Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 29 novembre 2013

Quine, due Dogmi dell'Empirismo

Da "http://etexts.free.fr/filos/contemporanei/Quine,%20Dogmi%20empirismo.php" : 

L'empirismo moderno è stato per molta parte condizionato da due dogmi:
I) una presunta discriminazione fra verità che sarebbero analitiche per il fatto di basarsi sul significato dei termini, e non su dati di fatto, e verità che sarebbero sintetiche perché si fonderebbero su dati di fatto;
II) la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l'esperienza immediata, e cioè il riduzionismo. 
Noi abbandoneremo sia l'uno che l'altro dogma perchè ne dimostreremo l'infondatezza; e le conseguenze di un tale abbandono, fra l'altro, saranno: per un verso, un offuscarsi della distinzione fra metafisica e scienza naturale; per un altro verso, un accostarsi al pragmatismo.

1. Prospetto dell'analiticità

La distinzione kantiana fra verità analitiche e verità sintetiche era già adombrata in quella humiana fra connessioni di idee da una parte e dati di fatto dall'altra, nonché in quella leibniziana fra verità di ragione e verità di fatto. Leibniz parlava delle verità di ragione come di quelle verità che sarebbero rimaste tali in tutti i mondi possibili; fuor di metafora, ciò equivale a dire che le verità di ragione sono quelle che in nessun modo potrebbero mai essere false. Sulla stessa falsariga, una proposizione analitica viene anche definita come quella proposizione la negativa della quale è contraddittoria. Quest'ultima definizione, in realtà, non chiarisce molto le idee; infatti, codesta nozione di contraddittorietà, intesa in senso lato come si richiede per quella definizione, ha bisogno di essere chiarita né più né meno che l'analiticità stessa. Codeste due nozioni non sono, insomma, che le due facce di una stessa enigmatica moneta.
Per Kant una proposizione analitica era quella in cui si predicava del soggetto nulla di più di ciò che era già contenuto concettualmente nello stesso soggetto. Questa sua formulazione, però, ha due difetti: in primo luogo si limita alle proposizioni della forma soggetto-predicato; secondo poi, essa fa appello ad una nozione di contenimento che rimane ad un livello metaforico. Ma ciò che Kant aveva in mente, e che di certo si chiarisce più nell'uso che egli fa della nozione di analiticità che nella sua definizione di essa, si potrebbe riformulare così: una proposizione è analitica quando è vera in virtù del significato dei termini, indipendentemente dai fatti. Seguendo questa traccia, esaminiamo il concetto di significato che si viene a presupporre.
Significare, è bene ricordarlo, non è lo stesso che denotare. L'esempio di Frege di 'Stella della sera' e 'Stella del mattino', e quello russelliano di 'Scott' e 'l'autore del Waverley' mostrano come i termini possano denotare la stessa cosa pur avendo significati diversi. La distinzione fra significare e denotare non è poi di minor importanza a livello dei termini astratti. 'Il numero dei pianeti' e '9' denotano la stessa ed unica entità astratta, ma è lecito supporre che i loro significati debbano considerarsi diversi; tanto è vero che per dimostrare che l'entità in questione è una sola abbiamo bisogno di un'osservazione astronomica, e non basta riflettere soltanto sul significato dei termini in causa.
Gli esempi riportati contemplano soltanto il caso di termini singolari, sia concreti che astratti. Con i termini generali, cioè i predicati, la situazione cambia in un certo senso, ma rimane sostanzialmente parallela. I termini singolari, contrariamente a quelli generali, mirano a denotare certe entità, concrete o astratte che esse siano; i termini generali, invece, sono veri di certe entità, o di tutte le singole entità di una classe, oppure di nessuna. La classe di tutte le entità di cui un termine generale è vero si chiama la estensione del termine. Ricordandoci ora della distinzione fra il significato di un termine singolare e l'entità da esso denotata dobbiamo, parallelamente e analogamente, distinguere fra il significato di un termine generale e la sua estensione. Termini generali come 'creatura con cuore' e 'creatura con reni'. ad esempio, hanno forse la medesima estensione, ma di certo un diverso significato.
Confondere il significato con l'estensione a proposito dei termini generali non è tanto comune quanto confondere il significato col denotato a proposito dei termini singolari. È diventato infatti un luogo comune, in filosofia, opporre intensione (o significato) ad estensione o, come anche si dice, connotare a denotare.
Il concetto aristotelico di essenza è senza dubbio il precursore di quello moderno di intensione o significato. Per Aristotele era essenziale essere razionale per essere uomo, accidentale l'avere due gambe. Ma c'è una differenza importante fra queste posizioni aristoteliche e la dottrina del significato: dal punto di vista di quest'ultima si può anche concedere (se non altro per amore di discussione) che la razionalità sia implicita nel significato della parola 'uomo' mentre l'avere due gambe no; ma l'avere due gambe si può allo stesso tempo considerare implicito nel significato di 'bipede', mentre la razionalità no. Così dal punto di vista della dottrina del significato non ha senso dire di un individuo reale, uomo e bipede ad un tempo, che la sua razionalità sia essenziale mentre il fatto che ha due gambe sarebbe accidentale, o viceversa. Secondo Aristotele le cose avevano delle essenze; ma solamente una forma linguistica ha un significato. Il significato è ciò che l'essenza diventa quando si separa dall'oggetto di riferimento per sposarsi al vocabolo.
Per la teoria del significato la natura dei propri oggetti costituisce un grosso problema: che sorta di cose sono i significati? Se, ora, si sentisse il bisogno di entità significate, ciò probabilmente vorrebbe dire che non si era dato il suo giusto valore alla distinzione fra significato e riferimento. Una volta che la teoria del significato sia nettamente distinta dalla teoria del riferimento, si giunge facilmente a riconoscere che la sinonimia delle forme linguistiche e l'analiticità delle proposizioni costituiscono i principali problemi della teoria del significato; i significati di per sè, come oscure entità intermediarie, si possono benissimo abbandonare.
Ci troviamo così di fronte, nuovamente, al problema dell'analiticità. Le proposizioni che per generale proclamazione dei filosofi sono analitiche non c'è da andarle a cercare molto lontano. Esse si dividono in due classi. Quelle appartenenti alla prima classe, e che si possono chiamare verità logiche, potrebbero essere esemplificate da:
(1) Nessun uomo non sposato è sposato.
L'aspetto più rilevante di questo esempio è che la proposizione non solo è vera cosí come sta ma rimane vera per ogni possibile interpretazione diversa di 'uomo 'e 'sposato'. Se noi presupponiamo un inventario di particelle logiche, comprendente 'nessun', 'in-', 'non', 'se', 'allora', 'e', ecc., allora in generale una verità logica è una proposizione che è vera e rimane vera per ogni interpretazione possibile dei termini che la compongono che non siano le particelle logiche.
Ma c'è anche una seconda classe di proposizioni analitiche, esemplificata da:
(2) Nessuno scapolo è sposato.
La caratteristica di una proposizione del genere è che essa può venir tradotta in una verità logica sostituendo ad un termine il suo sinonimo; così la (2) può venir tradotta nella (1) sostituendo 'uomo non sposato' al suo sinonimo 'scapolo'. Pur tuttavia, ci manca ancora una caratterizzazione propria di questa seconda classe di proposizioni analitiche, e quindi dell'analiticità in generale, dal momento che, nella esposizione che abbiamo fatto, ci siamo dovuti valere di una nozione di " sinonimia " che ha bisogno di esser chiarita almeno quanto l'analiticità stessa.
Recentemente Carnap ha preferito spiegare l'analiticità facendo appello a ciò che egli chiama descrizioni-di-stato. Una descrizione di stato è una qualsiasi esauriente attribuzione di valori di verità alle proposizioni atomiche, o non composte, di una certa lingua. Tutte le altre proposizioni della lingua in questione sono, secondo Carnap, costruite con le loro locuzioni costitutive per mezzo degli usuali mezzi logici, in modo tale che il valore di verità di una qualsiasi proposizione complessa è fissato per ogni descrizione di stato da leggi logiche determinabili. Si dice allora che una proposizione è analitica quando essa risulta vera sotto ogni e qualsiasi descrizione di stato. Questa spiegazione è un adattamento del leibniziano " vero in tutti i mondi possibili ". Ma si noti che codesta spiegazione dell'analiticità raggiunge il suo scopo solo se le proposizioni atomiche della lingua sono, a differenza di 'John è scapolo' e 'john è sposato', indipendenti l'una dall'altra. Altrimenti vi sarebbe una descrizione di stato che assegnerebbe valore di verità a 'john è scapolo' e a 'john è sposato' e di conseguenza 'Nessuno scapolo è sposato' diventerebbe, per il criterio proposto, piuttosto una proposizione sintetica che non analitica. Così il criterio di analiticità in termini di descrizioni di stato serve solo per le lingue prive di coppie di sinonimi extralogici, come 'scapolo' e 'uomo non sposato' - coppie di sinonimi del tipo che ha dato origine alla " seconda classe " di proposizioni analitiche. Il criterio in termini di descrizioni di stato è tutt'al più una ricostruzione della verità logica, ma non dell'analiticità.
Non voglio con ciò dire che Carnap si inganni a questo proposito. La sua semplificata lingua modello con le sue descrizioni di stato mirava non alla risoluzione del problema generale dell'analiticità, ma prima di tutto alla chiarificazione delle nozioni di probabilità e di induzione. Il nostro problema, tuttavia, è l'analiticità; e qui la maggiore difficoltà non è nella prima classe di proposizioni analitiche, le verità logiche, ma piuttosto nella seconda classe, che dipende dalla nozione di sinonimia.

