Introduzione. Il cielo di pietra
Forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore.
(Jorge Luis Borges, "La sfera di Pascal" in "Altre Inquisizioni")
In un breve racconto che confluirà nelle Cosmicomiche, Italo Calvino descrive la vita di immaginari abitanti degli strati interni del pianeta terra, che si muovono tra le sfere concentriche contenute l’una dentro l’altra fino al nucleo centrale. È un testo singolare, che nella rubrica introduttiva fa riferimento alla legge fisica che postula la dipendenza della velocità di propagazione delle onde sismiche dalla profondità e dalle discontinuità tra i materiali che compongono i diversi strati del globo terrestre. Ma è anche un testo che parla di amore, e di musica. Le vibrazioni provenienti dall’atmosfera e la voce di uno sconosciuto cantore rapiranno la protagonista al mondo minerale, scatenando nel suo compagno il desiderio di «costruire sopra di lei una nuova volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall’inferno di quell’aria vibrante, di quel suono, di quel canto» [1] .
Il racconto non ha in realtà grande attinenza con l’argomento del presente saggio - una riflessione sull’armonia delle sfere in Dante - , ma il titolo Il cielo di pietra può diventare lo spunto iniziale per una riflessione sull’argomento.
Le sfere planetarie che compongono il paradiso dantesco sono un cielo di pietra, nonostante la loro composizione eterea. Anzi, è proprio la presenza di una materia dotata di moto circolare ed eterna, il cosiddetto quinto elemento o etere, a giustificare agli occhi degli uomini del medioevo l’esistenza di una musica celeste derivante dal perpetuo volgersi dei pianeti. Se questo legame appare nella Commedia giustificato e necessario, la teoria dell’armonia delle sfere è però caratterizzata da una persistenza che va ben oltre l’età medievale e la concezione tolemaica dell’universo, superando anche l’interpretazione geometrizzante operata da Keplero nel XVII secolo.
Alcune delle più recenti teorie fisiche che vogliono descrivere il comportamento delle particelle elementari utilizzano in effetti modellizzazioni basate su particolari simmetrie spaziali, quando non precisamente la nozione di armonia, che risalgono alle speculazioni dei pitagorici e di Platone.
Tale tesi è sostenuta da Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet in un affascinante articolo pubblicato nell’edizione francese di Scientific American [2].
In particolare, la teoria delle superstringhe, secondo la quale il fondamento della fisica microscopica risiederebbe nelle interazioni tra corde/stringhe di diametro infinitesimale, e non tra punti senza dimensione, nel suo riproporre la ricerca di un modello che interpreti efficacemente la natura intima del mondo passando per la conoscenza delle modalità vibratorie di corde inaccessibili ai nostri sensi, farebbe sì che «On retrouve ainsi, par un biais inattendu, la musique secrète des Pythagoriciens, qui n’est perceptible qu’aux
Una simile enunciazione teorica sarebbe probabilmente piaciuta a Leo Spitzer, che sul tema dell’armonia del mondo ha scritto uno dei saggi più ricchi e interessanti [3], che è stato la mia prima guida nel labirinto della storia semantica del concetto di armonia.
La presente riflessione sulle sfere armoniche della Commedia nasce proprio dal tentativo di applicare il metodo d’indagine spitzeriano, tra lessicografia e storia delle idee, all’analisi del concetto di armonia delle sfere per come si presenta nel testo dantesco. L’ipotesi che mi propongo di dimostrare è che vi sia la possibilità di leggere la teoria dell’armonia delle sfere, oltre che come ripresa di un’immagine suggestiva, quale struttura eidetica di fondo dell’universo dantesco.
Tale convinzione verrà verificata in primo luogo con il reperimento dei passi della Commedia nei quali si allude in modo più o meno esplicito alla musica delle sfere, cercando successivamente di rileggere la mappa concettuale dantesca alla luce della nozione di armonia che ne consegue.
§ 1. L’Armonia delle sfere: appunti per la «storia semantica di un’ idea»
[I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo!
(Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)
L’armonia delle sfere vive una condizione curiosamente dicotomica. Nelle opere di letterati, viaggiatori, anche fisici, o nelle scritture popolari di cui abbiamo dato un esempio sopra [4], essa si presenta spesso come un immaginifico archetipo dai contorni poco definiti, quando non viene addirittura declassata ad etichetta allusiva di volta in volta della concezione pre-scientifica, del rapimento estatico cui è soggetto qualche personaggio, di un’atmosfera languida e sognante [5] .
Al contrario, in origine l’ambito teorico entro cui tale dottrina si colloca è ben diverso: la giustificazione ed esemplificazione dell’esistenza della musica data dal volgersi perenne delle sfere celesti era di pertinenza della cultura scientifica, e della scienza matematica.
Una riflessione filosofica rigorosa, quella riconducibile alla scuola pitagorica [6] , aveva fondato su precise basi matematiche la disciplina musicale e ne aveva fatto il paradigma di riferimento per il riconoscimento di un disegno d’ordine immanente il cosmo, di cui l’armonia delle sfere sarebbe la manifestazione più alta ed insieme più necessaria (nel senso matematico del termine).
Il reperimento di corrispondenze tra scale musicali e ordine planetario si era spinto a livelli di teoresi di difficile comprensione per i non iniziati, tanto che già in età medievale non è estranea alla tradizione testuale che affronta la teoria una precisa dichiarazione di reticenza relativamente all’inserimento di troppi dettagli tecnici. Si legge infatti al termine del commentario di Macrobio al Somnium Sciponis: nec enim quia fecit in hoc loco Cicero musicae mentionem, occasione hac eundum est per universos tractatus qui possunt esse de musica, quos quantum mea fert opinio terminum habere non estimo, sed illa sunt persequenda quibus verba quae explananda receperis possint liquere, quia in re naturaliter obscura qui in exponendo plura quam necesse est superfundit addit tenebris, non adimit densitatem (Comm. II, 4, 12 ).
Nel presente studio non approfondiremo la questione della possibile sovrapposizione tra scala planetaria e sistema musicale: è un’operazione che Dante non compie nemmeno in nuce, e rischierebbe di portarci lontano. Resta da stabilire se non si possa però considerare proprio questo volubile statuto teorico come costitutivo, e in qualche maniera fondante, una teoria che vive nel continuo temperamento tra un’istanza massimamente allusiva ed evanescente, e dall’altro un così stretto legame con la lingua matematica nella quale sono scritti i misteri dell’universo.
A questo proposito, risulta utile ricordare come il termine stesso di armonia si ricolleghi al convergere di opposti, e come questa connessione si effettui all’interno di una dimensione continua che sfuma, senza soluzione di tale continuità, dall’uno all’altro estremo.
Il richiamo etimologico non è casuale, dal momento che una riflessione sui termini ci introduce già nel corpo del problema di una possibile legittimazione dell’armonia delle sfere.
Effettivamente, la definizione della musica celeste appare problematica già dalla sua formulazione terminologica: l’espressione «armonia delle sfere», si può considerare se non errata almeno anacronistica, in quanto la nozione di sfera, con riferimento al sistema di Eudosso, risulta successiva alla formulazione della teoria che attribuisce al movimento dei pianeti la produzione di una sublime musica [ 7] .
L’invenzione della teoria nota come armonia delle sfere viene comunemente ascritta alla scuola pitagorica o a Pitagora stesso, che secondo la testimonianza di Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) [8] era in grado di udire la musica cosmica, e variamente giustificata come un portato degli studi matematici, geometrici, musicali e astronomici (che nella concezione pitagorica mantengono una stretta interdipendenza, e non a caso confluiranno poi nel quadrivio medievale).
Nel suo lavoro Lore and Science in ancient Pythagorism [9] , Walter Burkert si preoccupa di reperire le fonti di tale concezione la quale, anche in virtù della sua caratteristica di assommare in sé una «impressive image» a un «naive thought», avrà enorme diffusione nell’antichità ed oltre: ancora Keplero, che pure ha raccolto la lezione copernicana e si muove a partire da osservazioni rigorose allo scopo di dedurre precise leggi matematiche che regolino il percorso dei pianeti, recupererà il paradigma armonico, seppure riletto in chiave non più aritmetica ma geometrica.
Burkert riconduce la teoria dell’armonia delle sfere ad una concezione pre-scientifica che cerca di rendere comprensibile il mondo disponendo la molteplicità dei fenomeni entro un ristretto numero di schemi (e proprio in virtù di questa sua potenza ordinatrice sarebbe stata favorevolmente accolta dalla cultura medievale). Secondo la lettura antropologica da lui sostenuta, la giustificazione della credenza nella musica cosmica si collocherebbe sullo stesso livello della costruzione dei miti e dei riti, mentre sarebbe un errore postulare una qualche teoria matematico-astronomica da cui si potesse dedurre, o significare, l’esistenza della musica cosmica.
Mantenendosi sul livello delle fonti storiche documentarie, Curt Sachs [10] rileva l’esistenza di una correlazione tra aspetto cosmologico e concetti musicali già presso antiche civiltà indiane e cinesi, avanzando di conseguenza l’ipotesi di diffusione dall’oriente della teoria; l’armonia delle sfere, ricevuta una forma finale in Babilonia, si sarebbe diffusa poi sulle rive del Mediterraneo e avrebbe trovato la sua formulazione matematica in Grecia con il pitagorismo.
Che alla base dell’armonia delle sfere ci fosse una precisa speculazione matematica oppure la suggestione del numero quale principio ordinatore del cosmo , la considerazione dell’universo ordinato, ed ordinato come sistema musicale, è un prerequisito fondamentale per una nutrita serie di teorici riconducibili alla cosiddetta koiné platonico-stoico-aristotelica, che grande influenza eserciteranno su Dante.
È il neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa che più di altri riporta in auge l’immaginifica teoria. Nell’ Enchiridion harmonices [11] , manualetto di armonia dedicato ad una colta lettrice, che costituisce il solo scritto di argomento musicale che di questo autore ci sia giunto, egli addirittura postula la necessità del rumore prodotto da un corpo lanciato o rotante, e specifica che la qualità di detto rumore dipende dalla dimensione del corpo, dalla sua velocità e dal mezzo di propagazione [12] .
Severino Boezio, in quel De institutione Musica [13] che proprio a Nicomaco guarda come ad un modello privilegiato, con riferimento alla musica mundana [14] , riprende questa dimostrazione naturalistica e immediatamente condivisibile sulla base di un ragionamento logico, scrivendo:
Qui enim fieri potest, ut tam velox caeli machina taciti silentisque cursu moveatur? ( ... ) non poterit tamen motus tam velocissimus ita magnorum corporum nullo omnino sonos ciere, cum praesertim tanta sint stellarum cursus coaptatione coniuncti, ut nihil aeque compaginatum, nihil ita commissum possit intellegit.
(S. Boezio, De Institutione Musica, I, II)
Se il suono ha la sua origine nel movimento non può qualificarsi come assurdo l’avere immaginato che, dal momento che tutto l’universo si muove, esso debba produrre una possente armonia. [15]
Dante accoglie l’armonia delle sfere, discostandosi dal dettato del maestro Aristotele nel De Caelo [16] , sulla base di questo ragionamento e dell’auctoritas di Boezio, ma soprattutto di quanto sull’argomento era stato detto dallo «spirito magno» Cicerone.
§ 2. Musica coelestis: ipotesi sul primo canto del Paradiso
Dopo aver visto le cose di cui sopra vien riferito, io, Maometto, e Gabriele discendemmo al settimo cielo, dove c’erano gli angeli che sono chiamati Cherubini. (...) E tutti lodavano Dio, e lodandolo alzavano a tal punto le loro voci che se la gente del mondo ne udisse anche una soltanto, morirebbe per lo spavento causato da quel suono.
(Il libro della Scala di Maometto)
Abbiamo detto che l’esistenza dell’armonia delle sfere era stata negata da Aristotele e dai suoi commentatori, tra cui Averroé, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Ma la fantasia creatrice di Dante doveva essere stata particolarmente toccata dal pensiero di un concerto dei cieli, cantanti la gloria di Colui che tutto move. Oltre questo motivo di carattere squisitamente estetico, non bisogna dimenticare di riconoscere la persistenza nell’opera dantesca dell’eco della corrente di pensiero pitagorico-platonica [17] , mediata principalmente dall’insegnamento di Boezio, Sant’Agostino e San Bonaventura.
A questo proposito, ci sembra particolarmente significativa un’annotazione critica di Giulio Ferroni. Egli sostiene che «la filosofia di Dante non propone novità speculative, ma contempera prospettive diverse» [18] . È proprio sull’idea del contemperarsi, così caratteristica dello spirito della Commedia, ma soprattutto così scopertamente legata all’area semantica musicale, che intendiamo soffermarci nel tentativo di riprodurre la mappa concettuale dantesca, secondo la definizione di Leo Spitzer [19] . Una tale prospettiva impone in primo luogo il reperimento di occorrenze testuali significative: nel nostro caso, si tratta di verificare la persistenza dell’idea dell’armonia delle sfere e di studiarne le modalità di manifestazione.
L’incontro di Dante personaggio con la musica delle sfere avviene entro i primi cento versi della Terza cantica, nel momento in cui egli varca assieme a Beatrice la sfera del fuoco per entrare nel primo cielo, quello della Luna:
Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
(Par I, 76-81)
L’armonia che temperi e discerni è espressione tecnica e musicale: temperare indica qui l’atto dell’accordatura (tipico soprattutto di uno strumento a corde come la lira, cfr. le sante corde/ che la destra del cielo allenta e tira di Par XV, 5-6, su cui avremo modo di ritornare), mentre nell’espressione discerni sarebbe secondo alcuni commentatori ravvisabile un preciso riferimento alla discretezza dei numeri per mezzo dei quali, secondo la teoria pitagorica, vengono stabiliti i rapporti matematici che organizzano lo spazio sonoro [20] .
Secondo l’Enciclopedia Dantesca, si tratterebbe di «un riferimento preciso alla musica mundana, alla vera e propria armonia delle sfere; ma la maggior parte delle citazioni alludono ad un rapporto non immediatamente evidente che lega musica e simbolismo o, per meglio dire, a fenomeni strutturali interpretati musicalmente» [21] .
Nelle glosse all’unico luogo sicuramente attestato, le edizioni italiane sono nel complesso piuttosto caute: quella a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio [22] si richiama alla dottrina pitagorico-platonica e al Somnium Scipionis, precisando però che a questa musica celeste Dante non farà più riferimento nel corso del poema. Sulla stessa linea anche la Chiavacci-Leonardi che dice esplicitamente che «è quell’armonia delle sfere», e conclude «Nel creare il suo paradiso, Dante segue la tradizione di ispirazione platonica che gli offre la possibilità di raffigurarne aspetti sensibili quali, oltre la luce, il suono» [23] . Particolarmente ricco l’apparato al testo dell’edizione a cura di Natalino Sapegno, che cita testualmente il passo del Somnium Scipionis nella glossa al termine temperi e rimanda ad una serie di altri saggi per ulteriori approfondimenti.
