Dignità ed integrità socratica
Meglio
sarebbe suonare su di una lira scordata, che stonato fosse un coro da
me diretto, che la maggioranza degli uomini non fosse d'accordo con me, e
dicesse il contrario di quel che penso io, piuttosto che essere in
disaccordo e in contraddizione con me stesso
Gorgia
Ma
infine, Socrate, dicci in quale modo dobbiamo seppellirti?”, incalzano i
discepoli. “Come volete”, rispose. E, ridendo tranquillamente,
proseguì: “O amici, io non riesco a persuadere Critone che io sono
questo Socrate, che ora discute e ordina ogni sua argomentazione: egli
crede che io sia quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede
come deve seppellirmi. Ciò che da un pezzo vado ampiamente dicendo, cioè
che, dopo aver bevuto il veleno, non resterò più con voi, ma me ne
andrò a raggiungere la felicità dei beati, queste per lui, mi pare, non
sono che inutili parole per confortare voi e insieme me stesso. […]
Sappi, mio buon Critone, che l’inesattezza di linguaggio non solo è una
scorrettezza in se stessa, ma fa anche male alle anime. Bisogna, quindi,
aver coraggio e dire che è il mio corpo che seppellisci e seppellirlo
come ti piace e soprattutto come consideri più conforme alle usanze”
Fedone (115d-e).
Non
pretese mai di essere maestro…ma, solo mostrando il suo esempio, faceva
sperare a quanti lo frequentavano che, imitandolo, sarebbero diventati
come lui.
Senofonte
Socrate
è il filosofo che scopre l’individuo, autocosciente, dissenziente,
consapevole che, pensando con la sua testa, si pone come obiettivo
primario quello di non diventare uno strumento d’ingiustizia, piuttosto
che quello di difendere la tradizione, il tratto distintivo
dell’Antigone di Sofocle. Il nucleo centrale del suo sistema teorico è
l’idea dell’equivalenza dello status di tutti gli esseri umani. Con
Socrate si diffonde il precetto che tutti gli esseri umani hanno un
medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si
fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi
democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti
umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate
oltrepassa i confini categoriali che di solito ostacolano il
riconoscimento del nostro prossimo come un essere umano pari in dignità
rispetto a noi perché si dice certo che la condizione dell’anima ci
accomuna e con essa la ricerca della virtù e della felicità: chi sbaglia
direzione lo fa perché s’inganna, non perché sia privo della
possibilità di vivere rettamente o perché le direzioni giuste siano
molteplici – tutte le direzioni portano a destinazione, ma alcune sono
tortuose e dolorose, anche se in apparenza sembrano agevoli, altre sono
più lineari, anche se in apparenza paiono più gravose. Nel Menone
leggiamo che “Tutti gli uomini, allora, sono buoni nello stesso modo,
perché diventano buoni per le stesse cose, ma non sarebbero certo buoni
nello stesso modo, se non avessero la stessa virtù”
Socrate
è convinto che sopravvivere non sia abbastanza, occorre esserne degni e
devono essere presenti quelle precondizioni essenziali, senza le quali
la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi
ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è
peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un
confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci
sono azioni che queste persone non commetterebbero mai,
indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto
disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente,
che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci
sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus
ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno
irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della
loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe impossibile
rifiutarsi di eseguirne altri, di ancora più discutibili e riprovevoli.
Dunque ogni persona “socratica” ha un preciso dovere, quello di non
agire in contrasto con la voce della coscienza, a prescindere dai suoi
timori e dalle conseguenze che dovrà subire. L’integrità morale è più
preziosa della vita. Ma da dove proviene la voce della coscienza? È
pre-razionale, eppure non è emotiva. Nel Simposio Socrate si apparta per
ascoltare il suo daimon. Rimane immobile per ore. Lo aveva già fatto
nell’accampamento militare a Potidea, dove salvò la vita di Alcibiade.
Il daimon che interloquisce con Socrate è un istinto più profondo, che
non ha nulla in comune con la natura egoistica degli istinti basilari e
delle emozioni superficiali. È un autoesame, un’autocritica continua,
un’incessante conversazione tra sé e sé (il suo demone): si spezza in
due, osservatore ed osservato; la voce interiore della coscienza gli
impedisce di agire in certi modi.
La
soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad
ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza
ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini.
Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per
insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è
la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la
presunta sovranità popolare incarnata nel capo.
Oggi
il concetto di dignità ha subito un’evoluzione, è diventato più
sofisticato, ma si riconosce ancora la fisionomia socratica. A cosa ci
si appella quando si parla di dignità, odiernamente? Qual è la sua
rapporto con la nozione di diritti? Che cosa fonda i principi morali,
che cosa conferisce loro la forza che esercitano su di noi? Il filosofo
politico statunitense George Kateb (2011) ritiene che la dignità sia un
valore esistenziale relativo all’identità di una persona come essere
umano. Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa
trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una
creatura subumana. Il concetto di dignità può essere esteso anche alla
specie umana nel suo complesso, in virtù della sua unicità. L'essere
umano è l'unico animale indeterminato, in quanto parzialmente
non-naturale, cioè frutto dell'interazione di genoma, ambiente naturale
ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia
nell'assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è
il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi
il senso morale e di responsabilità). Non solo, la sua fondamentale
indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere
migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, insospettabile, appunto.