2. Sulla 'definizione'

Vi sono di coloro che trovano confortante dire che le proposizioni analitiche della seconda classe si riducono a quelle della prima classe (cioè le verità logiche) per definizione; 'scapolo' ad esempio, si dice, è definito come: 'uomo non sposato'. Ma in che modo riusciamo a scoprire che 'scapolo' è definito come: 'uomo non sposato'? Chi lo ha definito così, e quando? Dobbiamo forse ricorrere al più vicino dizionario, e accettare come legge la formulazione del lessicografo? Questo vorrebbe dire veramente mettere il carro avanti ai buoi. Il lessicografo è uno scienziato empirico, il cui compito è quello di registrare dei fatti che lo precedono; e se egli glossa 'scapolo' con 'uomo non sposato' ciò è perchè egli crede che vi sia una relazione di sinonimia fra quelle due forme linguistiche, relazione implicita o nell'uso corrente generale o in una accezione particolare di certo anteriori al suo lavoro. Ma la nozione di sinonimia qui presupposta deve ancora essere chiarita, e chiarita presumibilmente in termini di comportamento linguistico. Dal momento, però, che la "definizione" non è che la registrazione di una sinonimia rilevata dal lessicografo, essa non si può prendere di certo come fondamento della sinonimia stessa.
L'attività definitoria, in verità, non è una attività esclusivamente riservata al filologo. I filosofi e gli scienziati hanno spesso occasione di "definire" un termine oscuro facendone la parafrasi in termini più familiari. Ma di solito una simile definizione, così come quella del filologo, è pura lessicografia, ed afferma una relazione di sinonimia che la precede.
È quindi ancora lungi dall'esser chiaro cosa voglia dire affermare la sinonimia e cioè proprio in che cosa consistano quei reciproci rapporti che sono necessari e sufficienti perchè due forme linguistiche possano propriamente dirsi sinonime; ma quali che possano essere codesti rapporti, di solito essi si fondano sull'uso corrente. Le definizioni che registrano casi selezionati di sinonimia vengono ad essere, allora, niente altro che registrazioni dell'uso corrente.
Vi è anche, tuttavia, un tipo diverso di attività definitoria che non si limita alla registrazione di sinonimie preesistenti. Penso a quella che Carnap chiama spiegazione: un'attività propria dei filosofi, ma anche degli scienziati nei loro momenti più filosofici. In una spiegazione lo scopo non è meramente quello di parafrasare il definiendum con un suo immediato sinonimo, ma quello di perfezionare in realtà il senso del definiendum raffinando o integrando il suo significato. Ma la spiegazione, sebbene essa non sia la mera registrazione di una sinonimia preesistente, fra il definiens e il definiendum, si basa pur tuttavia su altre sinonimie preesistenti. La questione, allora, si può vedere così: ogni parola che meriti una spiegazione si trova in certi contesti alcuni dei quali, presi nel loro insieme, sono chiari e abbastanza precisi per essere utili; lo scopo della spiegazione è quello di proteggere l'uso corrente di tali contesti privilegiati rendendo più preciso allo stesso tempo l'uso di altri contesti. Perchè una data definizione sia perciò adatta agli scopi di una spiegazione, non si richiede che il definiendum nel suo uso corrente sia sinonimo del definiens, ma solo che ciascuno di questi contesti privilegiati del definiendum, preso come insieme nel suo uso corrente, sia sinonimo del contesto corrispondente del definiens.
Due diversi definientia possono essere ugualmente adatti per gli scopi di un dato compito di spiegazione senza tuttavia essere sinonimi l'uno dell'altro; essi, infatti, possono servire scambievolmente nei contesti privilegiati ma divergere altrove. Seguendo uno di questi definientia piuttosto che l'altro una definizione di tipo esplicativo genera, normativamente, una relazione di sinonimia fra il definiendum e il definiens, relazione che prima non sussisteva. Ma una definizione del genere deve anch'essa la sua funzione esplicativa, come si è visto, a certe sinonimie preesistenti.
Rimane ancora, tuttavia, un ultimo tipo di definizione che non rimanda affatto a sinonimie antecedenti: l'introduzione, cioè, esplicitamente fatta per convenzione, di nuovi simboli a scopo di pura abbreviazione. Qui il definiendum diventa sinonimo del definiens semplicemente perchè è stato creato espressamente con lo scopo di esserlo. Questo è veramente un caso palese di sinonimia creata per definizione; magari tutte le specie di sinonimia fossero altrettanto comprensibili! In tutti gli altri casi, invece, la definizione poggia sulla sinonimia piuttosto che spiegarla.
La parola 'definizione' è venuta ad avere un suono pericolosamente rassicurante, dovuto senza dubbio al fatto che essa ricorre frequentemente negli scritti di logica e di matematica. Sarà bene soffermarci quindi un poco a fare rapidamente una valutazione del ruolo della definizione negli scritti formali.
Nei sistemi logici e matematici ci si può sforzare di raggiungere l'uno o l'altro di due tipi di economia che si escludono a vicenda, e di cui ciascuno ha la sua peculiare utilità pratica. Da una parte possiamo perseguire un'economia delle nostre espressioni pratiche (e cioè mirare alla snellezza e alla brevità nella asserzione di una molteplicità di relazioni). Questo tipo di economia richiede in genere delle notazioni di individuazione concise per un gran numero di concetti. D'altra parte, tuttavia, ed in modo del tutto opposto, possiamo perseguire un'economia grammaticale e lessicale; possiamo cercar di trovare un minimo di concetti fondamentali tali che, una volta che una notazione di individuazione sia stata assegnata a ciascuno di essi, divenga possibile esprimere qualsiasi ulteriore concetto desiderato col semplice combinare e ripetere le nostre notazioni fondamentali. Questo secondo tipo di economia per un verso non è molto pratico, dal momento che la povertà delle locuzioni fondamentali tende necessariamente ad allungare il discorso. Ma per un altro verso è realmente pratico: semplifica infatti di molto il discorso teorico sul linguaggio, riducendo al minimo i termini e le forme di costruzione in cui quel linguaggio si esaurisce.
Entrambi i tipi di economia, sebbene siano prima facie incompatibili, sono di gran valore, ciascuno a suo modo, se considerati separatamente. Di conseguenza è sorta l'abitudine di combinarli creando di fatto due linguaggi, di cui uno è parte dell'altro. Il linguaggio inclusivo, sebbene abbia una grammatica e un lessico ridondanti, è economico per quanto riguarda la lunghezza dei messaggi, mentre la sua parte, chiamata notazione primitiva, è economica per quanto riguarda la grammatica e il lessico. Tutto e parte sono correlati da regole di traduzione con cui ciascuna locuzione che non sia costituita da notazioni primitive viene identificata tuttavia a un certo complesso che, invece, con notazioni primitive è costruito. Queste regole di traduzione sono le cosiddette definizioni che compaiono nei sistemi formalizzati e che non si debbono tanto considerare come complemento di una lingua, ma piuttosto come relazioni reciproche fra due lingue, l'una facente parte dell'altra.
Queste relazioni, però, non sono arbitrarie. Il loro scopo è quello di mostrare come le notazioni primitive possono raggiungere tutti gli obiettivi della lingua ridondante, tranne la brevità e la praticità. Quindi ci si può aspettare che il definiendum e il suo definiens, in ciascun caso, siano in uno dei tre tipi di rapporto ora esaminati. Il definiens può essere una parafrasi fedele del definiendum in termini più familiari e tale da rispettare una sinonimia diretta col precedente uso corrente; oppure il definiens può, in quanto spiegazione, specificare ulteriormente l'uso corrente del definiendum; oppure, infine, il definiendum può essere una notazione creata appositamente, ed appositamente dotata di significato.
Sia negli scritti formali che in quelli non formali, cosí, troviamo che la definizione—eccetto che nell'ultimo caso, e cioè nell'introduzione esplicitamente convenzionale di nuove notazioni—fa perno su precedenti relazioni di sinonimia. Riconoscendo allora che la nozione di definizione non fornisce la chiave né per la sinonimia né per l'analiticità, esaminiamo più da vicino la sinonimia e lasciamo da parte la definizione.

