L’evoluzione creatrice
viene pubblicata per la prima volta nel 1907, quando Bergson è ormai
persuaso della necessità di replicare al positivismo non solo negando
all'intelligenza scientifica la capacità di cogliere il senso del tempo,
e cioè di spiegare la vita interiore, ma lasciando esplodere la critica
nella direzione di una divaricazione radicale tra conoscenza
scientifica e intuizione vitalistica. La conseguenza di questo lavoro è
profonda: la scienza, per sua stessa natura, è funzionale, ma del tutto
inadeguata a comprendere la natura, che non è statica, ma vitale.
Conserva cioè, in sé, le medesime caratteristiche di fluidità del flusso coscienziale. Bergson non disdegna la scienza, ma la critica con finezza. La scienza ha una naturale inclinazione a isolare sistemi, a pensarli in modo astratto. Tuttavia tale operazione falsificante, in quanto i sistemi isolati non possono, a rigore, esistere, non è sbagliata in sé, altrimenti mai e poi mai ci affideremmo alla ricerca. Il fatto, ritiene di poter dimostrare Bergson con ricchezza di esempi, è che una tendenza all'isolamento nella natura esiste, ma non si completa mai: "se la scienza va fino in fondo e isola completamente, è per comodità di studio" (p. 19). Le "cose" non esistono, sono solidificazioni prodotte dal nostro intelletto. Oggetti, contorni di oggetti, sistemi chiusi, sono nostre fissazioni di tendenze naturali, ma sono inesatte, sono gli schemi del tipo di influenza che noi, con le nostre azioni, saremmo in grado di esercitare su quella materia. Lo stesso dicasi per il concetto di individualità, che neanche per l'uomo si realizza completamente. Ma noi questi concetti continuiamo a usarli. La ragione, ribadisce Bergson, sta nella loro funzionalità, per cui un dato di sistematicità nella natura ci autorizza a parlare di individualità, e la natura sembra tendere a costituire sistemi isolati, per cui pare rafforzare in noi questa tendenza, legittimandola. L'intelligenza galileiana, in realtà, esercita su di noi una forte attrazione perché "soddisfa un'inclinazione innata" (p. 29), ma non si deve equivocarne il senso. La natura ha evolutivamente generato l'intelligenza astraente e oggettivante per tutt'altro motivo che per offrire una via alla spiegazione della vita stessa. Si tratta di un struttura a vocazione pratica, non teorica.
Conserva cioè, in sé, le medesime caratteristiche di fluidità del flusso coscienziale. Bergson non disdegna la scienza, ma la critica con finezza. La scienza ha una naturale inclinazione a isolare sistemi, a pensarli in modo astratto. Tuttavia tale operazione falsificante, in quanto i sistemi isolati non possono, a rigore, esistere, non è sbagliata in sé, altrimenti mai e poi mai ci affideremmo alla ricerca. Il fatto, ritiene di poter dimostrare Bergson con ricchezza di esempi, è che una tendenza all'isolamento nella natura esiste, ma non si completa mai: "se la scienza va fino in fondo e isola completamente, è per comodità di studio" (p. 19). Le "cose" non esistono, sono solidificazioni prodotte dal nostro intelletto. Oggetti, contorni di oggetti, sistemi chiusi, sono nostre fissazioni di tendenze naturali, ma sono inesatte, sono gli schemi del tipo di influenza che noi, con le nostre azioni, saremmo in grado di esercitare su quella materia. Lo stesso dicasi per il concetto di individualità, che neanche per l'uomo si realizza completamente. Ma noi questi concetti continuiamo a usarli. La ragione, ribadisce Bergson, sta nella loro funzionalità, per cui un dato di sistematicità nella natura ci autorizza a parlare di individualità, e la natura sembra tendere a costituire sistemi isolati, per cui pare rafforzare in noi questa tendenza, legittimandola. L'intelligenza galileiana, in realtà, esercita su di noi una forte attrazione perché "soddisfa un'inclinazione innata" (p. 29), ma non si deve equivocarne il senso. La natura ha evolutivamente generato l'intelligenza astraente e oggettivante per tutt'altro motivo che per offrire una via alla spiegazione della vita stessa. Si tratta di un struttura a vocazione pratica, non teorica.