E poiché è imprevedibile, è anche creativo ed innovativo. L'affinamento
morale, civile, scientifico ed artistico derivano dalla porosità di
questi confini dell'umano. In altre parole, come aveva intuito Sartre,
gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni
singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o
falsa coscienza. A dispetto di tutto, la natura sarebbe impoverita se
venissimo a mancare. La specie umana è infatti solo parzialmente
naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende
la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è
la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica
che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Come Adamo, l’essere
umano può tornare ad essere il giardiniere, il guardiano e l’amico
dell’ecosfera.
Socrate
crede nell’uguaglianza degli esseri umani e perciò non crede che il
ruolo e la funzione definiscano una persona. Il potenziale di ciascuno
si può esprimere in modalità imprevedibili, specialmente se ci liberiamo
dalle catene che ci trattengono nella caverna dove tendiamo a credere
che le ombre riflesse siano la realtà. Ma questo significa che nessuno
avrebbe più diritto di altri ad essere convocato per rappresentare la
specie umana in un ipotetico congresso delle specie che popolano la
nostra galassia. Oggi si direbbe che non si può stabilire chi sia
eugeneticamente più idoneo a rappresentarci tutti. Le potenzialità della
specie non dipendono dal suo corredo genetico o configurazione
biologica; non si raggiungerà mai il punto in cui si potrà dire: ecco,
questo è il meglio che può dare l’umanità. Socrate chiede ai suoi
interlocutori di sviluppare le proprie potenzialità invece di lasciarle
latenti, di resistere alla tentazione di imitare gli altri o conformarsi
in modo irriflessivo alle usanze, mode e mentalità prevalenti,
resistere alla tentazione di fingere di essere ciò che non si è, ecc.
Socrate crede che ciascuno possieda dentro di sé una quantità illimitata
di informazioni e che domandare ad altri di rispondere ai propri
interrogativi, attendere che siano altri a fare il lavoro al posto
nostro, sminuisce e svilisce ciò che siamo, compromettendo il nostro
libero arbitrio, deteriorando la nostra forza volontà e perciò
esponendoci alla subordinazione passiva, infantile, all’altrui volere.
Socrate ripete continuamente quest’idea che non dovrebbe essere lui a
far procedere i ragionamenti, ma dovrebbe essere l’interlocutore che,
spontaneamente, lascia che il suo intelletto prenda il volo, confidando
nelle sue capacità. Per questo si definisce una levatrice. “È piuttosto
chiaro che quel che hanno imparato non l’hanno appreso da me. Le
magnifiche scoperte a cui hanno dato vita sono opera loro. A me ed al
dio devono solo il parto” (Teeteto). Recentemente pare che la ricerca
scientifica abbia confermato l’intuizione socratica. Uno studio degli
indios amazzonici che ha coinvolto il CNRS francese, il Collège de
France, tre università parigine e l’università di Harvard ha mostrato
che non è solo il postulato maieutico ad essere corretto, ma anche il
metodo dimostrativo di Socrate, che invita uno schiavo di Menone
completamente a digiuno di geometria a dimostrare il Teorema di
Pitagora: “tutti gli esseri umani potrebbero avere la capacità di
dimostrare intuizioni geometriche. Questa capacità potrebbe però
emergere solo dopo il raggiungimento dei 6, 7 anni di età. Potrebbe
essere innato oppure acquisito nell’infanzia quando i bambini diventano
consapevoli dello spazio che li circonda” (Izard et al., 2011)
La
deontologia della levatrice prescrive che l’altro non sia creta da
modellare ma un fiore che deve essere aiutato a sbocciare. Socrate si
limita a mettere in dubbio le certezze del senso comune, nella speranza
che chi dialoga con lui rifletta, analizzi ed espanda la sua conoscenza,
ossia migliori la sua vita, divenga una persona più forte, più
consapevole e più felice. Perché la felicità autentica dipende dalla
crescita spirituale e quindi dal consolidamento della conoscenza. Nel
fare tutto questo, Socrate assume per sé un unico compito, quello di
insegnare agli altri come si insegna a se stessi, ad avere fiducia in sé
e non nella volontà di una maggioranza, solo perché è una maggioranza.
Tenta di convincere il prossimo a porsi delle domande, studiarle ed
arrivare a delle risposte, autonomamente anche quando si confronta con
le prospettive altrui (alle quali non si deve subordinare passivamente),
perché è nelle sue corde farlo, se veramente lo vuole, perché le
risposte sono già dentro di lui/lei e perché una vita ben spesa è una
vita esaminata, una vita dedicata all’apprendimento, coralmente. Nel
preludio all’esecuzione, i musicisti riscaldano ed accordano gli
strumenti, suonando scale, arpeggi, o “soli”. In questa fase si deve
porre attenzione al proprio strumento se si vuole creare della buona
musica. Se invece si passa il tempo ascoltando ciò che fanno gli altri
orchestrali, non sarà possibile ricavare della musica autentica dallo
strumento che suoniamo.
