Il Giardino dei Pensieri
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Studi di didattica teorica della filosofia
Mario Trombino
Giocare un gioco difficile (*)
Le "forme ludiche della filosofia" secondo Johan Huizinga
Giocare un gioco difficile (*)
Le "forme ludiche della filosofia" secondo Johan Huizinga
" Il gioco come tale oltrepassa i limiti dell’attività
puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa
che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso
nell’azione del giocare. (…) Comunque lo si consideri, certamente si manifesta
con tale "intenzione del gioco", un elemento immateriale nella sua stessa
essenza. (...) Insieme al gioco però si riconosce anche, volere o no, lo spirito. Perché
il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia. Oltrepassa già nel mondo
animale i limiti dell’esistenza fisica. Riguardo a un mondo di immagini come
determinato da un mero rapporto di forze, il gioco sarebbe una sovrabbondanza nel senso
proprio della parola. Solo per l’influenza dello spirito, che abolisce
l’assoluta determinatezza, l’esistenza del gioco diventa possibile,
immaginabile, comprensibile. L’esistenza del gioco conferma senza tregua, e in senso
superiore, il carattere sopralogico della nostra situazione nel cosmo". (Johan
Huizinga, Homo Ludens)
Prendo in prestito le parole del titolo da Platone (1) e quelle del
sottotitolo da Huizinga, che si serve delle prime per costruire una argomentazione (2). In
Homo ludens viene tracciata una carta d'identità del filosofo - o meglio, un
albero genealogico della figura professionale del filosofo - davvero sorprendente. Forse
ci è utile, come uno specchio, per delineare meglio i tratti della nostra professione e
proverò quindi a riflettere sulle parole del grande storico.
Il contesto nel quale vorrei proporre queste riflessioni riguarda la
"filosofia per tutti", quel tema a cui Comunicazione Filosofica ha
dedicato ampio spazio nel suo primo numero raccogliendo quattro diversi punti di vista
(3). Il problema che vorrei esaminare, legato alla nostra professione, è il seguente,
quali debbano essere le forme del nostro lavoro – in qualsiasi situazione sia svolto
- se si desidera che la filosofia contribuisca, per quanto le attiene, alla costruzione di
una società diversa: una società equilibrata, che favorisca allo stesso tempo la
libera creatività individuale – la realizzazione di sé – e il rispetto
del principio di eguaglianza (innanzitutto eguaglianza di opportunità). Nessun
dubbio quindi sulla natura politica del nostro tema: la "città per gli uomini
nel regno della natura" era il progetto politico di Rousseau tanto nell’Emilio
quanto nel Contratto sociale, e alla sua insistenza che la natura dell’uomo
richieda una educazione (e una educazione permanente) desidero qui esplicitamente
richiamarmi. Non vale quindi, né per noi né per Rousseau, l’opposizione
natura/cultura, ma soltanto l’opposizione tra una cultura e un’altra rispetto
alla natura dell’uomo e delle cose.
Ora, il filosofo assume per gli altri il ruolo dell’educatore non
più di tante altre figure professionali, nel nostro mondo, ma anche non meno. Come ben
sappiamo, educare è sempre un atto politico, nel senso che contribuisce a realizzare una
certa idea di uomo, una certa idea di società, un insieme dato di valori scelti,
condivisi o imposti. La scelta di operare professionalmente per favorire lo sviluppo di
una società che permetta insieme libertà ed eguaglianza è, appunto, una scelta.
Può non essere condivisa. Tuttavia il mio obiettivo qui oggi non è di chiedervi di
condividerla – anzi, non esaminerò neppure questa scelta, essenzialmente per ragioni
di tempo –, vi chiederò soltanto di esaminare con me quali forme di lavoro
filosofico siano compatibili con essa. Desidero dunque esaminare un "modello",
anche se – certo – non ingenuamente neutro. Nessun modello è davvero neutro.
Oggi è assai particolare la situazione della ricerca filosofica
"alta" e della pratica filosofica diffusa. La filosofia è diventata, come mai
era stata nella sua storia, una professione svolta prevalentemente da insegnanti, per lo
più dipendenti dello Stato, a livello della Scuola Medio-Superiore o
dell’Università. La cultura filosofica prodotta è vastissima, ma è profondamente
condizionata da questa situazione – l’essere i filosofi insegnanti e pubblici
dipendenti - senza che tuttavia vi siano studi che facciano davvero chiarezza sul legame
tra la produzione e la vita di una determinata filosofia e la situazione professionale del
filosofo. Condizionamenti di questo tipo sono sempre esistiti, e contribuiscono a spiegare
cose come la forma stessa delle opere filosofiche: ad esempio la forma dei
"trattati" di Aristotele (rivolte a degli "allievi"), delle
"lettere" o delle massime di Epicuro (rivolte alle comunità di
"amici"), della forma-romanzo di opere come l’Emilio (rivolte al
pubblico borghese che le acquista), e così via.
Oggi siamo in presenza di una domanda sociale che pone al filosofo
nuove sfide. Ad esempio, oggi è tecnicamente possibile operare per la costruzione di una
società fondata su princìpi di eguaglianza per uomini che abbiano tutti oltrepassato la
soglia del bisogno materiale, eppure le vie da seguire perché questo accada sono ben
lontane dall’essere chiare. Innanzitutto in sede teoretica. E sfide nuove sono poste
alla filosofia dalla ricerca scientifica, che ha bisogno di princìpi filosofici a monte
della ricerca. E così esemplificando.