3. La sostituibilità reciproca

Un suggerimento spontaneo, che merita un esame ravvicinato, è che la sinonimia di due forme linguistiche consista semplicemente nella possibilità di sostituire in tutti i contesti l'una forma all'altra senza alterare il valore di verità-sostituibilità reciproca, come diceva Leibniz, salva veritate. Si noti che i sinonimi così concepiti non devono necessariamente essere privi di indeterminatezza, finché l'indeterminatezza dell'uno si uniforma a quella dell'altro.
Ma non è del tutto vero che i sinonimi 'scapolo' e 'uomo non sposato' siano sempre e dovunque sostituibili reciprocamente salva veritate. Verità che diventano false sostituendo 'uomo non sposato' a 'scapolo' si costruiscono facilmente servendosi, ad esempio, di una citazione fra virgolette, come:
'Scapolo' ha meno di dieci lettere.
Codesto esempio a sfavore, tuttavia, si potrebbe forse respingere trattando la citazione 'scapolo' come una singola parola indivisibile e quindi stabilendo che la sostituibilità reciproca salva veritate come banco di prova della sinonimia non si deve applicare a delle parti che figurano all'interno di una parola. Questa spiegazione della sinonimia, ammesso che sia accettabile per certi aspetti, presenta però l'inconveniente di fare appello a un concetto presupposto di " parola " che presenta di certo, a sua volta, difficoltà di formulazione. Tuttavia, si può pretendere di aver fatto qualche progresso con l'aver ridotto il problema della sinonimia ad un problema sullo status di " parola ". Proseguiamo ancora un poco su questa strada, sorvolando sul termine " parola " o dandolo per chiarito.
Rimane la questione se la sostituibilità reciproca salva veritate (trascurando quella riferentesi a parti di parole) sia una condizione sufficientemente forte per la sinonimia o se, al contrario, alcune espressioni antonimiche non possano essere sostituibili allo stesso modo. Chiariamo subito che non stiamo parlando di sinonimia intesa nel senso di una identità completa di associazioni psicologiche o di qualità poetiche; in realtà nessuna espressione può mai essere sinonima di un'altra in questo senso. Ci occupiamo qui soltanto di quella che si potrebbe chiamare sinonimia conoscitiva e sapere che cosa essa sia è lo scopo di questa nostra ricerca; ma noi già sappiamo qualcosa sul suo conto poiché ci accorgemmo di averne bisogno quando parlavamo dell'analiticità nel par. 1. Allora si aveva bisogno soltanto di una sinonimia tale che qualsiasi proposizione analitica potesse esser volta in una verità logica sostituendo soltanto ad alcuni termini i loro sinonimi. Capovolgendo la situazione e ammettendo l'analiticità, invero, potremmo spiegare la sinonimia conoscitiva dei termini nel modo seguente (attenendoci al solito esempio): dire che 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono sinonimi in senso conoscitivo significa dire né più né meno che:
(3) Tutti e soltanto gli scapoli sono uomini non sposati
è analitica.
Ma noi dobbiamo riuscire a dar conto della sinonimia conoscitiva senza presupporre l'analiticità—se dobbiamo spiegare, viceversa, l'analiticità con l'aiuto della sinonimia conoscitiva, come si era mostrato nel par. 1. Ed è proprio una tale indipendente spiegazione della sinonimia conoscitiva quella che stiamo ora prendendo in esame, cioè la sostituzione reciproca salva veritate ovunque tranne che al di dentro delle parole. Il problema ora da risolvere, per riprendere finalmente il filo del discorso, è se una tale sostituibilità sia una condizione sufficiente per la sinonimia conoscitiva. Possiamo subito assicurarci che lo è, con un esempio come quello che segue. La proposizione:
(4) Necessariamente tutti e solo gli scapoli sono scapoli
è palesemente vera, anche supponendo che 'necessariamente' sia interpretato in senso così stretto da potersi applicare propriamente soltanto alle proposizioni analitiche. Allora, se 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono reciprocamente sostituibili salva veritate, la proposizione:
(5) Necessariamente tutti e solo gli scapoli sono uomini non sposati
che risulta sostituendo 'uomo non sposato' ad uno dei due 'scapolo' nella (4) deve, come la (4), essere vera. Ma dire che la (5) è vera significa dire che la (3) è analitica, e quindi che 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono sinonimi in senso conoscitivo.
Cerchiamo di vedere cos'è che dà a tutto questo discorso una certa aria di gioco di prestigio. La condizione di sostituibilità reciproca salva veritate ha forza variabile a seconda della maggiore o minore ricchezza della lingua che prendiamo in considerazione; il discorso di cui sopra presuppone una lingua abbastanza ricca da contenere l'avverbio 'necessariamente', avverbio interpretato in modo tale che la proposizione cui esso viene applicato è vera se e solo se è una proposizione analitica. Ma possiamo tollerare una lingua che contenga un avverbio simile? Ha veramente senso un simile avverbio? Supporre di sì vuol dire supporre di aver già dato un senso soddisfacente a 'analitico'. E allora, a che è servito tutto il nostro lavoro?
Il nostro discorso non è del tutto circolare, ma quasi. Se dovessimo darne un'immagine, avrebbe la forma di una curva chiusa nello spazio.
La sostituibilità reciproca salva veritate non ha significato fino a che non ci si riferisca ad una lingua la cui estensione sia specificata nei suoi aspetti di rilievo. Immaginiamo una lingua che contenga soltanto il materiale seguente: una quantità indefinita di predicati ad un posto (ad esempio, 'F' dove 'Fx' significa che x è un uomo) e di predicati a più posti (ad esempio, 'G' dove 'Gxy' significa che x ama y), aventi soprattutto a che fare con argomenti extra-logici. Il resto della lingua è composto di particelle logiche. Ogni proposizione atomica consiste di un predicato seguito da una o più variabili 'x', 'y', ecc.; e le proposizioni complesse sono costruite con quelle atomiche con l'ausilio delle funzioni di verità ('non', 'e', 'o', ecc.) e dei quantificatori. Una lingua simile beneficia anche dei vantaggi delle descrizioni e dei termini singolari in generale, essendo essi definibili contestualmente come già sappiamo. Perfino i termini singolari astratti che sono nomi di classi, di classi di classi, ecc. sono definibili contestualmente nel caso che fra i predicati dati figuri il predicato a due posti dell'esser membro di una classe. Una lingua simile può essere paragonata alla matematica classica e al linguaggio scientifico in generale, tranne che quando questo introduce mezzi discutibili come i condizionali controfattuali o gli avverbi modali come 'necessariamente'. Ora una lingua di questo tipo è una lingua estensionale, in questo senso: che due predicati qualsiasi che son di eguale estensione (e cioè, veri degli stessi oggetti) sono sostituibili reciprocamente salva veritate.
In una lingua estensionale, perciò, la sostituibilità reciproca salva veritate non garantisce affatto la sinonimia conoscitiva che si desiderava. Che 'scapolo' e 'uomo non sposato' siano sostituibili reciprocamente salva veritate in una lingua estensionale ci fa soltanto sapere che la (3) è vera. Niente ci garantisce che il fatto che 'scapolo' e 'uomo non sposato' abbiano uguale estensione poggi sul significato dei termini piuttosto che su soli dati di fatto contingenti, come è il caso di 'creatura con cuore' e 'creatura con reni'.
Nella maggior parte dei casi la concordanza estensionale è la maggiore approssimazione alla sinonimia di cui ci si debba preoccupare. Ma resta il fatto che la concordanza estensionale non riesce affatto a rendere la sinonimia conoscitiva richiesta per dar ragione dell'analiticità alla maniera del par. 1. Il tipo di sinonimia conoscitiva che si richiedeva doveva essere tale da identificare la sinonimia di 'scapolo' e 'uomo non sposato' con l'analiticità della (3), non semplicemente con la verità della (3).
Così dobbiamo riconoscere che la sostituibilità reciproca salva veritate, se spiegata con riferimento a una lingua estensionale, non è una condizione sufficiente per quella sinonimia conoscitiva necessaria a dar ragione e conto dell'analiticità di cui si parlava nel par. 1. Se una lingua contiene un avverbio intensionale come 'necessariamente' nel senso indicato da ultimo, o altre particelle del genere, allora la sostituibilità reciproca salva veritate in una tale lingua non offre una condizione sufficiente per la sinonimia conoscitiva; ma una lingua simile è comprensibile se e per quanto si sia già compresa la nozione di analiticità.
Il tentativo di spiegare prima la sinonimia conoscitiva, per derivare poi da essa l'analiticità come nel par. 1, è forse la via sbagliata. Potremmo invece spiegare l'analiticità in qualche modo senza ricorrere all'aiuto della sinonimia conoscitiva. Dopo di che potremmo senz'altro derivare quest'ultima esaurientemente dall'analiticità, a nostro piacimento. Abbiamo visto che la sinonimia conoscitiva di 'scapolo' e 'uomo non sposato' può venir spiegata come l'analiticità della (3). La stessa spiegazione vale, naturalmente, per qualsiasi coppia di predicati ad un posto, e la si può estendere ovviamente anche ai predicati a più posti. Le altre categorie sintattiche possono venir sistemate parallelamente. Si può dire che i termini singolari siano sinonimi conoscitivi quando la proposizione che asserisce la loro identità, proposizione formata col porre '=' fra due dei termini in questione, è analitica. Si può dire che gli asserti siano sinonimi in senso conoscitivo quando il loro bicondizionale (che si ottiene unendoli con 'se e solo se') è analitico. Se vogliamo comprendere tutte le categorie in una sola formulazione, a patto però di presupporre di nuovo la nozione di " parola " cui facevamo appello al principio di questo paragrafo, possiamo descrivere due qualsiasi forme linguistiche come sinonime in senso conoscitivo quando esse sono sostituibili reciprocamente (salvo che all'interno delle " parole ") salva (non più veritate, ma) analyticitate. In realtà sorgono alcuni problemi tecnici nei casi di ambiguità o di omonimia; non ci soffermeremo su di essi, tuttavia, per non perderci troppo in digressioni. Voltiamo piuttosto le spalle al problema della sinonimia e rivolgiamoci ancora di nuovo a quello dell'analiticità.