Ciò
che è strumento di conoscenza è anche strumento di liberazione. Allora
il dialogo esiste solo per distruggere la falsa conoscenza. Fatto salvo
per le catastrofi naturali, i pericoli reali nel mondo nascono da dentro
noi stessi. Perciò l’autoesame e la contemplazione dello svolgersi
delle vicende umane è essenziale per la sopravvivenza della nostra
stessa specie. È fin troppo facile esaminare e giudicare il mondo
esterno. È doloroso esaminare se stessi. Per questo troppi non
cominciano neppure a farlo. Eppure l’unica maniera per capire se la
rozza mappa che stiamo usando per navigare nella vita sia almeno
vagamente utile è metterla a confronto con altre mappe. Ciò è
indispensabile perché nessun essere umano agisce direttamente nel mondo.
Ciascuno si deve prima creare una rappresentazione del mondo in cui
vive, una mappa, un modello da usare per navigare nella realtà. Questa
rappresentazione della realtà determinerà in buona misura la nostra
esperienza del mondo (percezione della natura umana, aspettative nei
confronti del prossimo, tipo di scelte che riteniamo siano disponibili
ed accettabili) e perciò anche il nostro comportamento. La coscienza è
il mezzo con cui comprendiamo il mondo. Leggiamo la natura, la società e
le motivazioni umane non come sono ma come la coscienza ci permette di
interpretarle. L’errore che generalmente commettiamo è quello di
scambiare la mappa per il territorio e di fossilizzarci su di essa,
scambiando i nostri desideri e pregiudizi per la realtà. Questa tendenza
è alla base di gran parte dei mali della nostra società. L’enorme
merito di Socrate è stato quello di aver scovato una tecnica che
consente di ovviare a questo problema, con perseveranza e pazienza.
Invece di aspettare che siano gli altri a fornirci le risposte e le
soluzioni e invece di credere di avere già in tasca le soluzioni adatte
agli altri, dobbiamo concentrarci sull’oscurità ed ignoranza che ci
avvince e fare luce da dentro, a beneficio di tutti. È un po’ quello che
consigliava di fare Aleksandr I. Herzen, uno dei grandi pensatori russi
del diciannovesimo secolo: “Se la gente cercasse, anziché di salvare il
mondo, di salvare se stessa, anziché di liberare l’umanità, di liberare
se stessa, avrebbe fatto molto per salvare il mondo e liberare
l’umanità”. Accumulare conoscenza senza pregiudizi rende umili.
L’umiltà, combinata con la conoscenza, inevitabilmente conduce alla
conoscenza di sé. L’importante, ci insegna Socrate, è restare integri,
cioè essere presenti a noi stessi e nel mondo, mostrare presenza di
spirito, di carattere, agire in accordo con la propria coscienza, non
inconsciamente, meccanicamente, per imitazione. Socrate chiede sempre ai
suoi interlocutori di lasciar da parte quel che hanno sentito e di
argomentare con la loro testa. Fare affidamento sulla propria coscienza
anziché su quella altrui è un segno di maturità, o almeno un segno che
una coscienza la si possiede – avere il proprio sistema di riferimento
dentro di se, nella propria coscienza e non fuori, nelle regole imposte
da altri, nei pregiudizi e nelle opinioni preconfezionate. Non
egocentrismo ma coscienza di sé, cioè coscienza reale delle proprie
potenzialità e dei propri limiti, integrità, una cosa ben diversa dalla
mania di protagonismo. Socrate è un modello di integrità perché afferma
di non sapere nulla. Naturalmente è un modo di dire. Socrate sa
probabilmente molte più cose di tutti i suoi concittadini messi assieme,
se non altro perché, a differenza di altri, è consapevole del fatto che
quel che sa è una particella infinitesima di quel che si potrebbe
sapere. Nelle parole dell’Apologia: “Certo sono più sapiente io di
quest'uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo
proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla,
mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un
tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che
non so, nemmeno credo di saperlo” (Socrate, Apologia).
Democrito
diceva che “bisogna sforzarsi di capire molto, non di avere una
molteplice erudizione”. Socrate sa cos’è l’ingiustizia, ma non cosa sia
un’eccellenza virtuosa, una vita migliore. Per questo invece di
insegnare agli altri come comportarsi agisce astenendosi, evitando,
negandosi, ignorando le ingiunzioni. La sua integrità, la sua piena
presenza a se stesso ed agli altri, la sua attenta concentrazione, gli
consentono di affermare di essere riuscito ad evitare gli errori più
comuni e prevalenti. Si sforza di mostrare integrità e purezza nel suo
agire, nella sua condotta, e di aiutare gli altri rendendosi disponibile
per delle conversazioni, per far pensare gli altri e se stesso. Ne è
convinto anche il dostoevskijano padre Zosima: solo quando uno conosce
se stesso e si confronta a viso aperto, onestamente, può arrivare ad
amare il prossimo e Dio. Senofonte ci tramanda il pensiero di Socrate su
questo punto fondamentale: “Quelli che conoscono se stessi sanno ciò
che loro conviene e discernono quel che possono e quel che non possono;
facendo quel che sanno si procurano ciò di cui hanno bisogno ed agiscono
bene, astenendosi da quel che non sanno, non sbagliano ed evitano di
agir male”. In un altro passo: “Non gli premeva di rendere i suoi amici
abili a parlare, ad agire e fronteggiare una situazione: riteneva che,
prima, dovessero avere un retto sentire. Infatti, quanti, privi del
retto sentire, erano in grado di far tutto ciò, riteneva fossero più
ingiusti e più abili a compiere il male”.