Ma nulla di tutto questo in fondo è davvero nuovo. E’ sempre
accaduto che i filosofi abbiano dovuto affrontare sfide nuove. C’è però una novità
più profonda: il punto è che la filosofia oggi ha un livello di diffusione molto
superiore al passato, almeno dal Medioevo in poi. Mai dopo l’età ellenistica ai
filosofi era stato chiesto – e oggi la domanda sociale in questa direzione è
imperiosa – di proporre forme di lavoro filosofico per tutti (e cioè per chi lo
desidera). Questo ci viene chiesto, così come veniva chiesto ai tempi degli stoici ed
epicurei, per non citare che i più noti. E voi vi potrete trovare nella vostra vita
professionale a dover operare da filosofi in una scuola o in una università (e lì avete
modelli, sia pure poco convincenti), ma anche in un corso per adulti, o nel comitato etico
di un ospedale, o in un laboratorio scientifico. O, come è accaduto tante volte nel
passato, come "consiglieri del principe", perché un principe c’è sempre
anche se vestito di panni moderni. E un filosofo deve essere sempre un filosofo, in
un’aula o in ospedale, nella sede di un partito politico o in un laboratorio
scientifico in cui si studi l’intelligenza artificiale o la struttura della materia.
O in un corso di filosofia per adulti, i cui iscritti hanno sì e no completato la scuola
dell’obbligo, ma sanno tanto della vita, perché ne hanno vissuto tanta parte.
Iniziamo dunque questa riflessione sulle forme del lavoro filosofico.
Per iniziare vorrei richiamare quella frase di Homo ludens in cui Huizinga -
aprendo piuttosto che chiudendo un discorso - sostiene che "se veramente, come
alcuni vogliono, dobbiamo dire che Nietzsche ha ripreso il punto di vista agonistico del
filosofo, egli ha allora con ciò ricondotto la filosofia alla sua sfera primordiale e
originaria, radicata in cultura primitiva" (5). Il richiamo a Nietzsche è
prezioso per il nostro secolo, perché la scrittura filosofica che tanti autori hanno
utilizzato e utilizzano dopo di lui è certamente influenzata dalla sua. Il punto di
vista agonistico, la parentela con il gioco sofistico, è presente in tanta parte del
lavoro sulle parole e sulla lingua che ha conquistato molto spazio negli ultimi anni, per
ragioni didattiche, negli esercizi filosofici a scuola, ma è presente anche nella
scrittura filosofica "alta": come si potrà costatare leggendo il pezzo
d'apertura di Du droit à la philosophie di Derrida nella serie prima richiamata di
Comunicazione Filosofica.
Ora, perché una parte della scrittura filosofica - e ancor di più il
momento dialogico nella dimensione dell'oralità - mantiene un carattere agonistico, si
apparenta al gioco sofistico, nel senso in cui Gorgia usa questo termine per l'Encomio
di Elena? In Derrida è evidentissimo questo, ma altrettanto lo è nella produzione
dei nostri filosofi, nella scrittura di un Severino, di un Cacciari, di un Sini, e così
via. E nelle polemiche continue di cui la filosofia vive, nel bisogno di dividersi in
analitici e in continentali, e così via. Qualcosa della gara però è presente in tutta
la tradizione filosofica, ci ricorda Huizinga che richiama Abelardo, la divisione in
partiti al tempo della nascita della scienza moderna, e così via elencando. Qualcosa
della gara è presente nella tensione dialettica con cui la didattica ha sovente a che
fare. Argomento contro argomento, come in un torneo. Qualcosa della gara è presente nella
oscurità, voluta e sapientemente utilizzata dai filosofi, spesso grandissimi scrittori,
maestri in quella operazione retorica, adatta a conferire spessore alla parola, che
consiste nell'evocare linee divergenti del pensiero in un'unica espressione: il "pensiero
che pensa contro se stesso" di Adorno, l'"in quanto" di
Heidegger, o, per restare ai classici, l'"esser costretti alla libertà"
a proposito del rapporto tra individuo e volontà generale in Rousseau. E’ davvero
cosa continua. La densità della espressione filosofica si apparenta davvero alla densità
dell'indovinello richiamato da Huizinga, al gioco linguistico sofistico. Anche noi,
dunque, manteniamo come filosofi in cattedra un legame con l'antica figura dell'"antico
sacerdote indiano che risolve ogni enigma"? (6) Anche per noi la filosofia rimane
un "nobile gioco", anche per noi il "pensiero filosofico non si
è ancora sciolto dalla sfera del gioco"? (7)
Ora, una delle caratteristiche del gioco, secondo l'interpretazione di
Huizinga, è la sua capacità di produrre un elevamento nella sfera della cultura senza
tradire le basi materiali dell'esistenza, senza cioè dimenticare che la vita si eleva sì
dall'inorganico, ma conserva il legame con esso, non lo tradisce. Espressa nei termini
della "gara" - che come elemento ludico è spesso presente nel gioco - avente
come posta la conoscenza non illusoria, perché il gioco è filosofico, la sfera della
cultura che viene così prodotta permette l'espressione del soggetto mentre è l'oggetto
ad essere posto in luce: permette di non tradire la realtà della coscienza cui non è mai
assente un elemento soggettivo, benché lo si debba mettere tra parentesi in ogni forma
del pensiero che aspiri alla universalità. Ma la realtà non permette che lo si
dimentichi.
Il gioco della filosofia, Il "difficile gioco", il
"nobile gioco", è allora l'elaborazione di una sfera parallela della realtà in
cui i frammenti dell'esistenza si ricompongono in un "gioco", cioè in un
elemento dinamico la cui verità è nel suo farsi. Non è morta cosa, ma capacità della
coscienza di darsi delle regole e vivere in esse.