4. Le regole semantiche

Da principio sembrava più che naturale definire l'analiticità ricorrendo ad un regno dei significati. Poi l'appello ai significati dette adito ad un appello alla sinonimia o alla definizione. Ma risultò che la definizione era un fuoco fatuo, e che la sinonimia diventa comprensibile a sua volta solo in forza della stessa analiticità: e cosí siamo tornati al problema dell'analiticità.
Io non so se l'asserto 'Tutto ciò che è verde è esteso' sia analitico o meno; ora, questa mia incertezza sta davvero ad indicare che io non comprendo del tutto, che io non mi rendo conto pienamente dei "significati" di 'verde' e di 'esteso'? Io credo di no; la difficoltà non riguarda 'verde' o 'esteso', ma 'analitico'.
Si accenna spesso al fatto che la difficoltà nel separare le proposizioni analitiche dalle sintetiche nella lingua ordinaria è dovuta alla vaghezza di codesta lingua e che la distinzione diventa chiara quando si abbia una lingua artificiale precisa e fornita di esplicite " regole semantiche ". Questa, tuttavia, come tenterò ora di mostrare, è una confusione.
La nozione di analiticità di cui ci stiamo occupando e preoccupando è una pretesa relazione fra proposizioni e lingue: una proposizione S, si dice, è analitica per una lingua L, e il problema sta nel dare un senso a codesta relazione in generale, cioè per 'S' e 'L' variabili. La gravità di tale problema non è meno evidente per le lingue artificiali che per quelle naturali. Il problema di dar senso all'espressione 'S è analitica per L', con 'S' ed 'L' variabili, rimane ostinatamente in piedi anche se limitiamo la gamma della variabile 'L' alle lingue artificiali. Cercherò ora di chiarire questo punto.
Non appena si parla di lingue artificiali o di regole semantiche si guarda subito naturalmente agli scritti di Carnap. Le sue regole semantiche assumono varie forme e per chiarezza io dovrò distinguerne alcune. Supponiamo, per cominciare, una lingua artificiale L0 le cui regole semantiche abbiano esplicitamente la forma di una determinazione, ricorsiva o no, di tutte le proposizioni analitiche di L0. Le regole ci dicono che certe determinate proposizioni, e soltanto esse, sono le proposizioni analitiche di L0. Ma qui la difficoltà sta semplicemente nel fatto che le regole contengono il termine 'analitico' che noi non comprendiamo! Possiamo capire quali siano le espressioni cui le regole attribuiscono analiticità, ma non capiamo che cosa sia che le regole attribuiscono a quelle espressioni. In breve, prima di riuscire a capire una regola che comincia con 'Una proposizione S è analitica per la lingua L0 se e solo se...', dobbiamo capire il termine relativo generale 'analitico per'; dobbiamo capire 'S è analitica per L' dove 'S' ed 'L' sono variabili.
Oppure possiamo considerare le cosiddette regole come definizioni convenzionali di un certo nuovo simbolo semplice 'analitico-per-L0' che sarebbe meglio scrivere 'K' per non essere tendenzioso e non dare l'illusione di far luce sul termine che ci interessa: 'analitico'. È ovvio che qualsiasi numero di classi K, M, N, ecc. di proposizioni di L0 può venir specificato per vari o per nessuno scopo; che cosa significa dire che K, e non M, N, ecc., è la classe delle proposizioni " analitiche "di L0?
Dicendo quali proposizioni sono analitiche per L0 noi spieghiamo 'analitico-per-L0', ma non 'analitico', né 'analitico per'. E non cominciamo di certo a spiegare l'espressione 'S è analitico per L' con 'S' e 'L' variabili, neanche se ci accontentiamo di limitare la variabile 'L' al regno delle lingue artificiali.
In realtà ne sappiamo abbastanza sul conto di ciò che si intende dire con 'analitico' per sapere che se una proposizione è analitica deve essere vera. Passiamo allora ad un secondo tipo di regola semantica, che non ci dice quali particolari proposizioni siano analitiche, ma semplicemente quali proposizioni facciano parte delle proposizioni vere. Una regola siffatta, non contenendo il termine non spiegato 'analitico', non si può criticare per questo verso; e possiamo concedere per amore di discussione che il più lato termine 'vero' non presenti alcuna difficoltà. Una regola semantica di questo secondo tipo, e cioè una regola di verità, non deve necessariamente specificare quali siano tutte le verità di una lingua; essa stabilisce solamente, in un modo ricorsivo o no, un certo numero di proposizioni che, insieme ad altre non specificate, debbono considerasi vere; e si può anche concedere che una regola del genere sia assolutamente chiara. Dopo di che, per derivazione, si può caratterizzare l'analiticità nel modo seguente: una proposizione è analitica se è (non semplicemente vera, ma) vera secondo le regole semantiche.
Eppure non abbiamo fatto neanche un passo avanti. Invece di fare appello al termine non spiegato 'analitico', facciamo ora appello a una locuzione, 'regola semantica', che non è affatto spiegata. Non tutte le proposizioni vere che dicono che le asserzione di una certa classe sono vere possono venir considerate come regole semantiche (altrimenti tutte le verità sarebbero " analitiche " nel senso di essere vere secondo le regole semantiche). Si direbbe che le regole semantiche si possano distinguere solo per il fatto di apparire in una pagina sotto l'intestazione 'Regole Semantiche'; ma sarà allora questa stessa intestazione ad essere priva di significato.