Sembrano adombrare un più esplicito riferimento, almeno terminologico, alla dottrina, due traduzioni della Commedia. L’edizione francese della Bibliothèque de la Pléiade [24] (tradotta e commentata da André Pézard) così riporta la terzina sopra citata:
quand l’orbe qu’eternise
désiderance de toi saisit mes sens
par l’harmonie qu’il régle entre les sphères
Viene qui esplicitamente utilizzato il termine sfere, che non è presente nel testo originale, crediamo a scopo esplicativo (anche se viene a perdersi l’idea del temperamento che è più forte di quella del régler) e con un’evidente allusione alla teoria, di cui sono testualmente citate i due referenti (armonia e sfere) nello spazio dello stesso verso.
Per quanto riguarda la traduzione inglese ad opera di Charles Singleton [25] , se la resa di Par. I non risulta particolarmente evocativa (When the revolution which Thou, by being desired, makest eternal turned my attention unto itself by the harmony which Thou dast temper and distinguish), al contrario la traduzione di un altro luogo che viene generalmente citato come esempio di musica mundana appare qui chiaramente espresso. Singleton rende infatti così fui sanza lagrime e sospiri / anzi ’l cantar di quei che notan sempre / dietro a le note de li etterni giri ; (Purg XXX, 91-93) come
So was I without tears or sighs
before the song of those who ever sing
in harmony with the eternal spheres
dove, ancora una volta, le parole harmony e spheres compaiono nello spazio del medesimo verso.
Probabilmente meno deferenti verso certa critica dantistica di stretta osservanza filologica, gli studiosi d’oltre confine si permettono con maggiore leggerezza l’avventura entro percorsi esegetici che cercano di cogliere le eco di alcune affascinanti «eresie» presenti nell’opera dell’Alighieri. Le scelte operate in sede di traduzione diventano allora la conseguenza macroscopica di una peculiare modalità di lettura, meno compartimentata sull’aspetto retorico.
Anche in ambito italiano, la disamina sulla musica mundana dantesca percorre vie sotterranee e spesso liminari. È interessante notare come siano autori che si occupano marginalmente di esegesi dantesca, almeno quanto di teoria musicale, i più strenui difensori, almeno a livello di enunciazione teorica, della presenza della teoria dell’armonia delle sfere nella Commedia. Ovviamente viene poi a cadere, in questi contesti estranei a prospettive di analisi testuale e riflessione filosofica, qualsiasi tentativo di giustificazione teorica della presenza di una tale musica.
Nella sua storia dell’astronomia, che già presenta il significativo titolo di «Sfere Armoniche» [26] , Giovanni Godoli afferma che «Dante parla chiaramente della teoria addirittura in più luoghi del poema», doviziosamente citati seppure soltanto con un rimando numerico (Purgatorio XXX, 91-93 e XXXI, 144-145; Paradiso I, 76-84 VI,124-126 XXI, 58-60 e XXIII, 109). Ad uno spoglio attento, non tutti i passi censiti da Godoli possono però essere letti come esemplificazione dell’armonia delle sfere senza incorrere nel rischio di veder amplificare a dismisura la portata semantica del concetto, stemperandone la specificità musicale. Citeremo soltanto il caso più macroscopico: la richiesta di Dante e dì perché si tace in questa rota / la dolce sinfonia di paradiso, che giù per l’altre suona sì divota (Par XXI, 58-60) si riferisce al canto dei beati e non all’armonia delle sfere, a cui il poeta non fa più cenno dal cielo della Luna, e che comunque in nessuna tradizione presenta un punto di discontinuità così marcato al settimo grado (cielo di Saturno).
Sorprendentemente paradossale è la prospettiva teorica entro la quale si muove Luigi Papini [27] , che addirittura si vale della musica mundana quale prova decisiva, oltre all’evidenza di frequentazioni con musicisti come Casella e al presupposto studio delle discipline quadriviali, a favore della tesi di una precisa competenza musicale del poeta, con un rovesciamento di prospettiva rispetto alle argomentazioni consuete: «la prova che a me pare sicura, è la conoscenza che Dante mostra di avere della credenza degli antichi intorno all’armonia delle sfere celesti, la quale va sempre unita alla teoria musicale, anzi ne è una parte. (...) Se Dante dunque aveva questa credenza, doveva conoscere certamente anche il resto della teoria musicale.» L’armonia delle sfere come premessa di un sillogismo resta comunque un unicum documentario [28] .
Abbiamo già notato come la letteratura critica sull’argomento sia vasta e frammentaria, difficilmente collocabile in un contesto disciplinare rigoroso: dal momento che non esiste una tradizione testuale di riferimento in materia la maggior parte delle osservazioni, anche pertinenti e che spesso aprono linee interpretative di particolare interesse, sono reperibili all’interno di un corpus estremamente variegato che comprende raccolte di scritti di esegesi dantesca, lavori sulle dottrine musicali antiche e medievali, saggi di argomento astronomico e testi di più spiccato impianto teorico. La nostra indagine partirà quindi dalla lettera dantesca per poi muovere ad analizzare la complessa mappa concettuale sottostante.
§ 3. Nella luce della musica: appercezione sinestetica e saturazione sensoriale
Admirez le pouvoir insigne
Et la noblesse de la ligne:
Elle est la voix que la lumière fit entendre
Et dont parle Hermès Trismegiste en son Pimandre.
(Apollinaire, Orphée, in Le bestiaire ou le cortège d’Orphée)
Il Paradiso della Commedia è un universo etereo di luce, musica e movimenti armoniosi. La terza cantica si apre non casualmente su una grandiosa immagine di luce, offertaci sotto forma di perifrasi incipitaria con l’espressione la gloria di colui che tutto move. Che il termine gloria adombri quello di luce e virtù è chiarito dallo stesso autore, nell’Epistola a Cangrande della Scala: Patet ergo quomodo ratio manifestat divinum lumen, id est divinam bonitatem, sapientiam et virtutem, resplendere ubique (...) Bene ergo dictum est, cum dicit quod divinus radius, sive divina gloria, ’per universum penetrat et resplendet’ (Epistole, XIII, 21-23). È questo diffondersi della luce divina fino a saturare di sé l’intero universo a costituire l’argomento degli ultimi trentatré canti, ma non solo: vedremo subito che l’effetto di saturazione dello spazio prodotto ad opera del lumen irradians si accompagna a quello uditivo derivante dal volgersi delle sfere celesti.
«Dante ha dato al suo Paradiso una temperie di luce che mancò ai maestri senesi: dispose quella loro stupenda musica degli ori nella trasparente geometria delle sfere» è la tesi esposta da Guido di Pino nel saggio La poesia della luce nell’Inferno dantesco [29] . Anche se non riusciamo a capire cosa dovrebbero rimproverarsi Duccio da Buoninsegna e Simone Martini, questa notazione ci introduce con un’immagine immediatamente evidente nell’atmosfera della terza cantica. Ecco che «temperie», nel suo significato di «equilibrio, giusta proporzione» (basato quindi su rapporti, anche numerici, rigorosi) richiama il tecnicismo musicale «temperare», ma si presenta qui legato al campo semantico della luce; «musica degli ori» è una pretta sinestesia, una figura retorica che ritroveremo come particolarmente significativa nel dettato dantesco relativo alla musica mundana; quanto alla trasparente geometria delle sfere, si tratta della cadenza di un discorso che si muove per immagini lungo il suggestivo percorso del quadrivio medievale: dopo l’aritmetica (temperies) e la musica, la geometria come mediatore e ultimo passaggio verso l’armonia delle sfere eteree, verso la concezione astronomica.
Il richiamo all’elemento geometrico potrebbe peraltro aiutarci a giustificare l’introduzione di una definizione che, se è certamente anacronistica rispetto ai tempi danteschi, lo sembra molto meno per quanto concerne la portata teorica che lascia intravedere, e che appare significativa anche per l’opera dantesca. Scrive Keplero, trecento anni dopo Dante: Duo sunt, quae nobis harmonias in rebus naturalibus patefaciunt, vel lux vel sonus (Harmonice Mundi, liber V caput IV) [30].
Luminosità e musicalità non sono semplicemente un’etichetta che qualifica il Paradiso dantesco, ma possono diventare un indice significativo della presenza di sottostanti rapporti armonici, basati su proporzioni numeriche, che con questa modalità vengono disvelati ai sensi.
Soffermiamoci adesso sull’analisi delle terzine del primo canto del Paradiso, che abbiamo detto costituire la più esplicita allusione alla musica celeste.
Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
Di lor cagion m’accesero un disio
Mai non sentito di cotanto acume.
(Par I, 73-84)
Il passo ha evidenti riscontri nel ciceroniano Somnium Scipionis, sesto ed unico libro della Repubblica conosciuto al Medioevo [31] , narrazione di un immaginario viaggio nell’aldilà compiuto in sogno da Scipione Emiliano, che ebbe enorme influenza sulla cultura filosofica medievale grazie al commento di Macrobio (V secolo). Come il titolo De Re Publica allude all’omonima opera di Platone, così l’aver posto alla fine del dialogo la narrazione di un immaginario viaggio nell’aldilà richiama il mito di Er, con cui si conclude la Repubblica. Platone è però più fonte di ispirazione limitatamente al disegno globale dell’opera, repertorio di situazioni cui attingere, anziché autentico referente dottrinale.
Fonti diverse influenzano il dettato ciceroniano, in cui si ritrovano molti topoi tradizionali di lontana origine mistica, spesso attribuiti a Pitagora, riecheggiati in Platone come negli stoici, e che sono diventati paideia, patrimonio comune.
Come Dante, anche Scipione è stato innalzato oltre il dominio umano, come Dante osserva l’ universo dal cielo, precisamente da quella Via Lattea che, da Pitagora alla dottrina stoica del Somnium, è ritenuta la sede celeste delle anime, qui riservata agli eroi e ai benefattori dell’umanità [32]. Come Dante, Scipione vede ridimensionata l’importanza della Terra, piccolo pianeta della regione sublunare [33] dove tutto (eccetto le anime che transitoriamente vi si trovano ) è mortale e caduco, tanto piccola da provocare rammarico (Cicerone usa paenitet dove Dante dice «...io sorrisi del suo vil sembiante» ) ma, coerentemente con la dialettica alto/basso e la conseguente tensione dell’anima verso l’alto, sottostante l’intero Somnium, su invito dell’Africano leva lo sguardo e passa a considerare lo spettacolo del «templum» [34] entro cui è giunto. Soprattutto, e in questa sede è il particolare che più ci interessa, anche Scipione ascolta la musica delle sfere, e come Dante ne chiede ragione alla sua guida:
quid?, hic -inquam- quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?". «Hic est -inquit- ille, qui intervallis coniunctus inparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, inpulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent.
(Somnium Scipionis, 18)
Bisogna ricordare che la conoscenza diretta del Somnium Scipionis da parte di Dante è ancora oggetto di dibattito: se da un lato la cosa appare altamente probabile, data la diffusione del commento di Macrobio nel corso di tutto il Medioevo, il reperimento di precise occorrenze testuali risulta più controverso.
L’Enciclopedia dantesca non inserisce il passo relativo all’armonia delle sfere tra quelli in cui sarebbe ravvisabile una rispondenza tra le due opere (che effettivamente manca, almeno a livello testuale). Più possibilista sulla conoscenza del testo, ma più recisa circa il suo utilizzo da parte del poeta, appare la posizione di Umberto Bosco che, nel momento dell’ascesa di Dante al cielo delle stelle fisse presso la costellazione dei Gemelli, individua nel Somnium Scipionis il precedente classico del riproposto topos della visione della terra dal cielo (riecheggiato, questo sì, anche nelle scelte lessicali) ma rileva altresì l’incongruenza astronomica di tale visione.
Assai interessante è la conclusione, che riportiamo: «Non è questo l’unico caso in cui in Dante la ragion poetica ha il sopravvento sulla scientifica: per esempio, in Paradiso I, afferma che le sfere celesti emanano, girando, un armonioso suono: questo contro l’opinione di Aristotele e della filosofia scolastica, ma secondo proprio un passo dello stesso Somnium Scipionis» [35] .
Parrebbe di poter cogliere, nelle parole del commentatore, la convinzione dell’esistenza d’una corrispondenza tra citazioni del Somnium e una sorta di delirio poetico dell’Alighieri, che in tali momenti abdicherebbe alle conoscenze della filosofia scolastica.
Ora, non si capisce perché il recupero di una teoria quale quella pitagorico-platonica, certamente «altra» rispetto alla tradizione aristotelico-tomista, ma pienamente legittimata e ripresa anche dai padri della chiesa (da Ambrogio a Origene ad Onorio d’Autun) debba essere tacciato di delirio: volendo rispondere con una provocazione che si connette ad un’immagine tanto abusata nei commenti danteschi come icona della perfezione, si potrebbe osservare che anche per chiudere un cerchio il delirio, almeno a livello strettamente etimologico, è condizione necessaria.
Ritornando al testo della Commedia, non tratteremo per ora della condizione del poeta, appena transumanato, né del movimento circolare che, pur restando sullo sfondo, informa di sé tutta la cantica, come pure la struttura dell’universo dantesco. In questo momento ci interessa puntare l’attenzione sulla compresenza di luce e suono, e sullo stretto legame che si instaura tra i due ambiti sensoriali.
Procedendo ad una sommaria parafrasi delle terzine, osserviamo un passaggio senza soluzione di continuità tra la sfera uditiva e quella visiva: nel momento in cui l’armonia delle sfere celesti attrae l’attenzione di Dante, allora gli si rivela la grande luminosità del cielo. Una appercezione sinestetica che Dante autore connette anche a livello testuale, saturando la misura del verso con i due sintagmi nominali uniti da congiunzione copulativa «la novità del suono e ’l grande lume».
Osservare che luce e suono informano di sé l’intero paradiso dantesco sarebbe poco significativo; più interessante è notare come l’utilizzo della sinestesia visiva/uditiva percorra l’intera Commedia, e si ritrovi all’inizio del viaggio dantesco, al margine della voragine infernale, regno del caos per antonomasia (anche se gioverà sottolineare che quello proposto dall’Alighieri è comunque un caos ordinato, dove la coppia non deve intendersi con valore antonimico). Quando Dante si è già disposto a lasciare la selva oscura ascendendo il dilettoso monte, l’arrivo delle tre fere e soprattutto della lupa, gli impone di retrocedere là dove ’l sol tace (Inf.I, 60) [36].
Tre versi più avanti, a conclusione della terzina che segna l’apparizione sulla scena di Virgilio, il poeta latino viene definito come Chi per lungo silenzio parea fioco (v.63), con un ritorno della coppia sensoriale udito/vista, questa volta «in absentia».
In quest’ultimo caso, ci risulta chiarificatrice una delle interpretazioni avanzate dalla critica dantesca sul significato letterale del verso, e più precisamente sull’attribuzione dello stato di silenzio: questo non andrebbe ascritto a Virgilio personaggio, né alla ragione da lui personificata, né alla memoria del poeta classico. Si tratterebbe invece del silenzio del Sole, che non penetra nelle oscure profondità del limbo dove Virgilio ha la propria sede eterna, temporaneamente diserta per accorrere in aiuto di Dante.