La pagina di Huizinga sull'albero genealogico da cui deriva la nostra
identità professionale di filosofi - il filo che tiene unita la nostra figura ai sofisti
e ai loro successori non si è spezzato se la parola filosofia descrive una, per
quanto frastagliata, storia - deve dunque ricordarci che non vi può essere filosofia
per tutti se non si elaborano regole del gioco che possano essere condivise
da tutti.
Le regole del gioco filosofico, tuttavia, sono state concepite come regole
di esclusione, e questo in parte è inevitabile perché il gioco ha il suo spazio
sacro e deve escludere per delimitare il proprio campo, che non è la realtà, ma una sua
sfera parallela - da cui quindi qualcuno o qualcosa è escluso. Con questa differenza,
però, che le regole del gioco filosofico con cui abbiamo dimestichezza servivano ad
escludere anche in un altro senso, servivano a creare una élite, in una dimensione
sociale di filosofia non per tutti. La domanda è dunque: quali regole devono
essere definite perché il gioco abbia una sua sfera definita, ma tutti possano sentirle
proprie?
E' chiaro che se tra le regole poniamo la espressione di sé
nell'elemento agonale del gioco strutturato in modo da escludere tutti coloro che non
accolgono il nostro modo di espressione - quello che ci fa vincere - allora le regole del
gioco sono truccate. Ma se il gioco è filosofico, e dunque mira alla conoscenza non
illusoria - forse né più né meno di qualsiasi gioco di lotta tra i cuccioli dei
mammiferi, che insegna a stabilire gerarchie non illusorie - l'espressione di sé deve
sempre permettere che il gioco si strutturi con gli altri sé nel rispetto e nella
valorizzazione della natura delle cose e dell’uomo.
Ecco la pagina di Huizinga:
"Il susseguirsi degli stadi della filosofia può essere visto
all’ingrosso come segue. In tempi primordiali essa parte dal sacro gioco
d’enigmi e di dispute rituali, i quali nondimeno adempiono la funzione di festa
pubblica. Da lì nasce, verso il lato sacro, la profonda teosofia e filosofia delle
Upanishad e dei filosofi presocratici, mentre verso il lato ludico si sviluppa la pratica
dei Sofisti. Le due sfere non sono separate in senso assoluto. Platone conduce la
filosofia, come più nobile tendenza alla verità, ad altezze tali quali le poteva
raggiungere lui solo, mantenendo però sempre alla filosofia quella forma leggera che era
il suo vero elemento. Ma contemporaneamente essa prosegue anche nella sua forma inferiore:
logica fallace, gioco di spirito, sofistica e retorica. Orbene, nella società ellenica il
fattore agonale era tanto forte che la retorica potè diffondersi a scapito della
filosofia più pura, e diventare la cultura dei gruppi più estesi offuscando così
quell’altra saggezza a rischio di soffocarla. (…) Il famoso trattato di Gorgia,
Del non-ente, che rinnegava in modo assoluto ogni serio sapere a favore di un
nichilismo radicale, può essere chiamato un gioco tanto quanto la declamazione su Elena,
a cui egli stesso dette quel nome. L’assenza di limiti chiari tra gioco e sapere è
rivelata anche dal fatto che gli stoici trattano alla stessa stregua, senza alcuna
distinzione, gli insensati aforismi fondati su un tranello grammaticale e i gravi
ragionamenti della scuola di Mileto.
Dibattito e declamazione sono al loro apogeo. Anche quest’ultima era sempre stata oggetto di gare pubbliche. Parlare era un rappresentare, un esibirsi, un ostentare colla parola. La lotta di parola era per gli Elleni la forma letteraria appropriata per riprodurre una questione delicata o per giudicarne. Così Tucidide (…) tratta del conflitto fra potere e diritto nel dibattito sulla violazione della neutralità dell’isola di Melos, dibattito formulato da lui completamente come gioco sofistico di domanda e risposta. Nelle Nuvole Aristofane mette in parodia la passione delle dispute esibitorie nel duello retorico del logos giusto e ingiusto". (8)
Dibattito e declamazione sono al loro apogeo. Anche quest’ultima era sempre stata oggetto di gare pubbliche. Parlare era un rappresentare, un esibirsi, un ostentare colla parola. La lotta di parola era per gli Elleni la forma letteraria appropriata per riprodurre una questione delicata o per giudicarne. Così Tucidide (…) tratta del conflitto fra potere e diritto nel dibattito sulla violazione della neutralità dell’isola di Melos, dibattito formulato da lui completamente come gioco sofistico di domanda e risposta. Nelle Nuvole Aristofane mette in parodia la passione delle dispute esibitorie nel duello retorico del logos giusto e ingiusto". (8)
Tutto questo è da chiarire. Per farlo, vi propongo di studiare più da
vicino la nozione di gioco elaborata da Huizinga, che ha tratti filosofici
particolarmente complessi. La tesi è che le forme del gioco in filosofia non sono una
degenerazione, e neppure semplicemente una fase di passaggio a più alte forme della
cultura. Si tratta d’altro, secondo Huizinga, si tratta di un carattere
dell’essenza della vita stessa. In Homo ludens la tesi di fondo riposa sulla
osservazione che il gioco nella sua essenza (e dunque l’impulso al gioco, connesso al
piacere che ne deriva) non è un prodotto della cultura, ma una delle forme in cui si
esprime la vita in quanto tale. E’ una tesi, la sua, che si apparenta alle analisi
della filosofia greca sulla natura delle cose, sulla physis, o alla riflessione in
età romantica sul kantiano "libero gioco delle facoltà" come strumento per
pervenire ad una più profonda comprensione della nostra natura, in rapporto alla natura
delle cose, comprensione la cui conquista ci renderebbe liberi (si pensi a Schiller e, due
generazioni dopo, alle nozioni di gioco e soprattutto di danza nel giovane Nietzsche che
riflette sullo spirito della tragedia). Huizinga studia quindi il sorgere della cultura
dalla sfera della natura mediante il gioco – e dunque studia la vita, come elevazione
allo spirito sul fondamento ben saldo della sfera materiale dell’inorganico, a cui
essa appartiene - così come Hegel negli scritti giovanili studia il sorgere delle
dinamiche fondamentali della vita, in primo luogo l’amore, la paura, la coscienza di
sé, del nulla e del tutto – insomma, i frammenti che si riuniranno nel suo pensiero
successivo nella categoria di "dialettica". Ciò di cui facciamo discorso,
dunque, con la nozione di "gioco" di Homo Ludens è l’elemento
proprio della vita nella sfera nascente della cultura: la vita che si eleva a spirito.