Noi possiamo sì dire che una proposizione è analitica-per-Lo se e solo se essa è vera secondo certe determinate " regole semantiche ", ma ci troveremo poi sostanzialmente nella stessa situazione che si discuteva in principio: 'S è analitica-per-Lo se e solo se...'. Quando cerchiamo di spiegare 'S è analitica per L' in generale per 'L' variabile (anche ammettendo che 'L' si limiti alle lingue artificiali), la spiegazione: 'vera secondo le regole semantiche di L' non è di alcun vantaggio; il termine relativo 'regola semantica di', infatti, ha bisogno di esser chiarito almeno quanto lo è 'analitico per'.
Può essere istruttivo paragonare la nozione di regola semantica con quella di postulato. Data una certa serie di postulati, è facile dire che cosa è un postulato: è un membro della serie. Data una certa serie di regole semantiche, è altrettanto semplice dire che cosa sia una regola semantica. Ma data una semplice notazione, matematica o no che essa sia, se anche ammettiamo che si comprendano perfettamente le traduzioni o le condizioni di verità delle sue asserzioni, chi può dire quali delle sue asserzioni vere fungano da postulati? È chiaro che la questione non ha senso, come non ha senso domandarsi quali tra tutti i punti dell'Ohio siano quelli da cui esso comincia. Qualsiasi serie prescelta di asserzioni (con preferenza, forse, per quelle vere) finita (o che sia determinata realmente come infinita) è un insieme di postulati tanto quanto lo è una qualsiasi altra serie. La parola 'postulato' ha significato solo in rapporto a un atto di ricerca; noi applichiamo quel termine a un certo insieme di proposizioni solo fintanto che ci accade, in qualsiasi momento, di pensare a quelle proposizioni in rapporto alle altre proposizioni che se ne possono derivare con una certa serie di trasformazioni cui ci siamo trovati a rivolgere la nostra attenzione. Ora la nozione di regola semantica è tanto sensata e significante quanto quella di postulato, se concepita in un senso ugualmente relativo - relativo, questa volta, ad un certo particolare tentativo di far capire a qualcuno non troppo pratico quali siano le condizioni sufficienti perchè le asserzioni di una certa lingua naturale o artificiale L siano vere. Ma da questo punto di vista nessuna regola che distingua una certa sottoclasse dalla classe delle verità di L è intrinsecamente una regola semantica più di una qualsiasi altra; e, se 'analitico' significa 'vero per le regole semantiche', nessuna verità di L è analitica ad esclusione di un'altra.
Si potrebbe protestare che una lingua artificiale L (a differenza di una lingua naturale) è una lingua nel senso ordinario del termine con in più una serie di esplicite regole semantiche - il tutto costituente, diciamo, una coppia ordinata; e che le regole semantiche di L si potrebbero allora caratterizzare semplicemente come la seconda componente della coppia L. Ma, per la stessa ragione e più semplicemente, potremmo interpretare una lingua artificiale L direttamente come una coppia ordinata di cui la seconda componente sia la classe delle sue proposizioni analitiche; e allora le proposizioni analitiche di L divengono determinabili semplicemente come le proposizioni che fan parte della seconda componente di L. O, ancora meglio, potremmo finirla di arrampicarci sugli specchi.
Non tutte le spiegazioni della analiticità conosciute da Carnap e dai suoi lettori sono state trattate esplicitamente nelle nostre considerazioni, ma queste considerazioni, come si può facilmente intuire, sono estensibili a tutte. Basterà parlare soltanto di un altro fattore che talvolta entra in giuoco: qualche volta le regole semantiche sono veramente regole per tradurre la lingua artificiale nel linguaggio comune, e in questo caso le proposizioni analitiche della lingua artificiale si riconoscono di fatto come tali dall'analiticità delle loro traduzioni particolari nel linguaggio comune. Qui non si può certo pensare che il problema dell'analiticità riceva qualche chiarimento da parte della lingua artificiale.
Dal punto di vista del problema dell'analiticità la nozione di una lingua artificiale provvista di regole semantiche è un feu follet par excellence. Le regole semantiche che determinano le proposizioni analitiche di una certa lingua artificiale sono di un qualche interesse solo se abbiamo già compreso il concetto di analiticità; ma per la comprensione di quest'ultima non sono di nessun aiuto.
Fare appello a lingue ipotetiche artificialmente elementari potrebbe essere un modo utile per chiarire l'analiticità se i fattori mentali o comportamentistici o culturali di rilievo per l'analiticità (quali che possano essere) fossero in qualche modo abbozzati in quel modello semplificato. Ma un modello che prende l'analiticità puramente come una caratteristica non riducibile non è certo fatto per far luce sul problema dell'analiticità.
È ovvio che la verità in generale dipende sia da fatti linguistici che da fatti extralinguistici. L'asserzione 'Bruto uccise Cesare' sarebbe falsa se il mondo fosse stato diverso per certi aspetti, ma sarebbe anche falsa se la parola 'uccise' avesse per caso il senso di 'generò'. Così si è tentati a supporre che in generale si possa analizzare in qualche modo la verità di una proposizione in una componente linguistica e in una componente fattuale. E quindi, poi, sembra ovvio che alcune proposizioni non abbiano alcuna componente fattuale; queste ultime, allora, sarebbero le proposizioni analitiche. Ma, per tutta la sua ragionevolezza a priori, non si è affatto tracciata una distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche. Credere che si debba tracciare una tale distinzione è un non empirico dogma degli empiristi, un metafisico articolo di fede.