Socrate e il Male
E
non è dunque chiaro che non desiderano le cose cattive quelli che non
le riconoscono come tali, ma che desiderano quelli che ritengono essere
buone, e che, viceversa, sono cattive? Cosicché, quelli che non le
conoscono come cattive e reputano che siano buone, appare evidente che
desiderano le cose buone. O non è così? […] Nessuno, dunque, o Menone,
desidera le cose cattive, se non vuole essere siffatto. Che altro
significa essere infelice, se non desiderare e procurarsi cose cattive?
[…]Dunque, in termini generali, le cose che l'anima intraprende e nelle
quali persevera, quando il senno fa da guida, vengono portate ad un
felice compimento ; quando invece a fare da guida é la dissennatezza,
terminano esattamente al risultato opposto.
Menone
Non
dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra
cosa prima e con maggior impegno che dell’anima in modo che diventi
buona il più possibile.
Apologia
Socrate
spiega agli Ateniesi che non durerebbe un giorno se, da politico, si
opponesse al volere delle moltitudini ed impedisse loro di commettere
ingiustizie ed illegalità. In una società ingiusta il giusto non
partecipa alla vita politica. Nell’Apologia Socrate spiega che se ne
rimane nella sfera privata perché solo lì può combattere per ciò che è
giusto. Chi vuole veramente combattere contro le ingiustizie deve farlo
come privato cittadino, non come funzionario pubblico. Si parte dal
basso, con Socrate, dalla quotidianità. Il filosofo ateniese si limita a
fare in modo che le persone capiscano che danneggiando il prossimo
danneggiano anche se stessi. Nel farlo rivela che, troppo spesso, a quel
tempo come nel nostro tempo, il “processo “civilizzatore” si oppone
alla crescita interiore perché si fonda su valori materialistici,
illusioni spirituali, eccitazioni, trepidazioni, e tutto ciò che spinge
l’uomo ad identificarsi con gli aspetti animali e meccanici di sé. Il
benessere di questi aspetti produce odio, ingiustizia, violenza, guerra,
in una cornice di moralismo integralista che Socrate contrasterà fino
alla sua morte. I vizi mantengono l’uomo in schiavitù, bisogna
combatterli per salvare la propria libertà. Socrate è libero, per quanto
è possibile, da convenzioni, paura, brame materiali, gerarchie sociali.
Rifiuta le passioni in nome della libertà. Sa che chi non teme la
sofferenza e la morte è libero: nessuno potrà costringerlo a fare
qualcosa. Sono la paura ed il desiderio che ci privano della libertà.
Nella sua visione trascendentalista, che sarà poi fatta propria dai
filosofi neoplatonici, ogni vizio ed ogni brama inchiodano l’anima al
corpo ed alla materialità. “E pensi che tutti questi piaceri diano tanta
gioia quanto il pensiero di diventar migliore tu stesso e di acquistare
amici migliori? Per me, è il pensiero che ho sempre” – afferma il
Socrate di Senofonte – che poi aggiunge: “Non aver bisogno di niente è
divino, di pochissimo è vicinissimo al divino”. Che credesse in una vita
dopo la morte è testimoniato dal fatto che nel Fedone egli afferma che
l'unico suo desiderio è quello di morire, perché soltanto la morte gli
consentirà di raggiungere la piena autenticità del proprio essere.
Questo desiderio presuppone ovviamente la fiducia nell’immortalità
dell’anima, un’anima che si corrompe, perde progressivamente la sua
integrità se ego la ignora. Il Fedone è, a tutti gli effetti, una guida
al misticismo occidentale (McEvilley, 2002): l’anima deve ritrarsi dai
sensi, concentrarsi su se stessa, diventare quieta ed immutabile per
arrivare a conoscere ciò che è quieto ed immutabile, separatamente dal
corpo (Fedone, 64-67). Nel Sofista (248a), Socrate spiega che
“interagiamo con gli altri attraverso l’anima, per riflesso ed il vero
essere si trova sempre in uno stato di immutabilità”. Quel che manca,
per Socrate, è la consapevolezza di questo processo ed è quest’ignoranza
che ci fa sbagliare. Lo ripete o vi allude un gran numero di volte: non
si compie il male consapevolmente. Nessuno pensa di essere un malvagio.