Un secondo colpo ben
assestato è dedicato da Bergson all'approccio finalistico. Egli nega si
possa parlare di finalismo immanente, considerato a suo avviso una
contraddizione in termini, in quanto il finalismo implica sempre un
elemento esterno. Ora, l'estensione dello schema teleologico alla
scienza della natura è solo un'indebita estensione della nostra
esperienza di attori della nostra vita, su altri campi del mondo. Io
agisco perseguendo fini, creo similitudini col passato per anticipare il
futuro, ma rispetto alla natura si tratta di un'antropomorfizzazione.
Bergson non accetta il positivismo, ma non vuole neanche ricongiungersi
con l'idealismo, sostenendo che il finalismo (immanente o trascendente
che sia) non differisce dal meccanicismo nel suo difetto principale: la
paura del caso. In realtà, l'evoluzione della natura è del tutto
casuale, o meglio, imprevedibile. "In quanto geometri - spiega Bergson -
respingiamo l'imprevedibile" (p. 51). Bergson ci esorta a mettere da
parte l'intelligenza e a usare il sentimento, nel senso forte della
parola: "non appena usciamo dagli schemi in cui il meccanicismo e il
finalismo radicale costringono il pensiero, la realtà ci appare come
un'esplosione continua di novità" (p. 53), rispetto alla quale
meccanicismo e finalismo altro non sarebbero che tendenze all'astrazione
e fissazione intellettuale. La causa delle variazioni, nella natura, è
una forza chiamata "slancio”.
Con il proseguire
dell'analisi, avanza la messa a fuoco dell'intelligenza, capace di
mettere in relazione materia a materia, punti spaziali a punti spaziali,
ma sempre in maniera estrinseca e superficiale, priva di profondità e
di capacità di contatto con la vita. Essa si differenzia dall'istinto,
che è pura simpatia, contatto diretto con le operazioni vitali, che
procede dunque in direzione opposta rispetto all'intelligenza. Ma esiste
poi una terza facoltà, l'intuizione, che ci riporta anch'essa dentro la
vita, in modo però disinteressato (contrariamente all'istinto). Se
l'intuizione disinteressata è propria dell'esperienza estetica, è
sull'impronta dell'arte che dovrebbe costruirsi la nuova filosofia. La
filosofia non può accettare di prender per buoni i dati delle scienze e
giocare a far da metodologia o da critica dei saperi. Secondo Bergson
essa deve dirigersi in senso inverso rispetto all'intelligenza, capace
solo di una "verità simbolica". "Il dovere della filosofia sarebbe,
dunque, d'intervenire attivamente, di esaminare il vivente senza il
secondo fine di un'utilizzazione pratica liberandosi dalle forme e dalle
abitudini propriamente intellettuali" (p. 191). Con l'avanzare
dell'argomentazione, il panteismo bergsoniano si fa sempre più spinto,
fino alla definizione delle anime come "ruscelletti tra i quali si
divide il grande fiume della vita" (p. 258), e al collegamento di tutti i
sistemi: "tutti i viventi sono collegati, e tutti cedono alla stessa
formidabile spinta" (id.).
Indice:
Indice:
Un’introduzione alla filosofia di Bergson
Cronologia
Bibliografia
Nota alla traduzione
L’evoluzione creatrice:
Cap. I – L’evoluzione della vita. Meccanismo e finalità
Cap. II – Le direzioni divergenti dell’evoluzione della vita. Torpore, intelligenza, istinto
Cap. III – Significato della vita. L’ordine della natura e la forma dell’intelligenza
Cap. IV – Il meccanismo
cinematografico del pensiero e l’illusione meccanicista. Uno sguardo
sulla storia dei sistemi. Il divenire reale e il falso evoluzionismo
Guida alla lettura
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