Ecco le parole di Huizinga:
"Il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di
cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo
convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a
giocare. Anzi si può affermare senz’altro che la civiltà umana non ha aggiunto al
concetto stesso di gioco alcuna caratteristica essenziale. Gli animali giocano proprio
come gli uomini; tutte le caratteristiche fondamentali del gioco sono realizzate in quello
degli animali. (…) Il gioco come tale oltrepassa i limiti dell’attività
puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa
che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso
nell’azione del giocare. (…) Comunque lo si consideri, certamente si manifesta
con tale "intenzione del gioco", un elemento immateriale nella sua stessa
essenza. (...) Che cosa è in fondo il "gusto" del gioco? (…)
Quest’ultimo elemento, il "gusto" del gioco, resiste a ogni analisi o
interpretazione logica. (…) Ed è proprio questo elemento che determina
l’essenza del gioco. Nel gioco abbiamo a che fare con una categoria di vita
assolutamente primaria, facilmente riconoscibile da ognuno, con una sua
"tonalità". La realtà "gioco", percettibile da ognuno, si estende
sopra il mondo animale e umano insieme. Perciò non può essere fondata su un rapporto
razionale, perché il fatto che sia basata sulla ragione la limiterebbe al mondo umano.
L'esistenza del gioco non è legata a nessun grado di civiltà, a nessuna concezione della
vita. (...) Insieme al gioco però si riconosce anche, volere o no, lo spirito. Perché il
gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia. Oltrepassa già nel mondo animale
i limiti dell’esistenza fisica. Riguardo a un mondo di immagini come determinato da
un mero rapporto di forze, il gioco sarebbe una sovrabbondanza nel senso proprio della
parola. Solo per l’influenza dello spirito, che abolisce l’assoluta
determinatezza, l’esistenza del gioco diventa possibile, immaginabile, comprensibile.
L’esistenza del gioco conferma senza tregua, e in senso superiore, il carattere
sopralogico della nostra situazione nel cosmo. Gli animali sanno giocare, dunque sono già
qualche cosa di più che meccanismi. Noi giochiamo e sappiamo di giocare, dunque siamo
qualche cosa di più che esseri puramente raziocinanti, perché il gioco è irrazionale"
(9).
Irrazionale, cioè precedente alla sfera della razionalità come uno
degli elementi che ne permettono la formazione. Ora, questo tema è particolarmente
importante per noi perché nel nostro lavoro filosofico – non importa se ci si
rivolge ai giovani o agli adulti – è decisiva la possibilità di favorire la
coscienza della ampiezza dei possibili modelli di razionalità, secondo quell’ideale
espresso dalla grande filosofia moderna alle sue origini - in Cartesio come in Spinoza o
in Locke – come obiettivo proprio dell’atteggiamento del filosofo verso la
realtà.
Dunque per noi che operiamo professionalmente con la filosofia è
importante comprendere che gli elementi del gioco – in primo luogo l’elemento
"agonale" come lo chiama Huizinga – che permangono nella attività
filosofica dei filosofi come dei nostri allievi non sono un residuo, ma fanno parte
del processo di formazione della razionalità. Vanno quindi diretti e organizzati,
non combattuti o ignorati. Sono un elemento di raccordo con la vita - e dunque con la
natura che ci accomuna a tutti i viventi, quella "natura" che Rousseau ci
ricorda di rispettare e porre in valore nella elaborazione della cultura e della vita
collettiva.
Proviamo allora a identificare alcuni elementi che secondo Huizinga
compongono quell’universo definito dalla parola "gioco", in modo da poterne
ricavare per il nostro lavoro filosofico delle "regole dell’arte", per
usare un’espressione cara al mondo artigiano.
Innanzitutto, come è ovvio, il gioco crea una realtà parallela a
quella reale: nel gioco non si fa "sul serio". Crea un mondo con regole sue,
predefinite, in modo esplicito o implicito. E’ essenziale che siano predefinite,
perché l’incertezza sulle regole o il tentativo maldestro di sostituirle con altre
spezza l’incanto del gioco, lo annulla. Il baro rovina il gioco, ma mai quanto il
guastafeste che non ne riconosce le regole. Senza quelle regole il gioco, semplicemente,
non c’è. Che si tratti di un gioco da bambini, o delle più raffinale schermaglie
dialettiche tra filosofi a convegno, o del gioco degli sguardi di due innamorati che non
si sono ancora dichiarati.
Nel gioco le regole della vita vera sono sospese, e questo permette di
mettere alla prova scenari non ancora reali, come la caccia per un cucciolo di tigre, o
l’amore vero nel gioco di sguardi di due persone che stanno costruendo un loro gioco,
in cui mettere alla prova i propri sentimenti nella conoscenza dell’altro.