Se il sole tace, ne consegue che si abbia un luogo d’ogne luce muto, e che chi vi si trova a causa di questa privazione diventi fioco. Oltre l’appercezione sinestetica si pone però un’interpretazione simbolica abbastanza scoperta. Con un’immagine poeticamente molto efficace e filosoficamente impegnativa, Dante disegna un luogo ove vengono meno i caratteri positivi di esattezza, luminosità, musicalità che sono propri di Dio; caratteri che si sovrappongono agli attributi solari-apollinei, che però nella selva oscura non sono presenti, o meglio, «tacciono», sospendendo così la propria opera ordinatrice. Ed ecco che già nei primissimi canti del poema incontriamo il ruolo divino di lumen irradians e numero numerans attribuito all’astro solare, con la seconda accezione che può essere intesa come idea musicale.
Facciamo un passo indietro, e torniamo a considerare il Somnium Scipionis. Nell’opera ciceroniana viene riservato al sole un ruolo centrale, nonchè la collocazione tipica dell’ordine caldeo, di medium tra i sette pianeti conosciuti; questa posizione privilegiata giustifica il ruolo rivestito dal sole, che è dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio (Somnium, 17).
Cicerone qui sta mediando tra la visione della maggior parte degli stoici, che fanno dell’etere il summus deus, e quella di Cleante, che vi sovrappone l’immagine del sole-dio, avanzando quella che è stata considerata una visione eliocentrica mistico-religiosa, seppure non astronomica. Per i nostri intenti, risulta particolarmente interessante una nota riportata nell’ edizione del De Re Publica a cura di E.Bréguet [37] , che ricorda come la posizione occupata dal sole nella successione planetaria corrisponda, tra le sette corde della lira, a quella della mese, a partire dalla quale la lira viene accordata.
Il ruolo del sole quale dux et princeps et moderator, ma più ancora quale mens mundi et temperatio, viene a questo punto letto anche all’interno della concezione musicale dell’armonia delle sfere. In particolare l’epiteto temperatio, in questo contesto, viene interpretato come un’ ulteriore allusione all’accordatura delle corde a partire dalla mese [38] , con una suggestiva precisazione per quanto riguarda la scelta lessicale: Cicerone non scrive temperator, «termine parimenti ciceroniano che qui si sarebbe allineato con precisa concinnità a moderator, ma che Cicerone non usa perché non si tratta ora della divinità trascendente, che regge in equilibrio il mondo dall’esterno, ma del principio stesso, panteisticamente immanente nelle cose, del reggerle» è la puntuale osservazione di Ronconi nell’edizione del Somnium da lui curata [39] .
Un’idea certamente suggestiva e che non sembra del tutto estranea al sentire dantesco, soprattutto se si confronti quanto detto a proposito di Cicerone con la definizione del Sole che viene dal poeta proposta nel momento dell’ascensione al cielo corrispondente, in cui si dice: Lo ministro maggior de la natura, / che del valor del ciel lo mondo imprenta / e col suo lume il tempo ne misura (Par X, 28-30). In particolare, ritorna in questa terzina un altro termine chiave della lettura «musicale» del testo del Somnium: quello di valore, che compare in uno dei passi la cui interpretazione ha creato il maggior numero di perplessità tra i commentatori ciceroniani, producendo un florilegio di ipotesi tra le più fantasiose.
Ille autem octo cursus, in quibus eadem vis est duorum, septem efficiunt distinctos intervallis sonos, qui numerus rerum omnium fere nodus est
(Somnium, 18)
La mancata sovrapposizione tra gli otto giri e i sette suoni ha convogliato la riflessione esegetica sull’espressione eadem vis, a cui viene generalmente attribuito il significato di velocità di rotazione, senza però riuscire a stabilire in maniera univoca quali siano i pianeti che ruotano con la medesima velocità. Più interessante l’ipotesi proposta ancora dalla curatrice dell’edizione Les Belles Lettres, la quale riprende da Th.Reinach la traduzione di vis (gr. dynamis) come valence, nel senso di «la place et la function de chaque note dans le tétracorde auquel elle appartient», e la applica ad una struttura per tetracordi disgiunti che assicuri la copertura dell’ottava, e nella quale sono le note estreme ad avere la medesima vis: vis, dynamis, valore della nota, che a questo punto sembra quindi essere accostabile al concetto di «qualità sonora».
Applicare quanto detto alla Commedia dantesca può sembrare in un primo momento azzardato, ma se si consideri la sommatoria delle concordanze testuali, avvalorate dalla possibile sovrapposizione tra il ciceroniano mens mundi e il dantesco ministro maggior della natura, e rilette nel quadro dell’azione dell’anima del mondo del Timeo platonico (riferimento fondamentale per ogni dottrina che disponga l’universo entro uno schema musicale) non così ingiustificato. È altamente probabile che Dante si ponesse in posizione critica rispetto alle riletture cristiane dei classici: se da un lato la sua posizione appare coerente con l’ortodossia cristiana e quindi il ruolo del sole viene ridimensionato, dall’altro non è forse estraneo agli intenti danteschi un tentativo di riconfermarlo nel ruolo di congiunzione (synaphe) tra i due tetracordi che risuonano nella girazione dei pianeti [40] .
È proprio questa armonia ordinata dalla presenza del sole, che nel regno infernale è descritta in absentia, che si ritrova come caratteristica precipua del Paradiso, dove si moltiplicano le immagini di luce associate alla musica: gli spiriti che, nel cielo del Sole, si dispongono a formare una corona attorno al poeta, sono più dolci in voce che in vista lucenti (Par X, 66), ma la loro dolce melodia è ineffabile, come avverte Dante autore:
e ’l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là su voli,
dal muto aspetti quivi le novelle
(Par X, 73-75)
Ancora un carattere dell’atto percettivo descritto in Par I deve essere indagato: la saturazione dello spazio. A differenza di quanto era stato sostenuto da Cicerone, Dante non considera in termini tecnici una saturazione dello spazio musicale (ravvisabile nella struttura tetracordale adombrata nel Somnium, che si tratti del precipitare degli estremi sul Sole-mese o più semplicemente della chiusura dell’ottava), e anche per quanto riguarda l’emergenza fisica separa le due cause dei propri dubbi: della luce lo colpisce l’aspetto quantitativo, l’estensione; per quanto riguarda la musica è affascinato piuttosto dalla sua novità, dalle caratteristiche qualitative di questo suono, e forse anche dal suo rendersi percettibile tutto d’un tratto senza alcun progressivo avvicinarsi che possa aiutare a collocare nello spazio la fonte sonora. Ancora una volta, è piuttosto la dimensione del tempo ad essere in causa per la musica, e quella dello spazio per la luminosità.
Musica eterna e luce infinita, che però non possono essere immediatamente riconosciute in tutte le loro implicazioni da Dante personaggio.
Diversamente si era interrogato Scipione nel Somnium, in un primo momento a proposito della luminosità riscontrata nella Via Lattea:
(...) erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens- quem vos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nuncupatis
(Somnium, 16)
e di seguito, relativamente alla musica celeste:
quid?, hic -inquam- quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?
(Somnium, 18)
Oltre a qualificare il sonus sia quantitativamente (tantus) che qualitativamente (tam dulcis), Cicerone si sofferma a lungo ad indagare la teoria dell’armonia delle sfere, dimostrando di essere almeno a conoscenza della letteratura tecnica sull’argomento. Nel passo ciceroniano è poi evidente già a livello terminologico l’impressione di saturazione: Scipione afferma che il sonus compleat, «riempie» le sue orecchie. E la chiusa del capitolo del Somnium che tratta dell’armonia delle sfere non fa che puntualizzare il parallelo tra vista ed udito:
Hic vero tantus est totius mundi incitatissima conversione sonitus, ut eum aures hominum capere non possint, sicut intueri solem adversum nequitis eiusque radiis acies vestra sensusque vincitur
(Somnium, 19)
L’opzione della saturazione, se da un lato appare molto suggestiva ed è efficacemente sovrapponibile ad una lettura musicale, è però utilizzata come l’elemento «versus» la teoria dell’armonia delle sfere da Aristotele. Riprendendo la coppia di aggettivi proposta da Cicerone nel Somnium, potremmo immediatamente osservare come la confutazione del De caelo si basi più sul tantus che sul tam dulcis, come qualità del sonus celeste.
In un primo momento, Aristotele illustra la teoria pitagorica qualificandola come gradevole ed interessante, anche se falsa. È egli stesso a riportare la giustificazione attribuita ai pitagorici del perché non udiamo la celeste armonia: perché un suono o un rumore non vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l’assenza del suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere planetarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo contrario. Una saturazione per assuefazione, simile a quella provata dai fabbri che appaiono indifferenti al rumore provocato dalla propria quotidiana attività lavorativa.
Basata su una diversa sfumatura semantica del concetto di saturazione è la posizione propria di Aristotele, decisamente più recisa nel negare l’armonia delle sfere: alla domanda perché non udiamo la musica delle sfere risponde perché non c’è nessuna musica, di più non c’è nemmeno nessun rumore. Non si sofferma qui su tecnicismi musicali, non gli interessa avanzare ipotesi su presunte qualità celestiali o cacofoniche del suono: non esiste nessuna musica, ed è facilmente dimostrabile, per assurdo. Se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non è. Quindi, non esiste alcuna musica delle sfere. Ma perché non esiste? Perché gli astri si muovono nel medium della propria sfera, e quindi non c’è attrito [41] .
La soluzione, o meglio lo spostamento di prospettiva che permette di aggirare l’ostacolo della confutazione di Aristotele arriva proprio da un aristotelico, Simplicio, il cui commento greco al De Caelo viene tradotto in latino da Guglielmo di Moerbeke nella seconda metà del XIII secolo.
Simplicio sposta l’attenzione dall’udibilità della musica in sé, attorno alla quale ci si interrogava con gli strumenti della scienza acustica del tempo, allo stato ricettivo in cui è richiesto di porsi all’ascoltatore.
Forte igitur, secundum virorum philosophiam, solvendam instantiam, dicendo quod non omnia sunt invicem commensurata, neque omne omni est sensibile neque apud nos. Insinuant autem canes odorantes animalia de longe, quod homines non odorant. Quanto itaque magis, intantum natura distantibua, quantum incorruptibilia a corruptibilibus et caelestia a terrenis, verum est dicere quod divinorum corporum sonus terrenis auribus non est audibilis! Si autem aliquis et hoc corpus terrenum separatum et autoideale ipsius et caeleste sedile et eos quam in ipso sensus purificatos habeat, aut per bonam sortem, aut per vitae bonitatem, aut adhuc propter sacerdotalem perfectionem, iste utique videbit quae aliis invisibilia sunt et audiet quae ab aliis non audiuntur, sicut narratur Pythagoras extitisse. Divinorum autem et immaterialium corporum, si utique fiat aliquis sonus, neque percussivus neque perimens fit, sed generativorum sonorum excitat virtutes et operationes et cognatum sensum perficit. Et proportionem quidem habet quandam ad sonum concurrentem cum motu terrenorum corporum. Operatio autem quaedam est motus illorum impassibilis soni, qui apud nos fit propter sonativam aeris naturam. Si igitur ibi aer passivus non est, constat quod neque sonus utique erit. Sed videtur Pythagoras sic dicere harmoniam illam audivisse tamquam et in numeris harmonicas proportiones intelligens, et quod in ipsis audibile, audire dicebat harmoniam. -Dubitaret autem utique quis merito, propter quid ipsa quidem astra visivis nostris sensibus videntur, sonus autem ipsorum auribus nostris non auditur. Et dicendum quod neque astra ipsa videmus. Neque enim magnitudinem ipsorum aut figuras neque excellentes pulchritudines, sed neque motum per quem sonus fit, sed velut illustrationem quandam ipsorum videmus talem, velut et solis circa terram lumen et non ipse sol videtur. Forsitan autem neque utique erit mirum, visivum quidem sensum veluti immaterialiorem et secundum actum magis axistentem quam secundum passionem, et mulutm aliis supereminentem, claritate et fulgore caelestium honorari. Alios autem sensus neque alias alteras assignet causas probabiliores, amicus sit sed non inimicus habeatur [42] .
È interessante notare come il commentatore faccia esplicito riferimento a Pitagora e alle credenze che volevano che il filosofo udisse l’armonia celeste essendo in condizione di trance; egli però non si limita a questa notazione aneddotica, ma cita esplicitamente la riconoscibilità di proporzioni e numeri al suo interno.
Bruno Nardi, che ha il merito di essere uno dei pochi ad affrontare nello specifico il problema dell’armonia celeste nel poema dantesco [43] , dopo aver riportato la tesi di Simplicio conclude sostenendo che la musica mundana «diletta gli orecchi degli uomini divini che hanno purificato i loro sensi nel quotidiano sforzo di elevazione verso il mondo superiore; e risuona alla fantasia del Poeta che ha compiuto la sua purificazione sulla cima della montagna santa, dopo avere attraversato il duplice regno del peccato. Non l’udirono, quel divino concento delle sfere, Aristotele e Tommaso, perché troppo la loro mente giudicò "ex apparentibus secundum sensum» ; l’udirono invece Pitagora e Dante, che seppero innalzarsi sopra il mondo terrestre dei sensi. (...)" [44].
Per Simplicio la musica delle sfere non va dunque intesa come una vibrazione propagantesi nell’aria che colpisce l’udito umano, ma come un atto intellettivo, attraverso il quale l’uomo accede alla comprensione dei rapporti armonici che regolano la struttura ordinata dell’universo [45] . Ed è proprio questa sfumatura che verrà ripresa da Dante che, nonostante le confutazioni mosse da Tommaso, non rinuncerà ad inserire nel suo paradiso un tale concento dei cieli: l’armonia delle sfere non va tanto ascoltata a seguito di una percussione dell’onda sonora, va riconosciuta con un atto intellettivo.
§ 4. Intendere l’armonia
Mais tu sais bien que tous les gens dont tu me parles, tous tes «musiciens», comme on les appelait autrefois, n’ont été que d’assez agréables jongleurs: ils ont gambadé sur les octaves ainsi que sur des échasses, du haut desquelles ils culbutaient leurs accord...Mais ils n’ont jamais soupçonné cette essence qui nous pénètre, nous anime, nous fait exister, «ce chant énorme des planètes» que Pythagore a préconnu, et sur lequel on s’est si bien mépris!
(Segalen, Dans un monde sonore)
Un discorso che puntasse a sviscerare il concetto di «intendere» nel dettato dantesco ci porterebbe molto lontano e soprattutto, su un terreno teorico distante da quello che abbiamo deciso di percorrere nel corso di questa analisi. Moltissime le occorrenze del verbo intendere nella produzione dantesca, ricollegabili principalmente a tre diverse aree semantiche, di cui le prime sono tra loro speculari: si tratta di quella relativa all’attribuzione di un significato (e quando dico terra intendo...) e dell’altra che si concentra invece sul momento in cui tale significato viene correttamente capito, come sinonimo quindi di «comprendere» (con una significativa apertura dei sinonimi fino a riconoscere e percepire).