5. La teoria della verificazione e il riduzionismo

Nel corso di queste fosche riflessioni abbiamo dato un giudizio pessimistico prima di tutto della nozione di significato, quindi della nozione di sinonima conoscitiva e finalmente della nozione di analiticità. Ma che dire, ci si potrebbe chiedere, di quella teoria del significato che va sotto il nome di teoria della verificazione? Questa locuzione si è così saldamente affermata che è diventata quasi uno slogan dell'empirismo, e sarebbe veramente poco scientifico non rivolgersi ad essa per cercare una possibile soluzione del problema del significato e dei problemi ad esso connessi.
La teoria della verificazione, che ha avuto una parte notevole nella letteratura da Peirce in poi, consiste nell'affermare che il significato di una proposizione è il metodo con cui empiricamente la confermiamo o la infirmiamo. La proposizione analitica rappresenta il caso limite di quella proposizione che è confermata quali che siano i dati di fatto.
Come si è dimostrato nel par. 1, possiamo benissimo sorvolare sulla questione dei significati come entità e guardare direttamente a quella della identità di significato o sinonimia. E allora ciò che la teoria della verificazione dice è che due proposizioni sono sinonime se e solo se il metodo per confermarle o infirmarle empiricamente è lo stesso per entrambe.
In realtà, questa è una spiegazione della sinonimia conoscitiva delle proposizioni, ma non delle forme linguistiche in generale. Tuttavia dal concetto della sinonimia delle proposizioni potremmo derivare il concetto di sinonimia per le altre forme linguistiche con considerazioni in qualche modo simili a quelle che facevamo alla fine del par. 3. Accettando la nozione di " parola ", infatti, potremmo dire che due forme linguistiche qualsiasi sono sinonime quando, sostituendo una forma all'altra in una qualsiasi proposizione (tranne che quando figurino all'interno delle " parole "), si ottiene una proposizione sinonima a quella data. Infine, una volta dato così il concetto di sinonimia per le forme linguistiche in generale, potremmo definire l'analiticità in termini di sinonimia e di verità logica come nel par. 1. A tal fine, anzi, potremmo più semplicemente definire l'analiticità soltanto in termini di verità logiche e di sinonimia di proposizioni: non è necessario ricorrere alla sinonimia di forme linguistiche che non siano proposizioni. Si potrebbe infatti dire che una proposizione è analitica semplicemente - quando è sinonima di un'altra proposizione logicamente vera.
Così, se la teoria della verificazione potesse venire accettata come una spiegazione adeguata della sinonimia delle proposizioni, si potrebbe dopo tutto salvare la nozione di analiticità. Tuttavia, cerchiamo di riflettere. Si dice che la sinonimia delle proposizioni consista nell'identità del metodo con cui esse vengono confermate o infirmate empiricamente. Ma cosa sono codesti metodi che si mettono a confronto per scoprirne l'identità? Qual'è, in altre parole, la natura del rapporto fra una proposizione e le esperienze che sono a favore o contro la sua conferma?
L'opinione più ingenua è quella secondo cui quel rapporto consisterebbe in una registrazione diretta; questo è ciò che si chiama il riduzionismo radicale. Esso afferma che ogni proposizione avente significato è traducibile in una proposizione (vera o falsa che sia) su esperienze immediate. Il riduzionismo radicale, in una forma o nell'altra, possiamo dire che anticipi quella teoria del significato chiamata esplicitamente teoria della verificazione. Così, Locke e Hume sostenevano che ogni idea dovesse trarre la sua origine direttamente dall'esperienza sensibile oppure essere composta di idee originatesi in tal modo; e servendosi di un suggerimento di Tooke potremmo riformulare questa teoria in termini semantici dicendo che un termine, per essere affatto significante, deve essere o il nome di un dato sensoriale o un composto di tali nomi o un'abbreviazione di un tale composto. Enunciata così, codesta teoria presenta ambiguità fra dato sensoriale come evento sensoriale e dato sensoriale come qualità sensoriale; e non ci dice neanche con chiarezza quali siano i modi ammissibili per ottenere un composto. Oltretutto essa è restrittiva in modo intollerabile e del tutto superfluo dal momento che ci impone il compito di una critica per ogni singolo termine. Più ragionevolmente, e senza tuttavia oltrepassare i limiti di ciò che ho chiamato riduzionismo radicale, potremmo prendere come nostre unità significanti le proposizioni in quanto tali e richiedere che esse siano traducibili nella lingua dei dati sensoriali, senza esigere però che siano traducibili termine per termine.
Questa variante sarebbe. stata certamente accolta da Locke, da Hume e da Tooke, ma storicamente essa ha dovuto aspettare un importante mutamento di prospettiva negli studi semantici, e cioè quando si giunse a considerare veicolo di significato non più il singolo termine ma la proposizione come tale. Questo cambiamento di prospettiva, esplicito in Frege [Foundations of Arithmetic (New York: Philosophical Library, 1950), par. 60], è implicito nel concetto russelliano di definizione d'uso dei simboli incompleti; ed è anche implicito in quella teoria del significato che è la teoria della verificazione, dal momento che oggetto della verificazione sono le proposizioni.
Il riduzionismo radicale, concepito ora in funzione delle proposizioni, si pone il compito di determinare una lingua dei dati sensoriali e di mostrare come tradurre in essa qualsiasi discorso significante, proposizione per proporzione. Carnap intraprese una tale opera nel suo Aufbau.
La lingua che Carnap adottò come punto di partenza non era una lingua dei dati sensoriali nel senso più stretto del termine, dal momento che essa includeva anche le notazioni della logica fino alla superiore teoria degli insiemi. Di fatto essa includeva l'intero linguaggio della matematica pura. L'ontologia in essa implicita (cioè la gamma dei valori delle sue variabili) abbracciava non soltanto gli eventi sensoriali, ma anche le classi, le classi di classi e così via. Alcuni empiristi trasalirebbero di certo a una tale prodigalità. Il punto di partenza di Carnap è molto parsimonioso, tuttavia, nella sua parte extralogica o sensoriale. In una serie di costruzioni in cui egli sfrutta le risorse della logica moderna con molta abilità, Carnap riesce a definire un'ampia serie di importanti concetti sensoriali supplementari che, se non fosse stato per quelle sue costruzioni, non ci saremmo neanche sognati di poter definire su una base tanto debole. Egli è stato il primo empirista che, non contento di asserire semplicemente la riducibilità della scienza ai termini dell'esperienza immediata, abbia fatto seriamente dei passi avanti per mettere in pratica il riduzionismo.