La sfera del gioco è allora - almeno entro certi limiti - protetta dai
fallimenti della vita: fallire nel gioco non fa male, o ne fa meno, perché è un gioco.
Giocare significa creare un mondo parallelo, e creare anche le regole collettive, da tutti
accettate, perché possa esistere. E’ un mondo libero quello del gioco? Non libero da
regole. Libero dalle regole della vita reale in parte sì. Nella sua sfera, come nel
cerchio magico dell’antica magia, uno spazio e un tempo predefiniti delimitano le sue
condizioni d’esistenza e la libertà è data dalla piena adesione alle regole
liberamente accettate e/o costruite. E’ forse comico il gioco? Qualcosa della
leggerezza del comico gli è vicino, ma il gioco non appartiene alla sfera del comico.
Nulla è così seriamente vissuto quanto la concentrazione dei giocatori in un gioco che
prende davvero.
Ora, limitiamo per un momento la nostra analisi al lavoro filosofico di
un professore a scuola o in un corso per adulti. In queste situazioni almeno un elemento
apparenta alla sfera del gioco il gruppo di persone al lavoro: l’essere quella che si
vive una realtà parallela, un mondo costruito ad arte, con regole sue, un mondo protetto
dai pericoli della vita reale. In fondo, una simulazione. Stiamo ancora imparando, non
siamo alla prova nella vita reale. Se l’equazione non viene, non si avranno
conseguenze se non nella sfera dell’apprendimento (ad esempio nel voto che
prenderò). A scuola se scrivo, scrivo per un solo lettore, che ne sa più di me su quello
che scrivo. Danni non ne subirà, a parte la fatica spesso non lieve della correzione e
del giudizio.
Almeno in questo dunque la scuola o qualsiasi corso strutturato come
tale in cui ci sia qualcuno che insegna e qualcuno che apprende, a qualsiasi età, si
apparenta al gioco: nell’essere un momento della vita - in un tempo e in uno spazio
predefiniti, come nel cerchio magico delle antiche culture – dominato da regole
proprie che ne fanno un universo parallelo.
Ma chi struttura le regole? Chi le definisce? Come in tutti i giochi,
qualcuno lo fa, e spesso non sono i giocatori a farlo. I giochi "esistono", si
tratta di giocarli, come gli scacchi, il tennis, la dialettica servo-padrone e la danza
dell’antica tragedia interpretata da Nietzche. E tuttavia il gioco può essere
giocato solo se qualcuno ha elaborato le regole, perché esse sono figlie della cultura,
non della natura. Le regole sono libere perché quel mondo non esiste in sé, è una
nostra creazione, una elevazione della vita alla sfera dello spirito. Quella elevazione
che fa dire a Huizinga che gli animali sono qualcosa più che meccanismi perché sanno
giocare.
Dobbiamo quindi guardarci da alcuni pericoli, sempre in agguato.
Confondere il gioco con la realtà.
La situazione nella quale ci troviamo a scuola o in un qualsiasi corso
strutturato non è la realtà: la sua importanza è solo relativa alla finalità che ci si
è data e non va oltre. Non se ne può inferire nulla. Da uno studente che va male non si
può inferire che non stia imparando in assoluto o non stia crescendo: non lo sta facendo
rispetto a certe regole del gioco definite e solo rispetto a quelle. Non se ne può
inferire che sia stupido o che non sia capace: non lo è rispetto a quelle regole. Se
cambi le regole, delle capacità possono emergere. C’è qualcosa di ben definito in
un’aula, e bisogna essere coscienti di questo: quel che esce dal cerchio magico, ci
sfugge. Siamo noi i professori in quella situazione, ma abbiamo sotto il nostro controllo
solo ciò che è definito dalle regole del gioco che tutti insieme stiamo giocando. Il
resto non è sotto il nostro controllo. Il delirio di onnipotenza è una malattia
professionale di cui ci si accorge pochissimo. La vita in realtà attraversa l’aula e
poi scorre altrove, la sua sfera è più ampia. Quanto accade nell’aula non deve
proiettare la sua ombra su tutto.
Dunque, mai confondere il gioco con la realtà. Eppure, se
l’analisi di Huizinga ci può insegnare qualcosa, il gioco che tutti insieme
giochiamo con parti diverse è uno strumento mediante il quale la vita si eleva verso lo
spirito. Le forme di questa elevazione dipendono anche dalle dinamiche del gioco e in
questo senso il gioco è sì un universo parallelo, ma conserva un legame con la realtà.
E’ tanto serio quanto il gioco infantile, perché chi siamo e saremo dipende anche da
questo. Funzione decisiva, quindi, la nostra, serissima e di grave responsabilità. "Riguardo
a un mondo di immagini come determinato da un mero rapporto di forze, il gioco sarebbe una
sovrabbondanza nel senso proprio della parola", scrive Huizinga.
Dunque un legame con la realtà c’è, nel senso che la vita
spirituale si nutre della "gratuità" del giocare e potrà esprimersi, così
coltivata, in altri ambiti. C’è quindi nel gioco della filosofia in aula –
c’è in questo momento tra noi, se il nostro gioco ha successo – un elemento di
pura creatività che non consiste nella elaborazione di concetti nuovi o di nuove
argomentazioni o di nuove teorie, ma nella elevazione dello spirito a forme irriducibili
ad un mondo di immagini determinate da meri rapporti di forze. La
"sovrabbondanza" che il gioco permette e lascia vivere ha un tratto indipendente
dalle necessità della vita nella sua forma materiale – biologica o sociale che sia
– ma non ha alcun tratto indipendente dalla vita in sé, a meno di non voler separata
la forza creativa dello spirito dalla vita. Spirito, qui, è quella
"sovrabbondanza" che Huizinga riconosce anche al più semplice dei giochi dei
viventi.