Oltre questi significati e, potremmo dire, in un’accezione assoluta del termine, si pone il senso di intendere come appare nella terzina seguente:
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
( Par XXXIII, v.124-126)
nella quale viene adombrato il mistero della trinità dietro l’atto dell’intendere divino. Certamente questa è somma armonia, è la chiusura del cerchio (o la sua quadratura, come verrà spiegato con suggestiva similitudine nelle terzine finali) che pacifica tutti i contrasti, è moto in quiete che si volge su se stesso. Non a caso Dante sostiene nel Convivio: Dico adunque che Dio, che tutto intende (ché suo "girare" è suo "intendere"), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando mira là dove è questa Filosofia (Trattato 3, 12.5). Non ci soffermiamo oltre sulla adombrata sovrapposizione tra intendere e girare, ma c’è ancora un’osservazione da puntualizzare: in questo contesto, il verbo girare assume infatti un significato che può essere contemporaneamente transitivo o intransitivo, (parafrasabile quindi come «ruota su se stesso», stando fermo, oppure «gira», cioè fa girare). Più che motivo di ambiguità, questa sovrapposizione semantica di intendere e girare si qualifica come caratteristica identificante del motore immobile, e delle intelligenze angeliche che a lui obbediscono. Basterà qui ricordare altri due celebri luoghi danteschi:
"Io sono amore angelico, che giro
l’alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro;
e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
più la spera suprema perché lì entre".
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria.
(Par XXIII, 103-111)
E la prima canzone analizzata nel Convivio, dove si ritorna con puntualità sulle tematiche dell’intendere e sulla pluralità di significati correlati.
Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete,
udite il ragionar ch’è nel mio core,
ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo.
El ciel che segue lo vostro valore,
gentili creature che voi sete,
mi tragge nello stato ov’io mi trovo.
Onde ’l parlar della vita ch’io provo,
par che si drizzi degnamente a vui:
però vi priego che lo mi ’ntendiate.
(Convivio, canzone 1)
Ma c’è anche un luogo del Paradiso dantesco dove si ritrova questo richiamo all’intendere legato alla realtà fenomenica, in compresenza proprio con il tema dell’udito, con un suggestivo addensamento di occorrenze sinonimiche:
E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa "Resurgi" e "Vinci"
come a colui che non intende e ode.
Io m’innamorava tanto quinci,
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.
(Par XIV, 118-129)
Quattro terzine «musicali», aperte da una similitudine di tecnica esecutiva dalle possibili ricadute teoriche importanti, e scandite dalla ricorrenza dell’intendere. Come uno strumento come la giga o l’arpa, con le corde tese ed accordate (in tempra tesa è una metonimia), rende un suono gradevole (tecnicamente, genera una consonanza) a colui che non riconosce la struttura musicale, così dalle anime lucenti che Dante scorge, si diffonde per la croce una melodia che rapisce l’attenzione del viaggiatore, senza che egli riconosca l’inno. Tuttavia, Dante si accorge che si tratta di alte lodi, per il fatto che gli giungono le parole «resurgi» e «vinci», come a colui che non comprenda, pur udendo. Delle tre ricorrenze, ci interessa soprattutto la prima, dal momento che per le altre sembra di poter affermare che la preoccupazione di Dante sia proprio di ordine verbale, relativamente il testo dell’inno che viene cantato e non immediatamente riconosciuto dal pellegrino, circostanza spiegabile peraltro con la teoria dell’impossibilità della piena comprensione del mistero divino oltre la resurrezione e con l’ineffabilità della mistica rivelazione. Ma veniamo alla similitudine che apre il passo in esame. Nel primo membro Dante lascia scorrere un’affermazione di teoria musicale pura: il suono prodotto da uno strumento a corde ben temperato viene riconosciuto come consonanza anche da quanti non conoscono la teoria musicale, o più nello specifico non riconoscono i rapporti matematici sottostanti la consonanza. Ci pare di poter accogliere una tale spiegazione, che ha senza dubbio il pregio della chiarezza, rispetto a quella volutamente vaga, seppure suggestiva, avanzata da R.Monterosso «non si tratta di maggiore o minore capacità recettiva da parte dell’ascoltatore, sì piuttosto di indeterminatezza originaria del suono stesso. Il quale esce dalla sorgente che lo genera non articolato in una serie acustica, matematicamente scomponibile, ma ovattato e stemperato in un’unica sensazione fatta di estrema vaghezza, appunto perché rimane ad uno stato premusicale...una similitudine che, come spesso nella Commedia, trae la sua maggiore forza espressiva dalla mancanza di contorni troppo netti e precisi» [46] , che sembra però un alibi per lasciare la spiegazione nel vago, e al contempo negare all’autore una competenza musicale che sembra invece riaffiorare in più luoghi del testo.
A riprova di ciò, si può citare una lettura del medesimo luogo testuale che invece estremizza la competenza armonica e la conoscenza di storia musicale da parte dell’Alighieri: secondo Arnoldo Bonaventura [47] , la posizione richiamata da Dante in questa terzina, assicurando il primato all’impressione d’ascolto onde formulare un giudizio in campo musicale, di contro all’armonia fondata sui rapporti numerici, si ricollegherebbe a quella di Aristosseno piuttosto che a quella della scuola pitagorica. In questo ci sentiremmo di frenare le competenze attribuite al nostro autore: un conto è dire che le consonanze vengono naturalmente riconosciute dall’orecchio umano, altro è imputagli una prospettiva teoretica complessa come quella aristossenica. Pure proprio nei versi seguenti troviamo una delle più splendide ed immaginifiche metafore che alludono al concetto di armonia: si tratta di quel s’accogliea per la croce una melode (Par XIV, 122) che Natalino Sapegno rende mirabilmente spiegando come esso esprima «il diffondersi nello spazio e insieme l’unificarsi armonioso del suono» [48] .
L’intendere, alla luce di queste osservazioni, si configura dunque come una facoltà intellettiva che si situa contiguamente a quella dell’udire, non solo e non tanto in un ordine superiore quanto alla qualità dell’atto percettivo, ma piuttosto come una sfumatura dell’atto stesso. Potremmo affermare che è proprio del momento dell’intendere un’istanza conoscitiva, e di una «conoscenza per partecipazione», come la definisce Mario Pazzaglia [49] , che può anche prescindere dall’effettivo, fisico passaggio dell’udire. Si può udire senza intendere, ma si può anche specularmente intendere senza udire. Questo particolare, se da un lato riconduce la musica ad un contesto tipicamente quadriviale, allontanandola dal discorso di tipo estetico, ci interessa soprattutto perché avrà una ricaduta determinante sulla considerazione della musica mundana, come vedremo subito
§ 5. Musica e strutture d’ordine
O qui perpetua mundum ratione gubernas, (...)
tu numeris elementa ligas, ut frigora flammis,
arida conueniant liquidis, ne purior ignis
euolet aut mersas deducant pondera terras.
tu triplicis mediam naturae cuncta mouentem
conectens animam per consona membra resoluis;
(Boethius, Consolatio Philosophiae, lib.III, m9)
Ricondurre lo statuto della musica celeste a quello dell’intendere, sulla linea indicata da Simplicio, significa per Dante recuperare la posizione dottrinale tomistica, senza dovere per questo rinunciare a fare del proprio Paradiso un universo di musica e luce, con un opera di «temperamento» tra diverse posizioni degna di un vero musico nell’accezione boeziana. E non è un caso che ritornino significativamente proprio i nomi di Boezio e Tommaso in una lapidaria definizione dello statuto quadriviale dell’ars musica: Musica considerat sonos non in quantum sunt soni, sed in quantum sunt secundum numeros proportionales (Tommaso d’Aquino, Comm.Boeth De Trinitate 5.3 ad 6 Boezio mus I, 7).
La traslazione dalla musica udita a quella intesa non potrebbe essere più recisa, e sarebbe scorretto affermare che Dante sposi in toto un’ipotesi di questo tipo. Pure, è importante sottolineare l’allusione al numero, anzi al rapporto numerico proporzionale, che Tommaso pone alla base della concezione della musica. Una prospettiva teorica di chiara matrice pitagorica, ripresa dal medioevo latino e alla quale Dante fa riferimento non solo nella Commedia. Leggiamo infatti nel Convivio:
E lo cielo di Marte [50] si può comparare alla Musica per due propietadi: l’una si è la sua più bella relazione: ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia, o dall’infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè delli primi, delli secondi, delli terzi e delli quarti. L’altra si è che esso Marte ( ... ) E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì e l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono.
(Convivio, Tratt. 2, 13)
Nella prima parte della spiegazione dell’analogia tra cielo di Marte e scienza musicale, Dante riconduce la comune più bella relazione al posto medio che il quinto cielo occupa nella successione di nove cieli mobili.
Nella conclusione la posizione dell’autore appare più sfumata: sostiene che la relatività della musica richiama la possibilità di ottenere una armonia tanto più dolce quanto più la relazione è bella, ma non spiega che cosa si intenda con il termine relazione, né con quali parametri se ne possa stabilire la maggiore o minore bellezza (Il fatto che il cielo di Marte si trovi al quinto posto nella scala planetaria da qualsiasi parte la si consideri, come ricorda Dante, unito all’osservazione sulla bellezza della relazione conseguente, potrebbe forse autorizzare un richiamo al diapente greco, intervallo consonante per eccellenza).
Più immediatamente comprensibile appare il secondo assunto della comparazione, che riporta piuttosto alle implicazioni etiche di una considerazione della musica in senso naturalistico-psicologico, che troverà la propria applicazione nella trasposizione della teoria dell’ethos dei modi dalle scale greche ai modi gregoriani.
Non intendiamo, in questo contesto, soffermarci oltre su osservazioni di teoria musicale; ma l’aver spostato l’attenzione sull’esistenza di una ratio riconoscibile, sulle relazioni che veicolano le consonanze, sul carattere matematico della scienza musicale, ci riporta in quel contesto quadriviale entro il quale la musica si pone come una delle strade per accedere alla conoscenza del mondo, ordinato appunto secondo uno schema matematico. Dante molto probabilmente conosceva il De Institutione Musica di Boezio e ne condivideva l’attribuzione di importanza alle discipline del quadrivium come vie da percorrere per apprendere a scorgere la divina matematica insita nell’opera della creazione. Boezio, che a sua volta riprende l’ Introduzione all’Armonia di Nicomaco di Gerasa, segue nella sua esposizione l’ordine del curriculum medievale: aritmetica, musica, geometria e astronomia sono methodoi per imparare a trascendere il mondo fisico della percezione sensoriale. Posta in questo quadro di riferimento, la musica permette di cogliere il disegno ordinato che sottende l’ordine provvidenziale dell’universo; «non è un intrattenimento piacevole o una consolazione superficiale per un animo abbattuto, ma una chiave essenziale per interpretare l’armonia segreta di Dio e della natura, in cui l’unico elemento dissonante è il male che si annida nel cuore degli uomini.» [51]
Senza forzare l’argomento sul «tutto è numero» pitagorico [52] , l’idea dell’universo ordinato, ed ordinato secondo una logica numerica rigorosa che è poi quella della musica, è presente nell’opera dantesca come speculum del numerus infuso dal creatore all’intero universo. Con questo spostamento di prospettiva, ci muoviamo dall’armonia delle sfere a quella, differente ma correlata, che Curt Sachs definisce Teoria della coordinazione: «Quest’ultima aveva stabilito che un certo pianeta stava ad un altro pianeta come una certa altezza sonora stava ad un’altra altezza; l’armonia delle sfere significò qualcosa di totalmente diverso: i pianeti, o meglio le loro sfere, risuonavano in autentici, per quanto impercettibili suoni» [53] .
Un riorientamento necessario per proseguire l’analisi dell’opera dantesca, che solo in pochissimi luoghi cita testualmente l’armonia delle sfere. Ma non si pensi che questo ci porti lontano dal discorso musicale: in Dante, con una modalità che solo apparentemente potrebbe apparire paradossale, l’allontanamento dalla musica vera e propria si traduce nello scaturire di un più profondo e rigoroso discorso di teoria musicale nello specifico armonico, con un’attenzione diretta al riconoscimento dei rapporti che regolano l’universo come tutto ordinato.
La rilettura che Dante fa della coppia dicotomica caos/cosmo si configura ai massimi livelli nella strutturazione della Commedia, vero microcosmo entro il quale si rispecchia l’ordine del macrocosmo: a livello figurativo, data la tematica sviluppata nel poema, ancora prima che a livello formale. Quello dantesco è un cosmo contrapposto al caos (e non è ozioso ricordare che il significato originario del termine, desunto dalla Teogonia di Esiodo, significa ‘abisso, baratro’, con una successiva sovrapposizione del senso di ‘voragine tenebrosa’), ma è anche un cosmo tout court, e sotto diversi punti di vista.
Laddove non fosse sufficiente la lettura diretta del testo, la sterminata bibliografia degli studi danteschi ha dimostrato con modalità più o meno rigorose la presenza di simmetrie, simbologie numeriche, giochi di specchi e richiami all’interno delle tre cantiche; alcune di queste ipotesi, soprattutto tra quelle che cercano di fare dell’Alighieri un piccolo pitagorico, o un piccolo orfico, sono francamente fantasiose quando non teoreticamente azzardate [54], ma il postulato da cui muovono è in definitiva condivisibile: la struttura della Commedia si regge su leggi rigorose che sottostanno al controllo del creatore dell’opera, prima ancora che a quelle del Motore immobile. Il caos della voragine infernale è in definitiva un caos ordinato (in gironi, bolge e zone), dove i due termini non vanno intesi come una coppia ossimorica ma come una condizione fondante. Assodato questo punto, se persino l’inferno si configura come parte del cosmo, l’estensibilità dell’assunto all’intera opera risulta di semplice applicazione, e la procedura induttiva non troppo azzardata.
Ma quale è il principio d’ordine che struttura l’universo dantesco? Quello musicale, come è stato per una lunghissima tradizione d’autori, dal Platone del Timeo in poi [55] . Il tentativo di approfondire la persistenza di una vera e propria prospettiva platonica nel cosmo dantesco non è nelle nostre intenzioni, ma l’idea di un cosmo strutturato secondo leggi musicali, oltre ad essere particolarmente congruente con il cursus studiorum quadriviale, si ritrova anche in una serie di autori ben conosciuti all’età medievale.
Scrive infatti Quintiliano, a proposito della necessità dello studio musicale per l’oratore: Atqui claros nomine sapientiae viros nemo dubitaverit studiosos musices fuisse, cum Pythagoras atque eum secuti acceptam sine dubio antiquitis opinionem vulgeverint mundum ipsum ratione esse compositum, quam postea sit lyra imitata, nec illa modo contenti dissimilium concordia, quam vocant harmoniam, sonum quoque his motibus dederint (Institutio Oratoria I,10,12).
