anni la fondazione di Scuole superiori, accademie e università. Lentamente, tutti i paesi musulmani cominciano ad avere università proprie; né bisogna sminuire l'importanza dello sviluppo delle comunicazioni e degli organi di stampa.

Il primo autentico pensatore modernista dell'Islàm fu AL AFGANI (1839-1897). Fu uno spirito rivoluzionario animato da fervente zelo religioso. Egli cercò di dimostrare il contributo della religione alla civiltà e al progresso. Ogni popolo, secondo al-Afgani, ha prosperato finché questi valori vennero salvaguardati. egli attacca il pensiero greco accusandolo di non aver sostenuto il monoteismo. Ugualmente critica i filosofi che negano l'immortalità dell'anima. La religione viene però intesa da lui come un sistema razionalistico di credenze, privo di ogni contenuto trascendente.

In Egitto MUHAMMAD ABDU (1849-19) ritiene che l'esercizio filosofico sia il fine primario dell'uomo; purtroppo, però, la filosofia è andata corrompendosi a causa dell'eccessiva considerazione per i filosofi greci e dell'interessamento per oggetti non di sua pertinenza. Abud prevede una verità attingibile dai soli eletti e una verità propria del volgo; naturalmente, sul piano morale resta obbligatorio solo ciò che è di dominio di tutti. Abdu sottolinea comunque l'esigenza di non addentrarsi, nell'esame razionale dei contenuti della rivelazione, in questioni troppo particolari (come ad es. l'esatto ruolo degli attributi rispetto all'unità di Dio), come tali non recano nessun vantaggio né alla speculazione filosofica né al progresso spirituale. Si noti che, a differenza della maggior parte dei maestri suoi contemporanei, Abdu rifiuta il panislamismo, ritenendolo un'idea più che altro chimerica, e si dedica invece a sviluppare l'aspetto morale della religione islamica. Abdu ritiene che se la funzione primaria della Rivelazione è l'edificazione morale, non ha senso cercare nel Corano risposte alle domande delle scienze. Secondo lui, è l'Oriente che deve mostrare all'Europa immersa nell'oscurità la luce della tolleranza e del razionalismo. Su questa linea, egli respinse l'accusa di fatalismo, come pure l'affermazione per cui la separazione fra potere spirituale e potere temporale sarebbe all'origine del progresso in Europa. Al contrario, l'unitarietà dell'Islàm appare al filosofo il segno della sua superiorità sul cristianesimo: l'Islàm è una religione naturale che non richiede all'uomo alcuna rinuncia sul piano fisico; la funzione dell'Islàm è stata quella di liberare i suoi seguaci dalla schiavitù del potere ecclesiastico e politico. Abdu diede grande rilievo anche agli studi sociologici, ed attribuì importanza alla società anche come strumento di elevazione morale. Base della società dev'essere l'amore: una buona società non può essere che altruistica; ciò implica, tra l'altro, la liberazione delle donne dallo stato di ignoranza e mediocrità in cui versano. La soluzione sarà appunto quella di risvegliare una coscienza universale, attraverso la pratica della ragione e della moralità, per riportare la società sulla buona strada. Abdu ha dunque una visione fondamentalmente ottimistica dell'uomo. La religione è secondo lui il modo migliore di promuovere la moralità, e perciò da far da guida alla società.




Il Sufismo

Concludo con un accenno al movimento sufi. Nello sviluppo del pensiero religioso musulmano, oltre al Corano, giocò parte importante anche il "sufismo" (o mistica musulmana: il termine sufi alluderebbe al saio di lana, o di pelo di cammello, indossato dai mistici o, con minore probabilità, potrebbe essere una trascrizione dal greco sofos, sapiente).
La tariqa (via) del sufismo si diffonde soprattutto a partire dal sec. XII. Il misticismo attecchì più in ambiente sunnita che sciita (SUNNITI, dall'arabo sunna, consuetudine, norma, indica la gran maggioranza dei musulmani, che dicono di rifarsi direttamente alle norme dettate da Maometto mentre gli SCIITI: dall'arabo shia, partito, sono i musulmani scismatici, che si rifanno ai partigiani della famiglia del quarto califfo, cugino e genero di Maometto e dei suoi discendenti [Alidi, Imamiti e Ismailiti]: la figura oggi più famosa è l'Aga Khan): infatti, proprio l'assenza di "mistero", spinse gli sciiti ad approfondire l'interpretazione allegorica piuttosto in chiave filosofica che non teologica.
Elemento fondamentale e imprescindibile del sufismo è che esso deve compiersi sotto la guida di un Maestro, che è anche l'unico depositario delle varie esperienze spirituali del mistico. Per conseguire tali esperienze - che dovevano offrirgli una visione della realtà radicalmente nuova - il sufi conduceva una vita fatta di lunghe preghiere, veglie notturne, digiuni, e ancora di meditazione, invocazione a Dio, esame di coscienza, al fine di liberarsi di ogni elemento vile presente in se stesso.
L'esperienza massima a cui il sufi aspira è l'"ascensione al cielo", che già aveva coronato l'esperienza spirituale di Maometto. Tre sono gli elementi fondamentali che ricorrono in tutti i rappresentanti del sufismo classico: la fiducia in Dio, la povertà (intesa anche e soprattutto come bisogno di Dio), la ripetizione costante della lode di Dio, accompagnata da atti di penitenza e di autoesaltazione, considerata superiore alla stessa preghiera canonica.
Altri tratti caratteristici sono l'isnad, o genealogia spirituale, creata per far risalire l'insegnamento dei maestri al Profeta o al cugino e genero Ali: vi è la gerarchia invisibile dei santi, che garantiscono la conservazione del mondo. Ai mistici sono inoltre attribuiti numerosi miracoli. Con questi e con il culto del wali, l'amico di Dio ovvero il santo, siamo ai confini tra misticismo e religiosità popolare. Vi è poi la figura del santo bellicoso ed energico, che riscatta e rinnova il popolo dei credenti, che è chiamato mahdi (il ben guidato): è una sorta di messia che rinnoverà il mondo facendo trionfare la giustizia sotto la bandiera di Allah. A questo riguardo ricordiamo ad esempio le vicende in Somalia agli inizi del Novecento (Mad Mulla, il pazzo Mulla, fu un agitatore politico somalo che si proclamò mahdi e tenne testa alle truppe inglesi e italiane fin dopo la prima guerra mondiale) e ancora prima in Sudan, ad opera di Muhammad Ahmad, che fu a capo di una rivolta contro gli Inglesi dal 1860 al 1885.


BIBLIOGRAFIA MINIMA

AA.VV., Enciclopedia filosofica, a cura del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Firenze, Le Lettere 1982, vol. 1°.
N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, Torino, Utet 1969 vol. 1°.
C. BAFFIONI, Storia della filosofia islamica, Milano, Oscar Mondadori 1991


N.B. Per quanto riguarda il pensiero islamico, desidero far presente
che non sono uno affatto specialista a riguardo: ho raccolto le notizie qui
presentate da vari libri e quindi chiedo scusa per eventuali omissioni
o altri errori.



copyright by Ernesto Riva

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