Confondere dunque in aula il gioco con la realtà può significare, per
così dire, riportare la vita alla sua sfera materiale – biologica o sociale che sia
– perché questo ci tocca fare nella vita reale, dove le regole della medicina,
dell’economia, della politica, e così via, possono far diventare assai pericoloso il
ricorso alla sfera della libera immaginazione. Ma in aula si vive un momento di
sospensione dalle regole della vita reale e c’è quindi spazio per quella
"sovrabbondanza" che crea vita spirituale e permette quella "produzione di
senso" che Huizinga attribuisce al gioco.
Certo, questo non vale soltanto per il professore di filosofia, ma per
il rapporto educativo stesso. Ciò cui infatti mira l’educazione è quanto Rousseau
ha indicato ricordando che la natura stessa chiede educazione, anzi educa essa stessa.
Sicché educare non deve significare opporre cultura a natura – opporre il gioco ai
rapporti materiali di forza – ma elevare i rapporti materiali alla sfera dello
spirito, elevazione che permette la "produzione di senso": concorrere a
realizzare l’ideale dell’uomo integrale della tradizione umanista, l’uomo
nella pienezza della sua vita armonica sognata da Rousseau e dai romantici (con tutte le
prudenze che la realizzazione di un ideale comporta).
Tuttavia chi lavora con la filosofia in aula ha un suo specifico,
perché deve mostrare come la produzione di senso della vita spirituale passi attraverso
una molteplicità non contraddittoria – oggi diremmo una "complessità"
– di forme di razionalità. Nella filosofia chi apprende opera con le forme di
razionalità proprie della scienza e con quelle dell’arte, con le forme
dell’indagine storica e con quelle dell’etica, e così via. E’ parte della
nostra professione tenere sempre aperta questa complessità ricordando che le forme di
razionalità del Simposio platonico non sono in contraddizione con la ragion pura
kantiana, che la vita tiene insieme il modello matematico e l’analisi empirica, lo
studio dei tecnici su un affresco da restaurare e il rigore delle forme dell’arte del
pittore.
Così la filosofia in aula può ricordare a chi apprende –
qualunque sia la sua età – che il mondo è più vasto del sapere concluso che gli
viene offerto, che le immagini che gli vengono proposte non esauriscono né la vita né la
realtà: perché nel "suo" gioco ciascuno può elaborare quella
"sovrabbondanza" in cui Huizinga riconosce l’elemento spirituale innestato
sulla sfera materiale. Produrre nuova vita, nuova realtà.
Come dunque dovranno essere elaborate le regole del gioco nel lavoro
filosofico in aula se si desidera operare per una società equilibrata, che favorisca
– secondo la nostra formula iniziale – allo stesso tempo la libera creatività
individuale e il rispetto del principio di eguaglianza?
L’indicazione in Huizinga è chiarissima. Le regole dovranno
essere concepite in modo che possano permettere la produzione di una
"sovrabbondanza" di natura spirituale: possano, non debbano, perché siamo al di
sopra, non fuori, della sfera dei rapporti materiali tra forze. Questo significa che le
regole del gioco non possono essere elaborate sulla base di un modello che rispecchia
esclusivamente le esigenze o le convinzioni del professore. Devono "creare
opportunità" alla vita di ciascuno perché si abbia una produzione spirituale.
Devono essere – per usare un linguaggio socio-economico – regole di
inclusione, non regole di esclusione. Questo è oggettivamente difficile da
ottenere e richiede a chi fa della filosofia un lavoro una preparazione professionale di
prim’ordine.
E’ infatti chiarissimo che ogni regola, in quanto tale, è per un
tratto una regola di esclusione. Poiché regola qualcosa, discrimina, separa: questo sì,
questo no. Non è concessa alcuna ingenuità su questo punto. Ma ogni regola è anche, per
qualcuno, strumento di espressione di sé. Anche la più dura delle regole se applicata
permette a qualcuno di accedere alla sfera della vita dello spirito. A qualcuno, non ad
altri. Si tratta allora di definire le regole del gioco in modo che la complessità della
vita – cioè l’enorme ricchezza delle differenze individuali – sia
rispettata, aiutata ad emergere e valorizzata. Non dunque un gioco, ma molti giochi,
multiformi rapporti tra persone. Se le regole invece sono definite in modo da imporre su
tutti un solo modello, allora esse discriminano. Non favoriscono la nascita di una
società di eguali nella loro multiforme libertà, ma di persone eguali perché
selezionate secondo un principio contro altre che ne restano escluse.
Vorrei indicare due seri danno prodotti da chi segue questa via. Un
primo danno deriva dal fatto che il principio di selezione che il professore ha imposto è
relativo ad una certa concezione dell’uomo e dei rapporti tra le persone. Non è
quindi per nulla detto che questo principio coincida con i princìpi di selezione della
vita reale. Con la conseguenza che una persona viene educata a seguire determinati modelli
e paga poi un durissimo prezzo nello scontro con la vita reale. Ed è cosa di cui tutti
abbiamo esperienza.
Un secondo danno deriva dal fatto che chi rimane escluso dal gioco
perde preziose opportunità di formazione. Ogni età ha determinate potenzialità, che non
è affatto detto permangano nel tempo. Non sviluppate al momento opportuno, possono andare
perdute.