L’idea della ratio, che potremmo un po’ forzatamente leggere come un tecnicismo musicale [56] , ritorna in un testo che costituirà una delle principali fonti sulla cultura musicale latina per il De Musica di Boezio: nel De architectura di Vitruvio (I sec. a.C.), l’autore sostiene che le proporzioni di una costruzione architettonica debbano essere progettate sulla base dei rapporti armonici che regolano l’arte musicale, in modo da garantire un risultato che veicoli una sensazione di armonia per l’osservatore. Anche se ci muoviamo su un diverso ambito disciplinare, di fronte alla complessità ordinata della Commedia la metafora di edificio monumentale non pare azzardata, come pure un richiamo alla nozione di armonia nel suo significato etimologico di accordarsi della molteplicità, di elementi disparati e potenzialmente in conflitto tra loro. Il cosmo dantesco è ordinato, l’abbiamo già detto. Vediamo ora di specificare un po’ meglio l’ordine del problema, e quindi il problema dell’ordine.
(...) le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
( Par I, 103-105 )
Nella riflessione sul tema dell’ «avere ordine» si inserisce da subito la dimensione simbolico-teologica: avere ordine, in prima istanza, significa rispondere al divino disegno d’ordine impresso dal creatore. Un duplice significato è quindi implicito nel concetto stesso di ordine: da un lato la conformazione del mondo quale esso è, come forma impressa dal creatore, dall’altro l’ordine direzionale, il verso di percorrenza della parabola terrestre di ogni uomo, chiamato a seguire la strada della propria vocazione, e nello specifico di quel particolare viator che è Dante personaggio della Commedia, per il quale esiste un ordine nelle tappe del cammino, e una finalità cui la successione delle tappe risponde.
I due piani risultano peraltro legati da un vincolo di necessità quando si consideri la struttura reale dell’universo come specchio dell’ordine religioso e morale. La tesi sostenuta da Th. Kuhn ne La rivoluzione copernicana è che «attraverso l’allegoria la Divina Commedia mostrò che l’universo medievale non poteva avere altra struttura che quella aristotelico-tolemaica» [57] . Necessaria era la collocazione intermedia dell’uomo all’interno della catena gerarchica delle sostanze, e strategica la sua posizione, sotto lo sguardo di Dio ma dotato di libero arbitrio, per scegliere tra natura terrena e spiritualità celeste.
Non è estranea a questa lettura un’interpretazione di ambito musicale: la seconda cantica si chiude sulla condizione di renovatio di Dante puro e disposto a salire a le stelle; oltre la purificazione data dal lavacro nelle acque dei fiumi del paradiso terrestre, l’aggettivo è stato inteso dai commentatori danteschi come indicante «una chiarezza assoluta di percezione». Tale osservazione diventa tanto più significativa se consideriamo la coppia sintagmatica puro e disposto, laddove la disposizione non si traduca semplicemente in disposizione interiore, ma in una vera e propria «accordatura» dell’anima in senso musicale.
Con il presupposto di questa accresciuta facoltà percettiva, ed essendo stato riaccordato dall’intervento dell’archimusicus [58] , non ci si deve stupire che pochi versi oltre, nel primo canto del Paradiso, Dante oda ed intenda l’armonia delle sfere, e che questo avvenga nel momento in cui il protagonista sta ascendendo al cielo della Luna, oltre la sfera del fuoco.
L’intendere, riletto sotto questa prospettiva, riacquista anche il proprio significato etimologico di tendere verso, con un movimento che non è solo dell’anima ma anche del corpo. Il trascorrere di Dante attraverso i cieli avviene per mezzo di un atto intellettivo che coincide con un progressivo potenziamento della capacità ricettiva del personaggio; parallelamente, la direzione del movimento parte rettilinea per concludersi lungo la traiettoria di una circonferenza, e vedremo in seguito che cosa significhi questo variare di direzione.
Ma già qui, nel primo canto del Paradiso, l’evidenza del legame di interdipendenza esistente tra riconoscimento della musica mundana e transumanar qualifica il carattere del viaggio iniziatico intrapreso da Dante all’interno dei tre mondi ultraterreni, che si svela chiaramente nel suo statuto di romanzo di formazione.
Va sottolineato come quella della Bildung sia una componente che si lega con una frequenza quantomeno sospetta alla tematica dell’armonia delle sfere; non possiamo non citare ancora una volta la principale fonte dantesca sull’argomento, ossia il Somnium Scipionis, nelle parole di Fabio Stok, che ne ha curato una delle più recenti edizioni: «come la maggior parte dei viaggi nell’aldilà, anche quello di Scipione è un viaggio di formazione, quasi un Bildungsroman. (...) Le tappe della ricezione del messaggio-rivelazione da parte di Scipione sono scandite, nella finzione scenica, dalla capacità che egli acquisisce di distogliere lo sguardo e l’interesse dalla prospettiva terrena. Il tono didattico che caratterizza l’esposizione dell’Africano è da ricondursi a questa funzione educativo-formativa della rivelazione dell’Africano» [59] .
§ 6. Armonia delle sfere e Bildungsroman
Il secondo mattino, intorno alle undici, il re in persona e il seguito di nobili, di cortigiani e di dignitari, dopo aver preparato tutti i loro strumenti musicali sonarono con essi per tre ore consecutive, sicché fui completamente rintronato dal rumore, né mi fu possibile arguire il significato finché non fui informato dal mio precettore. Mi disse che la popolazione della loro isola aveva gli orecchi conformati in modo da udire la musica delle sfere che sonavano sempre in certi periodi; e i componenti della corte erano ora preparati a sostenere la propria parte su qualsiasi strumento in cui eccellevano grandemente.
(Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver - viaggio a Laputa-)
È abbastanza immediato il paragone tra il somnium nell’aldilà vissuto da Scipione Emiliano e l’esperienza del personaggio dantesco della Commedia, nel corso del viaggio ultraterreno. Anche il percorso di Dante ha le caratteristiche del Bildungsroman, anche il poeta fiorentino, come Scipione, verrà aiutato da personaggi illustri e a lui cari ad accedere alle massime verità (nel caso specifico, soprattutto verità di fede), e come Scipione ascolterà la musica delle sfere, una volta giunto in Paradiso, dopo essersi purificato con il bagno nelle acque del Leté e dell’ Eunoè.
Ma la tradizione che lega viaggio iniziatico e armonia delle sfere data molto più indietro, ed appare particolarmente feconda: dal mito di Er (Platone, Repubblica, 614 e sgg.) alla discesa di Enea nell’Ade (ove potrebbe ravvisarsi un riferimento alla teoria nell’espressione scelta per descrivere il suono della lira d’Orfeo [60] ), attraversa il medioevo e le opere dottrinali per arrivare alla Gerusalemme Liberata [61] e divenire oggetto di parodia nei Gulliver’s Travels di Johnatan Swift. E sono sempre personaggi in qualche modo eletti, elevatisi oltre la bassa corporeità, quelli che accedono alla musica mundana: più spesso, anime buone premiate con il paradiso, o protagonisti di sogni. Riprendiamo ancora una volta le terzine di Paradiso I:
S’i’ era sol, di me, quel che creasti
Novellamente, Amor, che ’l ciel governi,
Tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni (...)
Il problema della possibilità dell’ascesa al paradiso con il corpo mortale viene da Dante prospettato, ma in definitiva non risolto e demandato piuttosto all’onniscienza divina: in ogni caso, a chi abbia seguito l’ascesa purificatrice della montagna del Purgatorio, apparirà chiaro che il corpo del poeta è ormai come quello degli spiriti beati dopo la resurrezione della carne, materia senza peso. Dante si è insomma già levato oltre i limiti della natura umana (vv.70-71 Transumanar significar per verba / non si porìa ), e può quindi accostarsi alla rota che il desiderio di comunione con Dio «sempiterna», così da percepire «la novità del suono e ’l grande lume».
Manca in Dante, a questo punto del viaggio, una qualche sottolineatura sullo stato di coscienza alterato come prerequisito necessario per percepire la musica celeste: la dimensione del somnium viene da lui risolta su un piano allegorico-simbolico, diversamente da quello che era accaduto in Platone e Cicerone che insistono piuttosto sullo stato di sonno, quando non di morte apparente (nel caso del soldato Er) dei protagonisti. Sogno, vita di puro spirito, ma non solo: ancora diversa è la posizione sostenuta dal già ricordato Burkert che, riallacciandosi alla tesi della concezione pre-scientifica che sarebbe alla base della teoria dell’armonia delle sfere, riprende la leggenda secondo la quale Pitagora [62] era in grado di udire la musica celeste, autorizzandola come conseguenza della condizione di trance che media il contatto con l’oltre mondo:« The soul that in ecstasy, or dream, or trance, travels to heaven, hears there the music of the universe, and its mysterious structure immediately becomes clear to him» [63] . Una tale prospettiva è estranea all’intento dantesco che, almeno nel primo canto del Paradiso, si muove ancora con uno stringente ragionamento logico che giustifichi la realtà fenomenica (la famigerata disquisizione sulle macchie lunari di Paradiso II ne è l’esempio forse più rappresentativo).
Di estasi, ma meglio di visione estatica legata alla rivelazione di una verità divina, si può piuttosto parlare per l’ultimo canto della Commedia. Allora, il disvelamento del mistero dell’incarnazione viene seguito dalla folgorazione ad opera della divina grazia, e la tensione si placa nell’appagamento della volontà che è ormai un unicum con quella del creato.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amore che move il sole e l’altre stelle.
(Par XXXIII, 133-145)
Due sono le immagini che Dante accosta a questo momento cruciale. Da un lato il tentativo, vano, di risolvere il problema della quadratura del cerchio (che rimanda alle grandezze incommensurabili, oggetto di segreta indagine da parte dei pitagorici); dall’altro, la similitudine della ruota che si volge attorno al proprio asse di rotazione, sintesi del moto in quiete di cui anche il poeta può far parte. Dopo aver percorso l’intero cielo in linea retta, in modo congruente con il fine del proprio viaggio, Dante termina il proprio viaggio muovendosi del perfetto moto circolare che è tipico dei cieli, degli angeli e dei beati, dell’attività contemplativa.
È, questa immagine di Dante «rota», uno dei più scoperti passaggi che segnano la bildung del personaggio, che qui risolve una situazione di incompletezza avvertita e denunciata nella Vita Nova nel momento in cui Amore appare in sogno al poeta (V.N, 5, 11-12):
Allora mi parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m’avea già chiamato: e riguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond’io, assicurandomi, cominciai a parlare così con esso: "Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?". E quelli mi dicea queste parole: "Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic". Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato molto oscuramente; sì ch’io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: "Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta oscuritade?". E quelli mi dicea in parole volgari: "Non dimandare più che utile ti sia".
Se nell’opera giovanile Dante era eccentrico rispetto alla perfezione circolare, descritta e vincolata dal rapporto tra circonferenza e centro, al termine del viaggio ultraterreno egli diventerà al contrario attante di una perfetta girazione attorno a quel punto di centro universale che è Dio.
Cerchi, rote e soprattutto sfere che disegnano la perfezione del cosmo dantesco, si caricano di un significato gnoseologico che, come nel caso sopracitato della ricerca del p, trascende nel teologico. Nella tradizione del neoplatonismo cristiano tramandata dal Libro dei 24 filosofi, si ritrova la definizione secondo la quale Deus est sphaera infinita cuius centrum est ubique, circumferentia nusquam, e la successiva spiegazione «Questa definizione è data raffigurando la prima causa, nella sua vita propria, come un continuo. Il termine della sua estensione si perde al di sopra del dove e ancora oltre. Per questo il suo centro è ovunque, e l’anima non può pensarlo con alcuna dimensione. E quando cerca la circonferenza della sua sfericità, la dirà elevata all’infinito, poiché ciò che non ha dimensione è indeterminato come fu l’inizio della creazione» [64] .
Una riflessione su problematiche di ordine teologico è assolutamente estranea ai nostri interessi, ma possiamo soffermarci per un momento a notare l’eco che queste riflessioni produrranno nell’opera dantesca. Nella Commedia, l’Empireo è un non-spazio di luce ed amore - Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: / luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia (ParXXX, 38-41), spiegherà Beatrice a Dante nel momento dell’arrivo all’Empireo -, ed è la luce dell’Empireo ad assumere la forma circolare simbolo della perfezione:
È si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura:
(Par XXX, 103-105 )
Non si deve pensare ad una circonferenza rigidamente limitante, ma nemmeno ad uno stemperarsi del disegno in un infinito alluso e non giustificato: se altrove era stato detto a proposito del Primo Mobile: questo miro e angelico templo / che solo amore e luce ha per confine (ParXXVIII, 53-54), sempre nelle parole di Beatrice, Dante propone un richiamo all’idea della mensura: La natura del mondo, che quieta/ il mezzo e tutto l’altro intorno move / quinci comincia come da sua meta. / E questo ciel non ha altro dove che la mente divina, in che s’accende / l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove. / Luce ed amor d’un cerchio lui comprende / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende. / Non è suo moto per altro distinto; / ma li altri son mensurati da questo, / sì come diece da mezzo e da quinto. (Par XXVII, 106-117)
Se dunque l’immagine del cerchio ritorna in più luoghi della Commedia, rispetto al nostro intento di interpretazione musicale però ci interessa una particolare ripresa, quella della scena biblica del creatore che disegna i confini del mondo con il compasso:
Poi cominciò: "Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
(Par XIX, 40-45)
Ma l’intervento divino non si limita a questo porre in essere il disegno dell’universo, effettuato all’inizio dei tempi, come era del demiurgo platonico. Specifico della prospettiva dantesca è la teoria di una creazione, ordinamento e accordatura del cosmo che si dà nel tempo, coerentemente con la tradizione giudaico-cristiana. Una modalità di lettura che ritroviamo, con importanti ricadute anche sulla dimensione musicale, nell’opera di Sant’Agostino, un autore che come Dante contamina tradizione scientifico-razionale (quadriviale ) e mistico-estetica ( liturgica ).
§ 7. Numero et mensura nella rilettura cristiana
Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi, o chi ha posto la pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?
(Libro di Giobbe, 37, 4-7)
All’inizio del suo trattato De Musica (che si occupa principalmente del ritmo e del metro), Agostino pone la definizione «musica est scientia bene modulandi»: la musica è innanzitutto una scienza, è musica pensata e strutturata secondo le leggi del numero, nel rispetto proporzionato dei tempi e degli intervalli (questo il significato dell’avv. bene).
Nella filosofia della musica di Agostino non c’è posto per la musica suonata o cantata, che pure tanto emozionava il filosofo ( nelle Confessioni parla di una occulta familiaritas fra la musica e l’anima per giustificare la maggiore efficacia delle preghiere cantate). Mistica dei numeri (di tradizione pitagorica) e mistica cristiana tendono a convergere. La musica è vista come un’operazione dell’anima.
Pur passando sotto silenzio la vera e propria tematica della musica delle sfere, Agostino riprende termini platonici relativi a numero ed armonia, come segnali che indirizzano verso la verità divina.