Gli inquisitori spagnoli erano convinti di salvare delle anime
dall’inferno. Hitler era convinto di salvare il mondo dalla piaga
ebraica. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Ognuno ritiene di fare la cosa giusta, ma confonde il bene col male.
Aristotele aggiunge il cruciale fattore della razionalizzazione
utilitaristica del male: si compie il male ben sapendo che non è il bene
ma nella prospettiva di un bene maggiore. In genere è solo per
nascondere appetiti e brame irresistibili ed una generale debolezza di
carattere. Un malvagio non si rende minimante conto del fatto che
danneggia prima di tutto se stesso. Non c’è dunque malvagità senza
ignoranza e debolezza morale, che comporta l’incapacità di tener testa
ai propri appetiti. Il male è perciò un deficit caratteriale, è assenza
di una corretta armonizzazione, sintonizzazione delle proprie
disposizioni, eccesso, sproporzione, esagerazione nelle brame,
indomabili, incontrollate. Se facciamo qualcosa di sbagliato è perché
per un momento, oppure permanentemente, abbiamo perso di vista il nostro
vero bene, visto che non ha senso ritenere che uno scelga
deliberatamente di danneggiare se stesso (eccetto in casi patologici).
Sbagliamo perché scegliamo quel che riteniamo sia meglio per noi nel
breve termine invece di abbracciare una prospettiva di più ampio
respiro. Meglio (per l’anima) sarebbe coltivare la virtù e difendere la
propria integrità morale. Non saremo mai in grado di usare bene status,
potere e denaro se la nostra anima non è in buone condizioni. Per amare
bisogna sapere, e sapere significa essere illuminati, ed essere
illuminati significa amare e conoscere è amare e così via. Il filosofo
non si accontenta della molteplicità degli individui e dell’apparenza ma
cerca la conoscenza della vera natura di ogni essenza, perché conoscere
la virtù significa comparteciparne, diventare la virtù. La conoscenza
riorganizza una persona dall’interno, il suo intero essere (Repubblica
490a-b). Un sistema morale basato su adesioni emotive è illusorio ed
ingannevole. L’ideale morale, la sapienza purificano da questa
emotività. L’anima è distaccata dall’emotività del corpo e conosce tutte
le cose (Fedone 69). “Sappi, insomma, che la vera virtù non è mai
disgiunta dalla Sapienza, si accompagnino o meno alla virtù piaceri,
terrori e altre siffatte passioni. In una parola, tutto ciò che è da lei
separato e oggetto di mutuo cambio, non è vera virtù, ma scenario
dipinto, cosa ignobile e servile che non presenta nulla di sano e di
vero. Penso che proprio il purificarsi da tutte queste passioni
costituisce la temperanza, la giustizia e la fortezza, e che il sapere
stesso è un mezzo di purificazione” (Platone, 2007). Il piacere ed il
dolore mettono l’anima ai ceppi del corpo. Ogni piacere serve a
convincere l’anima che il punto di vista del corpo è quello giusto.
Gli
archetipi platonici formano il mondo, manifestandosi nel tempo, ma
rimanendo fuori dal tempo. Ciò che è bello lo è perché è partecipe della
forma assoluta del Bello. Socrate crede che la conoscenza della virtù è
necessaria per una vita virtuosa e concetti universali obiettivi di
giustizia e bontà sono indispensabili per un’etica autentica. Senza
queste costanti immutabili che trascendono i capricci e le stravaganze
umane e delle loro istituzioni non ci sarebbe alcun fondamento utile per
discernere i veri valori e si sprofonderebbe nel relativismo amorale.
L’universale è superiore rispetto al particolare e non cambia, dunque è
più reale. Solo la conoscenza che deriviamo dalle Idee è infallibile,
solo quella è vera conoscenza. Le cose del mondo non esistono realmente,
perché tutto è in un costante stato di trasformazione in qualcos’altro.
Fortunatamente la mente umana è attrezzata per capire l’universale,
essendo ordinata secondo le stesse strutture ed essenze archetipiche. È
nella natura degli esseri umani la ricerca della felicità, ma la
felicità si ottiene quando si vive un’esistenza in armonia con le
esigenze dell’anima. Ricchezza, potere, fama nulla possono se la vita
non è adatta all’anima (Tarnas, 1991).
Per
vedere le cose come sono (e non come sembrano essere o come desideriamo
che siano) occorre disciplina mentale e forza caratteriale. Ci si deve
distanziare dall’oggetto per impedire alle nostre paure, fantasie ed
affetti di interferire con la nostra obiettività. Gli egoisti ed
egocentrici – e lo siamo tutti, sebbene in misura diseguale – sono
incapaci di sviluppare se stessi e l’obiettività poiché ciò risulta
dall’espandersi all’esterno non dal ritrarsi all’interno. La loro sorte è
miserevole, diventano simultaneamente servi e tiranni. Infatti chi è
tiranno non ha mai amici, è sempre signore di qualcuno e servo di
qualcun altro. In genere è associato alle persone peggiori, agli sleali
ed ai sicofanti.