Tra le caratteristiche del gioco che Huizinga sottolinea con maggiore
forza c’è l’elemento agonale: il gioco è gara, si vince qualcosa, spesso
qualcosa di simbolico. Limitando la nostra analisi alla scuola, simbolico è il voto, ma
anche la propria posizione nell’universo chiuso della classe. Ora, l’elemento
agonale è connesso con qualcosa di profondo, è una sorta di istinto – parola
tuttavia con cui definiamo qualcosa che non conosciamo. Chi insegna ha visto
all’opera questo istinto, e ancor meglio lo ha osservato chi lavora con la filosofia
riproducendo in aula le forme del lavoro filosofico proprie della tradizione greca, basate
sul dialogo personale, la dialettica o la retorica, la competizione. E in ogni gara
c’è chi vince e chi perde ed è un gioco e bisogna saper stare al gioco. Perché
così impariamo e il gioco non è la vita reale. E tuttavia la gara ha regole di
esclusione rigorose. Allora queste regole in aula quando siano presenti elementi di gara
devono essere concepite in modo da assegnare le parti permettendo a ciascuno di
valorizzare le proprie capacità.
Ovviamente questo ha un limite, determinato dal fatto che ciascuno
tenderà a non sviluppare le capacità in cui è più debole, ma quelle in cui è più
forte. Dunque ogni gioco in cui l’elemento agonale sia rilevante deve essere
affiancato da altre strutture di formazione di sé in cui ad essere importante sia la
capacità di compiere un tratto di strada in una direzione per ciascuno inusuale. Chi in
realtà conosce se stesso e le proprie potenzialità? Chi, e a che età, può dire questo
di sé?
Ancora un punto sul carattere "agonale" del lavoro in aula.
Chi lavora con la filosofia non può certo agire ingenuamente. In realtà nessun
professionista può farlo, in nessun campo. Tra le ingenuità da evitare, a proposito del
lavoro in aula come gioco nel senso di Huizinga, c’è certamente la concezione di sé
come estraneo alle dinamiche del gioco e al di sopra delle regole.
In realtà il professore, che ha la responsabilità di definire le
regole, non deve mai dimenticare che ogni gioco ha regole non espresse, non definite
esplicitamente, è influenzato da comportamenti che di fatto diventano regole. E queste
condizionano tutti, anche il professore stesso . Ad esempio, ciascuno di noi è portatore
di una storia, che proietta nel proprio stile di lavoro. E lo stile è un insieme di
regole spesso non espresse né definite, ma ferree. E’ dunque indispensabile un
costante esercizio di analisi di sé e del proprio lavoro: è assai utile, se si vivono
buoni rapporti con i colleghi e si riesce a far sì che qualcun altro osservi il proprio
lavoro per controllarlo, che qualcuno ci ricordi che nel gioco che stiamo conducendo
possiamo essere proprio noi a barare, o peggio a fare i guastafeste, non seguendo le
regole o introducendone surrettiziamente di nuove. Ad esempio lasciando passare messaggi
sotterranei, del tutto espliciti per gli studenti. Ricordo sempre, a questo proposito, il
chiarissimo messaggio dell’insegnante che non risponde alle domande che gli arrivano
se non ripetendo il già detto. A scuola uno studente ci mette un attimo a capire, e a non
far più domande.
L’eguaglianza di opportunità è favorita in aula quando il lavoro
viene concepito nel rispetto della "complessità" della persona, cioè delle
potenzialità divergenti non contraddittorie. E questo significa creare una molteplicità
di situazioni parallele a quella reale – una serie di "giochi" – che
permettano la valorizzazione di potenzialità diverse. Così facendo, dobbiamo ricordare
che agiamo in coerenza con la natura stessa della storia della filosofia, che è
tutt’altro che una sequenza omogenea di ricerche, di stili, di senso, ma è piuttosto
essa stessa nata dal tentativo di rispettare la complessità del reale, e dunque ha
operato con una grandissima varietà di stili, di forme di razionalità, e così via.
Richiamo qui di passaggio l’enorme varietà di generi letterari di cui si compone la
tradizione scritta della filosofia, non certo indipendente dalla varietà di stili di
pensiero propri della filosofia. E’ il caso qui di ricordare che la nozione di
realtà così come è stata elaborata dalla tradizione filosofica richiede in sé stessa
un approccio multiforme, perché in se stessa "complessa". La filosofia non ha
una propria specializzazione perché definisce il proprio campo in termini di realtà, non
di aree della realtà, o di tagli. I princìpi filosofici tendono a comprendere in sé la
totalità del reale, o a ridiscutere la nozioni di totalità e di realtà. Se il reale non
si lascia comprendere in una forma della razionalità, la filosofia – come fanno
l’arte e la scienza secondo tagli diversi sul reale - segue le mille vie necessarie
al pensiero per raggiungere il suo scopo. Dunque la complessità del lavoro filosofico in
aula è coerente con la diversità di strategie e di forme che i filosofi hanno elaborato
nella loro storia. Non c’è esercizio filosofico che i professori di filosofia usino
in aula che non abbia un precedente nella storia della filosofia. Quasi non c’è
gioco che si possa elaborare che non stia in una tradizione.
Ora il gioco, inteso nel senso di Huizinga, consente di mettere in
campo una dimensione assai ampia della realtà della vita, nella sfera protettiva del
mondo parallelo e concluso che le sue regole definiscono. Si pensi al legame strettissimo
che il gioco consente tra la sfera delle emozioni e quella della elaborazione di una
cultura. Mediante la gara, una complessità di emozioni entra in gioco:
l’eccitazione, lo spirito agonistico, il piacere intellettuale della mente e della
parola, la sofferenza che stimola o punisce, e così via. E questo determina un fortissimo
stimolo alla elaborazione di senso, alla riflessione filosofica. L’ideale
dell’uomo integrale, in cui emozioni e razionalità si saldino in un circolo
virtuoso, il tentativo di costruire una città degli uomini nella città della natura,
ebbene tutto questo acquista dimensione e misura. Termini questi per cui la filosofia
classica ci ha trasmesso la nozione di bellezza, e chi sa che cosa accade in aula quando
l’equilibrio creativo tra emozione e ragione si realizza sa bene che i Greci avevano
ragione. Si crea davvero una situazione bella. Una situazione nella quale si
comprende meglio che cosa abbia inteso dire Platone con l’altrimenti oscurissima tesi
del Simposio che Eros sia creare nella bellezza.