Nel saggio L’Armonia del mondo, che è ormai divenuto un classico di riferimento rispetto alla tematica da noi trattata, Leo Spitzer chiarisce con il consueto rigore come «Per Agostino le leggi numeriche sono importanti, perché solo la certezza oggettiva, matematica, ci permette di dimostrare la certezza di Dio; e distribuendo i numeri in una successione temporale egli riesce a dare all’uomo la coscienza di se stesso quale essere che vive nel tempo. Solo nella propria anima l’uomo può trovare i numeri che attestano l’esistenza di Dio; i numeri e le loro leggi sono superiori alla ragione umana. La musica (e la poesia metrica) è basata sui numeri e si evolve nel tempo; come potrebbe la musica non rendere testimonianza a Dio?» [65]
Quelli di Agostino sono dunque, sempre secondo Spitzer, «numeri temporali»: Considerando questa insistenza dell’autore sulla dimensione temporale della creazione e della vita interiore, si comprende come la musica, con la sua esplicita componente di durata, offra un campo di ricerca privilegiato per intuire l’armonia insita nell’universo e nell’azione della Provvidenza. Solo l’anima che ha coscienza dei numeri può capire l’armonia di Dio, perché sono proprio i rapporti numerici a guidare il nostro intelletto a prendere coscienza del manifestarsi della dimensione divina.
Conclude ancora Spitzer: «Il creato per Agostino ha un principio, un mezzo, un fine, muove lungo il tracciato della storia: l’azione della Provvidenza si svolge nel tempo, Dio assegna le cose al tempo conveniente. Il Creatore prende la forma dell’ archimusicus, che considera il proprio materiale in termini di ritmo e di tempo» [66] .
Sulla base della tesi appena enunciata, possiamo anche proporre una dimostrazione in negativo di questa lettura del ritmo dato dalla presenza divina. Abbiamo già visto come, nell’Inferno, il fatto che il sole taccia si colleghi allo stravolgimento dell’ordine e alla mancanza di musica. Amilcare A. Iannucci propone un’originale rilettura del senza tempo come «senza ritmo», citando a tale proposito uno degli antichi commentatori danteschi: «Questa idea è assai bene espressa da Jacopo della Lana, che collega l’espressione aura sanza tempo tinta con il suono disarmonico della voragine infernale: E questo dice elli (Dante) perchè ogni suono attemperato per ragion di musica rende all’udire alcun diletto, ché il tempo è in musica uno ordine, il quale fa consonare le voci insieme con aria di dolcezza. Or dunque se quel romore è senza tempo, seguesi che è senza ordine, per conseguens senza alcun diletto. Senza tempo non vi è musica, poiché la distanza proporzionata delle note, governata dai numeri, viene espressa, per la musica instrumentalis almeno, dentro il tempo» [67] .
In Dante ritroviamo diverse metafore che utilizzano la terminologia musicale secondo l’ idea del dio musicista. Oltre al già ricordato verso con l’armonia che temperi e discerni (Par I, 78 ), si può osservare nel Paradiso un’ immagine di Dio-musicista nella terzina
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sacre corde,
che la destra del cielo allenta e tira.
(Par XV, 4-6)
che viene efficacemente chiosata dal commento di Benvenuto Rambaldi da Imola: remittit et movet, secundum quod sibi placet, tamquam optimus citharista, qui semper bene temperat chordas, nec unquam oberat [68] . In questo caso è precisamente la mano di Dio, la cui raffigurazione tanta fortuna avrà nell’iconografia cristiana, a disporre lo strumento costituito dalla schiera dei beati del cielo di Marte. Un ruolo di armonizzatore ed accordatore che viene attribuito già dalla Sacra Scrittura, quando si legge che Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti (Sapienza, 11, 20). Questo il momento iniziale dell’atto creativo: la definizione di misure, rapporti, consonanze.
Alla luce di quanto affermato sinora, appare meno provocatoria la considerazione di Jacques Chailley il quale, illustrando lo stretto legame esistente tra musica e atto della creazione («La Musique est presque toujours associée de manière intime à l’acte créateur, quand elle ne constitue pas à elle seule cet acte créateur» [69] ), ricorda l’incipit del vangelo di Giovanni In principio erat verbum, esplicando in nota «Verbum traduit le grec logos dont le sens est multiple. On pourrait contester l’apparentement si les traducteurs de La Vulgate, en choisissant ce mot, n’avaient montré que logos, de leur temps, était bien compris pour ce passage dans le sens que nous indiquons» [70] .
Non sarebbe corretto voler attribuire a Dante un’eccessiva e troppo puntuale conoscenza della filosofia greca (di cui come è noto non conosceva la lingua); pure, leggendo nella Commedia
Ciò che non more e ciò che può morire
Non è se non splendor di quella idea
Che partorisce, amando, il nostro Sire;
(Par XIII, 52-54)
sorge un legittimo dubbio sulla possibile interpretazione polisemica da darsi al termine logos, che in questo caso viene parafrasato come idea, «verbo» nel senso giovanneo di Cristo.
E non risulterebbe forse troppo azzardato insinuare la possibilità di una lettura di quel logos in senso matematico, come avviene nella tradizione pitagorica, che sovrappone il reperimento dei rapporti tra interi con la ricerca della legge interna che governa un determinato fenomeno.
Se una tale lettura può non essere immediatamente pacificante, ha però il pregio di rientrare nei dettami dell’ortodossia cristiana: senza volerci avventurare in speculazioni teologiche, basterà notare come non appaia sicuramente sospetto il fatto di ricondurre a Dio la proporzione insita nel creato, ma anche la sua stessa ragione d’essere.
Oltre l’atto creativo, abbiamo però ricordato che la presenza di Dio nella vita degli uomini si manifesta nel dispiegarsi nel tempo, come è nel biblico Caeli enarrant gloriam Dei, / et opera manuum annuntiat firmamentum (Salmo 19 (18)), che recupera la componente di processualità insita nell’idea stessa di narrazione.
Dante dice piuttosto là dove armonizzando il ciel t’adombra (riferendosi a Beatrice isplendor di viva luce etterna svelatasi nel Paradiso terrestre, Purg.XXXI, 140-145) con una più esplicita sottolineatura dell’aspetto musicale ottenuta con il ricorso al termine armonizzare, e tutto il paradiso è pieno di danze di luci ed anime, canti e melodie che rinnovano il ritmo delle sfere celesti.
L’antica armonia delle sfere viene trasferita dai pianeti al cielo cristiano, per rappresentare il rapporto armonico tra Dio e le sue creature; armonizzando, i cieli adombrano la magnificenza del Dio-Amore della tradizione cristiana. Egli che è l’Uno, la Monade, il Consonante con sé medesimo armonioso, ha dato forma all’universo come ad un musicum carmen che in qualche modo partecipa della Sua completezza ordinata [71] .
Secondo Leo Spitzer, è a Sant’Ambrogio che spetta «il merito immortale di aver affidato alla musica cristiana il compito d’ impersonare l’armonia universale dei greci: d’ora innanzi il compito della musica è di eseguire ciò che è nella sua stessa natura di esprimere, la lode tributata al creatore della musicale armonia del mondo» [72] : negli inni ambrosiani si assiste ad una incarnazione di quell’armonia del mondo che si rispecchia nelle meraviglie del creato. Le immagini con cui la cristianità ha reinterpretato l’armonia delle sfere convergono tutte sul piano trascendentale: questa convergenza di immagini diverse di armonia ( le onde del mare, l’accordo tra Dio e il creato, fra sacra natura e umanità devota, l’armonia della grazia, il coro dei fedeli... ) è in Ambrogio simbolo della vera bellezza di Dio.
Sulla dottrina dell’armonia delle sfere quale portato di filosofie legate a pitagorismo e platonismo, complessivamente Ambrogio preferisce non sbilanciarsi, anche se il tema ritorna in più luoghi dei suoi scritti. Se nell’Hexameron la confutazione della teoria ricalca la struttura della decisa negazione aristotelica (pure in una diffusa presenza di richiami ciceroniani),
Quos sibi innexos et velut insertos versari retro et contrario ceteris motu ferri arbitrantur eoque inpulsu et motu ipsorum orbium dulcem quendam et plenum suavitatis atque artis et gratissimi modulaminis sonum reddi, quoniam scissus aer tam artifici motu et acuta cum gravibus temperante ita varios aequabiliter concentus efficiat, ut omnem supergrediatur musici carminis suavitatem. Huius rei fidem si requiras atque expetas sensu nobis et auditu probari, haesitant. [73]
già più sfumata è la modalità con cui Ambrogio manifesta il suo scetticismo nei riguardi della tradizione filosofica che la tramanda ( Plato autem dulces quosdam sonitus siderum mutuavit spherae caelestis generari conversione, famam magis et pompam quam veritatem secutus [74] ) e addirittura biasima un’autorità cristiana come Origene per averla eccessivamente seguita nei suoi scritti, per aver scelto di essere dotto (con i platonisti) anziché timoroso (con San Paolo). Altrove, lo stesso Ambrogio mostra però un certo interesse per l’idea di un perenne accordo armonioso che accompagnerebbe il volgersi del cielo:
Ipsum axem coeli fert expressior [var. quorundam] sermo cum quadam perpetui concentus suavitate versari; ut sonus eius extremis terrarum partibus audiretur, ubi sunt quaedam secreta naturae. Nec id ab usu naturae alienum videtur. [75]
Il pensiero di Ambrogio, è la conclusione di Spitzer, mira a trasformare «una panteistica pienezza in polifonia cattolica». Soffermiamoci per un momento su questa definizione, provando a verificare se non possa applicarsi alla tematica della musica mundana. Un’allusione alla polifonia vocale collegata al tema dell’armonia celeste si ha, nella Commedia, nelle parole di Giustiniano:
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendono dolce armonia tra queste rote.
(Par VI, 124-126)
in cui si sottolinea come i diversi gradi di beatitudine degli spiriti (i quali, in quanto beati, sono comunque tutti nell’Empireo) contribuiscano alla formazione dell’armonia del Paradiso [76] .
Il richiamo dato dal termine rote ci aiuta a recuperare un’altra caratteristica, connessa al tema della processualità e inscindibile dal contesto musicale nel suo livello fisico acustico: il legame con il movimento. Innanzitutto dovremo osservare che il movimento si origina non da sé ma come conseguenza dell’atto (anche quando si tratta di puro atto intellettivo) delle Intelligenze angeliche che presiedono a ciascun cielo.
Focalizzando la nostra attenzione sui Movitori delle sfere del paradiso dantesco, alla luce della tradizione precedente, si osserva un progressivo spostamento delle prerogative in fatto di musica mundana, dai fabbri armoniosi di pitagorica memoria alle sirene del mito di Er, fino alle schiere celesti della Commedia.
Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri,
(Par II 127-129 )
I beati motori sono le Intelligenze angeliche le quali, oltre a presiedere al cielo loro assegnato dal disegno divino, diventano la causa efficiente del movimento delle rote celesti , che sono solo cause strumentali degli effetti prodotti ( movimento, musica, influssi astrali...); allo stesso modo il martello è solo lo strumento, mentre la causa efficiente è il fabbro. L’attività del fabbro come termine di paragone funzionale alla spiegazione della differenza tra causa efficiente e causa strumentale è mutuato da Aristotele, e utilizzato anche nel Convivio [77] . Ma che cosa tiene insieme i due termini di paragone, se non l’armonia che caratterizza il loro operato, armonia che in definitiva va ascritta alle cause strumentali, opportunamente proporzionate? [78]
È stato detto che, nella dottrina delle Intelligenze motrici, si è pervenuti ad una fusione di astronomia antica e angelologia medievale. In questo caso, e forse senza esserne del tutto consapevole, Dante è pervenuto ad un’ulteriore contaminazione il cui risultato è la creazione di una schiera di «fabbri armoniosi» riletti in chiave cristiana. Il cielo stellato (e tutto quanto contiene) si pongono davvero al servizio di una teodicea, cantando la gloria di colui che tutto move.
§ 8. L’eterna danza del cielo stellato
Amore alma è del mondo, Amore è mente
e ’n ciel per corso obliquo il sole ei gira,
e d’altri erranti a la celeste lira
fa le danze lassù veloci o lente.
(Torquato Tasso, Rime, 444)
Luce, movimento e musica vanno ricondotti all’intendere divino, al motore immobile cui Dante si rivolge nel momento stesso in cui evoca l’armonia delle sfere con le parole, quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso(...). Due sono le sottolineature che, a questo punto, ancora ci interessa fare relativamente a questo passo, e che riguardano due caratteristiche che si ripresenteranno in un altro passaggio significativo del paradiso, nel momento dell’ascesa al cielo del Sole.
In primo luogo, la natura del movimento, guidato da desiderio ed amore. Oltre la dottrina aristotelica dei cieli mobili, l’idea del cosmo mosso da amore risale all’antichità classica [79], ma viene da Dante riletto e reinterpretato in chiave cristiana, ma soprattutto in maniera funzionale al proprio disegno compositivo. In particolare, nel paradiso dantesco, concordevolmente concorrono le due letture che dell’influenza dell’amore cosmico erano state date: la prima, che attribuisce alla forza di tale sentimento un potere attivo, capace di penetrare il creato determinando il movimento; la seconda, secondo la quale è invece l’immobilità dell’essere desiderato la molla che produce la tensione, diretta verso l’oggetto del desiderio. Dante, ancora una volta, contempera queste due linee di pensiero (che Peter Dronke fa risalire a due fondamentali fonti dantesche, rispettivamente Boezio e Aristotele [80] ). Proprio nel primo canto del paradiso, l’incipit chiarisce come
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
(Par I, 1-3)
Mentre più avanti sarà espresso in modo altrettanto evidente come quella che Dante contempla sia la rota che tu sempiterni desiderato (Par I, 76-77). Per l’autore della Commedia questo dell’amore cosmico è evidentemente un tema fondante, tanto da arrivare a farne l’oggetto di vera e propria professione di fede in Par XXIV (vv.132 e sgg).: Io credo in uno Dio / solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, / non moto, con amore e con disìo, e compendiare nella chiusa dell’opera l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Strettamente legata alle modalità con cui il legame d’amore che unisce l’intero creato si manifesta è la sottolineatura sull’eternità del sentimento, cui corrisponde eternità del movimento, come chiarisce quel sempiterni. Eternità che si dispiega nel tempo, movimento in quiete quale è quello dato dalla chiusura del cerchio, perdendo l’inizio e la fine; colà dove gioir s’insempra, con una corrispondenza tra il gioire e il tempo che s’ «insemprano». Un’espressione, questa del pararasintetico di matrice dantesca, che ben riassume la sovrapposizione tra componente processuale (il prefisso in-) e sfumarsi della dimensione temporale nell’eternità della base avverbiale sempre.
Ancora Dronke, in un altro scritto, nota come «L’amore si esprime nei due gesti, respirare e girare in cerchio» [81] : due movimenti che hanno implicita la componente della durata, e di un dispiegarsi nel tempo per mezzo di un atto che si ripete sempre uguale a se stesso, come una danza [82] . Questa possibile sovrapposizione semantica tra respiro e girazione diventa evidente nella lettera dantesca nell’apertura del canto X (il primo del cielo del Sole):
Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore
quanto per mente e per loco si gira
con tant’ordine fé, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.