C’è
uno spettro di umanità che va da un basso livello di sviluppo emotivo,
caratteristico di quelle persone che vivono essenzialmente per
soddisfare i propri bisogni primari istintuali ed automatici e per
l’auto-preservazione, ad un elevato tasso empatico che in alcuni casi
arriva ad incorporare l’intera ecosfera e l’universo: i mistici e
presumibilmente, a giudicare dalle sue parole, anche Socrate. Senza
l’aiuto del prossimo, che fa le veci di Socrate, gli esseri umani non
sono strutturalmente capaci di pensare in modo obiettivo, ma solo per
approssimazione, mentre la pace, l’amore e la ricerca della verità e
della felicità richiedono equanimità ed obiettività. Per Socrate, come
per Camus, il peggior fallimento di una persona è quello di ingannare se
stessi e vivere nella menzogna, in cattiva fede. Si rispettano gli dèi,
ma si venera la verità, si usano parole giuste e veritiere, si agisce
senza arroganza e superbia, senza pretendere necessariamente favori e
contraccambi. Menzogna è parlare di cose che non si sanno e che persino
non si possono sapere come se si sapessero e si potessero sapere. Spesso
si accompagna alla generazione di scenari immaginari, che ci piacciono,
completamente avulsi dalla realtà obiettiva. Si finisce per credere che
sia reale e vero ciò che non lo è.
La violenza, la non-violenza e la non-resistenza al male in Socrate
Nemmeno
se ci viene fatta ingiustizia si deve rendere ingiustizia, come invece
pensa la maggior parte della gente. […] Dunque né si deve rendere
ingiustizia di ricambio né far male a nessuno degli uomini, neanche se
si sia patito qualche male da costoro
Critone
È più vergognoso compiere ingiustizia che riceverla
Gorgia
La
miglior illustrazione socratica dell’origine della violenza umana e
delle tecniche che ci possono consentire di mitigarne gli effetti, se
non proprio di tenrla a bada tutto il tempo si trova nel Fedone.
Socrate, dopo aver dialogato con Simmia, conclude: “Dunque tutte queste
considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale
da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un
sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il
corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non
riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà
infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si
ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È
ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di
immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il
pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le
rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue
passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e
queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come
siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla
filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere
liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa,
ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e
tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non
siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato
che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo
distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora
soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci
costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo
amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia,
che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si
esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che
agli altri” (Platone, 2007).
È
possibile che l’anima ricerca disperatamente la via del ritorno
all’origine, cioè alla destinazione e, nella sua disperazione, affanno e
sviamento, cozza contro tutto e tutti, nella speranza di trovare un
passaggio, una via di fuga da una realtà implacabile e densa. Questo lo
pensava Diotima, la maestra di Socrate (Simposio, 210) e non è un’idea
estranea all’Immanuel Kant della “Critica del Giudizio”: “la sublimità
dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell'animo nostro,
in quanto noi possiamo riconoscerci superiori alla Natura”. L’anima
riflette meglio quando si libera dalle distrazioni corporali, quando
ignora il corpo. Il corpo è solo un’interferenza nella contemplazione
del vero. Nel Simposio Socrate parla di Eros, la guida per la crescita
spirituale e spiega che si comincia con l’amore per i bei corpi, che può
essere di stimolo, ma quasi sempre conduce alla gelosia, alla
possessività, invidia, egotismo, ecc. Questo è seguito dall’amore per
tutti i bei corpi, che è più distaccato, non legato ad un corpo
specifico ad esclusione di tutti gli altri. È più difficile mantenere un
senso di possesso: si passa da “è mio!” a “sono anche miei”. Il terzo
stadio è quello in cui si amano non i bei corpi ma le belle anime.
Succede allora che l’anima, guardando nelle altrui anime, comincia a
(ri)conoscersi (Alcibiade 133b). Al quarto stadio c’è l’amore per le
leggi giuste che preservano l’armonia nella comunità, allontanandosi
sempre di più dalla sfera materiale. Al quinto l’amore comincia ad
ammirare i principi universali dietro ad ogni fenomeno particolare.
Nell’ultimo stadio c’è la visione della bellezza universale che sostiene
l’universo, la mente ha raggiunto un completo distacco dal corpo,
raggiungendo la conoscenza e la virtù assolute e diventa immutabile. È
utile porre a confronto questa ricostruzione del processo di
conscientizzazione con gli stadi di maturazione cognitiva, morale e
spirituale proposti dagli psicologi e pedagogisti Jean Piaget
(1896–1980) e Lawrence Kohlberg (1927–1987).
È
con il Critone che apprendiamo la filosofia socratica dell’astensione
dal rendersi complici di iniquità. Il messaggio centrale di questo
dialogo giovanile è che l'importante non è vivere, ma vivere bene. Il
discepolo Critone vuole che Socrate si metta in salvo prima dell’arrivo
di una nave sacra che segnerà il suo destino, l’esecuzione della sua
condanna a morte. È preoccupato perché teme che la gente finisca per
schernire i discepoli e gli amici di Socrate che non l’hanno tratto in
salvo quando potevano. Che esempio darebbero? Socrate replica che non ci
si deve preoccupare delle opinioni di chi, come non è capace di
commettere grandi iniquità non è neppure in grado di fare del gran bene.