Anche se il punto di partenza di Carnap è soddisfacente, pur tuttavia le sue costruzioni erano, come del resto sottolineò egli stesso, solo una parte dell'intero programma. E la costruzione delle proposizioni sul mondo fisico, anche delle più semplici, fu soltanto abbozzata. I suggerimenti di Carnap a questo proposito erano, malgrado la loro incompletezza, molto stimolanti. Egli spiegò il punto-istante spazio-temporale come l'insieme di quattro numeri reali e predispose l'assegnazione di qualità sensoriali ai punti-istanti secondo certe regole. Riassunto sommariamente, il progetto consisteva nell'assegnare le qualità ai vari punti-istanti in modo tale da ottenere il mondo più pigro possibile compatibile con la nostra esperienza. Il principio della minima azione doveva guidarci nella costruzione di un mondo per mezzo della nostra esperienza.
Carnap, tuttavia, non parve rendersi conto che il suo trattamento degli oggetti fisici non riusciva ad ottenere la riduzione desiderata non soltanto per la sua incompletezza, ma anche in linea di principio. Alle proposizioni della forma 'La qualità q è al punto-istante x;y;z;t' si dovevano, secondo le sue regole, assegnare valori di verità in modo tale da elevare al massimo e ridurre al minimo certi aspetti globali e, con il procedere dell'esperienza, i valori di verità dovevano venire progressivamente riesaminati con gli stessi criteri. Io credo che questa sia una buona esposizione schematica (di proposito più che semplificata, certamente) di ciò che la scienza realmente fa; ma essa non ci offre nessuna indicazione, neanche la più sommaria, di come una proposizione della forma 'La qualità q è a x;y;z;t' possa mai venir tradotta in quella lingua dei dati sensoriali e della logica che Carnap adottava come punto di partenza. La locuzione 'è a' rimane una congiunzione supplementare e non definita; le regole ci suggeriscono come usarla, ma non come eliminarla.
Sembra che Carnap in seguito si sia reso conto di ciò; infatti nei suoi scritti posteriori egli abbandonò del tutto la nozione di traducibilità delle proposizioni sul mondo fisico in proposizioni su esperienze immediate. Il riduzionismo nella sua forma radicale da allora non è più apparso nella filosofia di Carnap.
Ma il dogma del riduzionismo ha continuato, in una forma meno ingenua e più attenuata, ad influenzare il pensiero degli empiristi. Permane la convinzione che a ciascuna proposizione, o a ciascuna proposizione sintetica, sia associata una ed una sola sfera di possibili eventi sensoriali sì che la presenza di uno di questi aumenterebbe le garanzie di veridicità della proposizione, e che vi sia associata anche un'altra e un'altra sola sfera di possibili eventi sensoriali la cui presenza quelle garanzie diminuirebbe. Questa convinzione è naturalmente implicita nella teoria della verificazione.
Il dogma del riduzionismo sopravvive nella convinzione che ciascuna proposizione, presa di per sè ed isolata dalle altre, si possa confermare o infirmare. Il mio parere, al contrario, che discende essenzialmente dalla teoria carnapiana del mondo fisico esposta nell'Aufbau, è che le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono al tribunale dell'esperienza sensibile non individualmente ma solo come un insieme solidale.
Il dogma del riduzionismo, anche in questa sua forma attenuata, è connesso intimamente con l'altro dogma - cioè quello per cui vi sarebbe una differenza essenziale tra l'analitico e il sintetico. E di fatto quest'ultimo problema ci ha condotti al primo attraverso la teoria della verificazione. Più esattamente, il primo dogma sostiene chiaramente il secondo nel modo seguente: finché si ritiene che abbia significato in generale parlare di confermare o informare una proposizione, sembra che abbia significato anche parlare di un tipo limite di proposizione confermata in modo vuoto, ipso facto, quali che siano i dati di fatto; e questa sarebbe una proposizione analitica.
I due dogmi hanno in effetti una radice comune. Poco fa abbiamo detto che in generale la verità delle proposizioni dipende ovviamente da fatti sia linguistici che extralinguistici; e abbiamo notato come ciò provochi, non da un punto di vista logico ma del tutto istintivamente, l'impressione che la verità di una proposizione sia in qualche modo analizzabile in una componente linguistica e in una componente fattuale. La componente fattuale deve, se siamo empiristi, ridursi ad una gamma di esperienze di conferma. Nel caso limite in cui la componente linguistica è la sola che conti, una proposizione vera è analitica. Ma ormai siamo tutti convinti, spero, che non si può assolutamente riuscire a tracciare una netta distinzione tra analitico e sintetico. Ed è anche notevole, a mio parere, a parte gli esempi prefabbricati delle palle bianche e nere in un'urna, quanto sia stato sempre sconcertante il problema di arrivare a definire chiaramente una qualsiasi teoria della conferma empirica di una proposizione sintetica. A questo punto, perciò, vorrei suggerire che non ha alcun senso, e ha causato invece molte assurdità, parlare di una componente linguistica e di una componente fattuale nella verità di una qualsiasi singola proposizione. Presa nel suo insieme, la scienza dipende dalla lingua e dalla esperienza ad un tempo; ma ciò non significa che si possa dire altrettanto di ciascuna proposizione della scienza presa singolarmente.
L'idea della definizione d'uso di un simbolo, come è stato sottolineato, ha costituito un passo avanti rispetto all'assurdo empirismo, diretto ad ogni singolo termine, di Locke e di Hume. Con Frege si giunse a riconoscere che era la proposizione, e non il singolo termine, ciò che una critica empirista doveva considerare come unità. Ma io sostengo che anche questa è una rete a maglie troppo strette: l'unità di misura della significanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità.