(Par. X, 1-6)
Si ha qui una sintesi poeticamente significativa di quel linguaggio dello sguardo, dell’amore e del respiro che guidano l’intero percorso del poeta. In particolare, se qui l’azione dello «spirare» si riferisce alla reciprocità del legame d’amore tra Padre e Figlio, mediato dallo Spirito Santo (presentando già la duplice lettura respiro/movimento circolare), più avanti il movimento del sole che si girava per le spire (v.32), «evoca forse non solo il moto astronomico che gli era stato attribuito da Tolomeo, ma anche, tramite un gioco di parole -spira / spirare- un moto che è il complemento visibile dell’amore che spira nella luce solare divina?» [83].
L’ipotesi del gioco di parole è suggestiva, e viene peraltro ripresa in analogo contesto da Kathi Meyer-Baer la quale, con riferimento alla musica humana, sottolinea il duplice significato del termine motion, utilizzato in musica come pure per le emozioni [84] .
Musica ed amore: ritornano i due termini chiave del paradiso dantesco. Ed è ancora una volta Spitzer a chiarire il senso del loro ripresentarsi come immagini fondanti la struttura cosmologia del poema: «i pitagorici identificarono la musica con l’ordine cosmico: i filosofi cristiani, con l’amore» [85] . Con la Commedia, Dante va oltre l’enunciazione dottrinale: nella coreutica messa in scena nei cieli del paradiso si dimostra la raggiunta sintesi tra le due immagini che disvelano l’armonia nascosta nel creato: la concordia, vera espressione della beatitudine celeste, e la consonanza, che ne diventa la ricaduta sul piano musicale.
Già l’utilizzo del prefisso latino cum-, che rende il greco syn-, tiene insieme, anche a livello testuale, i due significati derivanti rispettivamente da sympátheia e symphonía, ma sempre mantenendosi sul piano dell’analisi etimologica, è possibile compiere un passo ulteriore che aiuti a giustificare la sovrapposizione semantica tra i due termini. Esistono infatti almeno due modi per intendere il prefisso cum-: oltre il più immediato significato di «insieme», è possibile leggere una sfumatura perfettiva.
Non solo un trovarsi insieme, un suonare insieme, ma piuttosto un tendere insieme all’armonia, e dunque all’unità; una modalità congruente con la lettura di tipo musicale: una consonanza non è tale solo perché due note risuonano contemporaneamente nel tempo, ma perché nel loro prodursi si rendono riconoscibili determinati rapporti armonici che potremmo definire «perfetti».
Questo stratificarsi di significati giunge fino a far convergere, nel latino tardo, le due famiglie semantiche in un unico etimo. In concordia la radice cord- può richiamarsi sia a cor, cordis, «cuore» che a chorda, «corda», così da consentire una duplice interpretazione come «consenso di cuori, pace ed ordine» che come «armonia di corde, armonia universale» [86] .
Difficile, e probabilmente ingiustificato, sarebbe a questo punto il tentativo di voler leggere in Dante il prevalere dell’una o dell’altra modalità di manifestazione della concordia universale. La grandezza dell’autore sta proprio nell’essere riuscito, all’interno di un’opera che non è un trattato filosofico, a sfumare impegnativi concetti teorici in immagini poeticamente efficaci.
Doré - Dante -Paradiso XXNella chiusa delle Commedia tutta la tensione conoscitiva instillata nell’animo del poeta dal desiderio d’amore viene placata nella consapevolezza di essere parte dell’armonia universale. Una consapevolezza che trova la propria manifestazione a livello corporeo nel volgersi lungo la circonferenza delle rote celesti: ed è proprio nella partecipazione diretta del personaggio all’eterna danza del creato che l’intendere ha raggiunto il proprio scopo e la volontà si sublima nella condizione di beatitudine, sganciata da qualsiasi riferimento immaginativo. Ed ecco che il movimento si arresta e il cerchio si chiude, perfetto e inattaccabile come una tautologia. Dante ha concluso il proprio percorso, ed è egli stesso «circulata melodia».
Chiara Richelmi
Questo saggio è stato scritto con la collaborazione di Carlo Serra, che ha accompagnato il lavoro lungo tutto il suo svolgersi. Un ringraziamento particolare ad Andrea Melis, per avermi aiutato con una serie di segnalazioni bibliografiche, e per le acute critiche avanzate sul testo in fase di stesura. Sono grata al prof. Giovanni Piana, di cui ho avuto la fortuna di seguire uno degli ultimi corsi tenuti all’Università degli Studi di Milano, per aver accettato di farmi svolgere una ricerca su un argomento dantesco, e per la pazienza dimostrata nel lungo periodo di ricerca e scrittura. Desidero inoltre ricordare con gratitudine tutte le persone, docenti, studiosi della materia ed amici, che mi hanno aiutato nella ricerca con consigli, libri e conversazioni.
Note
[1] Italo Calvino, «Il cielo di pietra», in Cosmicomiche vecchie e nuove, Milano, Garzanti Editore, 1984, pp.59-64.
[2] Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet, «La musique des sphères» in Pour la Science (édition française de Scientific American ), novembre 1998, pp.12-15.
[3] Leo Spitzer, L’armonia del mondo. Storia semantica di un’ idea, Bologna, Società editrice il Mulino, 1967.
[4] «Leggenda del Paradiso Terrestre», ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo, Venezia 1846, p.72, citato da Michele Barbi, Problemi di critica dantesca ( I serie ), Firenze, Sansoni ed., 1934, p.285.
[5] Tra le citazioni più decontestualizzate, riportiamo a titolo d’esempio la ripresa che dell’argomento fa Gabriele d’Annunzio ne Il Piacere, a sua volta citando Percy Shelley: dalle sue labbra, come da un giacinto pieno d’una rugiada di miele, cade a goccia a goccia un murmure liquido, che fa morir di passione i sensi, dolce come le pause della musica planetaria udita nell’estasi (G.d’Annunzio, Il piacere, edizione delle opere con il patrocinio della Fondazione «Il Vittoriale degli italiani», Oscar Mondadori, p.315). Ma l’allusione più celebre è probabilmente quella fatta da Shakespeare nel suo Il Mercante di Venezia, atto V scena I: Non c’è il più piccolo, fra gli astri che tu vedi, che nel suo moto non canti come un angelo sempre intonandosi ai cherubini dai celesti occhi.
[6] Riferirsi ad una scuola pitagorica può apparire arbitrario, dal momento che non si tratta di un gruppo definibile in maniera univoca, ma di una serie di personaggi che ripropongono temi e riflessioni che si richiamano agli insegnamenti del caposcuola Pitagora, a sua volta figura a metà strada tra storia e leggenda. Il corpus dei testi della corrente pitagorica è in effetti un coacervo frammentario di voci ricostruite ex post, tanto che parlare in generale di pitagorismo, impone sempre un riferimento ad una filosofia costruita spesso su una pluralità di fonti non chiaramente attribuibili al singolo autore. Nonostante ciò, vi è però la possibilità di riconoscere un ritorno di tematiche che si ricollegano al potere attribuito alle speculazioni su base numerica, e soprattutto uno stile di ragionamento comune ed originale.
[7] Si soffermano brevemente sul problema terminologico Walter Burkert, «Harmony of the Spheres and Astral Immortality» in W.Burkert., Lore and science in ancient pythagorism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1972, p.351 n.1, e Michel-Pierre Lerner, Le monde des sphères (1.Genèse et triomphe d’une représentation cosmique), Paris, Les Belles Lettres, 1996, pp.41-48.
[8] Giamblico, La vita pitagorica, introduzione traduzione e note di M.Giangiulio, Milano, Bur, 1991, pp.193-197.
[9] W.Burkert, op.cit., pp.350-368.
[10] C.Sachs, La musica nel mondo antico, Firenze, Sansoni, 1942, pp.104-105.
[11] Nel primo capitolo dell’Enchiridion Nicomaco promette alla sua interlocutrice la prossima stesura di un testo in più libri che sviluppi i medesimi argomenti trattati nel manualetto: tale opera non ci è purtroppo pervenuta, ma parrebbe essere la fonte di alcune riflessioni boeziane relative a questioni musicali.
[12] Nicomaco di Gerasa, Manuale di Armonica (241, 3, 5 -11) in Luisa Zanoncelli, La manualistica musicale greca, Guerini studio, Milano, Guerini e associati, 1990, pp146-147:
[... si afferma infatti che ogni corpo lanciato in una materia penetrabile e ad alta elasticità genera necessariamente rumori che dipendono, per grandezza e ambito sonoro o dalla sua mole, o dalla sua particolare velocità, o dalla zona in cui compie la sua corsa, zona che può essere molto elastica o , al contrario, rigida].
[13] Si interessa alle fonti del De Instutione Musica, inserendo il discorso in un’ ampia trattazione sui precedenti della formulazione teorica boeziana, Henry Chadwick, «Le arti liberali nello sfacelo della cultura», in H.Chadwick, Boezio, Bologna, Il Mulino, 1986, pp.99-146.
[14] Nel De Institutione Musica (I, II), Severino Boezio postula la tripartizione della musica in mundana, humana e instrumentis constituta, accreditata in seguito per tutto il Medioevo. La musica mundana corrisponde all’armonia celeste che , pur non raggiungendo l’orecchio umano, non può non discendere dal rapido, ordinato e armonico moto degli astri; la musica humana è l’armonia insita nell’anima umana; la musica pratica viene prodotta per mezzo di strumenti nel tentativo di imitare le prime due.
[15] Il medesimo ragionamento sembra fondare la lettera dantesca, allorché nella Commedia girazione e musica vengono affiancate come nella terzina seguente
L’altra rimase, e cominciò quest’arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circuir non si diparte.
(Par XXIX, 52-54)
anche se, in prima istanza, qui l’ «arte» si riferisce alla contemplazione divina da parte degli angeli rimasti fedeli, e solo in un secondo tempo alla produzione della musica celeste.
[16] Aristotele, De Caelo, II, 9.
[17] Si sofferma sul tema della numerologia pitagorica adombrata nel poema il saggio di Paolo Vinassa De Regny, Dante e Pitagora, (I Quaderni de l’Antologia), Milano, Gioacchino Albano editore, 1955.
[18] Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana (vol I. Dalle origini al quattrocento), Milano, Einaudi scuola, 1991, p.193.
[19] «La particolare precisione di Dante nell’uso delle parole consiste nello spessore di queste, nella loro capacità di evocare tutto il proprio campo semantico (...). Un vero vocabolario dantesco dovrebbe porre ogni parola entro un contesto o campo di associazioni; più che di una serie di colonne, esso avrebbe l’aspetto di una mappa estesa su due dimensioni.» In Leo Spitzer, L’armonia del mondo. Storia semantica di un’ idea, Bologna, Società editrice il Mulino, 1967, p.121.
[20] Il tecnicismo dell’espressione viene sottolineato da Nino Pirrotta nel saggio «Dante musicus: gothicism, scholasticism, and music» in: Speculum. A journal of Mediaeval studies, vol.XLIII, Cambridge Massachusetts, 1968, pp.245-257. L’autore colloca la musica mundana solo nella sfera del fuoco velocemente attraversata da Dante e Beatrice, giustificando quindi l’unicità dell’occorrenza e mantenendo la congruenza con la tesi aristotelica.
[21] ARMONIA, in Enciclopedia Dantesca, diretta da Umberto Bosco, Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1971.
[22] Alighieri, Paradiso, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988 e successive,
[23] Dante, Commedia vol.III Paradiso, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, I Meridiani, 1997, Mondadori.
[24] Alighieri, Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade (trad. et commentaire par André Pézard), Paris, Gallimard, 1965.
[25] Alighieri, The divine comedy, translated with a commentary by Charles Singleton, Bollingen Series LXXX, Princeton University Press, 1975 (2nd printing with correction 1977, first paperback edition in two volumes, 1991).
[26] G.Godoli, «L’armonia delle sfere», in Godoli G., Sfere armoniche: storia dell’astronomia, Torino, UTET Libreria, 1993, pp.72-73.
[27] Luigi Papini, Dante Alighieri e la musica, Venezia, Leo S.Olschki editore, 1895, p.8.
[28] Una tale argomentazione è fin troppo semplicemente smontabile nella sua fragilità teorica e dimostrativa: abbiamo inteso proporla per testimoniare come anche tra i critici e i saggisti l’evocazione della teoria pitagorica agisca spesso più come una sirena o un’immagine che non necessita di una spiegazione circostanziata, in un contesto dove l’allusione ad una presunta conoscenza condivisa diventa troppo spesso l’alibi per non spiegare o, nella migliore delle ipotesi, per non risolvere.
[29] Guido di Pino, «La poesia della luce nell’Inferno dantesco», in Letterature Moderne, gennaio-febbraio, 1951, n°1, pp.40-50.
[30] Johannes Kepler, Gesammelte Werke, Bend VI .Harmonice Mundi, Herausgegeben von Max Caspar, C.H.Beck’sche Verlagsbuchlandlung, Munchen, 1940, p.311. La citazione viene riportata, in inglese, nel saggio di Eberhard Knobloch, «Harmony and cosmos: mathematics serving a teleological undestanding of the world», in Physis. Rivista internazionale di storia della scienza, vol.XXXII nuova serie, 1995, Firenze, Leo Olschki editore, pp.55-89. Nello stesso testo l’autore sostiene che «If however one wanted to adhere to harmonies in spite of their inaudibility, a new non-physical, mathematical, theoretical concept of harmony was needed. It was Kepler who developed such a concept, and thereby returne to the harmonia aphanes, to the invisible harmony of Heraclitus». Non intendiamo soffermarci sulla lettura kepleriana dell’armonia delle sfere che prevedibilmente poco ha a che vedere con quella dantesca, né tanto meno inserire l’autore della Commedia in una fantasiosa linea Eraclito-Dante-Keplero: pure, cercheremo di dimostrare come lo spostamento di prospettiva, e in un certo senso la risoluzione riguardo il problema dell’inudibilità si siano presentati già nella riflessione medievale e nella Commedia stessa.
[31] L’editio princeps di quello che resta del De Re Publica (pubblicata a Roma nel 1822) si deve ad Angelo Mai, che scoprì il testo ciceroniano in un codice palinsesto conservato alla Biblioteca Vaticana riportante un commentario ai salmi agostiniani.
[32] Il premio riservato al buongoverno è l’interpretazione romana e pragmatistica del premio riservato ai «giusti», che bene hanno operato quando la loro anima si trovava sulla terra, oppressa dalla prigione del corpo (corporis custodiis). L’origine astrale dell’anima è dottrina pitagorica e platonica.
[33] Nell’ordine stabilito dai caldei vi sono tre mondi: quello materiale, corrispondente alla regione sublunare; quello etereo, corrispondente alla sfera dei pianeti e delle stelle fisse; quello empireo, che corrisponde al mondo intellegibile. ( cit. dal commento a cura di M.Regali, Macrobio, Commento al Somnium Scipionis, ( Biblioteca di studi antichi. 38 ), introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Mario Regali, 2 voll., Pisa, Giardini Editori e stampatori, 1983-1990, libro I, p.363 ).
[34] In questo passo il termine è volutamente polisemico: «tempio» o «cielo».