Ci si cura solo dell’opinione delle persone assennate: “se fosse vero,
Critone, che i più siano capaci di fare i mali più grandi, per essere
anche capaci di fare i beni più grandi, sarebbe una bella cosa. Ma in
realtà non sono capaci né di una cosa né dell’altra; perché non hanno la
possibilità di rendere nessuno né saggio né stolto, ma fanno quel che
capita” (44d). Critone assicura Socrate che chi gli vuole bene è pronto a
mettere a sua disposizione tutto quel che serve per salvargli la vita:
non bisogna darla vinta ai nemici e poi il maestro ha ancora molto da
insegnare. Socrate non è turbato dall’idea di morire: ha sempre ribadito
che il corpo è molto meno importante dell’anima e per questa ragione il
semplice vivere è di valore secondario: ciò che deve importare è vivere
bene, ossia secondo giustizia. “Se, per prestare ascolto all’opinione
degli incompetenti, rovineremo quella parte che è resa migliore da ciò
che è salutare ed è corrotta da ciò che è malsano, potremo ancora vivere
quando essa sarà corrotta? Questa parte è il corpo: non è così? […]
Potremo vivere quando sia corrotta quella parte che è rovinata
dall’ingiustizia e avvantaggiata dalla giustizia? O pensiamo che sia da
meno del corpo questa parte…?” (47d-e) Socrate spiega che quella,
l’anima, è la parte più pregevole e poi continua: “esamina se anche
questo ci rimane assodato o no: se ciò che si deve apprezzare di più non
sia il vivere, ma il vivere bene”. Critone risponde: “Rimane assodato”.
Al che Socrate insiste: “E che il vivere bene è la stessa cosa che
vivere onestamente e giustamente, rimane assodato o no?”. Critone
conferma: “rimane assodato” (48b).
È
quindi giusto o no mettersi in salvo? Socrate è dell’idea che non si
debba mai commettere un’ingiustizia, neppure per ricambiarne una che si è
subita. “Noi diciamo che in nessun modo si deve commettere
volontariamente ingiustizia o che in qualche modo si può e in un altro
no? Il commettere ingiustizia non è come spesso anche in passato abbiamo
ammesso mai e in nessun modo né buono né bello? …sia che i più lo
riconoscano sia che no, sia che dobbiamo subire mali ancor più gravi di
questi o meno gravi, la cosa sta proprio come dicevamo allora, cioè che
in ogni modo il commettere ingiustizia è, per chi la commette cosa
brutta e cattiva? Lo diciamo o no? […] Dunque neppure se si subisce
ingiustizia, bisogna ricambiarla, come credono i più, perché non bisogna
commettere ingiustizia in nessun modo. […] Dunque non si deve né
ricambiare l’ingiustizia né far male a nessuno degli uomini qualunque
cosa si subisca da essi. […] Tra quelli che sono di questo parere e
quelli che non lo sono, non è possibile una decisione comune, anzi
necessariamente si disprezzano reciprocamente vedendo le rispettive
decisioni. Perciò osserva anche tu molto attentamente se ti associ e
condividi la mia opinione: in tal caso cominciamo a decidere partendo da
questo punto, che non è mai cosa retta né commettere ingiustizia né
contraccambiarla né, quando si subisce un danno, vendicarsi
ricambiandolo” (49).
Ma
se le leggi sono ingiuste? Non è forse giusto violare delle leggi
ingiuste che oltraggiano il buon senso e la moralità dei cittadini? La
fuga non è dunque una forma di disubbidienza civile, un gesto di
condanna dell’iniquità? Socrate – curiosamente, dato che per tutta la
vita sceglieva di dibattere con persone in carne ed ossa e non con
astrazioni prive della facoltà di esprimersi –s’immagina che le leggi
parlino con lui e gli domandino ragione del suo comportamento e delle
sue intenzioni. Il suo giudizio complessivo nei loro confronti non è
troppo dissimile da quello espresso da Paolo nella lettera ai Romani
(13, 1): le leggi e le autorità vanno rispettate comunque. È vero che
c’è la scelta tra ignorarle emigrando e osservarle restando ma Socrate è
sempre rimasto al suo posto, dimostrando il suo attaccamento alla polis
e di conseguenza alle sue leggi. Infrangerebbe un tacito accordo. Non
sono le leggi che l’hanno offeso, ma i giudici e non c’è ragione di
temere la “giustizia” di esseri umani privi di lucidità, di una polis
che non è stata all’altezza dei suoi migliori principi.
Eppure
questo stesso Socrate fu di uno dei primi esempi di disobbedienza
civile a noi pervenuti. Nel 404 a.C. i Trenta Tiranni gli avevano
ingiunto di arrestare Leone di Salamina, ma lui aveva deliberatamente
ignorato l’ordine, ritenendo che la fonte dell’autorità fosse
illegittima, come le sue disposizioni.