6. Empirismo senza dogmi

Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini. O, per mutare immagine, la scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limite sono l'esperienza. Un disaccordo con l'esperienza alla periferia provoca un riordinamento all'interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. Una nuova valutazione di certe proposizioni implica una nuova valutazione di altre a causa delle loro reciproche connessioni logiche - mentre le leggi logiche sono soltanto, a loro volta, certe altre proposizioni del sistema, certi altri elementi del campo. Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un'altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche, Ma l'intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria. Una esperienza particolare non è mai vincolata a nessuna proposizione particolare all'interno del campo tranne che indirettamente, per delle esigenze di equilibrio che interessano il campo nella sua globalità.
Se tutto ciò è giusto, non è affatto corretto parlare del contenuto empirico di una certa proposizione particolare - specialmente se si tratta di una proposizione molto lontana dalla periferia del campo. Ed inoltre diventa assurdo cercare una qualsiasi linea di demarcazione fra proposizioni sintetiche, che si fondino sull'esperienza contingente, e proposizioni analitiche, che valgono quali che siano i dati dell'esperienza. Tutte le proposizioni si potrebbero far valere in tal modo se facessimo delle rettifiche sufficientemente drastiche in qualche altra parte del sistema. Persino una proposizione molto vicina alla periferia si potrebbe ritenere vera malgrado qualsiasi esperienza contraria adducendo a pretesto un'allucinazione o modificando alcune di quelle proposizioni che si chiamano leggi logiche. Analogamente, per converso, nessuna proposizione è immune, per le stesse ragioni, da correzioni. Si è perfino proposto di modificare la legge logica del terzo escluso come un mezzo per semplificare la meccanica quantistica; e che differenza c'è in linea di principio fra una modifica del genere e quella per cui Keplero ha preso il posto di Tolomeo o Einstein quello di Newton o Darwin quello di Aristotele?
Tanto per dare un'immagine intuitiva ho parlato in termini di distanze variabili da una periferia sensoriale; cerchiamo ora di chiarire questo concetto fuor di metafora. Sembra che alcuni asserti, pur se intorno ad oggetti fisici e non ad esperienze sensoriali, siano particolarmente pertinenti all'esperienza sensoriale (e in modo selettivo: certe asserzione a certe esperienze, altre ad altre). Tali asserti, segnatamente concernenti esperienze particolari, li rappresento come vicini alla periferia. Ma in questa relazione di " pertinenza " io non vedo niente più che una libera associazione che riflette in pratica il fatto che con una certa probabilità preferiremo modificare una certa proposizione piuttosto che un'altra in caso di qualche esperienza contraria. Per esempio, possiamo immaginare delle esperienze contrarie cui conformeremmo di certo volentieri il nostro sistema mutando soltanto la nostra valutazione dell'asserzione che in Via Elm vi sono delle case di mattoni, e delle relative asserzioni sullo stesso argomento. Possiamo immaginare altre esperienze contrarie cui conformeremmo volentieri il nostro sistema dando soltanto una nuova valutazione della asserzione che non vi sono centauri, e delle asserzioni ad essa relative. Io ho insistito nel dire che un'esperienza contraria può conciliarsi ed inserirsi in un certo sistema modificando a piacere alcune fra le varie e diverse valutazioni che si erano date nei vari e diversi settori dell'intero sistema: ma, nei casi che abbiamo ora portato ad esempio, la nostra naturale tendenza a turbare il meno possibile il sistema nella sua interezza ci condurrebbe a dirigere la nostra revisione su quelle particolari asserzioni concernenti case di mattoni o centauri. Si ha l'impressione perciò che queste proposizioni abbiano un riferimento empirico più preciso di quanto non lo abbiano le proposizioni altamente teoriche della fisica o della logica o dell'ontologia. Si possono considerare codeste proposizioni come poste quasi al centro dell'intera rete, volendo dire con ciò semplicemente che vi si impongono ben pochi rapporti preferenziali con i dati sensoriali particolari.
Come empirista io continuo a considerare lo schema concettuale della scienza come un mezzo, in ultima analisi, per predire l'esperienza futura alla luce dell'esperienza passata. Gli oggetti fisici vengono concettualmente introdotti nella situazione come comodi intermediari —non definendoli in termini di esperienza, ma come semplici postulati non riducibili, paragonabili, da un punto di vista epistemologico, agli dei di Omero. Io, che di fisica ho nozioni più che comuni, credo per parte mia negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e considero un errore scientifico credere altrimenti. Ma in quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non per la loro natura. Sia l'uno che l'altro tipo di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare una semplice costruzione nel flusso dell'esperienza.
E non ci fermiamo a postulare soltanto gli oggetti fisici del mondo macroscopico. Si postulano degli oggetti anche a livello atomico per rendere più semplici e più comode le leggi degli oggetti macroscopici e, in definitiva, le leggi dell'esperienza; e non dobbiamo aspettarci né pretendere una definizione esauriente delle entità atomiche e subatomiche in termini di quelle macroscopiche, più di quanto non pretendiamo una definizione degli oggetti macroscopici in termini di dati sensoriali. La scienza è un prolungamento del senso comune, e si serve dello stesso espediente del senso comune: amplia l'ontologia per semplificare la teoria.
Gli oggetti fisici, piccoli o grandi che siano, non sono i soli postulati; un altro esempio è costituito dalle forze; ed in realtà oggi la scienza ci dice che la discriminazione fra energia e materia è ormai antiquata. Inoltre, le entità astratte che sono l'essenza della matematica (cioè, in definitiva, le classi, le classi di classi e così via) sono degli altri postulati, e per le stesse ragioni. In sede epistemologica questi sono miti, sullo stesso piano degli oggetti fisici e degli dei, e non si possono considerare né migliori né peggiori se non per il diverso grado in cui ci facilitano il compito di trattare le esperienze sensoriali.
L'intera algebra dei numeri razionali e irrazionali non si può determinare interamente con l'algebra dei numeri razionali, ma è più funzionale e conveniente; essa include l'algebra dei numeri razionali come una sua parte incompleta o di comodo. Analogamente, ma in maggior misura, l'esperienza non può interamente determinare l'intero corpus delle scienze, matematiche naturali e dell'uomo. Il margine del sistema deve mantenersi sempre in accordo con l'esperienza; il resto, con tutti i suoi miti accurati o le sue fantasie, ha come obiettivo la semplicità delle leggi.
Le questioni ontologiche, che in questo senso sono sullo stesso piano delle questioni della scienza naturale. Consideriamo la questione se accettare o meno le classi come entità. Questo, come ho dimostrato altrove, vuol dire chiedersi se si possa o meno adoperare la quantificazione in riferimento a variabili che abbiano come valori le classi. Ora Carnap ["Empirism, semantics, and ontology", Revue internazionale de philosophie 4 (1950). Ristampato in Linsky] ha sostenuto che questa non è una questione di dati di fatto, ma di scelta di una forma conveniente di linguaggio, di uno schema concettuale conveniente o di un'intelaiatura per la scienza. In questo sono pienamente d'accordo, ma solo con la clausola che lo stesso si debba concedere per tutte le ipotesi scientifiche in generale. Carnap [vedi sopra pag. 32n] ha ammesso di poter mantenere un duplice criterio per le questioni ontologiche e per le ipotesi scientifiche solo ammettendo una distinzione assoluta fra l'analitico e il sintetico; e non ho bisogno di ripetere che questa è una distinzione che io respingo.
La questione dell'esistenza delle classi sembra più una questione della scelta di uno schema concettuale conveniente; quella dell'esistenza dei centauri o delle case di mattoni in Via Elm, ci dà più l'impressione di essere una questione di fatto. Ma io ho cercato di dimostrare che questa differenza è soltanto una differenza di grado, e che essa dipende da una tendenza in qualche modo pragmatica a modificare una certa parte dell'edificio della scienza piuttosto che un'altra quando dobbiamo conciliare certe esperienze particolari contrarie. In tutte codeste scelte traspare un certo conservatorismo insieme alla ricerca della semplicità.
Carnap, Lewis ed altri assumono una posizione pragmatica nella questione della scelta delle forme di linguaggio, delle intelaiature della scienza; ma il loro pragmatismo cessa alla soglia della immaginaria distinzione fra l'analitico e il sintetico. Nel ripudiare una tale discriminazione, io abbraccio un pragmatismo più radicale. Ciascun uomo ha una certa eredità scientifica oltre che una ininterrotta diga di stimoli sensoriali; e le considerazioni che lo guidano a piegare la sua eredità scientifica perchè si adatti agli incessanti dettami dei sensi sono, se razionali, di natura pragmatica.


Copyright 2001 © by Davide Fasolo e Vittorio Bertolini

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