[35] Alighieri, Paradiso, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, op.cit, p.363.
[36] Un’immagine simile verrà utilizzata anche nella descrizione della discesa del poeta nel cerchio dei lussuriosi: Io venni in loco d’ogne luce muto (Inf.V, v.28).
[37] Cicerone M.T., La république, a cura di E. Bréguet, Paris, Belles Lettres, 1980, p.185 n.2.
[38] Altri commentatori ciceroniani hanno sottolineato diversi ambiti in cui il ruolo equilibratore del sole si manifesterebbe: tramite i cicli luce-tenebra e delle stagioni (Stok) o come metafora politica (Ronconi). Ma ancora Giovanbattista Vico, nei Principi di Scienza Nuova, scrive: Ma, appresso, i filosofi ne fecero l’armonia delle sfere, la quale è accordata dal sole (Lib.2, sez.5, cap.2.17).
[39] Cicerone M.T., Somnium Scipionis, introduzione e commento di Alessandro Ronconi, II edizione, (testi greci e latini con commento filologico II.), Firenze, Felice Le Monnier, 1967 (I ristampa), pp.100-105.
[40] Il termine girazione per definire l’atto del girare, con il preciso senso di «moto citcolare», è specificamente dantesco. L’Alighieri lo usa nel Convivio (Tratt.3, 8), proprio a proposito del cielo: Questo cielo si gira intorno a questo centro continuamente,sì come noi vedemo: nella cui girazione conviene di necessitade essere due poli fermi, e uno cerchio equalmente distante da quelli, che massimamente giri.
[41] Verrebbe da chiedersi se l’osservazione che si tratta dell’armonia delle sfere e non degli astri sarebbe sufficiente a spostare il problema, e quindi giustificare la produzione di un qualche suono. Ovviamente, si tratta forzatamente di una provocazione, anche se l’attribuzione di un suono anche al cielo delle stelle fisse (per definizione incastonate nella propria rota) potrebbe autorizzare una qualche speculazione in questo senso. Per approfondire il tema, vedi Michel-Pierre Lerner, op.cit.
[42] Simplicii, Commentaria in quatuor libros de Coelo Aristotelis, ff.24v-25r (II, ad t.c.37), riportato in Bruno Nardi, «La novità del suono e ’l grande lume», in Saggi di filosofia dantesca (4. Il pensiero filosofico), Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.73-80. Nardi si basa sull’edizione dei Commentaria del 1544, Venetiis, apud Hieronymum Scotum, sulla base di studi filologici che ritengono questa versione identica a quella del 1540 «Guglielmo Morbeto [=de Morbeka] interprete».
[43] Bruno Nardi, «La novità del suono e ’l grande lume», in Saggi di filosofia dantesca (4. Il pensiero filosofico), Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.73-80.
[44] La parafrasi è di B.Nardi, op.cit., p.77.
[45] Tommaso d’Aquino ribatterà le ragioni addotte da Simplicio, difendendo i principi d’indagine aristotelici, ma non riuscirà a convincere Dante, che proprio nella Commedia non manca di ricordare come dietro ai sensi/vedi che la ragion ha corte l’ali (Par II, 56-57), con una sottolineatura sull’imperfezione dei sensi terrestri che è anche in Cicerone, che spiega come solo dopo la separazione dal corpo terreno multo puriora e dilucidiora cernuntur (Tuscolane, 1, XX, 46).
[46] Enciclopedia dantesca, I, 389.
[47] Arnaldo Bonaventura, Dante e la musica, Sala Bolognese, A.Forni, 1978, (ristampa dell’edizione Raffaello Giusti, Livorno, 1904), p.210.
[48] Natalino Sapegno, citato in Dante Alighieri, Commedia (Paradiso), a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988 e successive, p.237.
[49] Mario Pazzaglia, «L’universo metaforico della musica nella Commedia», in: M.Pazzaglia, L’armonia come fine. Conferenze e studi danteschi, («La Parola Letteraria»), Bologna, Zanichelli, 1989, p.23.
[50] In Convivio II, 13 Dante stabilisce una corrispondenza tra i cieli e le scienze, giungendo ad accostare ad ognuno dei primi sette cieli planetari una delle discipline di trivio e quadrivio, al Cielo stellato Fisica e Metafisica, al Primo Mobile la Scienza Morale e all’Empireo la Teologia o scienza divina.
[51] Per approfondire il discorso sulle discipline del quadrivium medievale, vedi Chadwick, op.cit.
[52] Pure poche righe più sopra, sempre nel Convivio (Trattato II), leggiamo che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo della Fisica, poneva i principii delle cose naturali [essere] lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose essere numero.
[53] Curt Sachs, op.cit, p.104-105.
[54] Riportiamo la tesi sostenuta nel testo di Paolo Vinassa De Regny, a proposito della chiusa della Commedia:"Pure in questo splendore di ascesi Dante non dimentica il misiticismo del numero, l’armonia geometrica, pitagorica. Vi ricompare in quella rima valore Infinito (Par.XXXIII, 81), ma più ancora coll’accenno al massimo problema dell’epoca: la quadratura del circolo". Se già per chiosare il valore infinito si era ricorsi a ardite speculazioni sulle rime sacre ricorrenti nei versi multipli di nove, il problema della quadratura del cerchio verrebbe addirittura risolto da Dante: «Orbene dal verso con cui questa invocazione comincia sino al termine del canto corrono precisamente sette terzine, che col verso finale raggiungono il numero di 22 versi.(...) Comunemente, i matematici medioevali adoprarono [per rendere il p] la frazione 22/7. E precisamente i versi dell’ultima invocazione sono 22 divisi in 7 terzine (...). E si chiude così l’opera fuori dell’umano grande del pitagorico Dante, il Gran Geometra». (P.Vinassa de Regny, op.cit., pp.187-188).
[55] Non intendiamo avventurarci in elucubrazioni relative alla conoscenza che Dante poteva avere del dialogo platonico, che pure era conosciuto al medioevo latino. Molto probabilmente la dottrina viene mediata dal De natura et origine animae di Alberto Magno, a cui si ascrive anche la rilettura, in senso cristiano e conciliante, della teoria dell’anima discesa dalle stelle che ritroviamo nella Commedia
Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.
(Par IV, 49-60)
Notiamo soltanto la cautela con cui Dante si pone nei riguardi della dottrina platonica, laddove in altri luoghi della Commedia non aveva temuto di pronunciare giudizi anche recisi i favore dell’ortodossia ( e notiamo anche come, per fare questo, ricorra significativamente all’accostamento tra i due sinonimi suonare ed intendere).
[56] In verità, nemmeno troppo forzatamente se consideriamo che Cicerone nel Somnium Scipionis scriveva a proposito dell’armonia delle sfere ille, qui intervallis coniunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis , e che proprio questo passo sarà per Macrobio lo spunto per riprendere da Nicomaco di Gerasa la leggenda del fabbro armonioso e giustificare la scoperta,da parte di Pitagora, dei rapporti numerici ( tra le lunghezze dei segmenti di corda vibrante del monocordo ) che producono armonia, e in seguito passare ad esaminare i sei rapporti fondamentali e gli accordi che ne conseguono.
[57] T.S.Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, trad. it di T.Gaino, Torino, Einaudi, 1972, p.143. Non possiamo soffermarci qui su quella che è la tesi più originale dell’opera di Kuhn: una volta stabilita questa disposizione giustificata del disegno dell’universo che ha fissato persino la dimora di Dio (scorrendo quindi dall’astronomia alla teologia), si comprende l’impatto dirompente avuto dalla rivoluzione copernicana: far muovere la terra significava rompere l’intera catena del creato, rischiando persino di dover muovere il trono di Dio.
[58] Il termine disporre, con una sfumatura che potrebbe ricondurre all’atto dell’accordatore, ricorre in un testo medievale ampiamente commentato e glossato ai tempi di Dante, in cui si legge: Summus opifex universum quasi magnam citharam condidit in qua veluti varias chordas ad multiplices sonos reddendos posuit (Onorio d’Autun, cit. da Spitzer, ibid, p.48). Gioverà anche ricordare che proprio Onorio d’Autun è uno degli autori dottrinali che riprende l’armonia delle sfere: cum dulcisona harmonia volvuntur, ac suavissimi concentus eorum circuitione efficiuntur (Imago Mundi, 1, cc.80-81 e Patrologiae Latinae, CLXXII, col 140).
[59] Cicerone, Il sogno di Scipione, a cura di Fabio Stok , con testo a fronte (IL CONVIVIO. Collana di classici greci e latini ), Venezia, Letteratura Universale Marsilio, 1993, pp.23-24.
[60] Nec non Threicius longa cum veste sacerdos / obloquitur numeris septem discrimina vocum / iamque eadem digitis, iam pectine pulsat eburno. (Aen. 6, 645-647). Un’approfondita analisi del passo in questione è quella offerta da Mariarita Paterlini, Septem discrimina vocum. Orfeo e la musica delle sfere, Bologna, Pàtron editore, 1992.
[61] Pareagli esser traslato in un sereno / candido e d’auree fiamme adorno e pieno; / e mentre ammira in quell’eccelso loco / l’ampiezza, i moti, i lumi e l’armonia, / ecco cinto di rai, cinto di foco, / un cavaliero incontra a lui venìa. Si tratta dello scomparso amico Ugone, che nel corso del sogno-visione rivela a Goffredo i futuri sviluppi della guerra per la liberazione del Sepolcro (Gerusalemme Liberata, XIV, IV-V).
[62] Si tramanda che in punto di morte il filosofo chiedesse che fosse suonato il monocordo. Nella lettura di Burkert, questa richiesta va ricondotta al fatto che «souls cannot ascend without music»: la musica, anche quella strumentale, è dunque veicolo di ascesa, di ingresso nel mondo ultraterreno dove risuonano le sfere celesti. Ma forse, oltre la lettura agiografica, quasi edulcorata del detto memorabile, è rintracciabile un richiamo a non trascurare lo studio musicale, alla ricerca di rapporti aritmetici che individuano intervalli consonanti.
[63] W.Burkert, op.cit., p.357.
[64] Il libro dei 24 filosofi, a cura di Paolo Lucentini, Adelphi, 1999, pp.56-57.
[65] Leo Spitzer, op.cit, p.38.
[66] Leo Spitzer, op.cit., p.38.
[67] Amilcare A. Iannucci, «Musica ed ordine nella Divina Commedia (Purgatorio II)», in: Studi Americani su Dante, a cura di Alessio e Hollander, Milano, Franco Angeli, 1989, pp.87-111.
[68] Benvenuti de Rambaldis De Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, curante Jacobo Philippo Lacaita, typis G.Barbèra, Florentiae, MDCCCLXXXVII.
[69] Jacques Chailley e Jacques Viret, «L’hymne Ut Queant laxis et ses cryptogrammes», in La revue musicale, 1988, n. 408-409, p.23.
[70] J.Chailley, op.cit., p.24 n.37.
[71] I concetti di armonia ed ordine divino presentano un’interessante ricorrenza nel testo chiave dell’angelologia medievale, la Gerarchia Celeste dello pseudo Dionigi Areopagita, cui Dante fa esplicito riferimento per l’ordinamento delle intelligenze celesti (Par.XXVIII, 130-139). Nel passaggio dedicato alla ricapitolazione sommaria dell’armonioso ordine angelico leggiamo infatti La sovraessenziale armonia universale ha provveduto a tal punto al sacro ordine di ciascun essere razionale ed intelligente ed alla sua elevazione ben regolata, che ha stabilito dei sacri ordini per ciascun grado gerarchico (...) ciascuno di questi ordini presenta delle distinzioni basate sulle stesse armonie divine.(CH X, 2 273 A-B). Difficile isolare le diverse sfumature che caratterizzano un concetto con una stratificazione semantica tanto complessa quale quello di sovraessenziale armonia universale. Parrebbe comunque di poter leggere un’allusione all’armonia delle sfere, ma più ancora a quella che abbiamo definito con Sachs «teoria della coordinazione», soprattutto alla luce di quanto è riportato in un altro passo dell’Areopagita, appartenente ai Nomi Divini: «il Bene è causa anche dei principi e dei limiti celesti (...), dei movimenti dell’enorme evoluzione celeste, che avvengono senza rumore» (DN IV, 697B). Oltre la suggestione di questi rimandi testuali, resta però la questione di un’influenza sostanziale e diretta dell’Areopagita su Dante, che non pare poter essere avanzata con sicurezza. Vedi la voce dedicata a Dionigi Areopagita dell’Enciclopedia Dantesca, op.cit.
[72] Leo Spitzer, op.cit., p.34.
[73] Ambrogio, Hexameron, II, c2, 6-7 (Patrologiae Latinae, XIV, col.159).
[74] Ambrogio, De Abraam, II, c.8, n.54 (Patrologiae Latinae, XIV, col.504).
[75] Ambrogio, Enarrationes in XII Psalmos, In Psalmum I enarratio: praefatio (Patrologiae Latinae, XIV, col.595).
[76] Est enim consonantia dissimilium inter se vocum in unum redacta concordia [ la consonanza infatti è una concordia di voci fra loro dissimili condotta in unità] scrive Boezio nel De Institutione Musica, lib.I, caput III..
[77] In Convivio I,XI 11 ci viene presentata una interessante immagine di fabbro « disarmonico ", che certa subito di discolparsi: sì come lo mal fabro biasima lo ferro apresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonar al ferro e alla cetera, e levarla da sè. In questo caso l’esempio è in negativo ma il principio analogico resta lo stesso.
[78] Bisogna osservare come in Dante è già avvenuto quello slittamento di significato, con l’attribuzione della capacità di produrre armonie che si sposta dai martelli (e dai pesi) della leggenda pitagorica alla persona dei fabbri, che si ritroverà anche in Haendel ( "il fabbro armonioso» aria e cinque variazioni dalla suite n. 5 in mi maggiore ).
[79] Un catalogo ragionato delle teorie riguardanti l’amore cosmico è proposto nell’articolo di Peter Dronke, «L’Amore che move il sole e l’altre stelle», in Studi Medievali, serie terza, anno Vi, fascicolo 1, giugno 1965, pp.389-422.
[80] Peter Dronke, art.cit, p.390.
[81] Peter Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Universale Paperbacks Il Mulino, 1990, p.132.
[82] Due movimenti che si collegano scopertamente con la metafora che chiude il canto X, ed accosta alla danza della corona di anime il movimento degli ingranaggi di un orologio: Indi, come orologio che ne chiami (...) così vid’ io la gloriosa rota / muoversi e render voce a voce in tempra (Par X, 139, 145-146).
[83] Peter Dronke, op.cit, p.133.
[84] Kathi Meyer-Baer, Music of the Spheres and the dance of death: studies in musical iconology, (Da Capo Press music reprint series), New York, Da Capo Press, 1984 (già ed. Princeton, 1970), p.33.
[85] Leo Spitzer, op.cit, p.27.
[86] Per approfondire l’evoluzione dei concetti di armonia, sinfonia, concordia e temperamento dal mondo greco a quello romano, vedi Leo Spitzer, op.cit., p.105 e sgg.
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