Giovanni
Reale definisce Socrate un rivoluzionario. Ma in che senso? Nel senso
nonviolento, perché si fa strumento della persuasione e della
disobbedienza (Reale, 2001). Ma il Socrate del Cratilo sembra più simile
al Gesù del “porgi l’altra guancia” ed al Tolstoj fautore della
non-resistenza di fronte al male.
Nel
Gorgia, Socrate discute con Polo dell’ingiustizia e di come essa
corrompa l’anima. Socrate paragona gli effetti dell’ingiustizia
sull’anima a quelli della povertà per il corpo. Ma il male dell’anima è
il peggiore e “deve la sua superiorità a qualcosa di straordinario, ad
un grande danno o ad un male portentoso, dal momento che non la deve al
dolore”. L’ingiustizia, come l’intemperanza è un male massimo. Perciò la
colpa massima ricade su chi sfugge ad un giusto verdetto e la sua anima
sarà la più corrotta, ma non potrò accorgersene, perché sarà troppo
ignorante per poterlo fare: “vedono il suo aspetto doloroso, ma restano
ciechi di fronte alla sua utilità e ignorano quanto sia più infelice
vivere con un’anima malata che con un corpo malato, cioè con un’anima
corrotta, ingiusta ed empia. Per questo fanno ogni tentativo per non
scontare la pena e non essere liberati dal massimo male, si procurano
ricchezze e amici e cercano di diventare il più persuasivi possibile nel
parlare”. Se ne deduce allora che commettere un’ingiustizia non è il
male principale, quello più terribile. Peggiore ancora è lo sfuggire
alla giusta sanzione. Tuttavia non era questa la condizione di Socrate,
anzi. Socrate, usando il sofisma del colloquio con le leggi, accetta
un’ingiusta condanna, emessa da un tribunale ingiusto, sulla base di
accuse ingiuste e, nel farlo, sceglie di essere un cattivo esempio per
chi, nella comunità, lo ha ammirato e ha cercato di emularlo. Infatti,
da quel momento in poi, nessuno potrà più dire che subire un’ingiustizia
passivamente sia sbagliato, mentre sottrarsi all’iniquità diventerà un
atto di viltà ed una mancanza di rispetto verso leggi che non hanno
colpa per la loro malinterpretazione da parte degli uomini. Questo tipo
di comportamento da parte della cittadinanza di una democrazia non potrà
che incrementare il tasso di iniquità ed ingiustizia in seno alla
polis, esattamente l’opposto del risultato che si prefiggeva Socrate.
Per ben due volte, nel 406 a.C. e nel 404 a.C. Socrate si era rifiutato
di eseguire degli ordini per non commettere ingiustizie. Non era forse
tenuto a farlo una terza volta, per non commettere un’ingiustizia nei
confronti del suo insegnamento? Chi scrive non reputa che questo
messaggio sia coerente con lo spirito di quanto affermato da Socrate nel
corso della sua esistenza e si domanda se Platone abbia descritto i
fatti come avvennero o abbia voluto “interpretarli” per armonizzarli con
il suo temperamento chiaramente anti-democratico.
È
lecito, tra l’altro, domandarsi come il Socrate del Gorgia si sarebbe
comportato nella Russia sovietica, nella Germania nazista, nella Cina
dei nostri giorni o nell’America della Guerra al Terrore, quella dei
“danni collaterali”, degli “omicidi extra-giudiziari”, dei “metodi
d’interrogatorio più aggressivi” e delle “tecniche avanzate di
interrogatorio” (leggi: tortura), delle “consegne straordinarie”
(extraordinary renditions, cioè deportazioni illegali), dei “combattenti
nemici illegali” (leggi: :inapplicabilità delle convenzioni di
Ginevra), del Patriot Act, di Guantánamo, di Abu Ghraib, Abu Selim e
delle altre prigioni segrete. Forse, in tali frangenti, Socrate avrebbe
condiviso la critica rivolta dal saggio scita Anacarsi a Solone: “Si
racconta che Solone abbia accolto amichevolmente Anacarsi, e che l’abbia
ospitato a casa propria per qualche tempo, quando già aveva intrapreso
la sua attività pubblica e andava compilando le sue leggi. Quando
Anacarsi lo venne a sapere, derise l’impegno di Solone: egli credeva di
trattenere le ingiustizie e le violenze dei suoi concittadini tramite
degli scritti che non differivano in nulla dalle ragnatele; come le
ragnatele, essi avrebbero trattenuto, fra chi vi incappava, i deboli e
gli umili, mentre i potenti e i ricchi le avrebbero spezzate. Ma Solone –
si racconta – gli rispose che gli uomini rispettano quei patti che a
nessuno dei contraenti conviene trasgredire, e che egli rendeva le sue
leggi adeguate ai concittadini, in modo da mostrare a tutti che agire
rettamente era meglio che andare contro la legge. Tuttavia, i fatti si
svolsero come Anacarsi aveva immaginato, più che come aveva sperato
Solone” (Plutarco, Vita di Solone, 5, 3-6).
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