Concludo. La filosofia può essere una professione, e non solo una
forma della cultura, perché in essa sono state elaborate nel passato – e questo ne
definisce la natura – forme aperte per aprire la mente alla comprensione della
realtà nel rispetto della sua complessità. Queste forme possono essere insegnate e una
certa immagine della filosofia come gioco, elaborata da Huizinga, consente di definire
meglio strumenti e prassi professionali per farlo. E se qualcuno ritiene che la filosofia
non valga nulla perché essa non dà certezze, valga contro di lui la lucidissima tesi di
Locke, che giustifica il mio lavoro qui oggi e la mia scelta per la filosofia come
professione. Ricordate le sue parole?
"Sebbene la comprensione del nostro intelletto sia assai
ristretta rispetto alla vasta estensione delle cose, avremo motivi sufficienti per
esaltare il prodigo Autore del nostro essere per quella proporzione e quel grado di
conoscenza che egli ci ha conferito al di sopra di tutti gli altri abitanti di questa
nostra dimora. (…) Se non crederemo a nulla perché non possiamo conoscere tutto con
certezza, agiremo altrettanto saggiamente di uno che non volesse servirsi delle gambe, ma
rimanesse fermo e deperisse, perché non ha le ali per volare. Conoscendo la nostra forza,
sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo. (…) E’
di somma utilità al marinaio conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa
egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. E’ bene che egli
sappia che essa è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono
necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero
rovinarlo. (…) Se possiamo scoprire quelle misure mediante le quali una creatura
razionale, posta nello stato in cui l’uomo si trova in questo mondo, può e deve
governare le sue opinioni e le azioni che ne dipendono, non dobbiamo turbarci se altre
cose sfuggono alla nostra conoscenza".
Se al marinaio è di somma utilità lo scandaglio per poter governare
la nave, non c’è uomo a cui non sia utile lo scandaglio delle diverse forme di
razionalità e dei diversi stili di pensiero e di comunicazione per condurre se stesso. E
un uomo è più importante di una nave. La filosofia da sola può poco. Ma anche un uomo
da solo può poco. Chi sceglie la filosofia come professione, però, può collaborare con
altri alla definizione di forme di lavoro che aiutino tutti ad acquisire consapevolezza
della vastità del reale e della nostra posizione nel mondo. Per quel che i nostri mezzi
consentono. Ma da un serio lavoro non ci si attendono miracoli: ci si attende un lavoro
fatto bene. E non è mai poco un lavoro fatto bene. Bisogna prepararsi con molta cura. Non
so se, sui punti che mi è stato chiesto di trattare, in questi due pomeriggi riuscirò ad
aiutarvi a farlo. Credo solo che sia importante prepararsi con molta cura, e questo vale
per voi come per me, nel gioco delle parti e delle età, e dunque del tempo, che scandisce
la vita di noi uomini.
Note
(*) E' il testo di
una conferenza tenuta all'Università di Bari il 17 Marzo 1998 nell'ambito di un corso
rivolto a giovani laureati.
(1) Parmenide 137b.
"Allora Parmenide disse: "Devo dunque obbedire. Certo mi sembra di essere
nelle condizioni del cavallo di Ibico che, forte corridore, ma vecchio, sul punto di
scendere in gara legato al carro trepidava per ciò che stava per affrontare; il poeta,
paragonandolo a se stesso diceva: anch’io, contro la mia volontà così vecchio sono
costretto ad affrontare l'amore. Io stesso, ripensando a questo racconto, sento una grande
paura per come possa alla mia età attraversare un così vasto mare di parole. Tuttavia
devo accontentarvi anche perché, come dice Zenone, siamo tra noi. Dunque, da dove
cominciamo? Quale ipotesi poniamo per prima? O forse preferite, visto che dobbiamo giocare
un gioco molto difficile, che cominci dalla mia ipotesi dell’Uno in sé, per
verificare quali siano le conseguenze che derivano dall’affermazione che l’Uno
è Uno e da quella che non lo è?"
(2) J. Huizinga, Homo ludens, trad. it. di A. Vita, Einaudi,
Torino 1979, p. 176. Forme ludiche della filosofia è il titolo del capitolo nono.
(3) Sono i testi di Berti, De Pasquale, di Derrida e di Gueroult
raccolti nella sezione "La ricerca teorica: identità della filosofia / identità
professionale del professore di filosofia" (Comunicazione Filosofica, n. 1:
www.getnet.it/sfi)
(4) Così Rousseau all’inizio dell’Emilio: "Noi nasciamo
deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di
assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto quello che non abbiamo
alla nascita e di cui abbisognamo da grandi ci è dato dall’educazione. Questa
educazione ci viene o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Lo sviluppo interiore
delle nostre facoltà e dei nostri organi è l’educazione della natura; l’uso
che ci insegna a fare di questo sviluppo è l’educazione degli uomini; e
l’acquisto della nostra esperienza sugli oggetti che ci commuovono è
l’educazione delle cose. Ciascuno di noi è dunque educato da tre specie di
maestri".
(5) Homo ludens, cit., p. 180.
(6) ib., p. 173.
(7) ib., p. 178.
(8) ib., pp. 178-179
(9) ib., pp. 4-6.
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